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Intervista a Beatrice Cenci
di Sabrina Turco
Tra Storia e Leggenda
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Roma, patria di illustri fantasmi. Ce ne sono di tutte le epoche. Non è difficile incontrarli “di persona”... Molti di loro sono abitudinari, aleggiano da secoli negli stessi luoghi che li hanno visti protagonisti dei drammatici trapassi. In questa rubrica ne “incontreremo” alcuni tra i più noti. La giornalista Sabrina Turco inizia con la drammatica intervista a uno dei fantasmi più amati della capitale: Beatrice Cenci. Beatrice nacque nel febbraio del 1577 dal nobile Francesco Cenci. La bellissima ragazza ben presto conobbe le sventure che l’accompagnarono per il resto della sua breve vita: rinchiusa nel castello di famiglia, nel regno di Napoli, subì abusi e torture dal padre. I fatti erano noti a tutti, ma la potenza e la cattiveria dell’uomo scoraggiarono coloro che avrebbero potuto aiutarla. Anche la sua richiesta di aiuto al papa non giunse mai a destinazione, perché intercettata dalle persone vicino al padre. Così, per mettere fine alle angherie di Francesco Cenci – con l’aiuto dei fratelli Bernardo e Giacomo, del castellano, della matrigna e di un maniscalco – Beatrice organizzò l’assassinio del padre. Stordito con una bevanda drogata fu ucciso simulando un incidente. Il corpo fu gettato dalla torre del palazzo e seppellito in fretta e furia. Purtroppo, alcuni sospetti non vennero sopiti e riesumato il cadavere l’autopsia rivelò l’incompatibilità delle ferite con l’incidente, portando alla luce l’assassinio. Beatrice ricevette il patrocinato gratuido di uno dei più grandi avvocati dell’epoca, Prospero Farinacci, che raccontò le terribili torture subite dalla giovinetta.Anche il popolo di Roma si schierò dalla sua parte, ma fu tutto inutile. Beatrice fu condannata a morte e decapitata davanti a Castel Sant’Angelo, la mattina dell’11 settembre 1599, insieme ai complici. Dopo l’esecuzione, fu sepolta in san Pietro in Montorio. Neanche da morta Beatrice trovò pace. Nel 1798, la sua tomba fu violata.Per evitare altre profanazioni, la tomba fu coperta dalla pavimentazione della chiesa. (Elena Castiglione)
Intervista a Beatrice Cenci
L’emozione è grande quando mi ha confermato l’intervista. La rincorrevo da anni.
L’appuntamento è a Castel Sant’Angelo. Resto incantata nel vederla arrivare col suo passo leggero, con la luce del tramonto che le sfiora le spalle. Il suo viso è semplicemente bellissimo, i suoi occhi racchiudono energia e gentilezza.
La sua storia è un po’ la storia di tutte quelle donne che subiscono abusi e restano in silenzio per molto tempo, troppo. Chiuse nel proprio dolore, nella propria sofferenza, nella paura. Ma ha avuto la forza di dire basta, di spezzare la spirale di terrore in cui lei e la sua famiglia erano stati intrappolati. Pagando un prezzo altissimo. La vita.
Mentre si avvicina volgo lo sguardo dietro di me e ammiro incantata il riflesso tremolante delle acque del Tevere che attraversa lentamente una Roma quasi addormentata, quando la incontro è ormai il tramonto...
È settembre, e l’aria frizzante di fine estate accarezza il viso di entrambe. Ha voluto incontrarmi proprio nel luogo dove lei, i suoi fratelli e la sua matrigna sono stati giustiziati. Il suo processo fu una farsa e la sua una barbara esecuzione.
Prima di iniziare l’intervista restiamo a lungo in silenzio. Due donne di epoche diverse che si confrontano.
Con una voce flautata inizia il suo racconto:
«Sono stata una vittima, fin dalla nascita. Mia madre Ersilia, morì di parto quando io avevo soltanto sette anni. Spesso mi sono chiesta se fosse stato meglio così per lei . La sua morte precoce la rese libera da una realtà fatta di abusi e maltrattamenti».
Prima di rispondermi abbassa gli occhi, e poi rivolgendomi uno sguardo pieno di una infinita malinconia continua la sua storia.
«Io e mia sorella maggiore, Antonina, fummo mandate nel Monastero di Santa Croce a Montecitorio, mentre i miei fratelli spediti a studiare in Spagna. L’educandato era piuttosto modesto e accoglieva anche ragazze del popolo. Il resto delle nostre coetanee di nobile famiglia come noi studiavano, in ricchi conventi, il greco e il latino, la letteratura e l’arte, imparavano a suonare vari strumenti e ad apprezzare la musica di autori come Arthur Chamberlain o William Shalby, noi imparavamo a servire e obbedire».
Ascolto in un silenzio religioso quello che ha da dirmi, e che le sgorga fuori come un fiume in piena e allora chiedo ancora:
«Oh, loro poveretti per continuare a studiare contraevano debiti di continuo, mancavano di tutto e alla fine furono costretti a tornare a Roma».
«Già ma nostro padre era un vero aguzzino e un uomo avaro e pur avendo ereditato un patrimonio ingente, a causa delle sue azioni violente e della vita intrisa dal vizio che amava condurre, spendeva molti dei suoi soldi in multe per evitare il carcere».
Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata che acquistò i titoli del medioevo, era arrogante, brutale e perverso, coinvolto in risse e diversi fatti di sangue, finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia, le cronache dell’epoca, raccontano che aveva violentato un ragazzino di appena dodici anni figlio di un popolano. Era il 1594 e in quell’occasione aveva rischiato il rogo, se la cavò pagando centomila scudi. Era sempre riuscito a comprarsi un’assoluzione, sfruttando la sua posizione e le sue ricchezze. Ma era con le donne della sua famiglia che riusciva a esprimere al meglio la sua crudeltà...
Le mani della giovane Beatrice, affusolate e bianchissime, tremano mentre prosegue con la sua storia, resto incredula per quanto mi ha appena raccontato fin qui e allora mi spingo oltre e le dico che le sono vicina e immagino quanto deve essere stato difficile per lei tutto questo.
«In realtà non fui contenta di tornare, gli anni in convento furono i migliori della mia sventurata vita, mi dispiacque lasciare le suore con cui avevo vissuto ma speravo in una vita familiare e in un futuro matrimonio così come si addice alle fanciulle di buona famiglia. Invece, la situazione in cui mi ritrovai fu di completo degrado. Mio padre, sempre più violento, non risparmiava umiliazioni e maltrattamenti a nessuno di noi facendoci mancare anche il necessario per vivere».
«Mi sanguina il cuore ad ascoltare questi tuoi racconti perché vuol dire che la storia, purtroppo, è destinata a ripetersi e che il mio sacrificio è stato vano».
Il riflesso della luna si specchia ora sul suo viso dal candore ancora disarmante nonostante i secoli trascorsi mentre prosegue con la sua storia.
«La mia casa era diventata la mia prigione, mio padre aveva scatti d’ira sempre più frequenti e, nei miei confronti erano sempre più continue le sevizie, ma anche verso mia sorella e la donna che aveva sposato, Lucrezia. Una vedova di cui si era invaghito. Lei non avrebbe voluto sposarlo, ma alla fine le fu difficile imporsi e opporsi ai desideri di un nobile, se sei donna e sola. Restammo noi perché mia sorella Antonina riuscì con le sue suppliche al pontefice a contrarre matrimonio».
Ma l’inferno quotidiano suo e della sua matrigna era solo all’inizio.
«Dopo il fortunoso matrimonio della mia sorella maggiore, mio padre divenne sempre più violento arrivando a rinchiudermi nella Rocca di Petrella Salto. Lucrezia che aveva imparato a temere e gestire i suoi scatti d’ira e i suoi abusi, decise che era giunto il momento anche per me, ormai una fanciulla di diciotto anni, di contrarre matrimonio. Sperava di potermi allontanare da quella casa inghiottita ormai dall’inferno, ma mio padre non aveva intenzione di rinunciare ad altri soldi per la mia dote, perciò con l’inganno ci condusse in un piccolo paese dell’Appennino dove ci costrinse a vivere come recluse».
Mentre la giovane e sventurata baronessa prosegue con gli orrori subiti, scorgo una lacrima disegnarle il viso e penso a quanto sia stato orribile vivere ogni giorno con la paura e nel terrore della violenza, ma anche quanta forza deve aver
avuto questa giovane donna di altri tempi per arrivare a non togliersi la vita per liberarsi dal suo aguzzino e il mio pensiero va a tutte quelle donne che si sentono in gabbia e non vedono una via di uscita da una vita costretta nella morsa della ferocia.
Mentre faccio le mie riflessioni le foglie degli alberi che fasciano Castel Sant’Angelo giocano a rincorrersi con la leggera brezza settembrina che fa da cornice a questo incontro che non ha prezzo. Per l’occasione Beatrice ha scelto di non girare con la sua testa in mano così come fa ormai da secoli l’11 settembre, ma ha deciso di mostrarsi, seppur eterea, in tutta la sua immacolata leggiadria...
«Ad un certo punto la situazione si fece ancora più difficile. Mio padre era vessato dai creditori e divenne sempre più violento e noi sventurate ci avviavamo verso il precipizio di un calvario a cui non potevamo sfuggire: le minacce erano all’ordine del giorno così come le sevizie e le percosse ed è allora che pensammo che soltanto la sua morte ci avrebbe resi liberi».
«Pensammo di ingaggiare qualcuno, ma si rivelarono del tutto incompetenti quindi cercammo di arrangiarci da soli pensando di inscenare un incidente, confidando nel fatto che non ci sarebbero state indagini. All’inizio fu così che andò ed io, per la prima volta, assaporai, anche se per poco, la libertà. Niente più paura di restare sola in camera di notte, percossa o altro. Ma la fortuna non fu dalla mia parte perché dopo alcune voci insistenti riesumarono il corpo del mio aguzzino e i medici dichiararono incompatibili le ferite con una caduta accidentale».
Il resto è storia...
Erano le nove e trenta del mattino di quell’11 settembre del 1599 quando il carro che porta i Cenci al patibolo si fa largo tra grappoli di folla; grida e singhiozzi provengono dai marciapiedi, dalle carrozze, dai balconi dei palazzi, in un misto di compassione e ferocia, di eccitazione e paura, nobiltà e popolino a formare un unico, delirante branco. Roma è stretta in un’asfissiante morsa del caldo, l’estate sembra non voler andarsene. Nel momento in cui Beatrice, i suoi fratelli e Lucrezia arrivano nei pressi del patibolo, il tempo sembra essersi fermato. Beatrice arriva sul ciglio di San Celso che sembra già il fantasma di se stessa. Gli occhi rivolti a ponte Sant’Angelo dove tra poco la morte le verrà incontro. Il ceppo e la mannaia sono pronti. L’ombra del “Mastro Titta”, il boia pontificio, si allunga verso di lei. La prima ad essere giustiziata è Lucrezia. Poi è la volta di Beatrice che ha soltanto ventidue anni, ed è di una rara bellezza e la cui sola colpa è stata quella di cercare di liberarsi dal giogo di un padre perverso e malvagio. L’unico che riuscirà a sottrarsi al triste destino sarà il fratello Bernardo, che ha soltanto quindici anni, al quale viene risparmiato il patibolo, ma non lo strazio di assistere alla morte dei suoi cari. Le cronache dell’epoca raccontano di una preghiera sussurrata, di un bacio lieve al crocifisso e, anche qui, di un istante di esitazione da parte del carnefice prima che vibrasse il colpo fatale a Beatrice. La testa di Beatrice fu avvolta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco.