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cap.6 • Ladri di reperti

Capitolo 6

Ladri di reperti

La domenica mattina alle nove Niky, Irene, Pulce, Zahra, Karim e il professore erano davanti all’ingresso dell’albergo ad aspettare il taxi che avevano prenotato.

Arrivò una grande monovolume a nove posti.

«Per Giza?» gridò l’autista dal finestrino.

«Siamo noi» rispose il professore.

I sedili erano ricoperti di pelli. Potevano essere di pecora, di cammello, di capra; quel che è certo è che a Niky non piacque sedersi su quella roba. Quando tutti furono saliti il tassista accese la radio a un volume assordante.

«Non preoccupatevi! Qui è normale» gridò il professore. «Questo è l’Egitto. Non subite la musica, godetevela!»

Karim si voltò verso la parte posteriore della

Sto andando a vedere le piramidi monovolume per recuperare Pulce che terrorizzanella piana di Giza! to si era rintanato sotto i sedili liberi dell’ultima fila e si accorse che un uomo e una donna stavano inseguendo il taxi sbracciandosi e sventolando i cappelli. Lo disse al professore che chiese al tassista di fermarsi. L’auto frenò bruscamente, tutti furono sbalzati violentemente in avanti e poi subito indietro contro gli schienali… BAM! Pulce rotolò fin in mezzo ai piedi del professore che sedeva di fianco all’autista.

Lucy Amstrong, la donna inseguitrice, raggiunse l’auto ansimando. «C’è posto per due persone, please? Sapete, vorremmo andare to the pyramids. Così se state andando lì, se non è un disturbo…» «Prego, salite pure» gridò Irene per farsi sentire e l’auto Stai attenta alle mummie! ripartì. Il breve viaggio fino a Ahahah! Giza per il professore e i due ragazzi fu elettrizzante; per gli altri, terrorizzante. Sembrava di essere sulle montagne russe e i passeggeri venivano continuamente sballottati avanti, indietro, a destra e a sinistra. Il tassista guidava in modo pericoloso e spericolato e

da quello che si poteva vedere dal finestrino, gli altri automobilisti non erano da meno.

«Ehi, ma come guidano qui?» gridava ogni tanto Irene. «Attento! Attento, quello ci viene addosso».

«Non si preoccupi, si goda il brivido» rideva il professore.

Finalmente l’auto si fermò in un grande piazzale, Niky scese impaziente e si ritrovò in un parcheggio immenso, pieno di pullman e veicoli di ogni tipo con autisti nervosi che suonavano i clacson a tutto spiano.

Il professore la prese per un braccio. «Via. Andiamo via di qui».

Niky si lasciò trascinare fino a quando non vide sotto i suoi piedi la sabbia ocra del deserto. La sentì calda, alzò gli occhi e rimase senza fiato. Le si accapponò la pelle, si sentì piccola, infinitamente piccola, il cuore le batteva forte. Era lì, davanti alla piramide di Cheope, la più grande, la più antica di tutte, costruita più 4.500 anni fa. Per un attimo la vide splendente, ricoperta di pietra bianca come doveva essere un tempo. Si portò la mano sugli occhi per affievolire la luce abbagliante della sua immaginazione.

«È alta 146 metri, ci vollero 30 anni e migliaia di schiavi per costruirla ma… fermo! Che cosa fa?» all’improvviso un grido del professore la fece sobbalzare. Niky tolse la mano dalla fronte e spalancò gli occhi. Herby Amstrong, il marito di Lucy, aveva superato le transenne che circondano la piramide e con un coltellino stava tentando di graffiare una delle enormi pietre.

«Che cosa vuole che faccia?» rispose l’ometto sgarbatamente. «Ne prendo un pezzettino per ricordo. Guardi quante ce ne sono di queste pietre… non sarà un gran danno se ne prendo una scheggia».

«Lei è pazzo!» gridò il professore. «Esca subito di lì o la farò arrestare».

Lucy intervenne in difesa del marito. «Non si scaldi tanto. Herby! Herby, come here!»

«Cara, ma sei stata tu a dire...»

«A dire che cosa? Esci di lì».

Herby, un ometto basso e minuto, con dei buffi occhiali tondi su un naso adunco, saltellò accanto alla moglie e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei gli strattonò la giacca in segno di disapprovazione e la visita continuò.

Accanto alla piramide di Cheope, più piccola ma un po’ più in alto, c’era la piramide di Chefren e

più avanti ancora, la terza piramide, quella di Micerino.

«È quella su cui pesano le maledizioni più spaventose» disse il professore, «Al suo interno furono trovati i resti mummificati di un ladro che aveva tentato di saccheggiare il suo contenuto. Niky, affascinata dagli inquietanti racconti del professore, camminava sotto il sole quando, all’improvviso, alzando gli occhi si trovò di fronte alla Sfinge. La colossale statua, simbolo dell’antica civiltà egizia, vista mille volte sui libri e nei film, era davanti a lei, imponente e misteriosa.

«In arabo si chiama Abu-el-Hawl, che significa “padre del terrore”, e rappresenta il faraone Chefren come un felino che fa la guardia alla propria necropoli» spiegò il professore.

Il gruppo con gli Amstrong al traino stava ritornando al parcheggio, quando un ragazzino si avvicinò a Niky. «Habibi, tu vuoi cammello?»

«Assolutamente no. Non voglio un cammello».

«Habibi, tu volere cammello. Stop. Guardare». Il ragazzino si mise due dita in bocca e fischiò. Arrivarono altri ragazzi su altissimi dromedari.

«Accidenti! Io non voglio un cammello che poi ha una gobba sola e quindi è un dromedario» gridò Niky. In quel momento avrebbe voluto saper

parlare l’arabo quanto quel ragazzo parlava l’italiano. Almeno si sarebbe spiegata una volta per tutte.

«Habibi. Stop. Tu volere cammello».

Niky sbuffò. Karim rise: «Guarda che ti sta chiedendo se vuoi fare un giro sul cammello. Non vuole venderti il cammello».

Niky si bloccò. «Posso cavalcarne uno?»

«Certo, lo fanno tutti».

«Mamma, posso? Posso salire?»

Zarah e il professore sorrisero.

«Sì, puoi» rispose Irene. «Se non è troppo tardi».

«No, abbiamo tempo» replicò il professore. Per non rischiare di perdere l’amuleto Niky se lo tolse dal collo e lo mise nello zaino.

«Ti tengo lo zaino?» le chiese Lucy Amstrong.

«No, grazie» rispose lei seccata. «Me lo tiene la mamma».

Uno dei ragazzi fece accovacciare il dromedario e Niky salì. L’animale si alzò facendola ondeggiare pericolosamente da una parte all’altra.

«No paura. Lui buono» disse il ragazzo e lei si tranquillizzò.

Il ragazzo non lasciò nemmeno un attimo la corda con cui teneva il cammello. Lo condusse avanti e indietro per tre o quattro volte, poi si fermò.

«Finito».

«Tutto qui?» esclamò Niky.

«Finito» ripeté il ragazzo e fece accovacciare il dromedario.

Niky non era molto soddisfatta del giretto. Aveva creduto che la accompagnassero nel deserto. Si sarebbe unita a una carovana nomade e dopo un lungo, lento viaggio sotto il sole cocente avrebbero finalmente avvistato un’oasi. Si sarebbero fermati ad abbeverare i dromedari e lei avrebbe bevuto il tè in una tenda beduina. Ma poi pensò che forse aveva fantasticato troppo, così scese e tanto per usare l’unica parola araba che conosceva disse «Shukran».

«Maasalama» rispose il ragazzo.

Niky immaginò volesse dire arrivederci e fu contenta di aver imparato una nuova parola.

Improvvisamente, ricordò di aver sentito molte volte habibi. Ma quando Karim le disse che significava tesoro mio, amore mio e cose del genere, prima arrossì, poi si arrabbiò. Nessuno poteva chiamarla tesoro o addirittura amore, senza il suo permesso, e quindi decise che quella parola se la sarebbe senz’altro ricordata.

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