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IN RICORDO DI BRUNO VILLATA

Appassionato linguista che visse in Canada e amò il Piemonte

Passione piemontese

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Gianni e io eravamo nati in cascine, in mezzo alle risaie. Bruno era cittadino, ma negli anni della guerra era sfollato nelle Langhe, diventando anch’egli, di fatto, un “campagnin” di quell’affatato mondo di masche e di vini squisiti. Amava la terra d’adozione con passione, anche se conservava l’accento raffinato, sempre più raro, della capitale. Era buon narratore; Gianni e io l’ascoltavamo come da piccini stavamo a sentire le fàule nelle stalle durante le vijà invernali.

Bruno era nato alla metà degli anni Trenta. Io e Gianni alla metà dei Quaranta. Ma la differenza di età non si notava affatto: come energie, allegria e voglia di scherzare Bruno aveva molti anni meno di noi. Aveva il gigèt (brio, argento vivo) nel sangue. La comune lingua ci legò di stretta amicizia.

Si parlava del Piemonte, delle vecchie tradizioni di città e di campagna, delle feste di quartiere e di paese, della storia garibaldina. Ci infervoravamo, ci appassionavamo della nostra terra, della nostra “patria pcita” molto più di quanto avremmo mai fatto se fossimo rimasti in Italia.

Ci incontravamo almeno due volte a settimana, o nel mio appartamento sulla via Drummond, proprio a fianco del Consolato Italiano e dell’Istituto Italiano di Cultura, o a casa di Gianni, in uno spaziosissimo appartamento, con i balconi sul grande parco La Fontaine.

Mercoledì, 17 agosto 2022, è mancato Bruno Villata. È deceduto per le conseguenze del Coronavirus. Ultimamente Bruno e Sylvana, la moglie, vivevano un po’ in disparte. Anche amici molto prossimi, come il bravissimo lessicografo Giacomo Giamello, erano senza sue notizie già da un paio d’anni. Nonostante gli screzi intervenuti per via di differenza di vedute sulla grafia del piemontese, Bruno è stato per me un caro, indimenticabile amico per molti anni.

Insegnava linguistica alla Concordia University, a meno di mezzo chilometro dalla McGill University, l’università dove io insegnavo letteratura comparata.

Ci siamo conosciuti alla fine degli anni Settanta grazie al comune amico Gianni Corgnati, di Bianzè, allora dirigente dell’ICE (Istituto Italiano per il Commercio con l’Estero) e appassionato lui pure di piemontese. Bruno allora non era ancora docente, ma vice-direttore dell’Istituto Italiano di Cultura.

Ci cucinavamo risotti, rolà e altri piatti piemontesi. All’occasione ordinavamo specialità da un ristoratore chiamato “Le piémontais”. Gianni forniva i vini più pregiati delle Langhe e del Roero. Io, che avevo buona voce e strimpellavo, provvedevo alle canzoni del repertorio di Gipo e di quello popolare. Eravamo tutti e tre scapoli, ma non portavamo mai ragazze ai nostri incontri: italiane o straniere, non avrebbero mai capito il nostro mondo. E non era solo una questione di lingue.

Bruno non cantava, ma si commuoveva. Gianni era stonato e non voleva mai smettere. Spesso i vicini si lamentavano. Gianni li rabboniva con grosse scatole di gianduiotti e di Rocher: per quella sera almeno il concerto poteva continuare.

Tre piemontesi a Montréal

Bruno parlava perfettamente il rumeno (aveva studiato filologia romanza a Bucarest, dove aveva soggiornato per quattro anni) e svariate altre lingue. Io insegnavo letteratura italiana e comparata e per dovere d’ufficio me la cavavo con le principali lingue letterarie. A Montréal, la città poliglotta, finii per imparare anche quelle minori, che ancora non sapevo. Gianni stentava a mettere insieme due parole di francese. Quando lo fermavano per eccesso di velocità (guidava una Bertone color giallo limone) lui, per l’eccitazione, parlava piemontese con le finali francesi. A cavarlo d’impiccio c’era il suo passaporto diplomatico. Anche Bruno ce l’aveva, ma non ebbe mai bisogno di esibirlo.

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