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SE OTTO ORE VI SEMBRAN POCHE
Lotte, scioperi e conquiste delle mondine nelle risaie piemontesi
di Cristina Ricci
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Alle ore 17 due mondine si affacciano da una finestra del palazzo municipale e danno l’annunzio che gli agricoltori hanno concesso le otto ore di lavoro e la mercede di 25 centesimi l’ora. La novella è accolta da vivi applausi (Giuseppe Bevione — La Stampa, 2 giugno 1906).
Si sente spesso parlare della riduzione dell’orario di lavoro. Secondo Eurostat, la direzione generale che raccoglie e pubblica i dati dei paesi membri dell’UE, in Europa si lavora mediamente 38 ore settimanali, poco più di 7 ore e 30 minuti al giorno ma ci sono stati, come i Paesi Bassi e la Danimarca, che ne lavorano molto meno, rispettivamente 30,6 e 33,6. Alcuni paesi, come Islanda, Giappone, Spagna e Nuova Zelanda stanno sperimentando progetti per la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni ma pochi sanno che in Italia le prime rivendicazioni per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere furono portate avanti dalle lavoratrici delle risaie.
Con le gambe a mollo e la malaria nel sangue
L’economia piemontese del neonato Regno d’Italia era prevalentemente agricola e le donne avevano un ruolo attivo in ogni tipo di lavorazione. Il giornale vercellese La Sesia riporta frequentemente notizie di agitazioni e di scioperi sin dai primi anni dell’Unità d’Italia, periodo in cui la risicoltura era fonte di grandi profitti economici ma all’epoca mancava una salda organizzazione sindacale che unisse le lavoratrici.
La richiesta più frequente, oltre all’aumento delle retribuzioni, era l’abolizione del sistema di caporalato e la regolamentazione delle assunzioni che avrebbe garantito a ognuna l’occupazione. Il primo sciopero documentato si tenne a Vettignè presso il comune di Santhià, nel giugno del 1885; ci vollero diciannove arresti per “sedare il tumulto”.
Le misere condizioni di lavoro e di vita si possono dedurre dallo studio del Senatore Stefano Jacini La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia che prende in considerazione un arco temporale che va dal 1877 al 1884 e, benché lo studio non riguardi il Piemonte, le condizioni non differivano sostanzialmente da quelle descritte.
L’economista nella sua inchiesta rende nota la condizione dei circa 80.000 addetti, tra donne e fanciulli, che costituivano ancora la maggioranza della manodopera nelle risaie. Nessuna norma regolava il lavoro, né difendeva la salute e la vecchiaia di queste lavoratrici. Non era previsto un monte ore massimo né limiti di età per l’assunzione, nessuna visita sanitaria né aiuto in caso di necessità. Scrive:
Povero è il vitto, la carne è riservata alle grandi occasioni, la base del sostentamento è un pane di farina di granoturco mista a quella di segale e di miglio... i companatici sono alcuni latticini, le sardelle e le uova.
Anselmo Marabini in Prime lotte socialiste racconta la vita penosa e disumana [delle risaiole], con gambe nude immerse sino alla coscia nell’acqua putrida, emanante miasmi puzzolenti, non protette dalle morsicature delle sanguisughe che infestano quelle acque, col solo ristoro di un po’ d’acqua viscida corretta con qualche goccia di aceto. Per vitto un tozzo di pane nero e poco riso, per riposo un po’ di strame sotto una capanna di giunchi appositamente costruita ai margini dell’aia.
Il deputato socialista Nino Mazzoni agli inizi del 1900, le descrive in questo modo:
Le risaiole arrivavano a stormi, pigiate nelle anguste carrozze ferroviarie di quei tempi, stanche, disfatte, e venivano accolte in promiscuità disgustosa in fienili aperti, sulla paglia, senza una difesa notturna contro i nugoli di zanzare. L’orario era lungo e pesante: lavoravano curve sotto il riverbero atroce del sole, insidiate dalle malattie, dalle punture degli insetti, dalla lacerazione delle erbe, dal miasma delle erbe tarchiate. Nutrizione scarsa, pessima, fatta dei peggior riso e di fagioli frequentemente avariati. Le enterocoliti e il tracoma dominavano sovrani. Dopo 40 giorni di monda quel povero branco umano tornava a casa colle gambe piegate e spesso con la malaria nel sangue.
Proprio questa malattia infettiva classificava la risaia come luogo insalubre pertanto la sua ubicazione doveva essere al di fuori dal centro abitato.