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ALBA E I SUOI CAFFÈ

I frizzanti anni Cinquanta e Sessanta dal bancone di un bar di Gianmarco Gastone

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Guardò ancora le colline: ci erano voluti i tedeschi per farle apprezzare ai langaroli. Gli inglesi nel Chianti e i tedeschi nelle Langhe, con il loro “marco forte” a comprare le case che quelli del posto lasciavano cadere in rovina, quelle sui bricchi, sulle vette modeste ma inaccessibili di quelle ondulazioni che, in certi angoli, si davano arie da montagne. C’erano voluti gli stranieri per renderli orgogliosi dei loro vini, per convincerli a farli meglio, ad affinarli, ad amarli. Suo padre non si era mai convinto e aveva continuato a fare una barbera da quattro soldi, aspra, di quelle che i torinesi, negli anni ’70, compravano a damigiane ripetendo come un mantra “è vino del contadino, mica fatto con le polverine” e, felici, si intossicavano di aceto. Oggi Barolo e il barolo erano conosciuti in tutto il mondo e sui bricchi i turisti arrivavano col pullman per assistere allo spettacolo del tramonto, ma lui, con la terra di suo padre, non si era ancora riconciliato.

Sono queste le parole con cui Alessandro Perissinotto, nel suo romanzo Il silenzio della collina, dipinge le Langhe attuali. Nelle piazze centrali di quella che per molti è la loro capitale, Alba, per anni sono sorti due caffè voluti da uomini che contribuirono in modo decisivo a diffondere nel mondo il vino e il tartufo di queste colline. I loro nomi erano Luigi Calissano e Giacomo Morra e i caffè si chiamavano Caffè Calissano e Hotel Savona. In quest’ultimo locale, dove sorgeva un caffè aperto a tutti, come anche al Circolo sociale, amavano ritrovarsi non solo i professionisti e i piccoli imprenditori del tempo, ma anche quei personaggi che segnarono una stagione culturale particolarmente felice per l’Alba degli anni Cinquanta e Sessanta.

Chi era Luigi Calissano?

Oltre a essere stato un importante esponente locale del partito liberale, tanto da essere eletto in Consiglio Comunale per ben sette volte, Calissano fu il fondatore di quella che, fino al 1929, fu la più grande azienda vinicola albese. Nata ufficialmente nel 1891, la ditta Luigi Calissano e figli contava già, oltre allo stabile albese, tre filiali a Torino, Milano e Genova e, da lì a poco, gli albesi si sarebbero abituati ai carichi di vini che, progressivamente, avrebbero lasciato le loro dolci colline per raggiungere Buenos Aires, Montevideo e New York. Qui, poco tempo dopo, sarebbe stato anche aperto un impianto di imbottigliamento per il mercato americano. Purtroppo, il proibizionismo americano e la Grande Crisi del 1929 ebbero effetti nefasti sull’azienda che, nei decenni successivi, sarebbe andata incontro a gravi difficoltà.

Probabilmente, però, quando Luigi Calissano nel 1883 acquistava 2.600 metri quadri di terra appena fuori da Alba, dove dal 1885 sarebbe entrato in funzione il suo stabilimento, non poteva certo immaginare che il più signorile dei caffè di Alba avrebbe portato il suo nome in quel secolo, il Novecento, di cui lui, mancato nel 1913, non vide le peggiori brutture.

Il Calissano, caffè dei signori di Alba

Fondato a metà Ottocento in un palazzo quattrocentesco nel cuore pulsante di Alba, il Caffè Calissano è stato un autentico luogo di ritrovo per industriali, uomini e donne di cultura, di politica e di sport albesi nel corso del Novecento. Esso sorgeva in quella piazza che oggi è stata ribattezzata Risorgimento, ma che gli albesi chiamano Piazza del Duomo e in cui, oltre al bel palazzo comunale e all’imponente massa neogotica della facciata della cattedrale di San Lorenzo, spiccano su uno dei due lati lunghi alcuni portici che ospitano esercizi commerciali al loro riparo. Sotto di essi, appena prima del duomo, sorgeva il Caffè Calissano ed erano questi i luoghi a cui si riferiva Beppe Fenoglio nel suo racconto La licenza

— Sì, — disse Boeri, — ma adesso dove mi stai portando? — […] — Ti porto nel più bel caffè di Alba, — rispose il Fenoglio, — nel caffè dei signori di Alba, talmente dei signori che la gente non osa passare nemmeno sotto i portici, nemmeno d’inverno, quando non c’è dehors. A Boeri cominciò a battere il cuore per l’apprensione, pensava che se il Fenoglio avesse cominciato a provocare nel caffè dei signori come aveva fatto nel bar della stazione, al

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