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A PRANZO DAI CONTI SANTA ROSA

Un antico ricettario del sette-ottocento in cui ritroviamo gli antenati dei piatti della nostra tradizione

di Lidia Brero Eandi

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Lo sappiamo: il cibo è uno degli elementi che meglio caratterizzano l’identità di un luogo e di chi lo abita. “Come si mangia, cosa si mangia?” chiediamo di un posto che non conosciamo. Se ci dicono “bene” ci sentiamo rassicurati, se “male” cambiamo direzione. In Piemonte ad esempio, mantenendo il consueto riserbo subalpino che non ama i superlativi, possiamo dire che si mangia piuttosto bene. E questo lo dobbiamo sia alle nostre eccellenze locali sia alla fortuna di discendere da nonni, bisnonni e ascendenti vari su per l’albero genealogico che sapevano cucinare bene. Anche con poco, anche in tempi di magra.

La tradizione culinaria nei “quaderni di casa”

La cucina è un'arte fatta oltre che di esperienza, di intuizione e capacità creativa, di cura e rispetto per il cibo, ingredienti che non si trovano nemmeno nelle più dettagliate ricette su Internet. Forse è tra le righe dei piccoli “quaderni di casa”, scritti a mano e gelosamente custoditi, che si percepisce l'amore per quest'arte, l'orgoglio di ciò che si prepara con le proprie mani e la consapevolezza di aver ereditato un sapere antico che si vuol tramandare.

I “quaderni di casa” una volta erano abbastanza diffusi nelle famiglie più agiate e qualcuno è stato anche pubblicato. È così che riusciamo a far visita alle case del passato fin nelle cucine dove alle rastrelliere brillano in bell’ordine le padelle di rame mentre si alzano volute di fumo dalle pentole che borbottano sopra le stufe e le donne di casa chiacchierano tra l’acciottolio delle stoviglie. È questa l'immagine che Carlo Petrini evoca nell'introduzione di un bel libro: La cucina piemontese del Settecento (forse ora introvabile) di Luigi Botta, che ha raccolto e pubblicato l'antico ricettario dei Conti Santa Rosa. L'originale del manoscritto ora si trova appunto nell'“Archivio Santa Rosa” presso il Museo Civico di Savigliano. I Conti abitavano in una frazione vicino a Savigliano chiamata abitualmente “Il Palazzo” dove si trova infatti il loro palazzo di famiglia.

Il ricettario dei Santa Rosa

L'esponente più famoso della dinastia è l'eroe risorgimentale Santorre Derossi di Santa Rosa che, come ci ricordano i libri di storia, guidò l'organizzazione del moto costituzionale del 1820—21 con l'appoggio del principe Carlo Alberto. Dopo la durissima repressione, Santorre se ne andò esule e ramingo per l'Europa sino a morire a Sfacteria nel 1825 combattendo per la libertà della Grecia.

È presumibile che la famiglia abbia lasciato il palazzo di campagna dopo il 1821, anno dell’esilio di Santorre, trasferendosi nella propria casa di Torino. E quindi queste ricette manoscritte sono anche state piatti di Santorre ragazzo e poi di Santorre adulto, divenuto nel frattempo sindaco – “Maire” – di Savigliano e patriota rivoluzionario coerente sino alla morte con i suoi ideali di libertà.

Il nostro ricettario è stato scritto con ogni evidenza per anni successivi dal primo Settecento – insolito primato culinario subalpino! – sino ai primi dell'Ottocento. Nella stesura si susseguono infatti mani diverse in tempi diversi e non ci preoccupano i vari errori di ortografia, grammatica e forma perché nulla tolgono al valore delle ricette. Piuttosto ci lasciano perplessi certi termini antichi caduti in disuso. Qui però ci viene in aiuto il glossario curato da Luigi Botta per rendere più agevole la lettura.

Né diete né penitenze

È un sollievo dello spirito sfogliare queste pagine: nessuna paura del colesterolo, niente diete che riducono all'anoressia, niente mortificazioni da Quaresima. È tutto un trionfo di burro, panna, lardo, uova, zucchero, carne – parecchia carne di ogni tipo – e poi salsicce, salami, prosciutti… E se “troppo intorno alle vezzose membra l’adipe cresce”, come dice Parini al Giovin Signore, ancor meglio! Sono tempi in cui essere floridi e formosi è un privilegio e avere un po’ di pinguedine evidenzia subito una buona condizione sociale. I nobili e i ricchi borghesi hanno infatti autorevoli pance ben arcuate mentre le signore, per avere il vitino di vespa, si strizzano dentro rigidi corsetti a stecche di balena, veri strumenti di tortura. E ogni tanto svengono perché non riescono a respirare. Invece non importa che il giro fianchi sia piuttosto abbondante perché le gonne arricciate come tende nascondono anche eventuali cuscinetti di lardo.

Ma col nostro ricettario siamo in campagna e la vita qui è meno formale e sicuramente più tranquilla. Certo ci sono gli inviti e quindi accanto a ricette abbastanza semplici e quotidiane ne troviamo altre in cui un cuoco veramente deve dar prova di abilità.

Il periodo di Santorre dista alcuni decenni da quello del Giovin Signore di Parini, ma con gli anni l'esecuzione delle ricette non cambia di molto, il procedimento è sempre il medesimo anche se può mutare qualche ingrediente o sistema di cottura. Un esempio, Il non plus ultra:

Preparata una fesa di Vitello dal peso di una libra circa e ben battuta perche Riescha frolla Si metta in cazeruola un bichiere d'aceto ma che non sia troppo forte quatro o cinque garofani, altretanti ginepri, e grani di pepe, poco Timo e Magiorana, Rosmarino una foglia dall’oro, poco scorza di limone, una cipoletta, e porro, presemolo, Zelero, carotta e poco sale tutto questo si faccia Bolire per qualche poco e ciò fatto si versi sul Vitello e si lascia così in infusione Ben chiuso Fino al dì suseguente, allora dato di mano ad altra cazeruola e fatto di dileguare un pezzo di butirro vi si unischa i citati ingredienti levati dall’infusione col vitello facendolo quocere come un arrosto, cotto così, prendasi

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