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Lei, Margaret

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Frank Horvat

Frank Horvat

Quando la sceneggiatura cinematografica riprende vicende reali, soprattutto con protagonisti noti, si cercano attori-interpreti che siano fisicamente analoghi alle personalità evocate, altresì precisate da un trucco che ne mette in risalto caratteristiche fisiche riconoscibili e riconosciute. Nello stretto ambito fotografico, entro il quale agiamo noi, andando a individuare e commentare presenze significative della Fotografia al Cinema, sia in sue sceneggiature, sia in sue scenografie di contorno rilevante e indicativo, ci sono stati casi, soprattutto statunitensi, che vale ancora la spesa richiamare e sottolineare, in anticipo sulla personalità fotografica di Margaret Bourke-White, alla quale intendiamo approdare.

Con peso diverso, in senso di presenza quantitativa sullo schermo, almeno due sono le combinazioni degne di nota, oltre le quali censiamo in apposito riquadro pubblicato a pagina 16. Anzitutto, sottolineiamo la somiglianza dell’attore Ned Eisenberg con il fotogiornalista Joe Rosenthal, dell’Associated Press, che con la sua fotografia della bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima (23 febbraio 1945), dà avvio alla trasposizione cinematografica Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006.

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Quindi, per quanto nel film Occhio indiscreto (The Public Eye), di Howard Franklin, del 1992, il fotografo protagonista si chiami Leon Bernstein (e altri soprannomi), tra postura, modi di agire e tanto altro ancora, non possiamo ignorare che l’interpretazione di Joe Pesci sia stata ispirata alla personalità di Weegee, con annessi e connessi. Anche qui, confermiamo un sostanzioso allineamento fisico tra il personaggio cinematografico e la realtà dalla quale ha tratto ispirazione.

In questo cammino, che evidenzia una certa somiglianza apparente tra interprete e personaggio, oltre quanto rilevato nel riquadro a pagina 16, escludiamo subito Nicole Kidman, nei panni di Diane Arbus, in Fur - Un ritratto immaginario di Diane Arbus (Fur - An Imaginary Portrait of Diane Arbus), di Steven Shainberg, del 2006: attrice di richiamo spettacolare, totalmente estranea alla complessità interiore (ed esteriore) della controversa fotografa.

Dopo di che, tutte le volte che rievochiamo le “vite vere” di fotografi presi in considerazione dal Cinema, citiamo sempre un terzo caso che si aggiunge ai due (non tre) appena richiamati: quello della fotogiornalista statunitense Margaret Bourke-White. Soprattutto, si ricorda la sua partecipazione complementare nel film Gandhi, di Richard Attenborough, del 1982, nell’interpretazione di Candice Bergen.

L’episodio visualizzato nel film è storico. Nel 1946, due anni prima del suo assassinio, quando il Mahatma aveva attirato l’attenzione internazionale, la fotoreporter statunitense fu (pagina accanto) Ovvia- inviata da Life in India. Celemente, la fotografia di berrimo è il ritratto con l’arMargaret Bourke-White colaio compreso nell’inquaevocata nel film Gandhi dratura orizzontale. Quell’inè quella del Mahatma in lettura con un arcolaio in primo piano (1946). contro è ben descritto nella Biografia della fotografa, scritta da Vicki Goldberg, pubblicata in Italia da Serra e Riva Editori, nel 1988. Emissione filatelica del Leggiamo: «Margaret arMozambico, del 30 no- rivò in India nel marzo del vembre 2009, celebra- 1946, e si mise subito all’otiva del Mahatma Gan- pera fotografando Gandhi. dhi: dalla fotografia di «Lo aveva spesso udito inMargaret Bourke-White. veire pubblicamente (da un moderno microfono) contro i macchinari moderni, dal trattore al telaio meccanico. Di fronte alla siccità, alla fame, all’incredibile miseria dell’India, che a suo parere il progresso tecnologico avrebbe senz’altro potuto risolvere, Margaret non comprese mai fino in fondo il violento malanimo di Gandhi nei riguardi della macchina. «In occasione del loro appuntamento, Gandhi si fece trovare in compagnia di un gruppo di intoccabili, in una baracca che odorava di escrementi umani. Margaret era appena entrata e già la segretaria del maestro le stava domandando se sapeva filare. L’arcolaio rappresentava per il Mahatma il simbolo della sua ferrea volontà di liberarsi dal dominio britannico. Come accadeva in ogni altro impero coloniale, l’Inghilterra importava dalle colonie materie Nel film Gandhi, di Richard Attenborough, del 1982, è compresa la sessione fotografica che Margaret Bourke-White realizzò, nel 1946, per Life, con il Mahatma (nelle rispettive interpretazioni di Candice Bergen e Ben Kingsley). prime, per incrementare l’industria in patria. Il cotone indiano veniva trasformato in tesNota parallela, per la segnalazione della Speed Graphic 4x5 pollici, inviolabile suto negli stabilimenti presenza del fotogiornalismo statunitense di metà Novecento. tessili britannici e poi rivenduto in India per

la confezione di capi d’abbigliamento. Gandhi ripeteva che gli indiani avrebbero dovuto spezzare le catene della dipendenza filando e tessendo da sé. [...]

«La segretaria ricordò a Margaret che Gandhi stava conducendo una giornata di silenzio, e che quindi non gli si poteva rivolgere alcuna domanda. Né usare luci artificiali, non le gradiva. Ma la capanna era troppo buia; Margaret prego che le si concedesse un minimo equipaggiamento elettrico e le fu permesso l’uso di tre flash. Trovò Gandhi seduto a terra a gambe incrociate, indossava un panno tessuto a mano intorno ai fianchi e leggeva il giornale attraverso un paio di occhialetti cerchiati di metallo. «Aveva settantasette anni, era un uomo minuscolo, asciutto, com- Archivio FOTOgraphia pletamente calvo, e aveva sfidato il più grande impero nella storia del mondo. «Non prestò alcuna attenzione alla fotografa che aveva interrotto la sua ora di lettura, e Margaret gliene fu grata, perché la nuda stanza era molto buia. L’unica finestra, in alto, gettava raggi di luce direttamente nella sua macchina rendendole assai disagevole il compito, a meno di complicate manovre. «Non appena Gandhi prese a filare, Margaret usò uno dei suoi tre flash. Ma il lampo venne ritardato dal caldo umido che anche in seguito, in India, rischiò sovente di sabotare i suoi sforzi. Non rimanendole che due soli flash, Margaret decise di usare la macchina con il treppiedi. Anche quest’ultimo, tuttavia, si rifiutò di collaborare: una gamba si bloccò all’altezza minima e un’altra alla massima. Dopo aver controllato attentamente il secondo flash, Margaret scattò a questo punto un’altra istantanea. Funzionò tutto a meraviglia. Solo che

ANCORA ALTRE VITE VERE

Già in Soldati a cavallo, di John Ford (con John Waine; Usa, 1959), il fotografo che all’inizio del film ritrae gli ufficiali nordisti in posa viene appellato “mister Brady”: ovvero, Mathew B. Brady (1822-1896), che fotografò la guerra civile americana assieme a Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan (e tanti altri ancora).

E pure possono essere riconducibili alla realtà le figure tratteggiate nella tetralogia del filone giornalistico-rivoluzionario degli anni Ottanta: Sotto tiro, di Roger Spottiswoode (Usa, 1983), Salvador, di Oliver Stone (Usa, 1986), Urla del silenzio, di Roland Joffé (Gran Bretagna, 1985), e Un anno vissuto pericolosamente, di Peter Weir (Australia, 1982), vicende rispettivamente ambientate tra le pieghe della guerra civile centro americana (Nicaragua e Salvador), nella Cambogia dei Khmer rossi e nell’Indonesia di Sukarno. Soprattutto, in Urla del silenzio, è sostanziale la figura coprotagonista, accanto al giornalista Sydney Schanberg (l’attore Sam Waterston), del fotografo cambogiano Dith Pran, interpretato da Haing S. Ngor

Dith Urla del silenzio: Pran (Haing S. Ngor). -sostanziosamente somigliante-, poi trasferitosi negli Stati Uniti, alla corte del New York Times, mancato nel marzo 2008. Per quanto riguarda poi fotografi veri, trasposti al Cinema, oltre quanto già considerato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, non si deve ignorare il film Pretty Joe Flags of Our Fathers: Rosenthal (Ned Eisenberg). Baby, del 1978, prima regia statunitense del francese Louis Malle. La sceneggiatura si è basata sulle uniche fotografie conosciute di E.J. Bellocq (Ernest Joseph? Ernest James?; 1873-1949), raccolte nel fondo Storyville Portraits, recuperato dal fotografo Lee Friedlander, che ne realizzò una mostra al Museum of Modern Georgia O’Keeffe: Art / MoMA, di New York, Alfred Stieglitz (Jeremy Irons). nel 1970, con relativo volume-catalogo (riedizione Bellocq. Photographs from Storyville, the Red Light District of New Orleans; Jonathan Cape, 1996 / edizione italiana Storyville Portraits [Abscondita, 2009], fedele alla prima, con anche l’introduzione di Susan Sontag alla seconda).

La vicenda è ambientata -appunto- a Storyville, quartiere a luce rossa di New Orleans; e tutto ruota attorno la figura di una dodicenne Brooke Shields (Violet), la cui inconsistenza recitativa è seconda solo alla povertà del film. Altrettanto evanescente è E.J. Bellocq, interpretato da un Keith Carradine uguale a se stesso (come sempre), ma questa volta in ordine con le esigenze di copione, al quale serviva una figura eterea che facesse da spalla alla ragazzina offerta al voyeurismo popolare (il bel Keith Carradine è comunque fisicamente diverso da E.J. Bellocq, descritto da chi l’ha conosciuto come un “nano idrocefalo, ignorato dalla gente”).

In trasversalità, sempre dalla vita reale, va menzionato il film televisivo Georgia O’Keeffe, del 2009, prodotto da City Entertainment in associazione con Sony Television: regia di Bob Balaban, su sceneggiatura di Michael Cristofer. La sua presentazione ufficiale, a decodifica del titolo (che per gli americani già da solo basta, data la statura della pittrice evocata), afferma che «Her Life Was a Work of Art», ovvero La sua vita è stata un’opera d’arte. La pittrice è stata anche la moglie del fotografo Alfred Stieglitz (1864-1946), che nel film ha il volto di Jeremy Irons... perfettamente somigliante.

Ancora, con sostenuta leggerezza, il carattere che Fred Astaire recitò in Cenerentola a Parigi, di Stanley Donen (Funny Face; Usa, 1957), nei panni del fotografo Dick Avery, ha ricalcato la personalità autentica di Richard Avedon, che del resto contribuì alla produzione in veste di consulente del colore e degli effetti fotografici (e Dick le di è il diminutivo gergaRichard). Ancora, nel E.J. Pretty Baby: Bellocq (Keith Carradine). film, altri richiami dal reale (per esempio l’art director Dovich, in omaggio al leggendario Alexey Brodovitch, che ha illuminato l’editoria della moda) e interpreti prese dalla realtà: tra tante, le modelle iconiche Suzy Parker, Sunny Hartnett e Dovima (quella “con gli elefanti” in una celebre fotografia di Richard Occhio indiscreto: Simil Weegee (Joe Pesci). Avedon, del 1955).

Per certi versi, anche i tratti schizoidi del protagonista del cult Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, del 1966, avrebbero avuto una ispirazione realistica; ai tempi, si parlò di David Bailey, esponente di spicco delle contraddizioni esistenziali e comportamen- Backbeat: tali degli anni Sessanta. Di Astrid Kirchherr (Sheryl Lee). certo, gli interni dello studio fotografico del film furono girati proprio nella sala di posa di David Bailey, a Londra, dove è ambientata la vicenda.

Ancora, e poi basta, merita una attenzione autonoma e propria la ricostruzione scenografica del passaggio da Amburgo dei Beatles, non ancora tali. Fu lì, e in quell’occasione, che -all’inizio degli anni Sessanta- i Fab Four (ai tempi in cinque) conobbero Astrid Kirchherr, giovane allieva e assistente di Reinhart Wolf, che realizzò ottimi ritratti, in sessioni fotografiche appunto riproposte nel film Backbeat, di Iain Softley, del 1994 (in Italia, orrendamente Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore), che racconta quei lontani momenti; nell’interpretazione di Sheryl Lee.

aveva scordato di caricare la macchina. Fortunatamente, l’ultima fotografia riuscì.

«Da questo incubo di inconvenienti uscì una fotografia che fu in seguito riprodotta innumerevoli volte.

«La silhouette dell’arcolaio in primo piano occupa tutta la metà sinistra dell’immagine. Leggermente più indietro siede il Mahatma, concentratissimo nello studio di certe carte che ha in grembo. Il capo chino nella lettura, Gandhi appare come soffuso nella luce che proviene direttamente dalla finestra.

«Margaret aveva composto l’icona di un santo laico, umile, inondato di luce, e accompagnato dal simbolico arcolaio proprio come i santi sono rappresentati con i loro emblemi».

Più dell’autobiografia Portrait of Myself, del 1963, questa Biografia di Margaret Bourke- White, compilata da Vicki Goldberg, è rilevante, quantomeno qui, perché è stata usata anche per la sceneggiatura di un film televisivo che in Italia è stato spesso tra-

smesso in seconda o terza serata da innumerevoli emittenti locali. Intitolato alternativamente Il coraggio di Margaret, più spesso, oppure Margaret Bourke-White, una donna speciale, più raramente, è un film sostanzialmente fedele alla Biografia di riferimento: regia di Lawrence Schiller (Cen-

In italiano, intitolato alternativamente Il coraggio di Margaret, più spesso, oppure Margaret Bourke-White, una donna speciale, più raramente, è un film televisivo sceneggiato dalla Biografia compilata da Vicki Goldberg (in edizione italiana pubblicata da Serra e Riva Editori, nel 1988 [qui sopra, a sinistra]): interpretazione di Farrah Fawcett, regia di Lawrence Schiller (Central Independent Television; Usa, 1989); in originale, Double Exposure: The Story of Margaret Bourke-White. Del film non esiste trasposizione in DVD e la videocassetta VHS [qui sopra] è disponibile nella sola versione statunitense. Da segnalare ancora l’autobiografia di Margaret Bourke-White Portrait of Myself, pubblicata da Simon & Schuster, nel 1963; e riedizioni successive [qui sopra, a destra, la prima edizione]. tral Independent Television; Usa, 1989); in originale, Double Exposure: The Story of Margaret Bourke-White.

E ciò è effettivamente: la storia della celeberrima fotoreporter di Life, così come è stata benevolmente raccontata nel testo di Vicki Goldberg, sceneggiato da Marjorie David. Il fascino del personaggio è ben rappresentato da una avvenente Farrah Fawcett, la cui sfortunata carriera cinematografica è stata forse compromessa dallo stereotipo fissato dalla serie televisiva originaria Charlie’s Angels.

Di questo film non esiste trasposizione in DVD e la videocassetta VHS è disponibile nella sola versione statunitense. Comunque, siamo sinceri, non si tratta di un’opera che merita particolare attenzione, che non la nostra, magari, che antepone la personalità fotografica a eventuali altre valutazioni di pregio. Se proprio vogliamo, a parte documentari su fotografi rivolti soprattutto (soltanto) agli addetti e appassionati, que-

sta storia fa il paio con quella di Diane Arbus (Fur...): entrambe indirizzano la vicenda personale e professionale di due grandi fotografe del Novecento verso il più ampio pubblico cinematografico, richiamato da qualcosa che è diverso dalla sovrastruttura fotografica. E a noi basta. ■ ■

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