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Maurizio Galimberti La storia diventa destino [...]
Da e con Walter Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Per quanto molte fotografie, quasi tutte, comunichino soprattutto per i propri contenuti, tanto da assumere dimensione credibile e convincente una volta che vengono riprodotte su giornali o raccolte in monografie, ci sono opere che esigono di essere osservate e considerate in propri originali.
È il caso della Fotografia di Maurizio Galimberti, qui e oggi con il secondo capitolo della sua escursione nella Storia, condotta insieme con Paolo Ludovici; dopo l’originario Uno sguardo nel labirinto della storia, l’attuale L’illusione di una storia senza futuro aggiunge un altro tassello alla riflessione. Per motivi logici, qui riferiamo traslando. Ma... le opere andrebbero valutate in originale: per dimensioni, percezione della lavorazione delle tessere in mosaico e impatto visivo. Non è possibile farlo dalle pagine di una rivista, informativa più che formativa. Sopperiamo al possibile, riproducendo inquadrature parziali dal soggetto completo, proposte nelle proprie dimensioni originarie. Non è tutto, ma... Quindi, invito ad avvicinare gli originali nell’ambito di esposizioni programmate.
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di Maurizio Rebuzzini
Non soltanto molto, ma tutto dipende da come intendiamo la Fotografia. Non tanto da cosa questa significhi per ciascuno di noi, che sottintende partecipazioni e presenze in qualche misura attive e palpitanti. Ma, con altro passo, come consideriamo e interpretiamo questo autentico linguaggio visivo, che -dall’inizio del Novecento- influisce sulla Vita e il Pensiero di vita (quanto è accaduto prima è pura accademia... circa). A volte, addirittura condizionando l’una Vita e l’altro Pensiero. Del resto, come rileva l’autorevole e accreditata photo editor statunitense Susie Linfield (in La luce crudele), quale sarebbe la nostra comprensione del mondo, se non ci fossero le fotografie?
A dispetto della sola apparenza a tutti visibile, che potrebbe indurre qualcuno a ignorare la sostanza, per liquidare la sola forma esteriore (illusoria!) entro confini di “mosaici” stravaganti e curiosi, nel proprio agire giorno su giorno, stagione dopo stagione, Maurizio Galimberti è approdato a una prodigiosa e stupefacente interpretazione fotografica. Addirittura a una Fotografia, in forma di Opera, che indirizza al meglio (e al bene) il Pensiero individuale dell’osservatore, tanto quanto compiace e appaga la componente mercantile dei suoi pezzi unici: per l’appunto, in combinazione colta di tasselli narrativi (raffinati fotogrammi a sviluppo immediato, in copie Fujifilm Instax irripetibili).
A diretta conseguenza, per quanto lontano dalla fotografia d’azione, magari con passo fotogiornalistico, oltre la sua azione d’arte, Maurizio Galimberti si propone come accreditato narratore: addirittura, della Storia... ora e qui in secondo capitolo di un percorso avviato un anno fa con una prima quantità e qualità di soggetti iconici ispiratori. Qui, in secondo passo, è evidente quanto e come la Storia sia ineluttabile, o -per meglio dire-, la Storia diventi Destino, e viceversa!
Una volta ancora ci si domanda: cosa attira la nostra attenzione fotografica? In risposta, al cospetto dei mosaici dell’autorevole Maurizio Galimberti: parecchi elementi, nessuno dei quali è significativo di per sé; ma, tutti sommati, hanno ed esprimono senso.
Oltre che bravo e potente, Maurizio Galimberti è un narratore capace. Lo è perché e per quanto controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Così come un bravo romanziere (o storico) dissimula per far comprendere il proprio racconto, omettendo qui, sottolineando là, soprassedendo a destra e allungandosi a sinistra, anche lui sottolinea (!) e nasconde (?) per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio resoconto, la propria narrazione visiva.
Così che, alla resa dei conti, il suo raccontare per immagini trasmette emozioni intime che raggiungono ognuno con energia autoritaria. In forma di mosaici articolati che invitano alla concentrazione sui dettagli, così come impongono il proprio insieme complessivo, ogni sua interpretazione riassume e riepiloga con perizia e cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, ma imbocchi con decisione il proprio cammino, che può coincidere con quello delle sue intenzioni d’autore, ma anche distaccarsene. Perché no? Perché non dovrebbe (casomai) farlo? (continua a pagina 53)
Guerra del Golfo; Burgan, Kuwait (1991 / fotografia di Bruno Barbey): Matrice e Dettaglio 1:1 (al naturale).
Nelson Mandela e Muhammad Ali (2000 / fotografia di Dana Gluckstein): Matrice, Opera e Dettaglio 1:1 (al naturale).
Mujaheddin in guerra con l’Unione Sovietica (1979 / fotografia di Steve McCurry): Matrice, Opera e Dettaglio 1:1 (al naturale).
Piazza Tienanmen (1989 / fotografia di Stuart Franklin): Matrice, Opera e Dettaglio 1:1 (al naturale).
Guerra in Vietnam, dal film Platoon, di Oliver Stone, del 1986 (1967): Matrice e Dettaglio 1:1 (al naturale).
(continua da pagina 45)
Insomma, in forma di indagine, Maurizio Galimberti è guidato da una particolare (e invidiabile) capacità di analisi e sintesi visiva che definiscono una individualità e percettibilità che stanno alla base del suo pensiero in forma d’arte... per la Vita. In questo senso, sentenze adeguate, oltre che autorevoli: con Henry Miller, «L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita»; con Paul Klee, «L’arte non riproduce il visibile; piuttosto, crea il visibile»; con Neal Cassady, «L’arte è buona quando muove dalla necessità; questo tipo di origine ne garantisce il valore, e nient’altro»; con Thomas S. Eliot, «L’arte non migliora mai, ma... il materiale dell’arte non è mai esattamente lo stesso»; con Emilio Cecchi, «L’arte, in fondo, come tante tra le cose più belle, vien meglio un po’ di nascosto»; con Lindsay Anderson, «L’arte è esperienza, non la formulazione di un problema». Per approdare alla fusione (forse) definitiva: con Albert Camus, «Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe».
Con la qualità dei contenuti delle sue fotografie (identifichiamole pure così, ma -invece- sono Opere, se si capisce la differenza sostanziosa), Maurizio Galimberti scandisce i tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta. Non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni, scomposizioni e ricomposizioni che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione con altri. Ognuno parta da questi autentici trattati, da queste folgorazioni, da questi squarci nel buio per comporre i tratti del proprio percorso, che sarà avvincente per almeno due motivi: perché proprio, anzitutto, e perché sollecitato da una visione fotografica di alto profilo.
La Fotografia è magica e magia giusto per questo. Non necessariamente racconta dei propri soggetti, spesso invitati a richiamare altre intimità che non la propria apparenza a tutti manifesta. Ma rivela sempre qualcosa dell’autore, che coinvolge tutti nella propria visione.
Alla fin fine, è esattamente questo il senso di dell’azione di Maurizio Galimberti, invitato dall’accreditato Paolo Ludovici al racconto della Storia, in una sintesi consapevole che ogni distanza sia più questione di Tempo che di Spazio: da e con Anne Perry (in Callander Square, del 1980), «La Storia non può insegnarci niente, se scegliamo di dimenticarla».
Già... se scegliamo di dimenticarla. ■ ■