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Social Utopia
from Inside Utopia
La Cité industrielle, l’utopia urbanistica di Tony Garnier alla fine dell’800
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Tony Garnier, architetto francese (Lione 1869 - La Bédoule 1948); precursore dell’architettura razionale, sviluppò uno stile che valorizza la proprietà dei materiali. Studiò a Lione, poi a Parigi; nel 1889 vinse il Prix de Rome, visse a Roma dal 1899 al 1904; fra le sue opere sono notevoli il progetto per la “Cité industrielle” (presentato, e non premiato, nel 1901 per il Grand Prix de Rome, pubblicato ed esposto a Parigi nel 1904), primo tentativo di dare una qualificazione ai diversi settori della città con studio attento dei vincoli edilizî e della proprietà del suolo, senza alcun riferimento agli stili storici degli edifici; a Lione, il macello (1909-13), lo stadio (1918), l’ospedale della “Grange Blanche” (ora “É. Herriot”, 1915-30) e l’Hôtel de Ville de Boulogne Billancourt (1931-34). Le opere lionesi furono favorite dall’incontro con il sindaco radicale É. Herriot.
Le utopie urbanistiche della seconda metà del 900 possono trovare ispirazione concreta nei progetti di alcuni degli architetti più importanti degli ultimi due secoli tra cui, per citarne solo alcuni, Tony Garnier, Le Corbusier e Marco Zanuso. Infatti, già a cavallo tra 800 e 900, molti architetti, urbanisti e filosofi propongono nuovi modelli di città per contrapporsi allo sviluppo caotico non pianificato delle città post rivoluzione industriale. Progetti considerati utopici, ma che in realtà racchiudono in sé i temi fondamentali dello sviluppo urbano in una visione organica della città pensata come l’insieme delle residenze, dei servizi, delle infrastrutture, dei trasporti, il tutto in un’ottica estetica, funzionale e anche sostenibile: è il tema della rigenerazione urbana, argomento ancora oggi di grande attualità.
Tony Garnier iniziò l’elaborazione del suo modello di città ideale in occasione del suo soggiorno a Roma, in qualità di vincitore del Prix de Rome del 1899: il piano era terminato già nel 1901, ma fu pubblicato solamente nel 1917 col titolo di “Une Cité Industrielle”, rimanendo, fino alla stesura della carta di Atene, il manifesto dell’urbanistica progressista. Nel 1905 il sindaco di Lione nominò Tony Garnier architetto capo della città offrendogli l’opportunità concreta di realizzare qualcosa di molto vicino a ciò che aveva prefigurato nei suoi studi. In particolare,
Illustrazione del progetto della Citè idustrielle (1917). In pianura è situata l’officina principale, alla confluenza tra un torrente ed il fiume. Al di sopra di essa, su un altipiano si sviluppa la città che è a sua volta sotto agli edifici sanitari: sia la città che gli edifici sanitari sono protetti dai venti ed esposti a sud. Ognuno di questi settori è costruito in modo da essere comunque ampliabile in futuro.
riuscì a realizzare il mattatoio della Mouche (1909-1913), lo stadio olimpico (1913-1916), l’ospedale della Grange Blanche (1925-1930) ed il celebre quartiere per abitazioni degli Etats-Units.
I principi ispiratori di Garnier, codificati, come detto nella sua “Cité Industrielle, Etude pour la construction des villes” sono sostanzialmente l’analisi e la separazione delle funzioni urbane, l’esaltazione degli spazi verdi che svolgono il ruolo di elementi isolanti, l’utilizzazione sistematica di nuovi materiali, in particolare del cemento armato. La Cité Industrielle viene immaginata in base ad un contesto territoriale ben dettagliato, pur se immaginario, come un progetto completo di città, disegnato e progettato non solo alla scala di insieme, ma anche nelle singole parti costitutive (industrie, servizi e abitazioni fin nei particolari costruttivi). La città è una città di nuova fondazione ed il motivo della sua nascita, come dice il nome stesso, risiede nelle necessità di sviluppo industriale: la lucidità analitica di Garnier, oltre alla fondatezza delle sue anticipazioni tecnologiche (sviluppo dell’industria automobilistica ed aeronautica), farà sì che il suo schema di impianto diventerà un modello di riferimento per la creazione delle nuove città industriali nell’Unione Sovietica degli anni’30. Oltre a prefigurare nei dettagli il sito su cui dovrà sorgere la città (il territorio sarà caratterizzato da una parte montuosa ed una in pianura attraversata da un fiume; il nuovo insediamento residenziale sorgerà su un terrazzamento artificiale, lontano dal centro storico ipotizzato più in alto e separato dalla zona industriale dai tracciati ferroviari intesi come elementi di snodo), Garnier ipotizza anche una popolazione di circa 35.000 abitanti, ossia una insediamento di media importanza per dare carattere generale al suo modello, riprendendo un dimensionamento tipico dell’urbanistica utopista. Residenza e industria hanno un impianto ortogonale che contrasta con quello della città esistente; in particolare la zona residenziale è organizzata intorno ad un viale centrale disposto secondo l’asse eliotermico e percorso dai mezzi pubblici, sul quale si attestano i servizi con una concentrazione delle grandi attrezzature urbane nella parte mediane. La distribuzione delle funzioni è descritta con estrema sintesi e chiarezza: (…) Il letto del torrente è sbarrato; una centrale idroelettrica distribuisce la forza motrice e riscaldamento nelle fabbriche ed in tutta la città. La fabbrica principale è situata nella pianura, di fronte al torrente e al fiume. Una ferrovia di grande comunicazione passa tra la fabbrica e la città, essendo situata molto più in alto su di un altopiano. Ancora più in alto sono spaziati gli edifici sanitari; così come la città sono protetti da venti freddi, esposti a mezzogiorno, in terrazze dalla parte del fiume.
Ciascuno di questi principali elementi (fabbrica, città, ospedali) è isolato in modo da rendere possibile l’estensione in caso di necessità; (…). Gli isolati dei quartieri residenziali hanno le dimensioni di 150mt nel senso est-ovest e di 30mt nel senso nord-sud e sono ulteriormente suddivisi in lotti 15x15mt; le modalità di aggregazione di questi lotti quadrati, unità minime di frazionamento, possono essere le più varie
Citè Industrielle, planimetra generale e veduta prospettica dei terrazzamenti sulla valle, disegni di Giovanni Astengo per il libro “Abitazioni e lavoro nella città di domani”
I quartieri residenziali sono costituiti da villette allineate in un reticolo uniforme di strade. Il terreno è diviso in isolati di 150 metri nel senso est-ovest, e di 30 metri nel senso nord-sud. Questi isolati sono a loro volta suddivisi in lotti quadrati di 15 metri di lato, che si affacciano quindi sempre con una parte sulla strada. Un edificio può occupare anche più di un lotto, ma la superficie costruita deve essere inferiore alla metà della superficie totale: il resto è destinato a giardino pubblico, transitabile ai pedoni. (comprendendo anche funzioni non residenziali), purché si rispetti il principio per cui la superficie costruita deve essere sempre inferiore alla metà di quella complessiva, in modo tale che la rimanente parte di superficie scoperta, mantenuta a verde non recintato (Garnier ipotizzava l’assenza della proprietà privata), vada a far parte di un grande parco pubblico permeabile al libero movimento dei pedoni.
All’inizio degli anni ‘60, il clima di tensione nucleare della Guerra Fredda e la corsa allo spazio hanno stimolato l’immaginazione delle persone nel campo dell’arte e del design. Un esempio fu Archigram, un gruppo di architetti che iniziò a lavorare in una direzione diametralmente opposta rispetto ai loro contemporanei. I loro nomi sono: Warren Chalk, Peter Cook, Dennis Crompton, David Greene, Ron Herron e Michael Webb, tutti collegati all’Architectural Association School of Architecture di Londra. Iniziano a firmarsi con il nome di Archigram, nome che deriva dalla combinazione delle parole “architettura” più “telegramma”. Hanno dominato l’avanguardia architettonica negli anni che vanno dal 1960 alla prima metà del 1970 con le loro visioni giocose, pop, di chiara ispirazione futuristica, diventandone poi, i pionieri durante tutta la seconda metà del secolo.
Furono un gruppo di architetti britannici che si possono definire tutt’ora assai lungimiranti e che miravano ad incapsulare una nuova realtà, un futuro ipotetico in cui il collasso post-apocalittico della società è una possibilità e in cui l’ingegno della tecnologia umana è orientata alla sopravvivenza. Le visioni neo-futuristiche di Archigram immaginavano un mondo danneggiato, in cui le città e gli edifici sono sostituiti da enormi strutture meccaniche, dove l’abitazione standardizzata, l’intrattenimento, le risorse e i moduli di produzione sono combinati e le macchine sono diventate completamente indipendenti e responsabili
Componenti di Archigram, 1987, da sinistra: Warren Chalk, Ron Herron, Peter Cook, David Greene, Mike Webb e Dennis Crompton. Gruppo incentrato su un approccio alla vita high-tech, leggero e infrastrutturale, centrato sulla tecnologia. Proponendo un immaginario affascinante, il gruppo ha sperimentato macchinari modulari, mobilità attraverso l’ambiente, capsule spaziali e seducenti immaginari consumistici.
Rappresentazioni raffiguranti le strade e superstrade più iconiche di Santa Monica e San Diego, tipici paesaggi degli anni sessanta intersecati con le innovative e rivoluzionarie strutture proposte da Ron Herron e il gruppo Archigram. Realizzate nel gennaio del 1969 a Los Angeles, questi fotomontaggi rappresentano un primo tentativo, quasi artistico, di mettere insieme presente e utopico futuro. dell’automazione e della manutenzione di questo nuovo modo di vivere. Ad esempio, un tipo di vita nomade nella visione di Ron Herron, uno dei fondatori di Archigram. Ha immaginato e congegnato infatti, The Walking City, un’arca gigantesca, meccanica e autosufficiente simile a un insetto contenente i suoi abitanti, che si muove all’infinito attraverso i paesaggi ormai desolati della Terra e si connette con altre Walking Cities per creare espansioni, scambiando popolazione e risorse o tenendosi uniti contro le sfide di questa nuova era dell’umanità.
Sebbene le idee di Herron e Archigram fossero in qualche modo disapprovate dall’establishment architettonico dell’epoca, in parte a causa della loro cupa visione futuristica, in parte a causa della mancanza di dettagli pratici nel funzionamento interno di questi habitat di macchine, le loro opere, seppur solo cartacee hanno influenzato l’architettura postuma. Prendiamo ad esempio l’Arco di Hammersmith o il Centre Pompidou di Parigi: ovviamente non camminano, ma con un po ‘di immaginazione possiamo riconoscere l’influenza duratura di Ron Herron e Archigram nella visione architettonica.
Archigram pubblicarono l’omonima rivista dal 1961 al 1970, il cui nome “Archigram” doveva evocare un messaggio o una comunicazione astratta: telegramma, aerogramma ecc. La rivista costituì lo strumento d’identità del gruppo nella quale poter esprimere liberamente i propri pensieri e idee. Nel primo numero della rivista che porta il loro nome “Archigram”, David Greene scrive: “Una nuova generazione di architettura deve nascere con le forme e gli spazi che sembrano respingere i precetti di moderno ma, che, in realtà, conserva quei precetti. Abbiamo scelto di bypassare l’immagine decadente del Bauhaus, che è un insulto al funzionalismo. L’acciaio si può stendere senza limiti di lunghezza. Si può far salire in aria un palloncino di qualsiasi dimensione. Si possono fare stampi in plastica di qualsiasi forma. I tizi che hanno costruito il Bridge Forth non se ne sono preoccupati.”
Nel 1963 è stato presentato un manifesto che rendeva chiara la loro idea, che vedeva la città come un organismo unico, che non viene vista solo come un insieme di edifici, ma come un mezzo per liberare le persone e farle abbracciare la tecnologia, consentendo loro di scegliere come meglio condurre la loro vite. I loro princìpi erano fondati sull’ottimismo, sul rifiuto di essere incatenati a ciò che era il passato. Prendevano in giro gran parte del linguaggio architettonico che li circondava. Uno dei punti di forza era il retroterra culturale diverso dei componenti stessi del gruppo, il che, non faceva altro che accrescere gli entusiasmi nella gestione delle complesse analisi nei confronti delle città. Si erano fatti portavoce di una vita da fantasie nomadi, sostenevano che un’architettura basata sulla mobilità e la malleabilità avrebbe potuto dare la libertà alle persone. I consumatori dovevano essere liberi di scegliere al meglio la tecnologia e di ottimizzarla rispetto alle loro necessità.
The Walking City: l’eliminazione dei confini culturali e sociali delle città nomadi
Ron Herron, nato nel 1930 a Londra, ha studiato come disegnatore alla Brixton School of Building. Dopo il servizio nazionale a Berlino si è riqualificato come architetto al Politecnico di Brixton e Regents Street (ora Università di Westminster), prima di lavorare al London County Council nel South Bank Arts Centre. I progetti con Archigram includono le spettacolari Walking Cities. Durante Archigram ha anche lavorato al progetto Euston; per Colin St John Wilson; per William Pereira a Los Angeles; e ha insegnato alla UCLA, prima di tornare a lavorare al progetto Monaco di Archigram. Dopo la chiusura dell’ufficio di Archigram, i suoi progetti includevano l’Imagination Building in Store Street. La pratica si è fusa con Imagination 1989-93. Ha insegnato all’AA ed è diventato professore di architettura all’Università di East London nel 1993. Morì nel 1994.
Progettata da Ron Herron nel 1964, la cosiddetta città a piedi è costituita da edifici intelligenti o robot in formato gigante, di per sé baccelli contenitori vita, che potrebbero vagare per la città. Le Walking City sono strutture abitative lunghe 400 metri e alte 220 e poggiate su otto gambe, che ne permettono gli spostamenti. La forma derivante dalla combinazione di insetti e di maccine è stata un’interpretazione letterale da Le Corbusier, aforisma di una casa come una macchina in cui vivere. I baccelli sono indipendenti, contengono abitanti che potrebbero entrare o uscire in stazioni dove questi occupanti vengono cambiati o dove si ricostituiscono le risorse disponibili. Il cittadino è quindi un nomade non totalmente differente. Il contesto era concepito in un mondo futuro dopo un conflitto nucleare.
Walking City immagina un futuro in cui confini e confini vengono abbandonati a favore di uno stile di vita nomade tra gruppi di persone in tutto il mondo. Ispirato dalle torreggianti piattaforme di lancio mobili della NASA, dall’hovercraft e dai fumetti di fantascienza, Archigram ha immaginato feste di edifici itineranti che viaggiano su terra e mare. Come molti dei progetti di Archigram, Walking City ha anticipato il frenetico stile di vita urbano di una società tecnologicamente avanzata in cui non è necessario essere legati a una posizione permanente.
Disegnio del progetto The Walking City illustrato nel quinto numero del magazine di Archigram (1964), strutture abitative lunghe 400 metri e alte 220 e poggiate su otto sostegni, che ne permettono gli spostamenti. Enormi macchine mobili di Walking City che sbarcano davanti a Manhattan, che emergono dal deserto o che appaiono dal mare di fronte ad Algeri. La loro ricerca architettonica non si ferma limitandosi alla gestione dell’ordinario e del fattibile, anticipa, anzi, la speranza che la professione possa finalmente proiettarsi verso l’utopia.
Le strutture sono concepite per inserirsi in utenze e reti informative in luoghi diversi per supportare i bisogni e i desideri delle persone che lavorano e giocano, viaggiano e restano, contemporaneamente. Attraverso questa esistenza nomade vengono condivise culture e informazioni differenti, creando un mercato globale dell’informazione che anticipa i successivi progetti dell’avanguardia Archigram, come Instant City e Ideas Circus.
È improbabile che gli ingegneri che hanno progettato le varie strutture mobili a Cape Kennedy abbiano mai sentito parlare del Gruppo Archigram. In effetti, l’idea di una città che cammina probabilmente li terrorizzerebbe. Eppure questi ingegneri hanno progettato e costruito un paio di dozzine di strutture, alcune alte come edifici per uffici di 40 piani, che si muovono serenamente attraverso il paesaggio piatto. Tuttavia, nell’architettura visionaria concetti come appartamenti prefabbricati sollevati in posizione su un telaio scheletrico, per essere collegati a servizi predisposti, sono ancora considerati poco pratici dalla maggior parte dei progettisti e costruttori. Eppure ci sono importanti problemi urbani come il trasporto intra e interurbano, per esempio, le connessioni tra le varie stutture ambulanti.
Gli orgogliosi risultati di Cape Kennedy sono la prova della nostra
capacità di affrontare i problemi più sconcertanti; e, implicitamente, sono un atto d’accusa contro coloro che non spenderebbero lo stesso tipo di sforzo per i nostri mali urbani.
Quando si considera la flessibilità economica e la “libertà” create dagli insediamenti mobili, potremmo guardare al concetto d’avanguardia di Walking City come esempio. Il concetto di Herron è qualcosa che è stato nella mente degli architetti per molto tempo.
The Walking City venne proposta dall’architetto britannico in un articolo sulla rivista di architettura d’avanguardia Archigram, in cui Ron Herron propose di costruire strutture robotiche mobili massicce e artificialmente intelligenti che potessero vagare liberamente in un mondo post-apocalittico, trasferendosi a ovunque fossero necessarie le risorse delle strutture o le capacità produttive. Varie città pedonali potrebbero interconnettersi tra loro per formare “metropoli ambulanti” più grandi e poi disperdersi quando il loro utilizzo non fosse più necessario. Anche i singoli edifici o abitazioni dovevano essere mobili, spostandosi ovunque il loro proprietario volesse o richiedesse.
Pertanto, le strutture mobili condividono gli stessi concetti di una città in movimento, in quanto sono autonome e autosufficienti, possono interagire con altre città in movimento e operano in un mondo dove non esistono confini. “Walking City immagina un futuro in cui i confini vengono abbandonati a favore di uno stile di vita nomade tra gruppi di persone in tutto il mondo” afferma Ron Herron.
Ron Herron, del gruppo Archigram, ha sviluppato il progetto The Walking City, l ’idea è cresciuta come risposta diretta alle minacce percepite dall’era della Guerra Fredda. Concepite come “arche” che fornirebbero protezione post apocalittica alle comunità sopravvissute, queste strutture ambulanti faciliterebbero il trasferimento in zone e risorse più sicure. Le idee folli di Herron erano ovviamente solo di carta, ma fornivano un forte messaggio contro la guerra.Le fotografie qui mostrate si basano rigorosamente sui suoi dettagliati disegni, ma sono rendering più contemporanei.
Instant City: intrattenimento e informazione dalla metropoli alla periferia
Peter Cook, nato nel 1936 a Southend on Sea, ha studiato architettura al Bournemouth College of Art e all’AA. Co-fondatore di ’Archigram nel 1961 con David Greene mentre lavorava per James Cubitt and Partners. É inoltre direttore di ICA (1970-72), Art Net (1972-1980) e i suoi progetti più famosi con Archigram includono Plug-In Cities, Instant Cities. Scrittore ed educatore estremamente influente, ha insegnando a livello internazionale, prima all’AA e poi come professore e presidente della Bartlett School of Architecture (1990-2005). È stato il vincitore congiunto del RIBA Annie Spink Award for Education con David Greene nel 2002. Cook ha continuato a creare nuove collaborazioni; la partnership con Christine Hawley, Spacelab con Colin Fournier, Kunsthaus Graz e Crab Studios con Gavin Robotham e la collaborazione con HOK.
Instant City (sviluppata tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni ‘70) fa parte di una serie di indagini su strutture mobili che sono in collegamento con stabilimenti fissi che richiedono servizi estesi su un periodo limitato per soddisfare un problema estremo ma temporaneo.
Un progetto di ricerca basato sulla differenza tra centri locali, culturalmente isolati, e le strutture ben organizzate delle regioni metropolitane. L’obbiettivo era quello di indagare l’effetto e la praticità di iniettare la dinamica metropolitana in questi centri per mezzo di una struttura mobile che trasporta i servizi di informazione, educazione, intrattenimento della città, in modo da estenere i sevizi informativi e le e di intrattenimento anche alle città non fornite.
Sul magazine di Archigram viene illustrato una possibile configurazione quando Instant City è collegata a un’area industriale in declino. Le strutture utilizzate sono, veicoli aerei commerciali convertiti a dun nuovo utilizzo, come ad esempio dirigibili.
Nella maggior parte dei paesi civili, le località e le loro culture locali continuano a muoversi lentamente, spesso denutrite e talvolta risentite nei confronti delle regioni metropolitane più favorite (come New York, la costa occidentale degli Stati Uniti, Londra e Parigi). Sebbene si parli molto dei legami culturali e dell’effetto della televisione come
Illustrazione di Instant City (1966). Il concetto di Instant City è che mirava a fornire alle piccole città l’accesso alle attrazioni culturali di una grande città, “Instant City era, in termini molto grezzi, come un circo culturale”, ha detto Cook in un video per Dezeen, nota rivista di architettura. finestra sul mondo (e l’inevitabile villaggio globale), le persone si sentono ancora frustrate. I più giovani hanno persino il sospetto di perdere qualcosa che potrebbe allargare i loro orizzonti. Vorrebbero essere coinvolti in aspetti della vita in cui le loro esperienze possono essere viste come parte di ciò che sta accadendo.
Instant City ha come obbiettivo l’integrazione cultirale e la diffusione di ogni tipo di informazione, trasportando in città non metropolizzate i contenuti fino ad ora non accessibili.
Il progetto Instant City reagisce a questo con l’idea di una “metropoli itinerante” , un pacchetto che arriva a una comunità, dandole un assaggio della dinamica metropolitana, che si innesta temporaneamente sul centro locale, e mentre la comunità è ancora riprendendosi dallo shock, utilizza questo catalizzatore come prima tappa di un incontro nazionale. Una rete di strutture di informazione, educazione, intrattenimento, ”gioca e conosci te stesso”.
In Inghilterra la sensazione di essere esclusi dalle cose ha per molto tempo influenzato la psicologia delle province, così che le persone diventano iperprotettive riguardo alle cose locali o portano nella mente un ridicolo complesso di inferiorità sulla metropoli. Ma ci stiamo avvicinando a un momento in cui il periodo di svago della giornata sta diventando davvero significativo; e con l’effetto della televisione e di una migliore istruzione le persone si rendono conto che possono fare cose e sapere cose, possono esprimersi (o divertirsi in modo più libero) e stanno diventando insoddisfatte del televisore, del club giovanile o del pub .
Con la nostra nozione di robot (il simbolo della macchina reattiva che raccoglie molti servizi in un apparecchio), iniziamo a giocare con l’idea che l’ambiente potrebbe essere condizionato non solo dall’assem-
blaggio del set, ma da infinite variabili determinate dal tuo desiderio , e il robot riappare nella città istantanea.
Ancora una volta dobbiamo riflettere sulla psicologia di un paese come l’Inghilterra, dove c’è un contesto storico che suggerisce che un vasto sconvolgimento sia improbabile.
I componenti installati sulle Instant City sono: sistemi di visualizzazione audiovisiva, televisione a proiezione, unità rimorchiate, strutture pneumatiche e leggere e strutture per l’intrattenimento, mostre e luci elettriche. Teoricamente coinvolge anche le nozioni di dispersione urbana e di territorio tra intrattenimento e apprendimento.Instant City potrebbe diventare una realtà pratica poiché in ogni fase si basa su tecniche esistenti e sulla loro applicazione alla realtà.
Il programma prevedeva la raccolta di informazioni su un itinerario delle comunità e sui servizi disponibili (club, radio locali, università, ecc.). In modo che il pacchetto “Città” fosse sempre complementare piuttosto che estraneo. La prima fase consisteva nel trasportate l’intrattnimento, le città volanti erano utilizzabili con la maggior parte delle condizioni atmosferiche e con un programma completo. Questi sono stati applicati a località in Inghilterra e nell’area di Los Angeles in California. Successivamente, Cook si interessò alla versatilità del dirigibile, arrivando a proporre questo come un altro mezzo di trasporto dell’assemblea Instant City.
Illustrazione del progetto Instant City, mostra come il dirigibile che trasportà con sé l’evento nelle città di periferia.
Il concept di Instant City è un kit di parti trasportabile che può essere assemblato rapidamente per fornire agli abitanti dei piccoli paesi l’accesso alle risorse e alle attrazioni culturali di una grande metropoli. Cook afferma “Prende l’essenza culturale di una città metropolitana e la porta in giro come un circo, in modo che una piccola città o un villaggio possa diventare una specie di città per una settimana “.
Instant City è anche uno dei primi esempi di architettura di rete, venticinque anni prima della nascita di Internet: rete, flusso e vettore di informazioni, che riunisce frammenti urbani dispersi. È uno scenario che, una volta messo in moto, verrà riscritto da tutti gli abitanti che lo daranno vita. Pertanto, Instant City non ha una forma fissa, né vincoli precedenti. È un esempio di qualcosa di impossibile da rappresentare, una città che non ha esistenza in quanto tale e che è solo un incidente nel tempo e nello spazio. Nella dialettica tra permanente e transitorio, mobile ed effimero, Instant City incarna la visione utopica dell’architettura liberata dalle sue fondamenta, di una città volante e aerea, che trasforma l’architettura in una situazione, in un ambiente reattivo. L’architettura appare sia come oggetto di consumo sia come creazione di un ambiente artificiale.
Il progetto Instant City reagisce a questo con l’idea di una “metropoli itinerante”, un pacchetto che arriva a una comunità, dandole un assaggio della dinamica metropolitana. Il lavoro del gruppo si opponeva all’etica funzionalista del periodo; Archigram ha progettato alternative nomadi ai modi di vivere tradizionali, comprese le case modulari e le città ambulanti: un’architettura mobile, flessibile e non permanente ma che fosse in grado di evolversi e mutare con il tempo.
Plug-in City: dinamismo e modularità delle megastrutture abitative
Plug-in City è una delle tante creazioni vaste e visionarie prodotte negli anni ‘60 dal gruppo di architettura britannico collaborativo radicale Archigram, di cui Cook era un membro fondatore. Questo progetto provocatorio suggerisce un’ipotetica città di fantasia, contenente unità residenziali modulari che si “collegano” a una mega macchina infrastrutturale centrale. La Plug-in City infatti non è una città, ma una “megastruttura” che ingloba residenze, vie di accesso e servizi essenziali per gli abitanti, è stata pensata per favorire il cambiamento attraverso l’obsolescenza: ogni affioramento di edificio è rimovibile e una “gru” permanente facilita la continua ricostruzione. Le preoccupazioni del modernismo erano al centro dell’impulso teorico di Plug-In City, che non limitato al concetto di vita collettiva, integrazione dei trasporti e sistemazione del rapido cambiamento nell’ambiente urbano. Nel suo libro Archigram: Architecture without Architecture, Simon Sadler suggerisce che l’estetica dell’incompletezza, evidente in tutto lo schema Plug-In e più marcata rispetto ai precedenti progetti megastrutturali.
L’insoddisfazione per questo status quo spinse il collettivo di architetti sperimentali a sognare scenari urbani alternativi che guardassero oltre al formalismo superficiale e alle tendenze suburbane ottuse comuni al modernismo britannico dell’epoca. The Plug-In City, insieme ad altri progetti come The Walking City o The Instant City, ha suggerito uno stile di vita nomade e, cosa più importante, una liberazione dalla risposta modernista dei sobborghi.
Qesto progetto vedeva come obbiettivo quello di creare una megastruttura urbana, così chiamata perché incorpora non solo residenze ma anche vie di accesso e servizi essenziali per i suoi abitanti in un’unica e complessa costruzione. Aveva lo scopo di incoraggiare il cambiamento sradicando l’obsolescenza: ogni affioramento di edifici (case, uffici, supermercati, hotel) aveva la possibilità di essere rimosso e grazie all’utilzzo di una gru si sarebbe facilitata la ricostruzione e l’aggiornamento continui.
Plug-in City propone un approfondimento tecnologico e tipologico. Studia dettagliatamente il concetto di prefabbricazione totale dei componenti abitativi. Le cellule edilizie previste sono, infatti, al pari delle automobili e di altri componenti meccanici, realizzate con materiali plastici e ferrosi e assemblate altrove. Con il risultato, di migliorare enormemente le prestazioni dell’oggetto edilizio che esce così dall’arretratezza e dal pressappochismo del processo costruttivo tradizionale.
Capsula abitativa di Plug-in City, disegno presentato nel terzo numero di Archigram Magazine.
Plug-in City è una delle tante vaste e visionarie creazioni prodotte negli anni ‘60 dal gruppo di architettura radicale britannico Archigram. una “megastruttura” che incorpora residenze, vie di accesso e servizi essenziali per gli abitanti, è stata pensata per favorire il cambiamento attraverso l’obsolescenza: ogni edificio è rimovibile e una “gru” permanente facilita la continua ricostruzione. Permette, inoltre, di prefigurare il funzionamento di una città i cui componenti possano essere facilmente sostituiti nel tempo. Se, in Plug-in City, infatti, le cellule edilizie stanno alla città come le spine elettriche stanno all’alimentazione di rete, è possibile pensare a una loro semplice e indolore sostituzione: la casa, come una lampadina, un televisore o un tostapane, potrà essere sostituita a scadenze periodiche, con una diversa e tecnologicamente più avanzata. Plug-in City , infine, evidenziando e approfondendo l’ analogia formale tra un sistema elettrico e la città, focalizza l’attenzione del progettista sui flussi di informazioni, di immagini, di prodotti che la metropoli, deve continuamente gestire e processare. Radicale e totalizzante, Plug-in City è un progetto utopico.
Ma, almeno in parte e nelle sue linee principali, è sicuramente realizzabile. Il progetto Capsule di Warren Chalk (1964), un grattacielo composto da una struttura centrale di servizio sulla quale si agganciano a secco diversi modelli di capsule abitative, dimostra che è possibile, e , effettivamente, alcuni prototipi, come vedremo in seguito, saranno realizzati sul finire degli anni sessanta, pensare a un nuovo modo di costruire, organizzato per componenti prodotti in fabbrica e assemblati in loco, molto più intelligente e produttivo di quello artigianale e scultoreo insegnato nelle scuole di architettura. I piani di Cook per questo spazio urbano teorico erano incentrati su enormi unità modulari che si collegavano letteralmente a una macchina centrale. Questa megamacchina alimentava le torri coniche e collegava i servizi tra loro con gigantesche gru. Ogni torre conteneva residenze, trasporti e tutti gli altri servizi necessari per la vita moderna. Ogni pezzo è trasportabile, rendendolo un ambiente urbano vivo, in crescita e in continua evoluzione.
Il design di Cook rifletteva le preoccupazioni dell’architettura per l’ambiente urbano in rapida evoluzione nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Cook ha abbracciato il cambiamento. Il suo progetto urbano doveva sembrare per sempre incompiuto, in costante crescita ma anche integrare tutti gli aspetti della vita insieme all’interno dell’ambiente costruito. La vita, i trasporti, il lavoro e l’intrattenimento erano tutti accessibili tramite torri plug-in e gru di trasporto che modulavano la città in base alle sue esigenze in continua evoluzione.
Plug-in City è stata una delle tante creazioni vaste e visionarie che Archigram ha prodotto negli anni ‘60. Tra il 1960 e il 1974, il gruppo pubblicò nove numeri provocatori della sua rivista omonima e creò più di novecento disegni esuberanti, illustrando progetti immaginari ispirati variamente dagli sviluppi tecnologici, dalla controcultura, dai viaggi nello spazio e dalla fantascienza.
A sinistra e nella pagina a destra immagini tratte dal libro di Bublex Alain “Plug-in City” edito da Blaffer Gallery che si ispira all’archtettura pensate da Peter Cook negli anni 60. Mostrano il complesso di edifici e torri caratteristici della città utopistica mai realizzata, illustrando con immagini verosimili ambientate anche il sistema di trasporto delle capsule abitative e del loro alloggiamento all’interno degli enormi edifici modulari.
Alain Bublex con l’aiuto di gru ed elicotteri reinterpreta a suo modo la Plug-in City di Peter Cook. Attraverso l’utilizzo di immagini realizzate al computer, Alain Bublex illustra il progetto, concepito in modo da risolvere la crisi abitativa. La sua serie mostra città ultramoderne, un gigantesco quadro urbano su cui si innestano le “Unità mobili di abitazione”.
Il sogno imprenditoriale e sociale di Adriano Olivetti: la fabbrica comunitaria e la città ideale.
Adriano Olivetti, nato ad Ivrea nel 1901, eredita la vocazione per il mondo dell’industria dal padre Camillo, un eclettico ingegnere che nel 1908 aveva fondato in città la prima fabbrica italiana per macchine da scrivere. Laureato in chimica industriale al Politecnico di Torino, nel 1924 inizia l`apprendistato nell`azienda paterna come operaio. L`anno seguente, in un viaggio negli Stati Uniti, visita decine di fabbriche all’avanguardia riguardo la concezione e il rapporto con i dipendenti. Tornato in Italia, si dedica alla modernizzazione della Olivetti con una serie di progetti incentrati su una più accurata gestione dei dipendenti, da lui considerati come risorse innanzitutto umane, prima ancora che produttive. Muore il 27 febbraio 1960, nel pieno di una vita ancora vulcanica e intensa.
Perché, a quasi sessant’anni dalla sua morte, trova spazio la figura di Adriano Olivetti all’interno di un discorso legato al futuro della società contemporanea? La risposta risiede in una realtà imprenditoriale che ha realizzato solo parzialmente il progetto, a tratti utopico, ma sicuramente visionario, di Adriano Olivetti nelle sue molteplici potenzialità. Obiettivi, quelli dell’imprenditore eporediese, che tutt’oggi le realtà industriali si trovano a porsi per il futuro.
Olivetti, oltre ad essere manager innovatore, era un intellettuale che guardava ben oltre la sua epoca. Aveva compreso che il mondo del lavoro dovesse essere guardato in un contesto più organico. Aveva capito che la qualità del lavoro aveva una grande influenza in quello che la comunità scientifica identifica oggi nel più ampio concetto di qualità della vita. Olivetti è stato non solo un imprenditore, ma anche un uomo visionario che si dichiarò favorevole all’assegnazione dei ruoli di potere alle persone più capaci della Comunità, nonostante egli avesse ereditato la direzione dell’azienda dal padre, quindi per successione.
Olivetti ha affidato a poeti, scrittori e critici letterari compiti fondamentali quali il reclutamento del personale e campagne pubblicitarie, in un’ottica multidisciplinare innovativa per l’epoca. Un uomo, Olivetti, che già nel primo dopoguerra aveva compreso la decadenza dei partiti
Uno dei più importanti e iconici negozi di Olivetti, realizzato nel 1954 e ubicato al numero 584 di Fifth avenue per opera degli architetti Esnesto Rogers, Enrico Peressutti e Lodovico Barbiano di Belgiojoso dello studio milanese BBPR. Decorato dallo scultore e artista sardo Costantino Nivola, l’edificio, sviluppato su due piani, è famoso per la sua innovativa vetrina e il suo rivoluzionario modo di testare i prodotti di Olivetti al suo interno, qualcosa di completamente nuovo per l’epoca. politici, la loro deriva autoreferenziale volta alla conservazione del potere acquisito, venendo meno al ruolo di rappresentanza affidato loro dagli elettori. Olivetti, socialista, nonostante il problema della politica aveva cercato di far approdare in Parlamento la sua idea di Comunità.
Adriano Olivetti era una persona con una mente aperta, pronta ad accogliere e rielaborare anche idee diverse dalle sue, fino a farle proprie. Fuori dal comune per il suo sguardo a 360 gradi, non mono-settoriale. L’idea di una comunità concreta nasce in Olivetti dalla conformazione geofisica del Canavese, quel pugno di comuni all’ingresso della Valle d’Aosta, una realtà da lui realmente vissuta.
Questa idea di Comunità è l’esatto l’opposto di sradicamento: la fabbrica, facendosi parte viva e pulsante della Comunità, scongiura l’alienazione e la sofferenza degli operai diventando il mezzo di espressione della stessa Comunità. La cultura è l’arma della crescita: Olivetti, nel 1959, dirà: «Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere». La fabbrica ha un ruolo fondamentale, non alienante, ma di promozione umana e culturale. Nella Comunità olivettiana non domina la politica pura, l’accumulazione fine a se stesso. L’idea di Comunità Olivettiana era venuta maturando dall’esperienza concreta della fabbrica. Lo dice lui stesso “Prima di essere una istituzione teorica, la Comunità fu vita”.
L’esperienza della fabbrica comunitaria, da lui teorizzata e messa in pratica, ha un fortissimo il legame con il territorio: gli operai di Olivetti
rimangono contadini e questo faceva una fondamentale differenza con realtà industriali relativamente vicine come la FIAT di Torino. Olivetti è un manager, un uomo d’azione, non solo di pensiero. La sua esaltazione della creatività era la rampa di lancio verso una visione umanistica del ruolo del mondo del lavoro. Oggi andrebbero rivisti i ritmi, i rapporti, i luoghi, le gerarchie affinchè la condizione di chi lavora non sembrasse estranea dalla promozione umana. Nel mondo contemporaneo, è difficile ottenere un lavoro, ma soprattutto di mantenerlo e così cresce quel senso di alienazione, di sradicamento. E una soluzione possibile per evitare questo senso di frustrazione sul posto di laborò la si può trovare proprio nelle idee del visionario, e forse non del tutto compreso, imprenditore italiano Adriano Olivetti.
Ivrea, città inserita nella “World Heritage List” dell’ UNESCO per la moderna visione della relazione tra industria e architettura sviluppatasi tra gli anni 30 e 60 del secolo scorso. La città comprendeva anche le unità abitative degli operai, ma anche luoghi di aggregazione sociale extra lavorativi.
Situata sulla sommità della collina che caratterizza l’area, si trova la Residenziale Ovest, la cui progettazione è affidata nel 1968 a Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola. L’Unità Residenziale Ovest, meglio nota agli abitanti e ai visitatori di Ivrea con il nome di “Talponia”, doveva ospitare i dipendenti Olivetti residenti a Ivrea.
Apple: l’eredità di Olivetti nella filosofia aziendale del colosso di Cupertino
Tra Adriano Olivetti e Steve Jobs corre quasi mezzo secolo, ma la mentalità imprenditoriale di Apple deve molto a quella Olivetti. Tuttavia il parallelismo non è esente da alcune importanti differenze tra le due realtà: Olivetti è un’impresa di stampo fordista, conforme al Taylorismo, ossia la fabbrica meccanica nella sua accezione più classica, ma ammorbidita dal modello sociale e politico dell’utopia adrianea. Gli operai di Olivetti vengono considerati nella loro condizione interiore di individui, tanto membri della fabbrica quanto della comunità.
Negli anni Cinquanta, la Olivetti di Adriano è un vero e proprio fulcro di innovazione. L’azienda è in grado di collegare senso senso estetico e usabilità e il negozio al 584 della Quinta Strada di New York ne è l’esempio. La Apple di Steve Jobs, che si realizza nella già sia affermata rivoluzione elettronica, è invece una impresa non fordista, al contrario di altre realtà affini tra cui la rivale IBM. Fondata nel 1976 a Cupertino, in California, Apple ha i tratti del capitalismo californiano di quel periodo storico caratterizzato dalla sottostante base della ricerca pubblica e militare e dal rapporto diretto con gli investitori. Il senso dell’estetica si può quindi considerare l’elemento comune tra i due visionari capaci di prendere un loro prodotto, o un loro negozio, e renderlo quasi comparabile ad una opera d’arte (Olivetti) facendolo diventare il simbolo del consumismo nella nostra società capitalista (Apple). Adriano Olivetti era profondamente convinto che lo sviluppo industriale potesse andare in armonia con l’affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, sia dentro che fuori dal contesto fabbrica. Difficile, dopo Adriano Olivetti, “think different” come propone lo slogan di Apple. Il design di quest’ultima è l’incarnazione meglio riuscita di quelle intuizioni.
Nessuno poteva sapere che Adriano Olivetti, quando chiede agli architetti Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Rogers di progettare un negozio al numero 584 della Fifth Avenue di New York, avrebbe gettato le basi per l’Apple Store più bello di sempre. Come siamo passati dal Negozio Olivetti all’Apple Store? Tutto iniza dal modo di intendere lo “Store”. Deve essere un luogo in grado di comunicare non solo l’eccellenza tecnologica e la funzionalità del prodotto, ma anche la bellezza e la cultura in tutte le sue dimensioni. Ciò definisce uno stile unico e un rigore formale desiderabile, da acquistare e stringere tra le mani. Nel 1954 la rivista Domus scrive che il negozio Olivetti «è una invenzione, è pieno di inediti
Vista interna dell’Apple Store di Fifth Avenue, un punto vendita Apple sotteranneo, situato a New York, caratterizzato da una grande fonte luminosa data dal foro centrare da cui, attraverso una scala a chiocciola, da cui si accede e si esce. Sono presenti, inoltre, altri piccoli fori per sfruttare a pieno la luce del giorno come illuminazione principale ed è caratterizzato da lunghi banconi per provare i prodotti Apple. Realizzato nella stesso luogo di uno dei negozi storici di Olivetti. Innaugurata nel 2019, progettata da Foster and Partners.
Steve Jobs Theater, inaugurato il 12 settembre 2017 con la presentazione di alcuni nuovi prodotti e costato 14 milioni di dollari, è un auditorium situato nell’Apple Park di Cupertino di proprietà di Apple, dedicato al cofondatore dell’azienda. È stato disegnato dallo studio Foster + Partners. e si colloca nel punto più alto del campus. Alla base di questa scelta c’era la volontà simbolica di indicare che Steve Jobs guardasse tutta Apple dall’alto. e di valori poetici». Novità è un piedistallo di marmo verde, al centro della vetrina, sulla cui sommità poggia una Lettera 22. I passanti la ammirano, come fosse un pezzo d’arte, ma anche la provano, la usano per scriverci un messaggio da lasciare lì o da portare a casa. L’emozione suscitata è la stessa che possiamo provare oggi, quando andiamo in un Apple Store, scriviamo una nota su un iPad a disposizione del pubblico, la lasciamo lì o ce la inviamo con AirDrop (un bluetooth fra dispositivi Apple) sul nostro dispositivo. Tornando all’estetica, ciò che più accomuna Adriano Olivetti e Steve Jobs, il primo capisce in anticipo che non basta fare un buon prodotto, deve essere anche bello. È importante che sia offerto al cliente in un bel negozio, che con le sue forme e architetture sappia stupire. L’umanità di Adriano Olivetti si vede nell’attenzione che ha per i suoi lavoratori: psicologi disponibili sul luogo di lavoro, fabbriche trasparenti immerse nel verde e attività culturali offerte per ridistribuire bellezza a tutti i livelli aziendali. Questi valori, causa del successo Olivettiano, vengono ripresi in Apple, non solo negli store, ma anche all’interno della stessa azienda e l’Apple Park, ormai fulcro della vita dei dipendenti Apple e sede di tutti i suoi eventi: il perfetto esempio della realizzazione degli ideali dell’imprenditore italiano. Adriano Olivetti e Steve Jobs rimangono ancora oggi due enigmi senza tempo in grado, con le loro idee, di incendiare l’immaginazione.
Apple Park, inaugurato nel 2017, situato a Cupertino, California, realizzato da Foster and Partners
Di fronte a un problema, le soluzioni possibili sono infinite. L’equilibrio progettuale risiede nel tipo di risposta voluta. Spesso si ricerca l’ipotesi migliore, ma talvolta è richiesta la soluzione ideale.