Costruire l’abitare contemporaneo. Nuovi temi e metodi del progetto

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COSTRUIRE L’ABITARE CONTEMPORANEO Nuovi temi e metodi del progetto a cura di Gioconda Cafiero, Nicola Flora, Paolo Giardiello

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Costruire l’abitare contemporaneo. Nuovi temi e metodi del progetto contemporaneo Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni (Napoli, Centro Congressi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Dipartimento di Architettura, 17-18 gennaio 2020) a cura di Gioconda Cafiero, Nicola Flora, Paolo Giardiello Comitato scientifico Gioconda Cafiero, Clara Fiorillo, Nicola Flora, Paolo Giardiello, Università degli Studi di Napoli Federico II Andrea Grimaldi, Filippo Lambertucci, Sapienza Università di Roma Giovanni Durbiano, Marco Vaudetti, Politecnico di Torino Luca Basso Peressut, Giampiero Bosoni, Imma Forino, Gennaro Postiglione, Politecnico di Milano Aldo Aymonino, Alberto Bassi, Università Iuav di Venezia Coordinamento scientifico e organizzazione Viviana Saitto, Università degli Studi di Napoli Federico II Il Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni e il presente volume sono stati realizzati con il sostegno di:

RETTORATO UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

COOPERATIVA SOCIALE LA PARANZA, NAPOLI

referenze fotografiche Le immagini che accompagnano i testi sono fornite dagli autori e vengono pubblicate a solo scopo di studio e documentazione immagine di copertina Adriano Cornoldi, progetto Torretta per Sandra, 1992, Istria-Croazia (su gentile concessione di Alessandra Chinaglia Cornoldi) progetto grafico Il Poligrafo casa editrice redazione: Sara Pierobon copyright © gennaio 2020 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova via Cassan, 34 (piazza Eremitani) tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-9387-113-6


Indice

13

Premessa Gioconda Cafiero, Nicola Flora, Paolo Giardiello

INTRODUZIONI 16

Il Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni Gaetano Manfredi

17

Nota introduttiva al Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni Michelangelo Russo

19

Il ruolo della società scientifica nella “costruzione dell’abitare contemporaneo” Giovanni Durbiano

21

Il valore degli interni nella storia Leonardo Di Mauro

COSTRUIRE L’ABITARE CONTEMPORANEO 24

Le ragioni di un Convegno Luca Basso Peressut

29 Interior: Sources and Sinks Iñaki Ábalos, Renata Sentkiewicz 33

Fili incandescenti di una narrazione architettonica Imma Forino

CONTINUITÀ: RICORDO DI ADRIANO CORNOLDI 38

Adriano Cornoldi: ritratto di un umanista gentile Edoardo Narne

43

La ricerca militante Gennaro Postiglione

LA DIDATTICA E LA RICERCA DEL PROGETTO DI INTERNI IN ITALIA 48

La didattica del progetto di interni in Italia Paolo Giardiello

51

Per una breve storia dei Dottorati d’Interni italiani Andrea Grimaldi


Dal Primo al Terzo Convegno Nazionale. Traiettorie della disciplina Filippo Lambertucci

I NUOVI TEMI E METODI DEL PROGETTO

54

Ri-forme disciplinari. Riflessioni a latere delle sezioni del Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni Viviana Saitto

TEMI

58

62

Temi Giacomo Borella

Temi del progetto come offerta di tracce possibili per un futuro di bellezza condivisa Nicola Flora

1. Scenari dell’abitare nel XXI secolo

65

70 75 80

Abitare nell’età della globalizzazione. Luoghi e spazi dell’architettura oltre l’opposizione locale/globale Francesco Casalbordino Abitare contemporaneo / abitare precario Marta Elisa Cecchi Il progetto dell’interno architettonico tra spazialità ed esperienza umana nell’era digitale Giovanna Ester Chiariello

85

Dopo gli anni zero. L’architettura degli interni in Italia dopo il Duemila Davide Fabio Colaci

89

La casa totale / nuova utopia Anna Rita Emili

94

Una casa senza pareti. Visioni dal mondo del design del XXI secolo Serena Del Puglia

Habitat postumani. Spazi e oggetti per nuove alleanze Jacopo Leveratto

103

Narrative possibili per l’abitare nell’era digitale Massimo Perriccioli, Valeria Melappioni

108

Domesticità invasa e domesticità invasiva Pierluigi Salvadeo

2. Frontiere dell’Housing

114

Ri-abitare il costruito: una strategia integrata per Alton West Paola Ascione, Aniello Mauro Borriello, Marella Santangelo

118

Nuovi edifici residenziali multi-unit in Toronto: tecnologie e spazi per l’abitare contemporaneo Mariangela Bellomo

99


122

Tradimento o salvezza? La riqualificazione delle icone dell’housing sociale nel nuovo millennio Cristina F. Colombo

127

Dallo spazio domestico allo spazio urbano. Il recupero dell’edilizia residenziale pubblica Paola Guarini

3. Paradigmi dell’abitare 134

Gruppo di famiglia in un interno. Architettura, fenomenologia e cosmopolitismo nell’opera di Cini Boeri Giovanni Carli

139

L’altro architetto dei Cassina. Colin Glennie a casa di Adele Silvia Cattiodoro

144

Mango e Alison: le premesse di un “abitare contemporaneo” nella relazione tra Disegno industriale e Architettura degli Interni nell’esperienza storica della Facoltà di Architettura di Napoli Vincenzo Cristallo, Alfonso Morone

149

La casa Russia, ovvero rivoluzione dell’abitare Federica Deo

154

Un nuovo modo di abitare per un nuovo modo di costruire. La proposta inedita dell’Abitacolo di Luigi Cosenza Raffaele Di Vaio

158

Stanze di vita quotidiana Gianluigi Freda

162

Abitare: lo spazio della consuetudine Francesca Iarrusso

166

Architettura e Abitare Giorgia Pelliccioni

171

Re_thinking modernity. Verso una utilitas contemporanea Paola Scala

176

L’oggetto non autoriale nell’abitare contemporaneo Antonio Stefanelli

4. Oltre il margine architettonico 182

Internità e paesaggio. Una riflessione attraverso il lavoro dello studio catalano RCR Arquitectes Lavinia Maria Dondi

187

La città dentro. Teatralità urbana e montaggio dell’interno architettonico Patrizio M. Martinelli

192

Per una capillare reinterpretazione del modello Domitio Ciro Priore, Martina Russo

197 Dove abita l’orizzonte. Una questione di architettura degli interni. L’orizzonte abita insieme a noi. I luoghi dello stare tra piccola e grande misura Michele Ugolini


5. Elementi dello spazio abitativo

204

Guardare attraverso. La finestra come esperienza di architettura per l’abitare contemporaneo Alessandra Carlini

209

Dal comfort al piacere. Quando le case non servono più ad abitare Marco Ferrari

213

Residential White Cubes and Performative Interiors Ayman Kassem

217

Fodere cromatiche. Il colore degli involucri contemporanei abitati Maria Pia Ponti

222

Selve domestiche Sissi Cesira Roselli

226

Elementi architettonici per l’abitazione flessibile: la piattaforma, la custodia, l’intercapedine, il blocco servizi Massimo Zammerini

6. Alternative dell’abitare

232

R-esistenza minima. Progettare una quotidianità dietro le sbarre Antonella Barbato

236

Questa casa (non) è un albergo Elena Elgani, Francesco Scullica

240

Interni per la produzione 4.0 Elena Elgani, Michele Ottomanelli, Silvia Piardi, Francesco Scullica

244

Una vita da intellettuale. Abitare in un Collegio, in un Hotel e in una Comune Marson Korbi

249

Il tessuto del campus. Gli spazi in between negli edifici universitari Edoardo Marchese

METODI

254

Reloading contemporary dwelling. Il progetto dell’abitare alla prova delle pratiche Massimo Bricocoli, Gennaro Postiglione, Stefania Sabatinelli

259

Interni e Metodi: una relazione caratterizzante Gioconda Cafiero

1. Spazi dell’abitare: esperienza, percezione, costruzione, narrazione

264

Sense/time_based design e nuovi paradigmi dell’abitare Anna Barbara

269

Relazioni da abitare Marco Borrelli


273

Il progetto dello spazio come progetto di dettaglio Andrea Grimaldi

278 Pratiche di interiorizzazione urbana. Il progetto complesso della città abitabile Jacopo Leveratto 282 Una questione storiografica (e didattica) Giovanni Menna 286 Sinergie Roberto Rizzi 290 Architettura degli interni e on demand. Form follows feeling Alessandro Valenti 2. Comunicare, costruire, accogliere 296 Muovendo dall’interno. Il lavoro dell’architettura: contenendo, esporre Annalisa de Curtis, Enrico Miglietta 301 Dall’aula alla città: una sperimentazione didattica sul tema dell’abitare nel progetto di una scuola dell’infanzia Bruna Di Palma, Bruna Sigillo 306 Un’architettura senza arché: ripensare il significato di abitazione attraverso Heidegger, Agamben e l’abitazione dello spazio pubblico Fabrizio Gesuelli 312 Spazio Sensazionale. Il progetto degli allestimenti come strumento critico-sperimentale delle tecnologie mediatiche Chiara Lecce 317 Aula integral: un hábitat escolar contemporáneo Alfredo Peláez Iglesias 322 Abitare la storia. Spazio e narrazione nel progetto sull’archeologia Irene Romano 327 Spazi dell’(iper)sensibile Giuseppina Scavuzzo 3. Processi partecipativi e pratiche dell’ascolto 332 Dal “vuoto a perdere” al “vuoto a prendere”. L’architettura degli interni come innesco per la riprogettazione multiscalare e compartecipata di sistemi architettonici sottoutilizzati o dismessi Marco Borsotti 337 Gratosoglio Ground Zero: persone, luoghi, pratiche Paola Briata, Gennaro Postiglione 342 Abitare i Quartieri Spagnoli. Un percorso metodologico integrato per una sperimentazione didattica Maria Cerreta, Orfina Fatigato 347 Post-War Social Housing in Flanders: Inventorying & Research by Design Marie Moors


352

Verso una nuova ecologia dell’abitare. Un’utopia possibile: ri-abitare il moderno Maria Luna Nobile

357

Vita di Condominio, ovvero come ri-abitare i condomini italiani del secondo dopoguerra Lola Ottolini, Laura Daglio

361

Metropoli come spazio ibrido: pratiche dell’abitare contemporaneo Micol Rispoli

366

Sguardi indiscreti sull’abitare contemporaneo: la narrazione audiovisiva come interprete di “frizioni” progettuali Raffaela Trocchianesi

4. Strumenti del progetto contemporaneo

372

Soft home. Il ritorno del tessuto negli interni, tra analogico e digitale Laura Arrighi

376

Con altri occhi Marta Averna

380

La didattica di terzo livello: insegnare nel Master, dal concept al costruito Simona Canepa

384

La vivienda útil. Los límites del uso. Metodología aplicada al diseño de la vivienda José del Carmen Palacios Aguilar

389

Spazio adattivo e pensiero computazionale Grazia Pota

394

Le case, le cose. Il ruolo degli oggetti nel “progetto dell’abitare” Chiara Rotondi

398

La trasmissione di valore attraverso il progetto, come antidoto al consumo Valeria Sansoni

403

L’«Almanacco» degli Interni Stefania Varvaro

APPENDICE

410

Rapporto sugli insegnamenti di Architettura degli Interni delle Università italiane a cura di Filippo Lambertucci con Roberto Rizzi


COSTRUIRE L’ABITARE CONTEMPORANEO Nuovi temi e metodi del progetto



Premessa Gioconda Cafiero, Nicola Flora, Paolo Giardiello

La consuetudine del Convegno Nazionale degli Interni, con cadenza biennale, dopo la prima e la seconda edizione del 2005 e del 2007 tenute a Venezia, si interrompe con la scomparsa, nel 2009, di Adriano Cornoldi, artefice e primo ispiratore di quegli eventi. Dieci anni dopo, noi della allora generazione dei “giovani” che diedero vita ai comitati organizzatori dei primi due convegni, giunti al ruolo di docenti di tale disciplina, riprendiamo il testimone lasciato da docenti con cui ci siamo formati – Filippo Alison, Adriano Cornoldi, Gianni Ottolini, Giancarlo Rosa, Agostino Bossi, Arrigo Rudi, Gianni Accasto, solo per citarne alcuni – e riproponiamo, insieme a Luca Basso Peressut e Marco Vaudetti, la tradizione di un incontro in cui discutere e confrontarsi sulle materie oggetto del nostro insegnamento e sulle ricerche ad esse connesse. Il Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni, pertanto, non poteva che essere dedicato, nel decennale della scomparsa, ad Adriano Cornoldi, per molti di noi non solo un riferimento scientifico e culturale, ma anche un amico, una guida per intraprendere il cammino nella ricerca disciplinare; riproporre tale tradizione, dopo quindici anni dal primo evento, vuole essere anche un omaggio a quella generazione di docenti che, con il loro impegno costante, ha contribuito a definire i contenuti della disciplina degli Interni, l’ha saputa promuovere con convinzione e dedizione e l’ha lasciata nelle mani di chi da loro è stato attentamente formato, anche all’interno delle attività del dottorato di ricerca in Interni, dove si è elaborato, discusso e attualizzato lo statuto di teorie, conoscenze e metodi del settore. Con la stessa modalità dei primi due convegni di Venezia, questo terzo non è frutto solo del lavoro del gruppo di docenti ICAR 16 della sede napoletana ma di una proficua collaborazione tra i membri del nuovo comitato scientifico che vede l’Università degli Studi di Napoli Federico II, il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, la Sapienza Università di Roma, l’Università Iuav di Venezia uniti nel comune intento di incentivare il dibattito intorno alle discipline degli Interni. Un dibattito non esclusivo o interno al corpo docente del settore disciplinare ICAR 16, ad oggi composto da soli 33 docenti e ricercatori strutturati in Italia, oltre che da dottori di ricerca e studiosi della materia, ma che intende coinvolgere tutte quelle discipline che concorrono alla formazione di una figura intellettuale e professionale capace di promuovere il progetto – di architettura, di design – comunque destinato alla costruzione, definizione e significazione dei luoghi che l’uomo abiterà. Pertanto il convegno è aperto a tutti i protagonisti delle materie che concorrono a «costruire l’abitare contemporaneo», come recita il titolo dell’evento napoletano, e vede il patrocinio dell’Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia oltre che di ProArch, Società scientifica nazionale dei docenti di Progettazione architettonica, SSD ICAR 14, 15 e 16; in perfetta analogia con quanto scriveva Adriano Cornoldi in apertura del catalogo del primo convegno veneziano del 2005: [...] un convegno in tal senso appare l’iniziativa più naturale ed efficace, non tanto per documentare singoli interessi quanto per discutere e offrire risposte difronte a rilevanti problemi reali, dando visibilità alla presenza di questo settore disciplinare nel dibattito universitario e culturale. Si tratta di verificare il ruolo del progetto dell’interno architettonico come fonte di sviluppo del progetto di architettura tout court, scambiando esperienze di ricerca e didattiche in parte isolate, formulando proposte significative per alimentare la crescita della disciplina.

Premessa 13


La presenza dell’architetto Iñaki Ábalos vuole sottolineare, a vent’anni dalla prima edizione del suo libro La buena vida in cui descrive nuovi modelli archetipi dell’abitare, l’importanza di sistemi di valori culturali capaci di dare forma materiale a stili di vita e di interpretare bisogni e aspirazioni umane. Con la tavola rotonda “Esperienze didattiche a confronto, prospettive e obiettivi”, suddivisa in due momenti, “Il progetto della didattica” e “La didattica del progetto”, auspichiamo si possa tornare a parlare in termini costruttivi di formazione e di progetti culturali in cui le discipline dell’architettura e del design possano condividere strategie e obiettivi per rinnovare percorsi di studio non più attenti alle sollecitazioni dei cambiamenti in atto nella società odierna. Il presente libro raccoglie, unitamente agli interventi dei membri del comitato scientifico, i contributi degli ospiti invitati, quali Iñaki Ábalos, Edoardo Narne, Giacomo Borella e Massimo Bricocoli, oltre ai testi ricevuti, a seguito di call for paper, da autori italiani e stranieri che, in risposta alla richiesta di approfondimento dei “Temi e metodi del progetto”, hanno offerto uno spaccato attuale e profondo sui nuovi ambiti operativi del progetto di interni e sugli approcci metodologici rinnovati in relazione alle nuove tecnologie, abitudini e comportamenti. Esso si configura quindi come uno strumento utile per capire cosa sia accaduto alla disciplina degli Interni nel lasso di tempo intercorso dall’ultimo convegno del 2007 ad oggi e soprattutto come le materie accademiche del settore disciplinare possano contribuire alla formazione di un architetto o di un designer capace di operare nell’attualità con coerenza e consapevolezza al fine di soddisfare esigenze e aspettative degli uomini e delle donne nella contemporaneità.

14  Premessa


INTRODUZIONI


Il Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni Gaetano Manfredi

Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

È davvero motivo di orgoglio per il nostro ateneo ospitare il Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni, che si tiene presso il nostro Dipartimento di Architettura e vede la partecipazione di numerosi ricercatori e professionisti. La collaborazione tra l’Università degli Studi di Napoli Federico II, la Sapienza Università di Roma, il Politecnico di Milano e l’Università Iuav di Venezia garantisce l’alta qualità del convegno che vuole riprendere una tradizione di grande valore, avviata presso lo Iuav nel 2005. La disciplina della progettazione architettonica riaccende con questo evento il dibattito su un tema di grande rilevanza per l’architettura. La progettazione degli interni è infatti, al pari di altri aspetti del mondo delle costruzioni in generale, capace di incidere sulla qualità della vita, sul comfort, sulla vicinanza al bello e sulla sua percezione. La progettazione degli interni influenza ed è influenzata dall’evoluzione sociale, del modo di vivere, dall’evoluzione del gusto e delle forme di relazione e comunicazione. Siamo quindi fieri come comunità fridericiana di contribuire, con la nostra ospitalità e con il grande lavoro di organizzazione dei colleghi del Dipartimento di Architettura, a riaccendere i riflettori su un tema così centrale della progettazione architettonica contemporanea. In un momento in cui si abbattono sempre più barriere e si elidono confini disciplinari, in cui si alimenta sempre più il dialogo tra le discipline tecniche e sociali e in cui l’evoluzione tecnologica offre alla progettazione nuove prospettive e opportunità. Riflettere quindi, in questo momento, con questo convegno, sul significato della progettazione degli interni e sulle opportunità da cogliere per l’avanzamento culturale di questa disciplina è sicuramente utile e opportuno. Il mio augurio di buon lavoro va quindi a tutti i partecipanti al convegno, con l’auspicio che possa arricchire tutti e animare quel fermento culturale ritrovato intorno a una disciplina di grande attualità, che merita oggi grande attenzione.

16  Introduzioni


Nota introduttiva al Terzo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni Michelangelo Russo

Direttore del Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Una riflessione strutturale sul futuro dell’architettura e sul suo ruolo nella società viene decisamente sollecitata dal tema e dalla forma di incontro disciplinare organizzato dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli Federico II in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza, il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino e l’Università Iuav di Venezia, a cui è dedicato questo volume. Un ruolo che cambia in relazione al profondo mutamento del tempo contemporaneo, che va innanzitutto interpretato per sintonizzarlo con un modello formativo capace di essere innovativo. Interpretare il mutamento e perseguire l’innovazione sono prospettive di lavoro che restituiscono senso al nostro “stare dentro all’università”. I temi chiamati in gioco dal titolo Costruire l’abitare contemporaneo rimandano immediatamente a questa dimensione di ricerca: libera, aperta e multidisciplinare, capace di oltrepassare gli angusti recinti dei settori disciplinari. Una ricerca che è possibile sviluppare senza cadere nell’omologazione, riconoscendo innanzitutto l’importanza e la centralità dei saperi, tra identità e differenze: lavorando su contenuti, provenienze e genealogie, esplorando il loro campo di azione e di competenza; aree fertili della ricerca e della conoscenza, dai confini osmotici, mai netti né invalicabili. Confini labili per saperi senza limiti: in grado cioè di orientare strategie cognitive, capaci di approfondimento disciplinare, ma soprattutto di intessere relazioni e collegamenti con altri saperi, in forma di alleanza possibile e di una collaborazione che ritengo indispensabile per la conoscenza e il trattamento dei problemi complessi, come è quello del costruire, dell’abitare nel contesto mutevole della società e della città contemporanea. Abitare il contemporaneo vuol dire lavorare su un nuovo concetto di benessere delle persone, dunque ragionare sulla città e sul suo spazio pubblico e di relazione, sui contesti e sui loro valori storici e culturali, sui paesaggi e sulla loro resilienza, sulla capacità adattiva di rispondere ai mutamenti: del clima, della tecnologia, della società, degli abiti sociali, di stili di vita sempre più labili e mutevoli. Cos’è il wellbeing come condizione per uno spazio abitabile? Come può andare oltre la nozione di benessere, feticcio dell’individualismo di cui siamo ostaggio in tempo di globalizzazione (Z. Bauman), che ci rende incapaci di guardare alla bellezza dell’incontro con il prossimo, delle opportunità del multiculturalismo, dell’ospitalità come valore comune e condiviso? Qual è la scala appropriata per costruirne le condizioni? A ben vedere, si tratta di un tema complesso e a molte dimensioni, che non può essere trattato se non con un approccio intersettoriale e multiscalare, facendo ricorso al sincretismo delle provenienze. Una questione che richiede una risposta mai univoca, a dimostrazione del fatto che il dialogo e l’interazione tra saperi e visioni del mondo, tra tecniche e approcci, riguarda la natura stessa del fare architettura per conoscere e progettare lo spazio di vita, dalla casa fino alla città. Abitare rimanda immediatamente alla dimensione minima, domestica, dello spazio vitale, come habitat costruito alla scala capace di dare forma ai bisogni elementari e primari dell’uomo. La costruzione dello spazio abitabile richiede un’estrema competenza su come cambiano i modi della vita individuale e associata: consumare, nutrirsi, comunicare, connettersi alle reti, utiliz-

Introduzioni 17


zare e produrre energia ecc.; azioni quotidiane che riguardano una dimensione estesa del vivere collettivo che pone in relazione casa ed ecosfera, nel contesto dello spazio planetario. Temi complessi, la cui conoscenza e il cui progetto non possono che avvenire attraverso un continuo dialogo tra linguaggi differenti, visioni del mondo polarizzate, competenze integrate. Una molteplicità che investe direttamente il ruolo dell’architetto, non più “creatore di forme” detentore di soluzioni top-down, ma piuttosto “interprete del cambiamento” a cui si chiede la capacità di dare forma a processi di decisione a più dimensioni, sensibile e attento all’ascolto e alla costruzione di soluzioni condivise. In questo ambito, l’architettura degli interni, la costruzione dello spazio più vicino alla vita, anche interiore, delle persone, risulta tanto più efficace quanto più sia in grado di affermare la propria specificità, la propria capacità di approfondimento, la costruzione di un linguaggio autonomo seppure aperto, lavorando essenzialmente in collaborazione con altre competenze. La collaborazione è la natura contemporanea di un’architettura capace di fuggire dal generico per lavorare “dentro le cose”, come modalità appropriata per dare risposta a problemi complessi. Il contesto più appropriato e pertinente per un simile livello di discussione – come dimostra questo convegno – è proprio quello del gruppo tematico e disciplinare, della società scientifica e accademica, che rappresentano il luogo di incontro e di confronto, di produzione di senso e di appartenenza culturale, di aggiornamento, di senso critico, guardando ben oltre gli steccati disciplinari. Un “luogo comune” nel senso di collettivo che – soprattutto se in forma plurale e inclusiva – diventa volano di produzione e di crescita del sapere disciplinare, misura della sua appropriatezza nei percorsi di formazione universitaria. Come la solida e ricca iniziativa promossa dai bravissimi colleghi di Architettura degli Interni del Dipartimento di Architettura di Napoli (Gioconda Cafiero, Clara Fiorillo, Nicola Flora, Paolo Giardiello), insieme ai colleghi di Roma, Torino, Milano e Venezia, ampiamente dimostra.

18  Introduzioni


Il ruolo della società scientifica nella “costruzione dell’abitare contemporaneo” Giovanni Durbiano Presidente ProArch

Cosa può fare una società scientifica rispetto all’ambizioso programma di “costruire l’abitare contemporaneo”? A dispetto del titolo del mio intervento, che mi è sembrato il più conveniente, o per lo meno il più atteso, essendo io invitato a questo incontro in qualità di presidente pro tempore della Società Scientifica dei docenti di Progettazione architettonica, non credo possa esistere una relazione diretta tra società scientifica e “costruzione dell’abitare contemporaneo”. E non credo nemmeno sia opportuno augurarsela. Le ragioni di questa inopportunità dipendono da due considerazioni parallele. La “costruzione dell’abitare contemporaneo” (alias la costruzione del mondo) è un processo a cui concorrono molti agenti, e certamente il progetto di architettura è solo uno di questi. Accogliere questa parzialità del progetto comporta ammettere che il progetto agisce sempre in prospettiva, e quindi in funzione di servizio. Il progetto partecipa, con le sue specifiche competenze, a una controversia sul mondo. Non c’è progetto architettonico giusto in sé, ma progetto più o meno adeguato a istanze diverse a cui esso più o meno consapevolmente si associa. Più il progetto riesce a riconoscere la sua parzialità nella costruzione del mondo, e più sarà capace di stabilire strategie negoziali con gli altri elementi concorrenti alla definizione del mondo, e quindi in definitiva a produrre effetti (che altro non è che l’oggetto della disciplina del progetto). Se il progetto di architettura partecipa alla costruzione del mondo attraverso competenze specifiche, allora dobbiamo presupporre che di queste competenze possa essere definita una disciplina, e quindi una scienza (degli effetti). Cosa sia, come si manifesti e come possa agire questa scienza nella costruzione del mondo è un problema ontologico, ma anche pratico, con cui ogni docente di progettazione si misura quotidianamente. La società scientifica è quell’entità più o meno formalizzata che svolge la mediazione tra il mondo (le sue istanze) e la scienza (le sue rappresentazioni). Come tutte le costruzioni sociali la società scientifica è infatti il prodotto di una determinazione storica (uno specifico ordinamento giuridico, una specifica vicenda culturale, una specifica domanda di conoscenza) e come tale possiede tutti i limiti e tutte le potenzialità di una tale natura non metafisica. Le società scientifiche nascono, vivono e muoiono. La loro vita dipende dal grado di socializzazione delle proprie convenzioni, e quindi dalla loro capacità di interpretare e rispondere a una domanda di conoscenza del mondo. Tornando quindi alla domanda iniziale, se il progetto di architettura costituisce una disciplina specifica, che concorre ma non determina la costruzione dell’abitare contemporaneo, e se la società scientifica è una delle forme storiche con cui questa disciplina si rappresenta rispetto al mondo, la relazione tra società scientifica e la costruzione dell’abitare contemporaneo non solo non è diretta, ma è mediata da tutte le forme di relazioni di cui è intessuto il mondo. Questo comporta che i modi con cui una società scientifica può incidere nella trasformazione del mondo sono i più vari: possono passare attraverso la manutenzione delle classi di laurea, la caratterizzazione di una certa disciplina in un piano di studi, l’individuazione di una figura idonea in comitati ministeriali, la promozione di una rivista, di un’alleanza strategica, di un dibattito su un tema specifico. Ogni forma di azione della società scientifica va legittimata rispetto a un contesto determinato e nella contingenza dell’occasione. Senza l’autorità di una legittimazione a priori, data da leggi senza tempo, ma con la prospettiva di produrre effetti in un determinato spazio e in un determinato tempo.

Introduzioni 19


L’architettura salverà il mondo? No. L’architettura partecipa al mondo. E se prendiamo l’architettura come il prodotto, anche, del progetto di architettura, allora possiamo lavorare all’interno della nostra prospettiva operativa (di progettisti e di docenti di progettazione) affinché il progetto possa guadagnarsi sul campo quella legittimità che gli serve per partecipare alla costruzione di quel mondo di cui fa parte.

20  Introduzioni


Il valore degli interni nella storia Leonardo Di Mauro

Presidente dell’Ordine degli Architetti di Napoli

Gli storici dell’architettura e dell’arte sanno bene quanto sia importante osservare un interno ben conservato in tutti i suoi elementi. Una cosa infatti è vedere le tele di Veronese nelle sale intatte del Palazzo Ducale di Venezia o quelle di Tintoretto nella Scuola di San Rocco, sovrastanti i dossali intagliati di Francesco Pianta, e altro è vedere opere simili in un museo. Vi è la stessa differenza che passa tra la visione di un animale nel suo habitat e quella che si può avere in uno zoo. Nelle chiese l’integrità estetica è spesso mantenuta; meno frequente lo è negli edifici pubblici e rara nelle dimore storiche e negli ambienti domestici. Ma le opere e i giorni degli uomini sono trascorse negli interni; è qui che si registra il mutare delle abitudini e dei comportamenti sociali, prima ancora che del gusto. Riprendendo quanto scritto da Filippo Alison, in un breve testo del 2005, In difesa di uno spazio disciplinare, l’architettura ci appare «quale sintesi concreta delle virtù biologiche primarie di espressione plastico-spaziale, matematica ed estetica, esercitate perciò principalmente in funzione del benessere soggettivo»1. Gli ambienti domestici del passato, quando non sono ricostruiti in un museo, sono perduti, ma tanti quadri ce ne mostrano forme ed evoluzione. Quante camere da letto ci vengono restituite dalle Annunciazioni dipinte: letti, baldacchini, cassepanche, leggii, tappeti, lampadari, mensole, caminetti, imposte di finestre, soffitti lignei... e quanti studioli! Tutti hanno in mente il box ligneo abitato da san Gerolamo nella tavoletta di Antonello, ma altrettanto elegante è il san Gerolamo nello studio, un po’ disordinato, di Colantonio, e il tavolo su pedana circolare del san Gerolamo di Carpaccio: nitore ed essenzialità delle forme. Forme che in parte ritroviamo in alcuni studioli rinascimentali che, proprio per l’esiguità delle dimensioni oltre che, immagino, per la loro bellezza, sono sopravvissuti, come quelli dei Montefeltro di Urbino e Gubbio e il più tardo studiolo di Francesco I a Palazzo Vecchio. Ma sono ancora i dipinti che ci restituiscono la quotidianità degli ambienti domestici, come si vede in esempi innumerevoli nella pittura olandese del Seicento, che sembra votata a raffigurare gli interni delle abitazioni stesse più che le persone. Lo dice bene Mario Praz: [...] non solo un interno, ma il modo in cui quest’interno si articola con le altre stanze: onde le vedute di scorcio e d’infilata che questi quadri offrono su altre camere e cortili contigui; e anche il modo in cui quest’interno è in rapporto col mondo circostante, con la natura che s’intravede per porte e finestre, e soprattutto con la luce.2

Parole, detto per inciso, che mi rimandano al Padiglione barcellonese di Mies van der Rohe. Tra XVIII e XIX secolo gli architetti si concentrano sull’architettura degli interni, e penso ad Adam e alla Malmaison di Percier e Fontaine, ma credo che per uno studente del 2020 niente sia più utile, per capire la necessità di pensare alla progettazione di uno spazio interno nella sua organicità, dell’analisi delle opere di alcuni maestri: Henry van de Velde (Casa Bloemenwerf), Charles Rennie Mackintosh (Hill House), Victor Horta (Casa Tassel), Antoni Gaudí (Casa Batlló), Frank Lloyd Wright (Casa Robie), Josef Hoffmann (Palazzo Stoclet), Adolf Loos (Kärnter Bar). È utile ricordare quanto affermava Wright: L’arredamento dovrebbe essere coerente, sia nel disegno che nella realizzazione; e dovrebbe essere usato con stile, vale a dire, come estensione del significato dell’edificio che arreda.3

Introduzioni 21


Concetti che da tempo non sembrano più abitare l’Università, quasi che gli spazi progettati possano esserlo senza pensare al disegno degli interni, come spazi vuoti da “arredare” con i migliori prodotti del design. Un fatto che diventa eclatante quando si entri in un museo progettato su misura per le opere che deve contenere, come quello del Tesoro di San Lorenzo a Genova di Franco Albini, o invece nel Jüdisches Museum di Daniel Libeskind a Berlino, uno spazio straordinario e commovente in cui però non sempre vi è un perfetto legame con i materiali esposti. Ritornando a citare Alison, [...] non vi può essere cesura, né distinzione di ordine o di prevalenza funzionale, quindi di importanza, tra arredi, spazio articolato ed espressione estetica, rafforzando altresì la convinzione che l’arredo, per quanto alta e autonoma sia la sua conformazione plastica, si invera compiutamente solo in significativi contesti ambientali di loro genesi, che tutto si tiene e prende senso nell’atto creativo della progettazione.4

NOTE 1

F. Alison, In difesa di uno spazio disciplinare, in Architettura degli interni, atti del convegno (Venezia, Iuav, 26 ottobre 2005), a cura di A. Cornoldi, Padova, Il Poligrafo, 2005 (“Iuav-Interni”, 1), p. 12. 2 M. Praz, La filosofia dell’arredamento, Milano, Longanesi, 1987, p. 63. 3 Le parole di Frank Lloyd Wright sono tratte da G. D’Amato, L’arte di arredare. Storia di un millennio attraverso gusti, ambienti, atmosfere, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 482. 4 F. Alison, In difesa di uno spazio disciplinare, cit., p. 12.

22  Introduzioni


COSTRUIRE L’ABITARE CONTEMPORANEO


Le ragioni di un Convegno Luca Basso Peressut

Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano

Due incontri sulla figura di Adriano Cornoldi, tenutisi a Venezia e a Milano in primavera e autunno del 2019, a dieci anni dalla sua scomparsa1, mi sollecitano, in concomitanza con il convegno di Napoli “Costruire l’abitare contemporaneo. Nuovi temi e metodi del progetto”, alcune brevi note che contestualizzano temi e vicende della ricerca e dell’insegnamento degli Interni in Italia nell’ultimo quarto di secolo, così come ho avuto modo di esserne partecipe personalmente. Ricordo che quando iniziai la mia carriera universitaria a Genova nei primi anni Novanta dello scorso secolo non esisteva ancora la “tripartizione” disciplinare (ICAR 14/15/16) che conosciamo oggi. Infatti, nel concorso del 1990 per professori associati, che vinsi per la cattedra di Museografia e dove Agostino Bossi ottenne la cattedra di Arredamento, si veniva chiamati per l’insegnamento di cui si diventava titolari, pariteticamente alle altre discipline del gruppo concorsuale unitario di Composizione architettonica. In tal modo i rimanenti pochi insegnamenti (su un totale di più di trenta) che erano riferibili alla nostra area culturale furono coperti da docenti di Progettazione architettonica (che in seguito scelsero di posizionarsi nell’ambito del settore ICAR 14). Si era in verità in una situazione che vedeva l’insegnamento delle discipline di Interni perdere gradualmente quell’importanza che Gianni Ottolini ha sempre sottolineato essere stata tipica degli anni Sessanta, per cui gli studenti, per diventare architetti, dovevano superare l’insieme degli insegnamenti della Progettazione architettonica, dell’Urbanistica e degli Interni. Solo dopo il Sessantotto e con l’affermarsi degli studi urbani come centrali nella cultura del progetto, gli Interni erano stati via via marginalizzati. La riforma dell’ordinamento didattico del 1993 che istituì le tre aree disciplinari (allora denominate H10A, H10B, H10C: Composizione architettonica e urbana, Architettura del Paesaggio e del Territorio, Architettura degli Interni e Allestimento)2, come parte del settore concorsuale di “Progettazione architettonica e urbana”, può essere perciò considerata un fatto positivo perché ha riconosciuto un’esistenza, una presenza della componente di Interni nell’ordinamento della didattica del progetto, stabilendone la rappresentanza nel quadro burocratico-tabellare delle facoltà di Architettura (anche se, lo sappiamo – ed è oggi questione all’ordine del giorno –, la mancanza per l’ICAR 16 del ruolo di “disciplina caratterizzante”, cioè obbligatoria, ha portato a un contenimento della presenza di questi insegnamenti nelle scuole di tutt’Italia.) Per un lungo periodo l’unico riferimento per lo sparuto gruppo dei docenti entrati a far parte del settore di “Architettura degli Interni e Allestimento” è stato il dottorato con la stessa denominazione3, fondato nel 1989 da Filippo Alison, Gianni Ottolini e Cesare Stevan in consorzio tra Milano e Napoli, a cui aderii solo nel 2000 dopo il mio rientro a Milano da Genova. Andrea Grimaldi più avanti tratta proprio di questo dottorato, dunque non mi soffermo, ricordando solo che io stesso, per pochi anni, ne sono stato coordinatore – raccogliendo l’eredità di Cesare Stevan e Gianni Ottolini – fino alla sua definitiva chiusura per effetto della legge Gelmini che ci ha obbligati a confluire, con altri due dottorati in Progettazione architettonica del Politecnico di Milano, in un nuovo dottorato che oggi si chiama Progettazione architettonica, urbana e degli Interni, che ho diretto fino al 2018. Sono stato così mio malgrado protagonista della fine di una vicenda durata più di un ventennio durante la quale sono state elaborate una

24  Costruire l’abitare contemporaneo


Copertine degli Atti del Primo e del Secondo Convegno Nazionale di Architettura degli Interni (Architettura degli interni, Padova, Il Poligrafo, 2005; Gli interni nel progetto sull’esistente, Padova, Il Poligrafo, 2007)

Luca Basso Peressut | Le ragioni di un Convegno 25


Ri-abitare il costruito: una strategia integrata per Alton West Paola Ascione

Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Aniello Mauro Borriello

Architetto, Volunteer staff English Eritage, London

Marella Santangelo

Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Il social housing del secondo Novecento nelle sue differenti forme di espressione presenta caratteri tipologici e costruttivi ricorrenti, standardizzati, fornendo in tale diffusa uniformità un fattore comune delle periferie delle città europee che, sebbene inserite in contesti socioeconomici diversi, sono generalmente accomunate dalle stesse problematiche di obsolescenza e inadeguatezza. Nell’ambito della riqualificazione sostenibile di tale patrimonio residenziale, un contributo sostanzioso è rintracciabile negli studi di Tecnologia dell’architettura, a partire dalle esperienze di recupero e di progettazione ambientale fino alle più recenti ricerche orientate dai concetti di deep retrofit e di adaptive design. D’altro canto, il progetto di trasformazione dell’esistente diviene luogo strategico di una sperimentazione più ampia, nel momento in cui induce una modificazione dell’alloggio sul piano distributivo, così da tramandare il valore essenziale dell’architettura intervenendo a tutti i livelli in cui l’edificio si esprime e da avviare una riflessione compositiva sulle potenzialità trasformative delle tradizionali tipologie. Nel merito, questo studio parte dalla necessità di elevare le prestazioni energetiche di un’architettura residenziale rappresentativa dei moderni modelli di mass housing, adottando il principio di retrofit come retro-azione innovativa che investe l’edificio includendo aspetti tecnologico-ambientali, funzionali e spaziali. Oggetto d’indagine è Allbrook House, architettura inserita nell’area Alton West a Roehampton degli architetti John Partridge e Roy Stout, su cui si è tentato di lavorare secondo la logica del “costruire sul costruito” riflettendo su possibili modalità di “ri-abitare il moderno”1. Per comprendere la complessità e l’attualità del caso, va precisato che Roehampton è un progetto di edilizia residenziale pubblica sviluppato dal London Country Council nei primi anni Cinquanta come risposta alla grave carenza di alloggi nella Londra del secondo dopoguerra. Il progetto fu realizzato in due fasi, corrispondenti all’area denominata Alton East (Portsmouth Road) e alla corrispettiva Alton West (Roehampton Lane), che fanno a capo al lavoro di diversi team di architetti. I progetti, entrambi dal forte carattere “moderno”, sono stati visti come il risultato di diversi approcci alla modernità, tipici dell’architettura britannica della seconda metà del Novecento2. Allbrook House è un esempio di come il patrimonio moderno sia oggi al centro del dibattito che la rigenerazione delle periferie sta scatenando tra conservatori e politiche di valorizzazione immobiliare; in un articolo comparso nel 2018 si legge: «Richard Rogers, David Adjaye e l’ex presidente della RIBA Angela Brady sono tra i firmatari di una lettera che chiede la conservazione di Allbrook House and Library a Roehampton»3. L’opposizione riguarda il masterplan proposto dall’Alton Estate e destinato al Consiglio di Wandsworth per il consenso alla pianificazione, che prevede la demolizione dell’unità residenziale e della biblioteca progettati nel 1959 dal Dipartimento di Architetti del Consiglio della Contea di Londra. Architetti e accademici, guidati dal designer Kate Macintosh, hanno chiesto ulteriore protezione per l’edificio Corbusian e la più ampia tenuta di Alton West, considerato «un punto culminante nell’architettura moderna del dopoguerra»4. Questa la situazione riscontrata durante l’avvio della nostra ricerca che, anche sulla base di tale informazione e dei documenti allegati al Masterplan della Alton Estate, ha inteso studiare la possibilità di fornire in questi casi limite una risposta adeguata alla domanda di riqualifica-

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Il blocco residenziale di Allbrook House progettato dagli architetti del London County Council su modello dell’Unité d’habitation. Fonti documentali suggeriscono che il progetto di Allbrook House e Roehampton Library sia stato sviluppato nella fase definitoria da John Partridge verso la fine degli anni Cinquanta; successivamente Roy Stout ne ha approfondito la progettazione dei dettagli seguendone la fase esecutiva. Nell’immagine: le foto attuali di particolari dell’involucro, un’immagine del plastico dell’Unité d’habitation di Le Corbusier e i disegni che descrivono le caratteristiche di Allbrook house (indagine ed elaborazione grafica di Aniello Borriello) Soluzioni di retrofit spazio-funzionale. L’aggregazione tra moduli costruttivi e unità abitative può generare differenti tipologie di alloggio secondo i diversi livelli di ampliamento ipotizzati. Le ipotesi sono poi state verificate in termini di comfort ambientale, di fruibilità e arredo degli spazi interni della casa (elaborazione grafica di Aniello Borriello)

Paola Ascione, Aniello Mauro Borriello, Marella Santangelo | Una strategia integrata per Alton West 115


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Dall’artigianato artistico al design Industriale. L’avventura degli oggetti in Campania dall’unità al duemila, a cura di P. Jappelli, Napoli, Electa, 2004, p. 52. 7 V. Cristallo, S. Lucibello, C. Martino, New Craft e Design. Simmetrie, osmosi e dissonanze, «MD Journal. Design & New Craft», 7, 2019, pp. 6-12. 8 G. Menna, Roberto Mango designer. 1950-1968. Riflessioni su ricerca, storiografia e didattica del design in margine a una mostra napoletana, «Napoli Nobilissima», s. VII, vol. III, fasc. II-III, maggio-dicembre 2017, p. 143. 9 R. Mango, L’insegnamento del design e l’oggetto, Napoli, s.e., 1969. Fascicolo pubblicato in proprio da Mango per il CNR. 10 R. De Fusco, Arti&altro e Napoli. Dal dopoguerra al 2000, Napoli, Paparo, 2009, p. 118. 11 V. Cristallo, V. Morone, Per il sociale e lo sviluppo locale. Il design presso la Federico II di Napoli, «QuAD. Quaderni di Architettura e Design - Insegnare architettura e design», 1, 2018, pp. 303-319. 12 Ibid. 13 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Roma, Nottetempo, 2010, p. 22. 14 G. Agamben, Lezione inaugurale dell’a.a. 2006-2007 che Giorgio Agamben ha tenuto presso la Facoltà di Arti e Design dello Iuav di Venezia, https://gabriellagiudici.it (ultimo accesso 05/10/2019, ultimo aggiornamento 29/10/2019).

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La casa Russia, ovvero rivoluzione dell’abitare Federica Deo

Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Con la Rivoluzione d’Ottobre ha avuto inizio, in Russia, un secolo di continue trasformazioni e ricerche sui temi dell’abitare. Ricerche le cui direzioni erano talvolta guidate e talaltra vincolate alla linea politica. Se infatti con le avanguardie, negli anni Venti e Trenta, si sperimentarono diverse forme di vita collettiva legate ai nuovi condensatori sociali – dalla kommunalka alla Casa del Popolo, dalla žilkombinat’ ai club operai –, sincera risposta dell’intelligencija architettonica al disegno leniniano, queste sperimentazioni furono poi parzialmente rinnegate nel periodo del terrore staliniano, quando si andò delineando l’architettura del Realismo socialista. Nella seconda metà del Novecento si continuarono a sperimentare nuove e ulteriori variazioni sul tema dell’abitazione collettiva, ricordate oggi proprio con i nomi di alcuni leader dell’Unione delle Repubbliche Socialiste e Sovietiche. Ne sono esempio la kruščovka e i grandi edifici Brežneviani, entrambi estremamente lontani dalle odierne direzioni di ricerca. Attraverso questo contributo ci proponiamo di rintracciare e analizzare la rappresentazione e la restituzione dello spazio nell’arte russo-sovietica dell’ultimo secolo, confrontandole con le direttive di cui precedentemente. La storia dell’arte e del cinema rendono possibile l’osservazione e l’identificazione di alcune questioni caratterizzanti l’evoluzione del discorso sull’abitare guardato dall’occhio estraneo ma critico del non addetto ai lavori. Queste fonti possono essere interrogate con duplice atteggiamento: da un lato di indagine documentaria, dall’altro attraverso la lettura socio-culturale a più ampio spettro, che ci fa riflettere sulle domande che animano la ricerca e sul contesto intellettuale di chi, architetto, designer o artista, risponde a tali questioni. Subito dopo la Rivoluzione, negli anni Venti la filmografia sperimentale e avanguardistica esibiva la nuova vita collettiva e partecipata dei bolscevichi, trasformata proprio attraverso le nuove macchine per abitare: quei collettori sociali progettati dai costruttivisti – club operai, case comuni, palazzi del lavoro – proprio mentre, nel pieno del primo piano quinquennale, il paese era in corsa per l’industrializzazione e l’elettrificazione. Osservata attraverso il filtro del dispositivo di Dziga Vertov (1896-1954), tra i maggiori protagonisti del cinema d’avanguardia, lo spazio dell’esistenza assume il ritmo frenetico dell’industria, e i luoghi appaiono organizzati intorno a queste nuove macchine (per abitare): è evidente quella volontà di internazionalizzazione, il tentativo dell’URSS di avvicinarsi all’Occidente e partecipare alle questioni poste in Europa dal Movimento Moderno. Contemporaneamente, infatti, Moisej Ginzburg (1892-1946) scriveva sulla necessità di proporzionare e misurare gli spazi dell’abitazione “in rapporto all’uomo”, subito dopo aver affermato che, nel cercare di rispondere al problema dello spazio, bisogna tener conto di «estensione, altezza, forma dei volumi dello spazio di ingombro, l’illuminazione, le dimensioni e il carattere dell’illuminazione, il colore e il trattamento di tutte le superfici che delimitano lo spazio»1. E non è un caso che il ponte che legava ormai da un decennio il paese dei soviet con la Germania portò un bauhauser, Hinnerk Scheper (1897-1957), a collaborare al progetto del colore degli interni dell’edificio-icona costruttivista: il Narkonfin. Nello stesso anno, 1927, Nikolaj Ladovskij (1881-1941) tentò di conferire al suo laboratorio psico-analitico al Vchutein, atto a studiare le leggi percettive che regolano il rapporto tra uomo e spazio, una maggiore validità scientifica elaborando strumenti e dispositivi per la codifica di queste leggi2.

Federica Deo | La casa Russia, ovvero rivoluzione dell’abitare 149


Nei primi anni Trenta molto cambiò nella scena sovietica: le avanguardie cedettero il posto all’architettura del Realismo Socialista, l’attenzione per il progetto di luoghi collettivi a quella per strutture che rappresentavano la potenza e la grandezza del potere di Stalin. Le prospettive, molto spesso, non raffiguravano spazi interni ma esterni. La scala del progetto venne ampliata, passando alla progettazione di interi isolati di cui si voleva controllare ogni aspetto: dall’impianto funzionale in pianta alla struttura prospettica nella complessità dell’articolato isolato urbano. In Novaja Moskva, film diretto da Aleksandr Medvedkin (1900-1989), dedicato – con toni talvolta un po’ironici – alla grande perestroika staliniana, questo passaggio è chiaramente descritto. Il protagonista, arrivato a Mosca dalla campagna, è sopraffatto dalle imponenti piazze e strade che lo circondano completamente, tracciando percorsi precisi e rendendo chiara la direzione progettuale: la definizione di luoghi pubblici concepiti come “interni urbani”. I ritratti di famiglia, la carta da parato, le poltrone e i sofà sono, come da disegno staliniano, sostituiti dalle statue dei leader della rivoluzione, dai grandi apparati decorativi – mosaici, affreschi e stucchi – atti a celebrare la nuova grande famiglia sovietica, le sue vittorie militari come anche quelle sportive. I grandi quadri di Alexander Dejneka ben esprimono questo nuovo rapporto con lo spazio. Pensiamo, ad esempio, alla litografia del 1931 Prevratim Moskvu v obraztsovyi sotsialisticheskii gorod proletarskogo gosudarstva (Trasformeremo Mosca in un’esemplare città socialista dello stato proletario) in cui, una visione assonometrica ritrae gruppi di uomini che camminano in strada intorno a dei nuovi complessi residenziali, e anche alla tela del 1932 Kto Kogo? (Chi sarà chi?) in cui due uomini e una donna in primissimo piano, le cui alte figure dominano quasi interamente l’altezza della tela, sovrastano uno sfondo urbanizzato. Con la morte di Stalin e l’avvio della politica di Chruščëv ebbe inizio un terzo periodo della storia dell’Unione Sovietica. Le atrocità commesse durante la politica degli anni Trenta costarono al paese un processo di destalinizzazione e i primi spazi ad essere messi a repentaglio furono quelli della memoria. È il 1955 quando la maggiore testata specialistica sovietica, «Architektura SSSR», pubblica il disegno di una nave che salpa, la didascalia recita: «Dopo un lungo e costoso soggiorno sull’isola degli eccessi, il capo della flotta architettonica è infine pronto a salpare per le coste tanto attese della tipizzazione e industrializzazione delle costruzioni»3. L’housing è al centro della nuova linea promossa da Chruščëv, una linea definita da rigidissimi parametri dimensionali4 e principi di prefabbricazione. È in questi stessi anni che il cinema russo vede esprimersi uno dei più grandi maestri della scena internazionale di ogni tempo, Andrej Tarkovskij (1932-1986). In Tarkovskij lo spazio si allontana bruscamente da quello della realtà contingente, della vita condivisa e collettiva, rispondendo a domande di tipo ontologico: paradossalmente è l’essere in quanto individuo che muove la ricerca tarkovskiana, proprio in rapporto con lo spazio che lo circonda, al punto di affermare che: «ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale ma solo attrito tra l’animo e il mondo esterno»5. Il rapporto con i luoghi diviene di nodale importanza. Lo spazio entro cui l’autore si muove è prevalentemente riducibile a tre tipologie: lo spazio della natura, lo spazio di interni architettonici o lo spazio del sogno dove i due spazi precedenti paradossalmente convivono; tutti sono spazi intimi, persino lo spazio della natura ove i protagonisti si confrontano con l’incommensurabile è caratterizzato tuttavia da un’atmosfera intima, resa tale proprio da elementi naturali come la nebbia, la foschia, il vapore acqueo. Durante il viaggio che Tarkovskij compie in Italia insieme a Tonino Guerra alla ricerca dei luoghi in cui girare Nostalghia – unico tra i suoi film non ambientato in Russia, sua amata patria che lo censura e poi esilia – il regista, rivolgendosi allo sceneggiatore afferma, dopo aver visitato molti posti incantevoli, di aver deciso che la scena più importante del film doveva essere girata nella camera d’albergo a Bagni Vignoni, una camera chiusa in sé, senza finestre sul paesaggio: Era buia dentro, [...] molto strana, un luogo misterioso [...] non solo mi piace questa stanza ma anche la piscina ovviamente. Quella piscina dalla quale sorge vapore la mattina... l’atmosfera di mistero, tristezza e solitudine. Non credo si debba porre molta attenzione all’architettura. Credo sia più importante concentrarsi sul viaggio che il nostro personaggio fa dentro di sé, questa è la cosa più importante e, a mio parere, questo posto è molto utile per farlo.6

150  Temi


Fotogrammi tratti da film di Tarkovskij e Sokurov Progetti di Alexander Brodskij

Federica Deo | La casa Russia, ovvero rivoluzione dell’abitare 151


È noto come la messa in scena teatrale appartiene alla città ancor prima di essere espressa in forma architettonica nel tipo del teatro in epoca rinascimentale. Come scrive Bernard Rudofsky, da sempre «la strada è dove si svolge l’azione, [...] è stata il grande teatro del mondo. Dramma e commedia, sia spontanei che artificiosi, erano offerti dalla vita di tutti i giorni»5, con funerali, processioni, matrimoni, festività e trionfi. Nelle strade, all’aria aperta, con il fondale di veri edifici, si svolgevano le rappresentazioni spontanee della vita del cittadino, e le messe in scena di teatranti girovaghi. Con il Rinascimento, a opera di Palladio, l’azione teatrale viene accolta all’interno di un edificio: il Teatro Olimpico porta la città dentro l’architettura, nel montaggio di teatro classico (vitruviano), monumento/facciata (l’arco trionfale) e sistema di strade cittadine. Del resto la stessa origine della parola “scena”, secondo il trattatista rinascimentale Leone de’ Sommi, deriverebbe dall’ebraico scèhonà, ovvero “contrada” o “strada ove siano molte case in vicinanza”6. Di fatto, frammenti di contesti urbani, di strade, edifici e piccole piazze, costituiscono lo spazio teatrale rinascimentale che Serlio, Palladio, Scamozzi teorizzano e costruiscono. «La città è il soggetto della scena» scrive Manfredo Tafuri, in cui si «riunifica spazio di illusione, spazio di rievocazione classicista, spazio naturale e spazio artificiale. Teatro e città si presentano così come due termini di un’equazione» e come «riunificazione della civitas, espressione di nuova società civile che si rispecchia nel culto del reperto classico rievocato sulla scena»7, e quindi nella memoria individuale e collettiva. Nel teatro di Sabbioneta (realizzato da Scamozzi alla fine del Cinquecento), la città è sia fondale dell’azione teatrale sul palco, sia contesto che abbraccia lo spettatore, con le vedute del Campidoglio e di Castel Sant’Angelo dipinte al lato del palco, e con la costruzione di una loggia che avvolge la cavea. Nel Teatro Farnese, costruito pochi decenni dopo all’interno di un edificio preesistente (come l’Olimpico di Vicenza, del resto), la cavea è contenuta da un “recinto architettonico” che è l’esatta replica in legno del ritmo di serliane che costruisce la Basilica Palladiana di Vicenza. In tali interni riconosciamo con chiarezza questa interrelazione fra luoghi reali e metafisici: un’inversione di termini, come notato da Kurt W. Foster8, in cui paesaggi urbani artificiali costituivano i set teatrali, e i reali luoghi urbani erano trasformati in spazi per celebrazioni, festività e processioni nella città9. Ma non solo sulla scena la dimensione urbana viene trasfigurata. L’evoluzione del teatro porta, nel XVII secolo, alla costruzione della cavea come montaggio verticale di logge sovrapposte, una sorta di facciata urbana di un edificio collettivo aperto sulla dimensione pubblica e collettiva del palcoscenico (la piazza o strada cittadina dove l’azione si svolge), che riflette allo stesso tempo la stratificazione sociale e diviene dunque strumento di ostentazione: di questo è straordinario esempio il Teatro Comunale di Bologna, progettato da Antonio Galli da Bibbiena. «Ogni palco – scrive Jacopo Riccati – è come la sua propria casa di ciascun proprietario, in cui può star solo, se vuole, può procurarsi piccola società di amici, può mangiare, può giocare, godere una continua conversazione sempre varia»10. Ancor più forte si fa qui l’analogia fra interno urbano e interno domestico, pubblico e privato insieme, fra messa in scena teatrale e rappresentazione del sé. Come emerge dagli studi di Ludovico Zorzi, altri elementi architettonici vengono riprodotti come macchine teatrali all’interno dell’invaso architettonico religioso rinascimentale. È il caso della cupola e della navata, che diventano, nei cosiddetti “ingegni”, macchinari per le sacre rappresentazioni la cui invenzione è attribuita a Filippo Brunelleschi, il cardine della messa in scena del rito11. Ecco che la facciata urbana, ricostruita come scena fissa nel teatro, o la cupola e la navata, archetipi spaziali riprodotti nell’interno nell’edificio religioso, sono dispositivi architettonici che vogliono rappresentare la città, la sua società, i suoi valori, in cui il cittadino si riconosce come spettatore e attore insieme: rappresentati, trasfigurati e ricomposti attraverso il montaggio nell’interno architettonico come “scena” e “macchina”. Tutto questo, come visto nelle riflessioni teoriche e progettuali di Aldo Rossi, persiste nella costruzione dell’interno architettonico anche nella contemporaneità. La possibilità di costruire una stretta relazione tra istanze urbane trasfigurate alla scala dell’edificio diventa dunque la chiave per una progettualità dell’interno architettonico, soprattutto quando la facciata interna è espressione del tema della teatralità e della “scena fissa” che appartiene all’architettura della città.

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George Ranalli, restauro e recupero della Callender School a Newport, USA (foto di Nick Wheeler, per gentile concessione di George Ranalli Architect) Austin-Smith:Lord, ampliamento della John Rylands Library a Manchester, UK (photo-collage di P.M. Martinelli)

Patrizio M. Martinelli | La cittá dentro. Teatralitá urbana e montaggio dell’interno architettonico 189


La facciata dentro: la scena fissa dell’interno architettonico Fra il 1923 e il 1925, sulla rivista «L’Esprit Nouveau» vengono pubblicate le pagine pubblicitarie per l’azienda di arredamento americana Innovation, attiva in particolare nella produzione di scaffali e armadiature12. In una di queste pubblicità (curate tutte da Le Corbusier) si evidenzia il confronto fra lo spesso muro antico su cui vengono appoggiati i mobili e il muro moderno che presenta l’integrazione fra arredamento ed elementi (l’armadio, il letto, lo scaffale, la finestra) e un’architettura di “spazio e ordine”13. Si pone qui una riflessione sulla definizione non solo degli elementi (la parete, la finestra, l’arredo), ma anche della qualità spaziale dell’interno, nel superamento da una parte dell’antico e della tradizione, dall’altra della spazialità dell’architettura moderna costruita per piani astratti14. Questa interpretazione della parete attrezzata come componente tecnico-funzionale enfatizza, secondo me, anche il ruolo essenziale della facciata interna, che si trasforma, nel progetto moderno e contemporaneo, in fondale che definisce l’articolazione tridimensionale/chiaroscurale dell’invaso architettonico, e consente la costruzione di luoghi teatrali e scene fisse per la mise en scène dello spazio interno15. Ho già accennato al caso della Sala Rossi alla Fenice, in cui tuttavia la matrice figurativa prevale su quella funzionale: ma altri progetti del contemporaneo, a mio avviso, attingono a questa risorsa della composizione architettonica. Il primo che voglio considerare è il recupero della Callender School a Newport (Rhode Island, USA), trasformata in edificio per appartamenti da George Ranalli fra il 1979 e il 1981. All’interno del recinto murario di una scuola (costruita nel 1862 e dismessa nel 1974), l’architetto ha inserito uno spesso muro attrezzato che attraversa l’intera altezza dell’edificio e che contiene le cucine, i servizi, le scale e le stanze più private dei sei appartamenti ottenuti da questo inserto architettonico. Le unità abitative hanno i soggiorni a doppia e tripla altezza, e sono definite da questo muro abitato che di fatto costituisce anche una facciata interna con aperture, finestre, affacci, balconi: un vero e proprio frammento urbano, che contiene gli ambiti privati dell’abitare, aperti sullo spazio pubblico dei soggiorni. «Gli appartamenti – scrive Anthony Vidler – prendono la forma di abbandonati palazzi ducali i cui balconi guardano sulla piazza vuota in basso, o fuori, verso la campagna»16. Attingendo al tema della “casa nella casa”, Ranalli in effetti porta all’interno dell’edificio una componente urbana e l’afflato teatrale di «un brillante frammento di scenografia»17, come “scena fissa” della rappresentazione, pubblica e privata insieme, dell’abitare domestico. Analoghe strategie sono riconoscibili nel progetto di Morphosis (Thom Mayne, Michael Rotondi) per il ristorante Kate Mantilini, a Beverly Hills in California, realizzato nel 1985-1986. L’intervento è l’adaptive reuse di una banca dismessa, ma lo stesso Thom Mayne ammette che fin dall’inizio il loro interesse era legato alla «natura pubblica dello spazio più che a quella della funzione di ristorante»18, in un contesto in cui l’assenza della forma urbana richiedeva una riflessione e di fatto una proiezione all’interno delle valenze di spazio pubblico e collettivo. E in effetti lo spazio del ristorante è costituito da un’unica grande stanza, definita sul lato sulla strada da un’alta facciata rivolta verso l’interno che evoca l’archetipo urbano del portico, nel ritmo di setti e finestrature ricondotte al segno astratto della sua geometria. Questo muro attrezzato fra setto e setto contiene le sedute e i tavoli per i clienti e si confronta con la parete opposta su cui un murale (che rappresenta un dinamico incontro di box) rimanda all’immaginario urbano della città americana, in cui i graffiti e i murales partecipano della dimensione collettiva dello spazio pubblico. Anche questo interno architettonico diventa dunque montaggio di elementi urbani, in cui la grande «aula aperta diventa un teatro per osservare l’ostentazione e l’arroganza dei modaioli locali»19. Concludo con un ultimo e più recente progetto, l’ampliamento della John Rylands Library, a Manchester, completato nel 2007 su progetto dello studio Austin-Smith:Lord. L’intervento consiste nell’aggiunta all’edificio neogotico, inaugurato nel 1900, di un nuovo volume architettonico che contiene un ingresso con caffetteria, bookshop e altri servizi alla biblioteca. La congiunzione fra antico e nuovo è definita da una corte interna illuminata da un lucernario sulla copertura, in cui si staglia prepotente a tutta altezza la facciata dell’edificio esistente, rivestita da un’astratta e spessa stratificazione che enfatizza, grazie alla luce che piove dall’alto, l’intelaiatura geometrica dell’impaginato. Tale prospetto, che rivela comunque la preesistenza

190  Temi


tettonica della muratura novecentesca, accoglie i flussi dei visitatori e degli utenti, in una dimensione pubblica tipica di una piccola piazza urbana. La facciata che era esterna diviene, grazie a tale estensione, interna e così lo spazio originariamente scoperto viene trasfigurato in interno. La città, qui, letteralmente entra dentro nell’edificio. L’architettura del passato (rappresentata dall’edificio stesso e dalla sua funzione di deposito di tracce e documenti), del presente e del futuro convivono qui in una stratificazione archeologica e metafisica insieme, come “scena fissa” e teatro della memoria per l’individuo e la collettività.

NOTE 1

C. Aymonino, V. Gregotti, V. Pastor, G. Polesello, A. Rossi, L. Semerani, G. Valle, Progetto realizzato, Venezia, Marsilio, 1980, p. 158. 2 Ibid. 3 A. Rossi, L’architettura della città, Milano, CittáStudiEdizioni, 1995, p. 11. 4 Dalla relazione di progetto, pubblicata in https://www.fondazionealdorossi.org/opere/1990-1997/progetto-di-ricostruzione-del-teatro-la-fenice/ (ultima consultazione 12/10/2019, ultimo aggiornamento 2018). 5 B. Rudofsky, Streets for People. A Primer for Americans, New York, Anchor Press/Doubleday, 1969, p. 123, trad. mia. 6 L. de’ Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, Milano, Il Polifilo, 1968, p. 14. 7 M. Tafuri, Il luogo teatrale dall’Umanesimo a oggi, in L. Squarzina, M. Tafuri, Teatri e scenografie, Milano, Touring Club Italiano, 1976, pp. 25-39: 26. 8 K.W. Forster, Stagecraft and Statecraft. The Architectural Integration of Public Life and Theatrical Spectacle in Scamozzi’s Theater at Sabbioneta, «Oppositions», 9, 1977, pp. 63-87: 85. 9 Emblematico è il caso di Venezia, come investigato da Egle Trincanato in E.R. Trincanato, Rappresentativitá e funzionalitá di Piazza San Marco, in G. Samonà, U. Franzoi, E.R. Trincanato, Piazza San Marco. L’architettura, la storia, le funzioni, Padova, Marsilio, 1970, pp. 79-91. 10 L. Squarzina, M. Tafuri, Teatri e scenografie, cit., p. 64. 11 L. Zorzi, Il teatro e la cittá, cit., pp. 71-76. 12 G.H. Marcus, Le Corbusier. Inside the Machine for Living, New York, The Monacelli Press, 2000, pp. 26-49. 13 Questa pagina è riecheggiata nel numero 5 del 1928 di «Domus», nell’articolo I mobili inutili firmato da Elena Campi, in cui si confrontano, in termini analoghi, il muro di ieri, oggi e domani. 14 Principio spaziale e compositivo che può essere emblematicamente rappresentato dai diagrammi e progetti di Theo van Doesburg. 15 Su questo tema si veda: G. Ottolini, V. Di Prizio, La casa attrezzata. Qualità dell’abitare e rapporti di integrazione fra arredamento e architettura, Napoli, Liguori, 2005. 16 A. Vidler, The Castle in the House, in G. Ranalli, George Ranalli. Buildings and Projects, New York, Princeton Architectural Press, 1988, pp. 8-11: 10. 17 M. Sorkin, The Domestic Apparatus, in G. Ranalli, George Ranalli, cit., pp. 4-7: 6. 18 Intervista a Thom Mayne contenuta nel documentario The New Modernist: 9 American Architects, regia di Michael Blackwood, 1993. 19 T. Mayne, Not Neutral, in Id., Morphosis, London, Phaidon Press, 2003, pp. 268-279: 278, trad. mia.

Patrizio M. Martinelli | La cittá dentro. Teatralitá urbana e montaggio dell’interno architettonico 191


Per una capillare reinterpretazione del modello Domitio Ciro Priore, Martina Russo

Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Con la ricerca qui presentata intendiamo descrivere i principi insediativi di alcuni territori campani fortemente degradati e alcune possibili strategie di intervento. Il lavoro che abbiamo svolto sul litorale Domitio, tema della nostra tesi di laurea, ci ha portati a riflettere sul rapporto tra pianificazione territoriale strategica e progettazione puntuale, alla piccola scala, per intercettare una possibile soluzione a una necessità di cambiamento che il territorio continua ad attendere. Mentre scriviamo l’assessore della regione Campania al Governo del Territorio sta presentando il Masterplan del Litorale Domitio-Flegreo attraverso un laboratorio di pianificazione partecipata; questo rende a nostro avviso il discorso sul sistema dell’abitare Domitio un tema centrale per il dibattito architettonico locale. Nati come luoghi di villeggiatura e divertimento, oggi i territori della costa a nord di Napoli rappresentano tutto il disagio abitativo legato ai temi delle migrazioni e dell’informalità e, quindi, meritano un radicale ripensamento dei propri principi insediativi. La nostra ipotesi è che l’esigenza del litorale di modificarsi in un habitat più accogliente e rispondente alle necessità di un dignitoso vivere contemporaneo possa avviarsi a soluzione individuando nuove infrastrutture capaci di aprire lo sguardo sul territorio, che possano stimolare gli abitanti ad avere maggiore consapevolezza delle potenzialità anche di ciò che sembra irrecuperabile. Infrastrutture che possano anche distribuire un sistema di interventi capillari, innesco di processi di rigenerazione, e che tendano a ricucire le profonde fratture che persistono tra tutte le parti del sistema. Lo spazio dell’abitare, per attuare una trasformazione in tal senso, deve abbandonare il concetto di spazio funzionale svincolato dal fattore tempo per orientarsi verso uno spazio della vita, dotato sì di identità riconoscibile, ma articolato intorno a un ciclo di sviluppo in qualche modo già manifestatosi sul territorio. Operando un cambiamento di approccio, si può andare nella direzione di un’architettura di supporto e di attivazione di processi alla scala delle diverse comunità presenti che accompagni l’espressione delle comunità a cui appartiene1. Il litorale Domitio, così come lo conosciamo, si è stratificato partendo da una sostanziale condizione di tabula rasa: in meno di dieci anni, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, l’identità debole e tranquilla dei campi coltivati e paludosi è stata totalmente soppiantata da quella più eccentrica e rumorosa dei villaggi turistici e degli stabilimenti balneari. Alle grandi speculazioni imprenditoriali si sono sempre accompagnate, numerose, quelle più piccole dei privati: molti si sono sentiti legittimati a costruire, in deroga a tutte le norme, la propria villetta unifamiliare con accesso diretto a mare. A partire dagli anni Ottanta, una reazione a catena di eventi drammatici ha però investito il litorale: da un lato il bradisismo di Pozzuoli e il terremoto in Irpinia che hanno aumentato la domanda abitativa, dall’altro le inchieste sull’abusivismo che hanno di fatto decretato come illegali intere conurbazioni, hanno infranto quello che era nato come il sogno vacanziero italiano nella sua fase espansiva e ottimistica, trasformandolo rapidamente nel sistema caotico che oggi osserviamo. La svalutazione turistica del litorale, inoltre, ha portato a due effetti concatenati: la diffusione di edifici incompiuti e abbandonati in conseguenza del fallimento del programma originario e l’arrivo di nuovi cittadini abusivi che, in cerca di un’occasione abitativa a basso costo, hanno approfittato della possibilità di disporre illegalmente di edifici abbandonati e case sequestrate in virtù del sostanziale disinteresse da parte della mano pubblica per questi luoghi.

192  Temi


Progetto per Domitio Street Food, Domitio Splash e Domitio Stump: piloni attrezzati della funivia per gli Studios Progetto per Domitio Pier: gate attrezzato sul porto turistico di Pinetamare

Ciro Priore, Martina Russo | Per una capillare reinterpretazione del modello Domitio 193


mente adatto a “mettere in scena” le “frizioni” progettuali, ciò che altrimenti non emergerebbe da una narrazione convenzionale e istituzionale. La selezione di film documentari proposta in questo saggio offre infatti uno sguardo del tutto inatteso sugli spazi, una prospettiva laterale, come se l’architettura fosse inquadrata in alcuni casi da un punto di vista nascosto, in altri seguendo personaggi in “soggettiva” o con l’approccio dell’osservazione situata aprendosi al dialogo interdisciplinare con la sociologia e l’antropologia. I documentari costituiti da diverse testimonianze (Edificio Master, The Infinite Happyness, Un piatto un ritratto) paiono come sinfonie di sguardi e micro-narrazioni che – nel loro insieme – fanno capire non tanto come è fatto l’edificio, come è stato concepito, ma quali possibilità genera, quali tipologie di vita offre, o nega, e quali invece nascono o vengono sviluppate in modo indipendente dall’idea originaria, o addirittura in aperta contrapposizione ad essa. I linguaggi che narrano l’architettura stanno cercando nuovi tipi di racconto volti a mettere al centro il modo in cui essa è vissuta più che la sua natura compositiva e funzionale. In quest’ottica le narrazioni audiovisive focalizzate sull’osservazione critica tipica di uno sguardo indiscreto possono costituire un’interessante chiave interpretativa in discontinuità con quella retorica che tratta l’architettura contemporanea come una messa in scena estetizzata e artefatta.

NOTE 1

L. Tozzi, Se a raccontare le opere sono i loro abitanti, «Pagina99», 21 maggio 2016, pp. 33-35: 34. http://www.bekalemoine.com (ultima consultazione 31/10/2019, ultimo aggiornamento s.d.) 3 G. Perec, L’Infra-ordinaire, Paris, Seuil, 1996; trad. it. L’infra-ordinario, Torino, Bollati Boringhieri, 1994. 4 L. Tozzi, Se a raccontare le opere sono i loro abitanti, cit., p. 33. 5 Osservatorio Nomade. Immaginare Corviale, a cura di F. Gennari Sartori, B. Pietromarchi, Torino, Bruno Mondadori, 2006. 2

370  Metodi


Metodi 4 Strumenti del progetto contemporaneo


Soft home. Il ritorno del tessuto negli interni, tra analogico e digitale Laura Arrighi

Dipartimento di Architettura e Design - DAD, Università degli Studi di Genova

Cosa è successo tra la rivoluzione ottocentesca introdotta da Gottfried Semper1, che contraddicendo Vitruvio, elegge il nodo e la tessitura come arti primarie di definizione dello spazio, e l’esaltazione moderna della struttura puntiforme di Le Corbusier che, dalla Maison Dom-ino alla Chaise Longue LC4, spoglia ogni manufatto dal suo rivestimento per isolarne lo scheletro come supporto per infiniti plug-in funzionali? Considerando le arti, scultura e pittura, e l’architettura stessa come trasposizioni dell’arte del tessere, attraverso lo studio di alcune parole chiave Semper prova come sia sempre esistito uno stretto legame tra l’ornamento e l’architettura a esso posteriore. L’assonanza fonetica tra le parole tedesche Wand (parete) e Gewand (abito) ha origine dalla parola Winden che significa ricamare. Nell’interpretazione strumentale che Semper fa, la parete viene intesa come elemento di chiusura, di delimitazione spaziale e di protezione dagli agenti atmosferici e non come apparato strutturale; come l’abito, oltre alla funzione di protezione, ha anche quella di decorazione, così come la parete della cella del tempio greco. Come il vestito è costituito da fili tessuti, così la parete ha nell’intreccio di rami o canne prima, e tappeti poi, la sua origine.2

Le sperimentazioni moderne posteriori, che vedono in Le Corbusier uno dei massimi esponenti, trasformano le architetture in nude macchine da abitare, prefabbricate, cellule ripetibili, puriste, private di tutti gli orpelli che non hanno una loro funzionalità abitativa. Così, se tra la metà e la fine del XIX secolo l’architetto era anche decoratore di interni, tappezziere e, in alcuni casi, stilista, una figura cioè capace di controllare olisticamente il progetto dello spazio domestico, sconfinando continuamente tra discipline contigue e complementari, è altrettanto vero che, per un lungo tratto del secolo successivo, questa figura si è ridotta a occuparsi unicamente della definizione di una nuova estetica basata sull’utilità e la correttezza funzionale. Contestualmente le relazioni tra moda, furniture design e architettura hanno viaggiato su binari paralleli, nei quali la gestalt era più orientata alla costruzione di analogie formali che alla ricerca di un rapporto con la materialità degli oggetti e con le loro caratteristiche fisiche. Oggi stiamo assistendo a un’inversione di rotta rispetto a questo indirizzo, una rotta che ci riporta, con le dovute distanze, al pensiero semperiano. Testimonianza di questo è la rinascita della materialità, e nello specifico del tessuto, nell’interior design contemporaneo; tessuto inteso sia come elemento di decorazione sia come strumento di configurazione spaziale. Un discorso sul tessuto non può prescindere da una riflessione sulle discipline che maggiormente sono legate a questo materiale. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento arte, architettura, moda e design erano molto più vicini rispetto a quanto non lo sono stati nel corso del secolo scorso. Dagli anni 2000 tuttavia, hanno cominciano a ricomparire in modo importante oggetti ibridi, nati dalla sinergia delle discipline. Il significato profondo e il grande potenziale che oggi questa sinergia rappresenta appare spesso sfocato da questioni puramente stilistiche e “di gusto”, una visione riduttiva che vale la pena indagare facendo come premessa, alla Semper, alcune considerazioni circa i termini “abito” e “abitazione”, la loro definizione e il reciproco sconfinamento. Abito, Abitare, Abitudine, hanno la medesima radice del latino habere, che indica possesso, ma che si può anche declinare in attitudine, inclinazione, disposizione, apparenza: tutti concetti che contribuiscono a determinare l’identità di una persona e dell’ambiente nel quale questa agisce.

372  Metodi


Abitare significa quindi avere consuetudine con un luogo, farlo coincidere con ciò che siamo soliti avere, portandocelo dietro continuamente.3

La casa come “abitudine” si risolve in un complesso di caratteri morfologici o di comportamento di un individuo; la casa come habitus è costume, è mostrarsi, dimostrare di essere al mondo. Sorvolando il dibattito dei moderni riguardo la moda, l’ornamento, e la casa, e facendo un salto nel XXI secolo, ci rendiamo conto di quanto la relazione ha prodotto e continua a produrre opere e speculazioni che sembrano delineare sempre di più una figura ibrida di progettista di interni e una trasformazione della disciplina architettonica da campo settoriale a campo “liquido” nel quale si mescolano saperi appartenenti ad altri mondi. Un processo che ha le sue radici nelle ricerche di alcuni esponenti dell’architettura e del design degli inizi del secolo. È il 1999, siamo al Baltimore Museum, dove il giovane artista coreano Do Ho Suh presenta una delle sue prime opere, la Seoul Home, una casa tessuto che riproduce, attraverso la tecnica sartoriale, l’abitazione della sua infanzia. Un modello in scala 1 a 1 perfettamente fedele all’originale in tutti i dettagli, salvo per il fatto di essere realizzato con la stoffa tipicamente utilizzata per i paracadute: un oggetto protettivo come il nido domestico nel quale siamo cresciuti e allo stesso tempo labile, leggero, trasparente e morbido, proprio come una tenda che definisce uno spazio culturale più che fisico, capace di isolarci dal contesto circostante, ma allo stesso tempo instabile e mutevole. Il lavoro di Do Ho Suh è permanente e temporaneo allo stesso tempo: riproduce un concetto domestico identitario e consolatorio, ma allo stesso tempo testimonia la condizione tutta contemporanea del nomadismo urbano, in quanto, proprio perché fatta di tessuto leggero, la casa si può impacchettare e trasportare dentro a una valigia, ogni volta che ci si deve muovere per esigenze di lavoro o di studio. In altri termini la casa per l’artista coreano è quel luogo capace di rispondere alla semplice domanda: dove ho dormito veramente bene l’ultima volta? Un luogo culturale, appunto, all’interno del quale l’idea di comfort si allontana dai parametri formali ed ergonomici che hanno dominato la produzione degli ambienti domestici a partire dagli anni Trenta fino all’ultima parte del secolo scorso, per iniziare a dialogare con valori più emozionali, sensoriali, tattili. In questo passaggio che caratterizza la nostra contemporaneità, il ruolo dei tessuti diventa centrale. A dimostrarlo alcuni progetti architettonici che sono diventati emblema di questa smaterializzazione. Nel 1980, OMA è tra i venti studi invitati a partecipare alla Strada Novissima alla prima Biennale di Architettura di Venezia, intitolata “La presenza del passato”, curata da Paolo Portoghesi. In pieno Postmodernismo, le soluzioni formaliste dei diversi progetti si scontrarono con la soluzione di Koolhaas e compagni, che scelsero di rinunciare al disegno per collocare sulla strada un grande brano di tessuto semitrasparente, sollevato in un angolo. La casa di OMA, allineata insieme alle altre, monumentali e formalmente complesse, è una tenda, una membrana instabile e mutevole, che precorrendo i tempi, definisce una nuova condizione per l’architettura e il design. Qualche anno più tardi, nel 1994, a Tokyo, Shigeru Ban, realizza la sua Curtain Wall House, un volume a base trapezoidale, nel quale la facciata principale è sostituita da una tenda che riveste la doppia altezza sulla quale si sviluppano gli spazi domestici. Aprendo e chiudendo la grande tenda è possibile modificare non solo l’aspetto dell’architettura, ma la sua spazialità, contaminando interno ed esterno, pubblico, semipubblico e privato. Il tessuto prende forma modellandosi sulla struttura architettonica, ma, contemporaneamente, rimodella lo spazio, proprio come un abito interagisce e modifica il corpo che lo ospita. Ecco che corpo architettonico e corpo umano appaiono entità sempre più sfocate e anche nella moda si assiste a sperimentazioni che riducono (o elevano) l’abito al ruolo di guscio che si può configurare liberamente, un vero e proprio dispositivo spaziale. Sempre alla fine degli anni Novanta in Giappone, lo stilista Issey Miyake si dedica a un progetto altamente tecnologico chiamato A-POC (A Piece Of Cloth, un pezzo di stoffa). Si tratta di una nuova tecnica di tessitura che rende possibile produrre vestiti finiti senza l’utilizzo di cuciture e, ancora, richiede la commistione di tradizionale tessitura e l’impiego di modernissimi sistemi computerizzati. Il vestito non è un prodotto finito standard, ma può essere modificato rispetto ai gusti dell’acquirente. Riprendendo il concetto di abito-abitazione, un altro designer giapponese, Kosuke Tsumura, allievo di Miyake, vede l’abbigliamento come una vera e propria “casa mobile” e presen-

Laura Arrighi | Soft home. Il ritorno del tessuto negli interni, tra analogico e digitale 373


La didattica di terzo livello: insegnare nel Master, dal concept al costruito Simona Canepa

Dipartimento di Architettura e Design, Politecnico di Torino

I master sono, sia quelli di primo sia quelli di secondo livello, lo strumento che le varie facoltà e scuole forniscono al neolaureato per avvicinarsi al mondo del lavoro, oggi in continua trasformazione. Hanno lo scopo di definire e aggiornare rendendolo sempre attuale il profilo che il mercato del settore richiede. Sono pertanto delle scuole dove l’insegnamento è del tipo learning by designing. L’imparare progettando consente allo studente di calarsi nel mondo reale grazie anche all’esperienza di tirocinio curricolare presso aziende del settore. La mia esperienza mi vede coinvolta da anni nel Master di primo livello in Interior Exhibit & Retail Design del Politecnico di Torino, dalla prima edizione nel 2014 e anche nella fase preliminare all’istituzione con il coordinatore prof. Marco Vaudetti. Questa fase è stata di fondamentale importanza per l’organizzazione e la futura gestione del master stesso. In questa fase iniziale si è proceduto allo screening del quadro competitivo delle proposte offerte come didattica di terzo livello in tutta Italia, a cui è seguita la fase di messa a punto degli insegnamenti in base alle richieste del mercato di lavoro nel settore degli interni e al rapporto continuo con le aziende e gli stakeholders. La proposta di questo master è nata infatti dall’esigenza di rispondere alla crescente domanda di figure professionali nei settori della progettazione degli interni abitati, degli allestimenti e del retail; aree di progetto in cui sono avvenute e continuano ad avvenire rapide trasformazioni che incidono direttamente sui profili professionali. Questo master propone un’esperienza nel mondo dell’arredo domestico inteso in tutte le sue declinazioni, dalla casa tradizionale alle forme di domesticità contemporanea in continuo rinnovamento, dell’exhibit di spazi museali, di mostre, fiere ed eventi con attenzione specifica rivolta sia agli aspetti gestionali e di marketing, sia di ordinamento espositivo, e del retail design con attenzione alle formule di vendita e alle tecniche di allestimento, comunicazione e promozione. Si tratta di tre laboratori progettuali preceduti da un modulo di tematiche comuni nel campo del marketing, della rappresentazione, degli impianti con lo scopo di uniformare le diverse competenze che caratterizzano i partecipanti formatisi nelle varie sedi universitarie in ambito di laurea triennale e/o magistrale o diploma universitario. Il master è organizzato con un taglio metodologico, ma ha nello stesso tempo un carattere molto operativo. In ogni laboratorio, dopo una prima fase in cui si vuole offrire ai partecipanti un metodo per affinare le loro capacità critiche costituito da presentazioni di un corpus dottrinale, scatta la fase del progetto basato sul solving problem di una determinata situazione reale con il preciso scopo di mettere in luce lo stile creativo personale e originale della proposta progettuale. Concept e progetto devono essere in grado di fondersi in modo creativo con le effettive esigenze degli utenti finali, simulando così un incarico di progettazione che il mondo del lavoro potrà offrire ai partecipanti nell’immediato futuro. Il master si propone di fornire piena conoscenza delle metodologie e delle strumentazioni atte a impostare, gestire e portare a compimento processi di organizzazione degli interni ed effettuare di conseguenza scelte consapevoli per l’ideazione e per lo sviluppo a scala di dettaglio di arredi, attrezzature, materiali, finiture e grafica di commento. I temi affrontati sono finalizzati a formare figure professionali in grado di interpretare in maniera critica e creativa il rapporto tra oggetti, ambienti e utenti, integrando conoscenze di tipo progettuale nel settore dell’arredo, dell’allestimento e del retail con la imprescindibile formazione di base di tipo storico e culturale. I settori lavorativi di sbocco vanno dagli studi professionali, alle ditte che operano nei settori degli interni, dell’arredamento, dell’allestimento, del commercio, anche di alta gamma, tanto

380  Metodi


Progetto di interni arredati con studio degli abbinamenti cromatici (gruppo A. Finotti, S. Montalto, A.Teresi, edizione 2018-2019) Progetto di seduta divano e di abbinamento con pavimentazione, rivestimento pareti e palette di colori (gruppo J. Capogna, I. Ingiulla, R. Vela Pinuela, edizione 2017-2018)

Simona Canepa | La didattica di terzo livello: insegnare nel Master, dal concept al costruito 381



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