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I MIRACOLI DI GESÙ

Capitolo 7 LA COMUNITÀ ROMANA NEL TRAMONTO DELL’IMPERO

I cristiani di Roma appartenevano a tutte le etnie del mondo conosciuto e i loro idiomi materni e le loro culture erano altrettanto diversi delle loro origini. Tutte le contraddizioni proprie di un impero globale erano presenti fra i loro membri, che del resto appartenevano a diversi strati sociali e godevano di posizioni economiche molto diverse. Fu il Vangelo, la buona novella annunciata da Cristo, ciò che andò forgiando la loro identità particolare e che riuscì a farli sentire membri di una stessa comunità, una comunità solidale con una fede e una speranza comuni. Nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea leggiamo che al tempo di papa Cornelio (251-253) la Chiesa di Roma assisteva 1.500 persone fra indigenti, vedove e malati. Dato l’aumento di conversioni dei due secoli successivi, possiamo calcolare che il numero degli assistiti crebbe in proporzione. Tutti i documenti cristiani dei primi secoli parlano con naturalezza della preoccupazione costante delle comunità di aiutare i più bisognosi e deboli fra loro. La Chiesa riscuoteva ciò di cui aveva bisogno per le sue opere caritative grazie fondamentalmente alle collette tra i fedeli. La più conosciuta era, senza dubbio, la «festa delle collette», una delle ricorrenze che si dedicavano annualmente a raccogliere appunto una somma considerevole, bastante a rispondere alle necessità dei poveri di ogni genere presenti nella diocesi. Questa festa di generosità dei fedeli romani si celebrava ogni anno dal 5 al 15 di luglio, negli stessi giorni in cui tradizionalmente i pagani celebravano, con la medesima fi nalità, i Ludi Apollinares. Secondo san Leone Magno la versione cristiana di questa festa era la più antica, ma probabilmente era stata copiata dalla festa pagana. Questo papa insistette sulla convenienza di aggiungere al digiuno e alla preghiera propri del tempo della Quaresima l’elemosina e le opere di carità: «Impegnamoci a difendere le vedove, aiutiamo gli orfani, consoliamo quelli che piangono, riconciliamoci con i nostri nemici, forniamo alloggi ai pellegrini, soccorriamo gli oppressi, vestiamo gli ignudi, occupiamoci degli infermi». Si trattava di un’esortazione all’impegno personale e alla collaborazione alle opere diocesane. La Roma cristiana approvò e favorì l’istituzione di granai pubblici per il sostentamento delle classi inferiori. In questi granai non si vendeva frumento, ma lo si immagazzinava e lo si distribuiva ai bisognosi. Le proprietà agricole che la Chiesa romana possedeva in Africa e in Sicilia erano amministrate da rappresentanti del vescovo di Roma che avevano la missione di inviare a Roma i raccolti. In non poche occasioni i papi, anche quando non avevano autonomia né poteri di governo nella città, furono gli unici capaci di trovare soluzione ai problemi di scarsità o di carestia della popolazione, guadagnando un’autorità morale universalmente rispettata e la fi ducia riconoscente dei romani. Due secoli più tardi, in una situazione di maggiore decadenza, Gregorio Magno (590-604) vigilò e organizzò l’approvvigionamento quotidiano della popolazione, soggetta alle calamità e alla disorganizzazione cronica dell’epoca, importando gli alimenti necessari, in particolare il grano dei territori siciliani proprietà della Chiesa romana. Restaurò inoltre gli edifi ci di una città in rovina e in palese decadenza. Roma e, in generale, le Chiese locali disponevano di un elenco pressoché completo dei bisognosi delle loro comunità, autentica radiografi a della situazione dei fedeli, indice di un’organizzazione complessa e ramifi cata, grazie alla quale i vescovi e i diaconi conoscevano minuziosamente le necessità individuali e cercavano di rispondervi a seconda della situazio-

1. Ultima Cena. Mosaico, 493-526 ca. Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna. Mancano raffi gurazioni della comunità cristiana, l’iconografi a riguarda anzitutto scene dell’Antico Testamento e dei Vangeli. Abbiamo però raffi gurazioni di banchetti eucaristici nelle catacombe. L’immagine dell’Ultima Cena con gli apostoli resta l’esempio costitutivo della comunità cristiana. Il mosaico paleocristiano di Ravenna è particolarmente espressivo: i grandi pesci sulla mensa ricordano il miracolo della moltiplicazione per sovvenire ai bisogni di tutti.

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2. Papa Cornelio e san Cipriano. Affresco, VI secolo. Catacombe di San Callisto, Roma. San Cipriano, vescovo di Cartagine, sostenne l’atteggiamento misericordioso del papa nei confronti di chi avesse rinnegato la fede. 3. Santa Melania la Giovane. Icona moderna.

4. Raffaello (e bottega), San Leone Magno ferma Attila. Affresco, 1513-1514. Stanza di Eliodoro, Musei Vaticani.

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ne di ciascun indigente. Roma era una diocesi ricca, con una massa di beni ben amministrata, a cominciare dai patrimoni delle basiliche per fi nire con i legati delle grandi famiglie e le eredità di molti cristiani. Come esempio di questa dedizione generosa, prendiamo Cipriano, vescovo di Cartagine, il quale, dopo essersi convertito al cristianesimo a 45 anni, distribuì tra i poveri una parte importante della sua fortuna. Due secoli più tardi, verso il 409, la società romana rimase commossa quando Melania la Giovane, una delle ereditiere più ricche dell’Impero, felicemente sposata con Piniano, ugualmente ricco, decise di donare tutti i suoi beni ai poveri e di iniziare una vita di castità. Non furono gli unici, e ogni volta i poveri furono destinatari di una parte importante o addirittura della totalità delle ricchezze. Non si tratta solo di azioni a favore dei più sfortunati, motivate semplicemente dalla pietà o da un sentimento umanitario; nel cristianesimo si mostra un nuovo modello di rapporti umani e di società fraterna. Una comunità che ama i fratelli perché ritiene che, essendo Dio il Padre comune, si debba dimostrarlo con parole e opere. Massimo il Confessore scrisse: «Facendo scomparire l’amore per se stesso mediante la carità, chi si mostra degno di Dio fa scomparire allo stesso tempo tutta la folla di vizi che ormai non hanno in lui più ragione di essere né fondamento. Quest’uomo non conosce più l’orgoglio, segno di arroganza verso Dio, male multiforme e innato; egli […] facendosi amico degli altri esseri umani con una benevolenza volontaria, consuma l’invidia, che a sua volta consumerebbe per primo chi la prova; elimina la collera, i desideri omicidi, l’ira, l’inganno, la menzogna, lo scherno, il rancore, l’avidità e tutto ciò che divide gli uomini»9 . L’identità cristiana non si esaurisce nel Credo e nel canone delle Scritture, ma si manifesta anche e soprattutto nella carità reciproca e nel rapporto fraterno dei discepoli di Gesù: «Se […] possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla» (1 Corinzi 13,2). Nella nuova società i cristiani avranno come norma l’esortazione di Gesù: «Fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi». Non chiede che li trattia-

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mo come essi ci trattano, che è la legge del taglione, ma come noi stessi, che ci amiamo molto, vogliamo essere trattati, e questa decisione di prendere noi stessi l’iniziativa si traduce nel Padre Nostro con il rischioso impegno di chiedere al Signore che rimetta a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Nella liturgia si mantiene il principio che per Cristo tutti gli uomini hanno la medesima dignità. Gli schiavi sono ammessi al battesimo e all’eucaristia alle medesime condizioni dei liberi. Si trattava di una decisione rivoluzionaria, giacché gli schiavi pagani non potevano partecipare ai culti uffi ciali e dovevano organizzare fra di loro dei culti appropriati. Non incontriamo mai nelle catacombe la parola «servo», perché per quei cristiani tutti erano uguali, anche nella morte. Leone Magno, dunque, cercò di salvare i romani dalle grinfi e dei barbari e di salvare i barbari da se stessi. Era il suo compito precipuo, salvare i fi gli di Dio da quanto minacciasse la loro vita e la loro libertà. Nel corso dei secoli incontriamo ripetutamente questa attitudine. L’Europa nasce da quest’opera ecclesiale di integrazione. Da un amalgama di popoli, culture e tradizioni, il cristianesimo, annunciando la paternità universale di Dio e la presenza umanizzatrice e salvifi ca di Cristo, ottiene una cultura che lo integra con le tradizioni romane e le peculiarità di ciascun popolo. Per questo risultato è stato essenziale, senza dubbio, che il cristianesimo non fosse radicato in alcun contesto particolare razziale, geografi co, sociale o politico. Esso era genuinamente universalista. Risulta importante, in tal senso, apprezzare tanto gli elementi di continuità quanto quelli di discontinuità fra il mondo romano di sant’Agostino e il mondo cristiano-barbarico che gli succedette. Fra gli elementi di continuità non si può non tener conto del ministero caritativo che i vescovi e le istituzioni ecclesiastiche mantennero invariabilmente nelle città a favore dei più deboli delle varie comunità. Come un’eco dell’avvertimento di Giuliano l’Apostata, si mantenne nei nuovi modelli sociali quell’impronta di carità e preoccupazione per le necessità dei cittadini che aveva distinto le prime comunità cristiane10 .

Capitolo 8 LA CARITÀ ECCLESIALE NEI CONSIGLI DI GIULIANO L’APOSTATA

Giuliano (331-363) era fi glio di Giulio Costanzo, fratello dell’imperatore Costantino. A sei anni subì lo sterminio della sua famiglia, in occasione dell’uccisione dei rivali potenziali che segnò l’accesso al potere dei fi gli di Costantino, e durante i ventiquattro anni seguenti visse nel timore di essere assassinato dal cugino Costanzo, che morì poi senza eredi. A trent’anni fu proclamato imperatore. Durante la sua gioventù studiò la fi losofi a, e si considerò predestinato a restaurare la Romanitas, degradata – secondo lui – dall’imposizione della religione cristiana operata dallo zio, e fi nì per odiare tanto i suoi parenti quanto il cristianesimo. Per lui, Gesù di Nazaret, lungi dall’incarnare l’espressione fi nale e piena del Verbo, non era altro che un contadino illetterato i cui insegnamenti, completamente privi di verità e di bellezza, erano allo stesso tempo illogici, estranei al senso comune e socialmente sovversivi. In realtà, si può pensare che, avendo sperimentato sulla sua pelle la crudeltà e la capacità di assassinare impunemente e senza rimorso dei cugini, cristiani confessi, doveva risultare diffi cile a Giuliano digerire la dottrina dell’amore proclamata da Gesù e praticata in apparenza dai suoi discepoli contemporanei, ma screditata crudelmente dai suoi regali parenti. Se rifl ettiamo su questa storia, ci rendiamo conto che la conversione del potere in tutte le sue dimensioni risultava molto diffi cile. Si accettava il cristianesimo come religione personale, ma il modo di governare continuava a essere egoista, violento, sconsiderato e aggressivo verso chiunque fosse considerato un avversario o un concorrente. Capetingi, Borboni, Asburgo o Braganza appoggiarono la Chiesa e furono persino dotati di pietà personale, ma quasi sempre ritenevano che il fi ne giustifi casse i mezzi. Costanzo fu senza dubbio sinceramente cristiano, ma, in quanto imperatore, fu altrettanto violento e immorale di qualsiasi imperatore pagano. «Non così voi», esortò Gesù i suoi discepoli, ma è risultato molto complicato conciliare il potere con l’amore e con l’attitudine al servizio. Una volta divenuto imperatore nel 361, dominato dal desiderio di ricreare la realtà classica e di adattare a questo piano gli dei del politeismo mediterraneo, Giuliano progettò di passare dalla rivelazione cristiana alla ragione greca. Volle cioè tornare allo spirito e al metodo della scienza classica, ma utilizzò, forse per l’improvvisazione e per il poco tempo di cui disponeva, una formulazione atipica, poco strutturata e sistematica. Lo storico di Roma Edward Gibbon osserva che «il genio e il potere dell’imperatore erano impari all’impresa di restaurare una religione priva di princìpi teologici, di precetti morali e di disciplina ecclesiastica», ma Giuliano tentò con audacia, mosso da rancore nei confronti di Costantino e del cristianesimo, identifi cando il secondo col primo. Nonostante questo rifi uto e l’avversione per il cristianesimo, Giuliano fu molto sensibile a quelle caratteristiche proprie della nuova religione che attraevano il popolo e rafforzavano la sua presenza e la sua espansione. «Sono consapevole», scrisse al pontefi ce pagano Teodoro, «che avendo i sacerdoti pagani abbandonato i poveri, gli empi galilei si sono dedicati con intelligenza a questo genere di fi lantropia, e hanno raccolto molti frutti con queste pratiche, che destano sempre impressione. In questo modo, i galilei hanno cominciato la loro opera politica a partire da ciò che chiamano agápe e dall’ospitalità e dal servizio delle mense, facendo sì che molti passassero all’ateismo». Man mano che andava avanti, concretizzando la sua decisione di rinnovare il paganesimo, Giuliano ritenne conveniente copiare ciò che aveva aiutato il trionfo del cristianesimo. Scrisse al sommo sacerdote Arsacio: «Non vediamo che soprattutto hanno ac-

1. Trionfo di Cibele e Attis. Patera argentea di Parabiago. Civiche Raccolte Archeologiche, Milano. Il culto di Cibele giunge a Roma dalla Grecia agli inizi del II secolo a.C. Chiamata spesso dai romani «la grande madre», magna mater, il suo culto è ripreso da Giuliano, poiché Cibele protegge la natura e perciò l’attività agricola che dà agli uomini risorse vitali.

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cresciuto l’ateismo la fi lantropia verso gli stranieri, la cura nel seppellire i morti e la simulata austerità della vita? […] Istituisci in ciascuna città numerosi alloggi, affi nché gli stranieri godano della nostra fi lantropia, e non solo i forestieri che sono dei nostri, ma chiunque altro abbia bisogno. Ho già pensato donde potrai procurarti i mezzi: ho ordinato, infatti, che siano assegnati ogni anno per l’intera Galazia trentamila moggi di grano e sessantamila sestieri di vino. Io dico che di questi bisogna distribuirne la quinta parte ai poveri che prestano la loro opera presso i sacerdoti, il resto lo dobbiamo assegnare agli stranieri e a coloro che vengono a mendicare da noi. Infatti, sarebbe vergognoso che mentre […] gli empi galilei nutrono oltre ai loro anche i nostri, risultasse che i nostri manchino di assistenza da parte nostra»11 . Questi ospedali o ostelli, che tanto ammirava Giuliano, erano case destinate ai bisognosi che si trovavano senza un tetto, luogo di rifugio di poveri, pellegrini, infermi, gente senza alloggio, case in cui si esercitavano la carità e l’assistenza cristiane sotto la guida più o meno diretta del vescovo. Una volta conseguita la libertà e man mano che aumentava il numero dei cristiani, queste case si moltiplicarono. Non risulta quindi strano che i pagani identifi cassero il cristianesimo con l’organizzazione capillare che raggiungeva tanti ambiti diversi della società. L’intenzione di Giuliano di rinnovare il paganesimo risultò inattuabile. Benché la sua morte prematura ci impedisca di sapere ciò che sarebbe accaduto se il suo regno fosse stato più lungo, le pratiche cristiane e la loro organizzazione avevano ottenuto un successo tanto generalizzato che risulta diffi cile immaginare un’alternativa vittoriosa. Soprattutto, la presenza cristiana nelle necessità, penurie e aneliti del vasto mondo popolare aveva ottenuto un’adesione quasi impossibile da ottenere con la decrepita religione pagana, nonostante ogni sforzo prodigato per rivitalizzarla. Il cristianesimo offriva consolazione e generava entusiasmo, due stati d’animo necessari in quello e nel nostro tempo. Il suo Dio era vicino, pietoso e paterno, e non aveva nulla a che fare con la rielaborazione della divinità operata da Giuliano e da altri fi losofi pagani. L’amore predicato e vissuto nelle comunità cristiane, nonostante il peccato e le debolezze fossero pur sempre presenti, continuava a essere la loro gloria e la loro forza. Agli uomini del IV secolo, il cristianesimo non si presentava tanto come una dottrina o un dogma, o come un’associazione di mutua assistenza, né come una teologia o una istituzione, per quanto originali, ma, piuttosto, come uno stile radicale di vita, come l’ideale di un uomo e di una società rinnovati. Il culto, la liturgia, la devozione e, soprattutto, il suo modo di intendere gli altri e di mettersi in rapporto con loro, furono l’espressione di questa trasformazione della psicologia, della sensibilità e del comportamento dei cristiani. Le pratiche di penitenza, di mortifi cazione, di carità (dall’amore fraterno all’elemosina) e la percezione di far parte del Corpo mistico di Cristo determinarono nuove relazioni sociali e un sentimento di gruppo che trascendeva il tempo e lo spazio. Chiaramente, Giuliano non arrivò a comprendere l’importanza di questa trasformazione, se, avendo ridotto il suo rimodernamento del paganesimo a nuovi aspetti dottrinali e a una rinnovata organizzazione sociale, pensava con questa metamorfosi – in realtà solo cosmetica – del paganesimo di ferire a morte il cristianesimo. Nel suo progetto, Giuliano dimenticò che solo Cristo è l’amore generatore dell’amore e della generosità dei cristiani.

2. Busto dell’imperatore Giuliano, particolare della statua a lui attribuita. Parigi, Louvre.

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Capitolo 9 I PADRI DELLA CHIESA E LA GIUSTIZIA SOCIALE

I Padri della Chiesa provenivano, in genere, da famiglie agiate, con una buona formazione intellettuale e con un intenso spirito evangelico che aveva modellato la loro personalità e le loro attività. Erano tutti molto generosi, dividevano i propri beni fra i bisognosi e diventarono famosi per le loro opere di carità. Interpreti eccezionali della Sacra Scrittura che tengono costantemente in mano, accentuano e proclamano il loro profondo sentimento sociale, dimostrando che questo aspetto, nella sua radicalità, risulta inseparabile dal cristianesimo. Nei loro scritti vengono affrontati temi tanto fondamentali come l’uguaglianza essenziale degli esseri umani; la dignità e la primazia della persona umana, e il suo pluralismo cui si deve rispetto; la proprietà privata e la sua natura sociale; la ricchezza e lo scambio dei beni, il lavoro e la sua dignità; lo sviluppo economico e la sua sottomissione alla morale. Secondo i Padri, i doveri dei ricchi non consistono soltanto in un intimo distacco, ma, fondamentalmente, nella condivisione dei loro beni con quelli cui manca il necessario, non solo per farli sopravvivere ma anche per far sviluppare le loro capacità personali. Non si trattava appena di essere generosi ma anche giusti e, nei loro scritti, non esitarono a utilizzare un linguaggio audace ed esigente. Infatti, man mano che sviluppavano strutture di assistenza per i più poveri e che si trasformavano progressivamente in protettori e benefattori di individui e città, i vescovi esortavano i propri fedeli a mettere le ricchezze personali al servizio dei bisognosi e della Chiesa, ma le loro argomentazioni, partendo dal Vangelo, andavano al di là delle raccomandazioni alla benefi cenza e all’assistenza, e si concludevano elaborando una dottrina dell’uguaglianza sostanziale del genere umano e dei suoi diritti, fondata sulla decisione del Creatore che tutti i beni della terra debbano essere comuni. Propongo adesso alcuni testi signifi cativi dei Padri più importanti.

San Basilio (330-379), il più moderno dei Padri greci, pose in evidenza di frequente il carattere sociale e comunitario della dottrina evangelica sulla proprietà e le ricchezze. «La carità sottomette gli uomini liberi gli uni agli altri e accentua e mantiene, allo stesso tempo, la libertà della volontà». «Il decreto di Dio non ci insegna che dobbiamo respingere e fuggire i beni materiali come se fossero mali, ma ci spiega invece come amministrarli. Se si condanna qualcuno, non è in nessun caso perché possiede dei beni, ma perché li ha impiegati disonestamente o perché non è stato capace di farne un uso adeguato». «Che cosa risponderai al Giudice, tu che addobbi le pareti e lasci

nudo l’uomo, tu che adorni i cavalli e non ti degni di guardare il tuo fratello coperto di cenci, tu che lasci che il grano marcisca e non nutri gli affamati, tu che sotterri l’oro e non sfami chi muore di ristrettezze?». «Mi sembra che l’infermità dell’anima di quest’uomo sia simile a quella dei golosi, che preferiscono scoppiare per il troppo cibo, piuttosto che dare gli avanzi ai bisognosi. Sii consapevole, uomo, di chi ti ha dato ciò che possiedi, ricorda a chi appartiene ciò che amministri, da chi lo hai ricevuto, per quale motivo sei stato preferito ad altri. Sei stato fatto servitore di Dio e amministratore di coloro che sono, come te, servi di Dio; non pensare che i tuoi beni siano stati destinati esclusivamente al tuo ventre. Ricordati che ciò che hai in mano è cosa d’altri. I beni possono rallegrarti per un certo tempo, ma in seguito fuggono e scompaiono, e alla fi ne ti sarà chiesto il conto esatto di ogni cosa». San Cirillo di Gerusalemme (313-386) è conosciuto e ammirato per la catechesi che predicò nel 358 ai catecumeni, nella quale spiegò metodicamente il credo della Chiesa di Gerusalemme, senza dimenticare nessuno degli articoli dedicati alla generosità nella distribuzione dei beni. «Ciò che ricevi da Dio per amministrarlo come un maggiordomo, amministralo utilmente. Ti è stato affi dato del denaro? Amministralo bene. Hai talento per attrarre le anime di coloro che ti ascoltano? Fallo diligentemente. Puoi attirare grazie alla fede in Cristo le anime di chi ti sente parlare? Fallo diligentemente. Sono molte le porte di una buona amministrazione».

San Gregorio Nazianzeno (330-390) sottolinea in tutte le sue opere l’aspetto sociale, in modo particolare nel suo discorso Sull’amore per i poveri, pronunciato probabilmente a Cesarea nell’anno 373. «Non c’è nulla nell’uomo di più divino che fare del bene»; e indica tra i motivi della compassione per i diseredati i seguenti: «Tu che sei robusto, aiuta l’infermo; tu, ricco, il bisognoso; tu, che non hai inciampato, chi è caduto e si trova nella tribolazione; tu che hai coraggio, chi si è scoraggiato; tu, che ti godi la prosperità, colui che soffre nell’avversità. Ringrazia Dio di essere fra quelli che possono fare un benefi cio e non fra quelli che hanno bisogno di riceverlo; tra chi non deve guardare le mani degli altri, e sono gli altri che guardano le tue. Non essere ricco solo per il tuo benessere, ma anche per la tua pietà; non solo per il tuo oro, ma anche per la tua virtù o, per meglio dire, solo per questa. Fatti stimare più del tuo prossimo diventando migliore di lui; diventa un dio per lo sfortunato imitando la misericordia di Dio».

San Giovanni Crisostomo (344/354-407) si distinse per la sua ardente carità. Essendo arcivescovo di Co-

2 A pagina 51: 1. San Basilio il Grande offi ciante. Affresco, XI secolo. Cattedrale di Santa Sofi a, Ohrid, Macedonia.

2. San Giovanni Crisostomo e un vescovo nubiano. Pittura murale, X secolo. Museo di Arte Copta, Il Cairo Vecchio. 3. I santi vescovi Basilio il Grande, Atanasio di Alessandria e Giovanni Crisostomo. Affresco, fi ne del XII secolo. Monastero di San Mosè l’Etiope, Nabak, Siria (restauro Istituto Centrale del Restauro di Roma).

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4. Sul retro del famoso Altare d’oro di Sant’Ambrogio a Milano, opera di Vuolvinio, di epoca carolingia (824-859), sono illustrate scene della vita di Ambrogio, in cui si dipana anche il suo impegno politico e sociale.

5. Particolare della formella con il battesimo di Ambrogio.

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stantinopoli, dedicò le sue ingenti entrate a erigere ospedali e a soccorrere i poveri. La sua preoccupazione in favore dei bisognosi e degli oppressi e il suo interesse per una più equa e giusta partecipazione di tutti alle ricchezze era così intensa, che a ragione gli si può dare il titolo di avvocato dei poveri, dato che incontriamo in quasi tutte le sue omelie la difesa ardente del diritto dei bisognosi all’aiuto e al soccorso; egli ricorda ai ricchi il loro dovere di devolvere ciò che è stato loro concesso, e fustiga senza mezzi termini la loro mancanza di coscienza sociale, i loro lussi e sprechi e le loro ingiustizie sociali. «Facciamo così anche noi e adoperiamoci in questo modo per la salute dei nostri fratelli. È opera non inferiore al martirio non lesinare alcun sacrifi cio per la salvezza di tutti. Non c’è cosa che rallegri di più Dio. Ancora una volta torno a dire ciò che ho detto molte volte. La stessa cosa fece Cristo esortandoci al perdono: ‘Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello’ (Matteo 5,23-24)».

Sant’Ambrogio (339-397) afferma nei suoi scritti che il fondamento della società sono la giustizia e la benefi cenza. Insiste sull’importanza del bene comune e sul carattere comunitario dei beni. In tutti i suoi testi ricorda il dominio universale sulla terra concesso da Dio a tutti gli uomini e il diritto di tutti a dividersi i suoi frutti. «È buona la misericordia che

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