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IL MONACHESIMO

IL MISTERO DI CRISTO NEI POVERI 4-5. Paolo VI in Bolivia nel 1968 per la conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellín.

In ogni caso, l’ecclesiologia si è arricchita con il concetto di popolo di Dio. Questo popolo è formato da poveri che vedono realizzate nella loro vita le promesse che Dio ha fatto agli esseri umani nel corso della storia. Questo popolo è composto da uomini che hanno bisogno di essere salvati. La Chiesa ha ripreso questo concetto per mostrare che fa parte integrante della storia umana, tende al regno che sta per venire e realizza la profezia di Isaia: «I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Matteo 11,5). Questo concetto di popolo permette di affermare l’eguale dignità dei fi gli di Dio. Le persone colpite dalla povertà hanno questa stessa intuizione quando dicono: «Almeno quando preghiamo in Chiesa vediamo che c’è uguaglianza. Dio ama allo stesso modo i ricchi e i poveri». Alcuni anni più tardi, nella conferenza di Medellín (1968), viene detto che «l’episcopato latinoamericano non poteva rimanere indifferente di fronte alle terribili ingiustizie sociali che esistevano ed esistono in America Latina, che costringono la maggioranza del nostro popolo in una dolorosa povertà, e in molti casi in una miseria disumana. Un clamore sordo si leva da milioni di persone, che chiedono ai loro pastori una liberazione che non giunge loro da nessun altra parte» (Medellín 14,1-2). Le successive conferenze dell’episcopato latinoamericano a Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e Aparecida (2007) hanno mantenuto questo livello di analisi della realtà e di esigenza comunitaria e personale. Disgraziatamente, si tratta di realtà e documenti poco conosciuti dai cristiani in generale.

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Capitolo 33 HÉLDER CÂMARA E ÓSCAR ARNULFO ROMERO

Uno storico del concilio Vaticano II ha defi nito l’arcivescovo Hélder Câmara come «uno che cerca l’impossibile». La sua fu una voce libera da vincoli, convinta dell’impossibilità di annunciare ed essere testimoni del Vangelo in mezzo a dorature barocche, candelabri e arazzi; attenta solo a ciò che chiede Gesù e non alla polvere dei secoli che ricopre tante chiese e istituzioni ecclesiastiche. Quando gli inviarono da Roma un questionario composto da cinquanta domande, rispose che esse non tenevano conto delle questioni più gravi e fondamentali del momento, problemi come l’eccessiva crescita demografi ca dell’America Latina o il sottosviluppo di due terzi dell’umanità. C’è una domanda che la Chiesa dovrebbe porsi con frequenza: stiamo dando importanza alle stesse cose cui dava importanza Gesù? Il Signore aveva criticato con severità quanti, dimenticando l’amore – cioè il modo stesso di agire di Dio – si concentravano su minuzie, riti inutili, tradizioni non fondamentali, condannando senza pietà i «trasgressori». «Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né me» (Giovanni 16,2-3). Nelle comunità cristiane si è impugnata talvolta la frusta dell’intolleranza, usurpando il potere e manifestando un atteggiamento che certamente non troviamo nel Vangelo e che ha poco a che vedere con il modo di fare di Gesù. Nonostante questo, non sono mai mancati quelli che si sono seduti agli ultimi posti, hanno perdonato settanta volte sette, hanno porto l’altra guancia e hanno costruito il regno di Dio con l’umiltà, la forza tranquilla e la convinzione che è Dio che semina e raccoglie. Hélder Câmara era convinto che solo se accettiamo le conseguenze dell’identifi cazione di Cristo con il povero saremo capaci di agire nel modo che ci richiede Gesù nella sua descrizione del Giudizio universale: lottando con coraggio a favore della pace, dell’amore e della giustizia, senza prestare attenzione alle preoccupazioni di questo mondo, sempre legate all’egoismo degli interessi personali; concependo l’esercizio del potere solo come servizio e la Chiesa come antitesi dell’imperio, della manipolazione e dell’imposizione. «Non è possibile essere cristiani e non stare dalla parte dei poveri», insisteva con chi lo accostava. «Non è possibile ottenere la pace senza praticare la giustizia, e la giustizia presuppone ai nostri giorni lo sviluppo economico e culturale. L’indipendenza politica deve essere accompagnata dall’indipendenza economica, senza la quale i Grandi sottomettono le nazioni. Non è onesto parlare di libertà a due terzi dell’umanità che non possono comprendere il signifi cato della parola ‘libertà’». Non è onesto né coerente, potremmo aggiungere, pretendere certe libertà da popoli cui non procuriamo condizioni economiche che rendano possibili quelle libertà. Sognava una Chiesa che si facesse povera e serva, in quanto istituzione, in quanto esempio comunitario della fedeltà a Gesù: «i vescovi dell’America Latina si liberino delle terre della Chiesa donandole con intelligenza ai poveri; si pongano apertamente, decisamente e senza eccezioni dalla parte delle riforme strutturali; stimolino i movimenti per la nonviolenza affi nché esercitino una pressione democratica che aiuti a vincere l’inerzia e l’egoismo dei poteri economici; stimolino lo sviluppo cercando di assicurargli un senso umano e cristiano, al fi ne di salvaguardare la dimensione umana nei piani d’investimento e di preparare l’uomo allo sviluppo attraverso programmi educativi che portino le masse subumane a trasformarsi in popoli»48 . In un’occasione, libero da vincoli, abitante di un continente di miseria e di ignoranza, volendo mani-

1-4. Hélder Câmara e Óscar Romero ai lati di una foto aerea di Città del Messico (foto A. Stabin) e di una di un quartiere semidistrutto di Cochabamba, nella Bolivia degli anni Ottanta (foto C. Lavayén). L’America Latina esplode in sviluppo e distruzione. Lo sviluppo comporta l’abbandono di interi quartieri e la creazione delle favelas.

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festare il suo giudizio sul complesso intreccio che, con il passare del tempo, aveva intorpidito e sfi gurato la Chiesa, affermò: «Ieri mi hanno chiesto quale sarebbe la prima cosa che farei se fossi Papa. Ho iniziato ricordando loro che non è per niente facile essere Papa. È diffi cilissimo. È diffi cile persino essere arcivescovo. Non so che cosa riuscirei a fare. Ma so che cosa avrei voglia di realizzare. Mi insedierei in piena Piazza San Pietro. Direi al popolo e al mondo che, in linea con Paolo VI che ha donato la sua tiara per non essere e non voler essere mai più un Re di questo mondo, in quell’istante, per una questione di coscienza, vorrei dire ai Paesi che hanno accreditato ambasciatori presso la Santa Sede che, malgrado il Papa ci tenga a mantenere sempre ottime relazioni personali con tutti i popoli, ormai non hanno ragion d’essere né gli ambasciatori in Vaticano, né i nunzi presso i governi… Direi la stessa cosa, con estrema delicatezza e misurando le parole per non ferire nessuno, al patriziato romano. E ancora, comunicherei la decisione di trasformare il Vaticano in semplici Museo e Biblioteca, affi dati a un’istituzione internazionale che si impegnasse a mantenere questi organi al servizio della cultura (il prezzo dell’affi tto sarebbe impiegato per i poveri). Manie di Povertà!… Affi nché la Chiesa sia serva come Cristo, affi nché non offra al mondo lo scandalo di una Chiesa forte e potente che si fa servire, mi sembra fondamentale questo inizio da fare subito, il primo giorno. Vi rendete conto di che rivoluzione sarebbe?… Da lì alla riforma della Curia romana sarebbe un passo. Nella misura in cui sarà vissuta la collegialità e l’atteggiamento verso i vescovi smetterà di essere di sfi ducia e di sorveglianza, la Curia potrà essere molto semplifi cata… Le spese scenderebbero moltissimo: senza nunziature né nunzi; senza il Vaticano da mantenere (le piccole Guardie resterebbero a vigilare il Museo, la Biblioteca, la Basilica, mantenute dall’istituzione affi ttuaria); con il decentramento effettivo del governo della Chiesa, il Papa potrebbe togliersi dall’imbarazzo dei beni che scandalizzano tanto. Forse il prestigio del Papa crollerebbe. Ma è essenziale che abbia prestigio? Essenziale è che faciliti alla gente l’identifi cazione fra Cristo e il suo rappresentante diretto e immediato sulla terra. Essenziale è che l’umanità non veda nella Chiesa un regno in più, un impero in più…»49 .

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Questa visione rappresenta forse un’utopia, impossibile da realizzare? In ogni caso, mette in rilievo l’importanza delle parole di Gesù: «Non così voi», non agite come il mondo, non vi identifi cate con il mondo. Anche come istituzione, come comunità di fede, avete l’obbligo di fronte a voi stessi di agire come i singoli cristiani che seguono Gesù. Anche le istituzioni devono dare testimonianza, essere strumenti dell’amore di Dio, delle beatitudini pronunciate dal Signore. Il 24 marzo del 1980, Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu assassinato davanti all’altare maggiore della cattedrale per la sua difesa risoluta dei contadini e dei più poveri del Salvador, dove l’ingiustizia e la prepotenza di alcuni mettevano in pericolo imminente tutti quelli che si opponevano ai loro progetti. Non fu l’unico né il primo. Prima di lui avevano torturato e assassinato il gesuita Rutilio Grande (1977), fondatore di decine di comunità ecclesiali di base nelle quali contadini e operai credenti delle Americhe mettevano a confronto la loro vita quotidiana con la loro fede, e altri sacerdoti, catechisti e fedeli. Romero non difese mai la violenza, ma fu consapevole dell’importanza sociale e, in un certo senso, rivoluzionaria dell’amore cristiano: «La Chiesa ha condannato sempre la violenza fi ne a se stessa o esercitata abusivamente contro i diritti umani, o usata come unico mezzo per difendere e affermare un diritto umano. Non possiamo fare il male per raggiungere il bene. Un soldato non è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale non deve essere rispettata. La Chiesa non deve tacere di fronte a tanto abominio. Le riforme non servono a nulla se sono macchiate di tanto sangue. Nel nome di Dio e del popolo rassegnato, io vi supplico, io vi ordino: fermate la repressione!». In ogni momento, parlò con totale libertà delle conseguenze della Parola di Dio sulle azioni umane e del suo peso nella situazione salvadoregna. In un’omelia pronunciata il 3 dicembre 1978 affermò: «La Chiesa è vicina a ogni uomo che avanza rivendicazioni giuste in un contesto ingiusto, e che lavora per il regno di Dio. Il regno di Dio è più vicino alle zone di frontiera della Chiesa e pertanto la Chiesa apprezza tutto ciò che è in accordo con la sua

A fronte: 1. Jacques Loew, domenicano, fece lo scaricatore al porto di Marsiglia e fondò la Mission Ouvrière Saints-Pierre-etPaul, piccola comunità di sacerdoti che condividevano la condizione operaia.

lotta per instaurare il regno di Dio. Una Chiesa che cerchi solamente di conservarsi pura e incontaminata non sarebbe una Chiesa al servizio di Dio e degli uomini». Sia Câmara sia Romero avvisarono e parlarono della responsabilità della Chiesa nello sviluppo dei popoli. Gli interventi pronunciati dall’arcivescovo brasiliano in alcune città europee segnalarono spesso con coraggio la responsabilità morale degli europei in tante situazioni ingiuste del Terzo Mondo. Hélder Câmara e Óscar Arnulfo Romero collaborarono alla redazione del documento fi nale di Puebla, specialmente nel paragrafo 4 del capitolo 2, intitolato Evangelizzazione, liberazione e promozione umana, in cui leggiamo: «Esistono due elementi complementari e inseparabili: la liberazione da tutte le forme del peccato, dal peccato personale e sociale, da tutto ciò che lacera l’uomo e la società e che ha la sua fonte nell’egoismo, nel mistero di iniquità; e la liberazione per la crescita progressiva nell’essere, grazie alla comunione con Dio e con gli uomini, che culmina nella perfetta comunione celeste, quando Dio sarà tutto in tutti e non ci saranno più lacrime. È una liberazione che si va realizzando nella storia, quella dei nostri popoli e quella personale, e che abbraccia le diverse dimensioni dell’esistenza: sociale, politica, economica, culturale, e l’insieme delle loro relazioni. In tutto questo deve diffondersi la ricchezza trasformatrice del Vangelo, col suo apporto proprio e specifi co, che va salvaguardato». Pochi anni dopo la morte di monsignor Romero, nell’Italia del Sud vengono assassinati don Pino Puglisi e don Giuseppe Diana, uno sotto casa e l’altro in sagrestia, con un avvertimento chiarissimo: «Tu, uomo di Dio, celebra la tua messa, ma non ti immischiare con i poveri e con la politica». Vecchia accusa: l’avevano già usata con Cristo. Cinque secoli prima, il domenicano António de Montesinos predicò ai coloni di Santo Domingo un sermone di Natale (1511) che esprimeva il pensiero di alcuni Domenicani presenti in quelle terre: «Voi tutti vi trovate in peccato mortale, vivete e morirete in questa condizione a causa della crudeltà e della tirannia con cui trattate questi popoli innocenti. Dite con quale diritto e in virtù di quale giustizia tenete gli indios in questa crudele e orribile schiavitù. Chi vi ha autorizzato a queste guerre detestabili contro gente che viveva tranquilla e pacifi ca nei suoi propri paesi, e a sterminarla in numero infi nito con omicidi inauditi? […] Forse non sono uomini, non hanno anima o ragione? Forse non siete tenuti ad amarli come voi stessi?». Assieme a Montesinos, Las Casas e Francisco de Vitoria, molti altri difesero i diritti umani di tutti gli abitanti delle colonie americane, ma spesso l’egoismo e l’ambizione pesarono più dei comandamenti evangelici50 .

Capitolo 34 I PRETI OPERAI

Nel 1943 Henri Godin e Yvan Daniel scrissero il libro La France, pays de mission?51, una cruda descrizione della decristianizzazione della Francia e un appello appassionato alla sua rievangelizzazione. Come si era giunti a questa situazione, che negli anni successivi si è riprodotta in altri paesi tradizionalmente cristiani? Con l’Illuminismo erano diventati di moda la critica religiosa, gli attacchi alla Chiesa, il deismo e un razionalismo radicale che rifi utava la trascendenza. Gran parte degli intellettuali e dell’incipiente mondo borghese abbandonò la pratica religiosa, e la cultura dei Lumi si caratterizzò per un atteggiamento indifferente nei confronti del fatto religioso e per un’antropologia che non teneva conto della trascendenza. Le teorie di Darwin e la cosiddetta teologia liberale sembrarono aver volto le spalle alla tradizione cristiana. Ancora più doloroso risultò però l’abbandono delle Chiese da parte della classe operaia, dei nuovi poveri e poverissimi, ammassati in sobborghi senz’anima e senza qualità di vita, prodotto di una nuova mentalità egoistica che sfruttava i lavoratori senza che lo Stato ne proteggesse con leggi giuste i diritti e i diritti delle loro famiglie. In Francia, come in Gran Bretagna e in Germania, i paesi più industrializzati, questa nuova classe sociale aveva sostituito la fede tradizionale e la frequenza delle chiese con le nuove teorie socialiste e le Case del Popolo, con la conseguenza sconcertante che la Chiesa perdette contemporaneamente la borghesia liberale e gli operai socialisti. Dopo numerosi tentativi falliti di avvicinarsi e di aiutare questo popolo privato dei suoi diritti e delle sue credenze, nel 1943 il cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi, creò la Missione di Francia, un tentativo generoso di interpretare la nuova situazione e di annunciare Cristo con voce rinnovata e rinnovate energie. Nacque così l’idea che i sacerdoti vivessero direttamente la condizione del mondo operaio. Furono anni in cui non pochi sacerdoti abbandonavano le proprie parrocchie per vivere nei quartieri più sfortunati e farsi così più vicini ai loro fratelli. Volevano essere presenti fra coloro che soffrivano, in comunione con i poveri, mettendo in pratica le parole di Gesù: «ai poveri è annunziata la buona novella» (Luca 7,22); volevano vivere il sacerdozio nel cuore stesso della Chiesa dei poveri52 . Si moltiplicarono in modo sorprendente le iniziative, non sempre felici, di questi sacerdoti, accusati di essere più militanti che preoccupati dell’evangelizzazione, e più operai che preti, benché non se ne mettesse mai in dubbio la generosità e la buona volontà. A Tolosa, padre Jacques Loew e altri Domenicani lavoravano sulle banchine del porto come scaricatori; Loew, comunque, impressionato dalle circostanze del processo al cardinale Mindszenty, rifi utò di fi rmare le petizioni presentate dai comunisti sulla

2. Quello che padre Joseph Wresinski ha fatto nel dopoguerra per i senza tetto in Francia è un’opera straordinaria. Qui lo vediamo in un momento diffi cile nel 1968, mentre la bidonville di La Campa, vicino a Parigi, veniva distrutta dai bulldozer (foto L. Prat). 3. Una famosa conferenza di padre Joseph Wresinski alla Sorbona nel 1983 (foto L. Prisset). Il titolo dell’intervento era «Scacco alla miseria». Oggi il Movimento ATD Quarto Mondo prosegue l’opera di Wresinski in molti paesi.

A fronte: 4. Catena di montaggio in una fabbrica di automobili negli anni Sessanta (illustrazione di G. Bacchin).

pace e contro la bomba atomica. Proprio lì, i Piccoli Fratelli di Gesù dimostrarono che si poteva essere contemplativi mentre allo stesso tempo si lavorava nei luoghi più duri e diffi cili e si viveva nelle zone più miserabili. Le fraternità operaie sorsero in diversi luoghi, con tre caratteristiche che le defi nivano: ripetere la vita segreta di Gesù a Nazaret, praticare una sentita e profonda vita eucaristica, testimoniare con la propria vita personale l’amore evangelico. I sacerdoti del Prado, il Volontariato per i Diritti dell’Uomo più povero, il Movimento ATD Quarto Mondo e numerose altre iniziative analoghe raccolsero in tutti i paesi molti giovani tormentati dalla situazione di allontanamento e abbandono ecclesiale di tanti che in passato erano stati cristiani. Gilbert Cesbron descrisse suggestivamente alcuni di questi ambienti nel suo romanzo I santi vanno all’inferno53 . Essa ha costituito una pagina meravigliosa della vita della Chiesa contemporanea, una Chiesa che, con perplessità e oscillazioni, angosciata per il massiccio abbandono degli operai e di quanti avevano aderito a movimenti sociali che riunivano i più miseri e i più deboli della società, ha tentato di incarnarsi fra i poveri e fra chi si era allontanato da essa, mossa dal desiderio di condividere la vita di tanti fratelli, occupandosi dei loro problemi e diffi coltà, seguendo in tutto Gesù. Benché l’esperienza si sia svolta in Francia, seguendo un programma ben meditato, anni prima erano state avviate altrove iniziative analoghe, sia pure più localizzate e ridotte. In qualche modo, si trattava di «passare ai barbari», un’azione che richiedeva di abbattere le barriere ecclesiastiche e culturali che separavano la Chiesa dal mondo non cristiano, in particolare dal mondo operaio. Questa scelta risultava talmente piena di novità e rivoluzionaria rispetto alla prassi tradizionale che, fi n dal primo momento, si ebbero perplessità e atteggiamenti prevenuti, soprattutto per il tentativo di conciliare la vita sacerdotale con il lavoro nelle fabbriche e in altri centri analoghi. L’ambiente di questi luoghi, lo stile di vita degli operai e lo sforzo del lavoro manuale non contaminavano gli obblighi e lo spirito sacerdotali? Non la pensava in questo modo Giovanni Battista Montini, quando nel 1948, al Congresso dei Laureati Cattolici, così si esprimeva durante la celebrazione della messa: «Mentre invece occorre simpatizzare con gli altri con totale amicizia per costruire il bene comune, non estraniarsi dalle forme di vita consuete, andare a tutti come hanno fatto in Francia alcuni sacerdoti che hanno vestito la tuta per lavorare nel porto con gli operai e meglio avvicinarli»; anche se, probabilmente, il suo giudizio sarebbe stato alquanto più sfumato cinque anni dopo. Nel 1953-1954 Roma proibì l’esperienza senza cercare né offrire alternative, in un clima di polemiche che coinvolse tutta la società francese. François Mauriac, su «Le Figaro», auspicò il ritorno a un regime concordatario che permettesse allo Stato di proteggere la libertà del clero francese dal predominio di Roma. Il cardinale Liénart, vescovo di Lille, ottenne che la Missione di Francia si conservasse sotto la forma di una prelatura nullius, con un’organizzazione più centralizzata. Le ragioni della crisi furono diverse, ma una sola si rivelò decisiva: la defi nizione tradizionale del sacerdozio e le modalità del suo esercizio. I responsabili della Santa Sede non furono capaci di superare una mentalità che molti consideravano anchilosata e parziale, che aveva deciso che il sacerdozio defi nito nel concilio di Trento non fosse solo uno dei possibili modelli sacerdotali, ma piuttosto l’unico. Non erano in grado di accettare la necessità di porre i problemi nel loro contesto storico, di ragionare non solo in chiave dogmatica ma anche in chiave storica. In realtà, si trattò dello scontro tra due visioni del mondo, due modi diversi di concepire la società e la comunità cristiana, di defi nire la decristianizzazione. Nella terza sessione del concilio Vaticano II, un gruppo di vescovi chiese a Paolo VI l’autorizzazione perché ciascun vescovo potesse permettere ai suoi sacerdoti di intraprendere un lavoro professionale oltre a quello pastorale, con lo scopo di rendere più facile ai fedeli e alle persone che si erano allontanate la scoperta del volto di una Chiesa povera e serva. Non mancarono dopo il concilio preti operai in alcune diocesi, ma l’evoluzione ecclesiale posteriore sembra aver fatto svanire questo interesse nei seminari e nel clero. È una situazione che si potrebbe descrivere con le parole del poeta Péguy: «hanno le mani pulite, perché ormai non hanno più mani».

Capitolo 35 RESTARE IN ASCOLTO

«Signore, ascolta la nostra preghiera» è una supplica che ripetiamo nella liturgia e nelle nostre preghiere personali, convinti che Dio, nostro Padre, rimanga in ascolto delle nostre richieste e delle nostre necessità. «Ascolta il grido del tuo popolo», gemevano i profeti nei momenti di angoscia. «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto», aveva rivelato Gesù ai suoi discepoli (Matteo 7,7). Nel corso della storia cristiana, i sacerdoti hanno ascoltato i fedeli nel sacramento della penitenza, facendo da orecchio di Dio a tante angosce e confi denze umane. In un momento di raccoglimento e di intimità, i cristiani si aprono a un ascolto mediatore, misericordioso, risanatore. Nella Caritas, molti volontari si recano nelle case degli anziani e dei malati per far loro compagnia e per ascoltarli, dimostrando loro che non sono soli, in un mondo apparentemente tanto interconnesso ma spesso anche talmente inospitale che i cittadini si isolano nelle proprie case, diffi dando persino dei vicini della porta accanto. La più grande sventura di molte persone consiste nell’essere coscienti di venire considerate delle nullità, che le proprie sofferenze sono ignorate o sottovalutate. «La cosa peggiore è il disprezzo o l’indifferenza dei concittadini»54. L’organizzazione dei cristiani in parrocchie, in comunità di fede e vita, tende a favorire una reciproca maggiore conoscenza e confi denza, benché l’attuale decadenza del sentimento parrocchiale e l’individualismo religioso di molti credenti stia facendo sfumare questo spirito comunitario sino a farlo scomparire. Negli ultimi anni abbiamo dato nuovo senso e valore alla guerra, ai confl itti identitari, alle differenze religiose, alle disuguaglianze economiche e sociali, di modo che ci troviamo a far parte di un mondo più pericoloso, molto più confl ittuale, tanto nell’ambito cittadino e nazionale quanto in quello continentale e mondiale. Dobbiamo apprendere a vivere uniti. Il modo di riuscirci sta nel favorire il dialogo tra la gente per strada, il dialogo delle religioni, il dialogo fra culture. Dobbiamo conoscerci di più ed essere più ricettivi, perché ci troviamo pieni di riserve, diffi denze e pregiudizi reciproci. C’è, per altro verso, una forte secolarizzazione dei valori e delle relazioni, un nuovo materialismo che emargina i princìpi religiosi, di trascendenza, di fraternità. Salta all’attenzione nella nostra società occidentale l’ignoranza dei giovani delle sue radici culturali e religiose, del signifi cato dell’arte che vedono nei musei, dell’origine delle festività e delle tradizioni. È più necessario che mai rianimare l’identità cristiana perché sia possibile fra gli stessi cristiani un dialogo che li arricchisca. L’interesse per l’unità dei cristiani non signifi ca irenismo o indifferenza, ma presa di coscienza dell’assurdità rappresentata da tanti cristiani che hanno più a cuore qualche tradizione ecclesiale senza importanza che il comandamento di Gesù di restare uniti. Le parole di Cristo sulla necessità di essere una cosa sola nel Vangelo di Giovanni costituiscono un comandamento ineludibile per i suoi discepoli. In questo senso l’odio fra cristiani ha costituito uno dei peccati più gravi contro lo Spirito, mentre uno spirito sincero di ecumenismo è un segno di obbedienza al comandamento del Signore. Di fatto, il dialogo con Dio e con i fratelli ha costituito il cuore delle comunità cristiane. La liturgia della messa comprende un dialogo tra il sacerdote e Dio, tra il sacerdote e i cristiani dell’assemblea, tra l’assemblea e Dio, tra i fedeli tra loro per mezzo del segno della pace. Il saluto reciproco tra chi assiste alla messa in uno dei suoi riti fi nali, prima della comunione, costituisce uno scambio di fede e speranza, di

1. Otto Dix, trittico La Guerra. Tempera su tela, 1929-1932. Gemäldegalerie Neue Meister, Dresda. Imitando i famosi trittici rinascimentali in cui venivano dipinti i grandi temi della fede (croce, resurrezione, agnello mistico…), Dix compie un’opera paradossale. La fede delle nazioni e delle potenze nella guerra ha portato a venerare una tremenda opera di distruzione.

2. Sano di Pietro, San Bernardino predica nel Campo. Tempera su tavola, 1440-1450. Museo dell’Opera del Duomo, Siena. San Bernardino predicò contro l’usura e in favore della solidarietà nei confronti dei più poveri e istituì i Monti di Pietà.

3. Noël Hallé (1711-1781), San Francesco di Sales consegna a santa Giovanna di Chantal la Regola dell’ordine della Visitazione. Olio su tela, XVIII secolo. Chiesa di Saint-Louis-en-l’Île, Parigi. La Regola che Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra residente ad Annecy, consegnò il 6 giugno 1610 a Giovanna di Chantal (1572-1641) permetteva alle religiose di portare assistenza ai poveri all’esterno; dovette in seguito essere modifi cata per obbedire alle prescrizioni del concilio di Trento sul rafforzamento della clausura delle monache.

affetto e complicità tra i partecipanti al rito fondamentale della religione cristiana, e la manifestazione del fatto che si sentono membri fraterni e spiritualmente collegati di una stessa comunità umana. Le campane delle parrocchie chiamavano e informavano e i fedeli ascoltavano, traevano le loro conclusioni e andavano. Le campane costituivano l’orologio della comunità, l’annuncio che Dio era con loro e l’invito a ricordarlo nella vita quotidiana. La parrocchia è stata per secoli il luogo di incontro, di conoscenza, di dialogo e di festa di tutto il vicinato. Ogni amore è un ascolto reciproco, un preoccuparsi per l’altro, un considerarsi dotati della stessa dignità e degli stessi diritti. Il cristianesimo primitivo non aveva abolito la schiavitù, ma i fratelli si ascoltavano l’un l’altro e si sedevano alla stessa mensa, pregavano assieme e mangiavano lo stesso pane. Le parrocchie si trasformarono nel centro sociale dei villaggi. La Chiesa si è chiesta molte volte in che modo debba continuare a essere la Chiesa dei poveri, in che modo

2 3 4. Alcuni volontari della Comunità di Sant’Egidio: la loro caritativa non è solo un aiuto materiale, ma anche l’offerta di un rapporto di dialogo e compagnia.

debba ascoltarli, come aprirsi a loro, come comprendere il loro linguaggio, come amarli e confi dare nella loro capacità evangelica in quanto poveri, per essere capace in qualsiasi momento di scoprire la gioiosa libertà della povertà che si adotta per scelta. Al giorno d’oggi siamo capaci di entrare nell’ascensore del nostro palazzo e di non salutarci, percorriamo cento chilometri in treno o in aereo senza salutare il vicino di posto, partecipiamo a raduni o veglie religiose, preghiamo con devozione, ma non ci consideriamo vicini a nessuno di quelli che ci circondano. Ancora oggi, molti che assistono all’eucaristia non si sentono disposti a scambiare il segno di pace con i propri fratelli. Si sentono membri di una Chiesa eterea, ma non fratelli del prossimo a loro vicino, soprattutto se non indossa l’uniforme che considerano adeguata. È una contraddizione, in un’assemblea di persone che chiamano «Padre» lo stesso Dio. Se ascoltiamo quelli che ci circondano fi niremo per creare una comunità di fratelli, come hanno fatto i Piccoli Fratelli e Sorelle di Gesù di padre Foucauld; ascoltare la natura e quelli che incontrava nel suo cammino costituì il segreto di Francesco d’Assisi; Bernardino da Siena ascoltò la disperazione di quelli che erano caduti nella trappola dell’usura e istituì i Monti di Pietà; ascoltare, difendere gli indigeni di ogni tipo e star loro vicini costituì la gloria e il carisma dei vescovi durante i vari colonialismi; ascoltare le angosce e i bisogni di quanti li circondano è il compito dell’Azione Cattolica e di tante altre organizzazioni di apostolato; Bartolomé de Las Casas ascoltò il grido delle ingiustizie che schiacciavano gli indigeni e si impegnò a lottare in loro favore; il curato d’Ars ascoltò giorno e notte l’angoscia di quanti si confessavano con lui e fu capace di tranquillizzarli grazie al perdono di Cristo; Hélder Câmara ascoltò le sue comunità diocesane e chiese al concilio un’autentica conversione della Chiesa e una maggiore vicinanza ai bisognosi; ascoltare per tendere ponti agli altri e scoprire nuovi modi per servire meglio, come Giovanni di Dio e Camillo de Lellis; ascoltare per favorire la conoscenza e la confi denza, di fronte ai rischi di distruzione e di inimicizia, come fa la Comunità di Sant’Egidio nel suo dialogo con le altre religioni; ascoltare perché l’angoscia sia sostituita dalla confi denza e dalla possibilità di salvezza, allo stesso modo in cui Trinitari e Mercedari fecero nella loro opera per i porti del Mediterraneo; il concilio Vaticano II ascoltò e interpretò i segni dei nuovi tempi, suggerendo risposte per i cristiani. Tutte queste persone hanno tentato di curare, liberare, difendere, accompagnare, salvare i loro fratelli, ma prima di tutto

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si sono sforzate di mantenere le relazioni umane, di ascoltare invocazioni e proposte, di tenere compagnia nella solitudine. C’è bisogno di amici prima che di medici e sacerdoti. L’ascolto reclama e manifesta la necessità del pentimento e del perdono. Una Chiesa o un sacerdozio che perdonano nel sacramento ma non nella vita, che si riconciliano nel sacramento ma non sono capaci di riconciliarsi con il mondo, con gli uomini, con l’angoscia e lo sconcerto degli esseri umani, sono prigionieri della loro debolezza. Un vero perdono presuppone la libertà di amare, e questo risulta molto diffi cile. Per amare bisogna dare se stessi, mentre per perdonare basta solo un po’ di generosità. L’Inquisizione, le scomuniche, il continuo ricordare l’inferno e i demoni indicano una sconcertante incomprensione del fatto che il Signore è venuto a salvare e non a condannare. L’intransigenza e l’intolleranza così presenti nella vita del cristianesimo e l’insicurezza di tanti teorici della carità ci inducono a sospettare che spesso si sia ascoltato meno di quanto si dovesse. La disposizione all’ascolto presuppone dosi purifi catrici di umiltà, comprensione e capacità di penetrare nelle situazioni personali di chi si apre, di chi mette a nudo la propria intimità con la speranza di essere compreso e rigenerato. Le missioni presso i contadini presupponevano nelle intenzioni di Alfonso de’ Liguori e di Vincenzo de’ Paoli questa capacità di solidarietà e vicinanza; nel XIX secolo i fondatori e le fondatrici di congregazioni dedicate agli anziani, agli abbandonati, ai malati e ai bambini senza casa avevano questa fi nalità di rigenerazione del tessuto debole e derelitto della società, di recupero di una giustizia maltrattata in popolazioni organizzate ingiustamente, secondo parametri egoisti e disumanizzanti. È a casa, nella famiglia, che si deve ascoltare con la massima attenzione e gioia Dio nostro Padre, e ascoltarci fra di noi con rispetto e affetto. La famiglia è il luogo ideale in cui si può intuire l’importanza dell’amore condiviso, non solo con chi ci è più vicino ma anche con quanti ci circondano. È in questo ambito, durante lo sviluppo della propria personalità, che ci viene spiegato come l’amore del Dio che ci ha creato ci deve spingere a rispettare le sue creature. Questa piccola chiesa domestica deve essere lo spazio di comprensione della famiglia umana, dei legami che ci uniscono, delle nostre responsabilità reciproche. Anni fa, la storia sacra insegnata in questi primi anni di vita era intimamente collegata alla vita di Cristo. La mente ci si apriva alle nostre radici cristiane e alla comprensione del nostro posto nel mondo, un mondo che ci era stato affi dato per migliorarlo e umanizzarlo.

5. Visitazione. Particolare del ciclo di affreschi dell’abside della chiesa di Saint-Martin a NohantVicq, Indre, Francia, inizi del XII secolo. Il volto di Maria si incontra con il volto di Elisabetta. L’intensità e la gioia delle due maternità sono espresse con forza. L’incarnazione di Dio entra nella storia attraverso una famiglia. 6. Il bacio di Gioacchino e Anna. Particolare del ciclo di affreschi della chiesa di Notre-Dame a Pouzauges-le-Vieux, Vandea, Francia, inizi del XII secolo. La Sacra Famiglia è storicamente preceduta dalla famiglia di Maria. Anna e Gioacchino attesero vent’anni prima che Maria fosse concepita. La loro fede creò l’ambito in cui Maria crebbe preparandosi al mistero che doveva incontrare: essere la madre di Gesù.

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Capitolo 36 ACCOMPAGNARE IN SILENZIO: I PICCOLI FRATELLI E LE PICCOLE SORELLE DI FOUCAULD

Il Vangelo presentato ai poveri del Sahara è uno degli scritti di Charles de Foucauld, uno dei personaggi più affascinanti dell’epoca contemporanea, pieno di progetti, ansie e sentimenti, ma morto senza un solo discepolo55. Il 1º dicembre 1916 fu assassinato con le mani legate dietro le spalle, in ginocchio davanti alla porta di casa, con un colpo alla testa, nel deserto di Tamanrasset. Il suo corpo venne rinvenuto in un fosso, raggomitolato; stringeva un piccolo ostensorio che portava con sé. Una morte che aveva descritto tempo prima in una pagina: «Pensa che devi morire martire, spogliato di tutto, gettato a terra, nudo, sfi gurato, coperto di sangue e di ferite, assassinato con violenza e con dolore». I suoi fi gli spirituali hanno avviato forme di vita religiosa che aprono nuove vie alla presentazione della fede cristiana in un mondo pluralistico e secolarizzato. Il tramite tra Foucauld e la discendenza spirituale è stato René Voillaume, un personaggio affascinante, imbevuto degli scritti e dello spirito di quel solitario assassinato nel deserto algerino, capace di tradurre in gruppi di spiritualità e azione le intuizioni di padre Charles56 . Non si tratta di un ordine monastico (non si ritirano dal mondo), né di un ordine mendicante o di chierici regolari (vogliono vivere del loro lavoro, come i poveri), né di una congregazione moderna (non perseguono una vita «attiva» nel senso di un’opera di misericordia o di apostolato), né di un istituto secolare,

1. Eremitaggio di Charles de Foucauld sull’altopiano dell’Assekrem, a 80 chilometri da Tamanrasset, nel Sud dell’Algeria.

2. Monti Tassili-Hoggar, Algeria. A causa dell’erosione presentano molti ripari sotto roccia, ricchi di arte rupestre.

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3. Charles de Foucauld nel 1912 in Algeria. 4. Questa immagine del 1902 mostra Charles de Foucauld con schiavi che ha appena riscattato perché siano rimessi in libertà.

ma di una fraternità di fratelli e sacerdoti in uguaglianza di condizioni che lavorano come operai e vivono una vita contemplativa in comunità. Cercano di proporre una vita cristiana agli uomini loro fratelli non tramite il pulpito, la catechesi o l’insegnamento, ma con la vicinanza, la convivenza, l’amicizia e l’amore condiviso. Sono convinti, seguendo l’esempio del fondatore, che, se si desidera seguire Gesù e ricercare il volto di Dio, non ci si può mettere al di fuori del mondo, ma si deve «andare a Nazaret», dove sta la gente. Non bisogna cioè allontanarsi dal popolo, ma avvicinarsi e mescolarsi ad esso. Charles de Foucauld, nel prendere gli ordini, era cosciente di dover dedicare la sua vita e il suo sacerdozio ai più trascurati, e così hanno fatto i suoi seguaci. La loro spiritualità consiste nel lasciarsi amare da Dio e nel cercare il suo volto nella preghiera, nella vita di ogni giorno e nel volto di quelli con cui si vive, seguendo il fratello Charles, che diceva che si doveva «vedere in ogni essere umano un fratello», e vivere in mezzo ai poveri e agli emarginati, vivere come loro, senza predicare né evangelizzarli, ma amandoli. Fin dal principio è rimasta chiaramente stabilita la perfetta uguaglianza tra fratelli e sacerdoti, uguaglianza che presuppone un’unica formazione religiosa e dottrinale per tutti e la rottura del rapporto esclusivo tra sacerdozio e responsabilità.

3 4 5. L’interno dell’eremitaggio di Charles de Foucauld sull’altopiano dell’Assekrem in Algeria. 6. René Voillaume (1905-2003), fondatore dei Piccoli Fratelli di Gesù, fotografato nel 1999 seduto sul pozzo del cortile della casa di Nazaret, con altri membri della fraternità.

In poco tempo, con la lenta e continua evoluzione del loro desiderio di rispondere ai bisogni degli uomini, sono giunti alla convinzione che le lunghe ore dedicate al lavoro impongono un altro ritmo di preghiera, diverso da quello che si praticava nella fraternità monastica del deserto. Tutto l’insieme della loro vita e della loro spiritualità eucaristica ha acquistato una nuova e intensa dimensione samaritana, nella condivisione quotidiana delle angosce e delle pene imposte alla vita dei poveri. Si tratta di una celebrazione eucaristica intensamente personale, legata alla vita, alla fatica e alla speranza. Non nascondono quello che sono, ma condividono con semplicità e normalità la vita e i problemi dei loro vicini di quartiere. A tutti loro, le confi denze dei compagni di lavoro o di quartiere, le ingiustizie che patiscono, le loro debolezze e i loro grandissimi bisogni stimolano il cuore, la mente e le energie e li avvicinano ancora di più a Dio; ma nella loro esperienza accade anche che i compagni cerchino di ascoltare le ragioni della loro fede, della loro speranza e del loro modo di vivere, in una reciproca condivisione. «Parlo molto di Dio», mi scrive uno di loro; «senza di Lui non saprei esprimermi, non saprei essere un confi dente, non saprei essere amico». Si tratta di un altro modo di evangelizzare.

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Fin dal primo momento hanno avuto chiaro il carattere contemplativo della loro vita religiosa, di cui l’eucaristia è cuore e anima; ed è nell’eucaristia che i confratelli trovano la fonte del loro amore per gli altri, che li porta a vivere completamente e allegramente al servizio dei propri fratelli e a condividerne le croci e le preoccupazioni quotidiane, come faceva padre Foucauld. Questi contatti costanti devono aiutare i confratelli a conservare nella propria vita contemplativa il senso della sofferenza degli uomini, delle loro diffi coltà quotidiane, delle loro preoccupazioni. Per mezzo di una vita vissuta in povertà e del lavoro quotidiano, condividono la sorte degli operai e trovano in questa esperienza personale il segreto della loro dedizione e uno stimolo per la loro preghiera. Il lavoro è considerato nelle fraternità come un modo di condividere la vita della gente, di rendere concreto il voto di povertà. Scriveva Voillaume in Come loro. Nel cuore delle masse: «Non si tratta soltanto di uno spirito di povertà, che è compatibile con qualsiasi attività o qualsiasi opera; si tratta di essere povero tra i poveri, operaio tra gli operai, piccolo tra i piccoli di questo mondo, ed è una scelta che comporta esigenze terribili. È per padre de Foucauld e per noi stessi una chiamata da parte di Gesù. Tutto ci spinge ad essa». Il lavoro è un luogo di incontro che li aiuta a trovare una collocazione e ad essere riconosciuti come alcuni dei tanti. Li colloca in un quartiere, nel sindacato. Sono lavoratori che quando tornano a casa tentano di essere presenti nella realtà dei loro quartieri, aiutando, assistendo, facendo compagnia. Magdeleine di Gesù, fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù, esortava le discepole a diventare appartenenti «alla stessa famiglia, allo stesso ambiente, alla stessa patria di coloro che vuoi salvare; di questi assumerai la lingua, le usanze e persino la mentalità, per quanto diversa possa essere dalla tua. Dovrai farti una di loro […]. Come Gesù durante la sua vita umana, fatti tutto per tutti: araba in mezzo agli arabi, nomade fra i nomadi, operaia fra le operaie… ma, soprattutto, umana tra gli esseri umani. Non crederti obbligata, allo scopo di salvaguardare la dignità religiosa e la vita di intimità con Dio dai pericoli esterni, a erigere una barriera tra te e il mondo laico. Non ti porre al margine della massa umana»57 . Troviamo le case delle Piccole Sorelle nei quartieri più malfamati, più abbandonati, più periferici, mentre lavorano alla vendemmia o nei campi dell’Estremadura, o puliscono pavimenti nelle offi cine o nella metropolitana della città. È una nuova concezione della vita religiosa, non necessariamente più generosa, ma certo più integrata nella vita quotidiana della società, più vicina alle gioie e alle pene dell’uomo della strada e dei lavoratori: «non ti si chiede, in nome della modestia religiosa, di vivere con gli occhi bassi, ma di aprirli per vedere vicino a te le miserie e la bellezza della vita umana e dell’universo intero». L’ideale è quello di padre Foucauld: «il Vangelo vivo, la povertà totale, il confondersi tra la gente abbandonata… e, soprattutto, l’amore nella sua pienezza». Non vogliono praticare la povertà convenzionale, ma la povertà dei poveri.

7. Un pozzo nel deserto. Disegno dal taccuino di Charles de Foucauld, eseguito nel 1885. Due simboli della dimensione monastica: il deserto in cui ritirarsi e l’acqua (il pozzo) che dà la vita.

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Capitolo 37 MADRE TERESA E LE MISSIONARIE DELLA CARITÀ

Madre Teresa si è trasformata nella seconda parte del XX secolo in una personalità piena di fascino, ammirata, seguita, presso la quale si recavano ministri, cardinali e vescovi, non grazie alla sua sapienza o al suo potere ma perché era considerata una delle grandi fonti di energia spirituale in un mondo angosciosamente arido di valori e di trascendenza. Ancora molto giovane sentì la vocazione religiosa e la sua congregazione la inviò in India, dove, dopo il noviziato e i voti, iniziò a insegnare alle giovani della borghesia. In poco tempo, si accorse della spaventosa miseria in cui versava buona parte della popolazione di Calcutta e sperimentò nel proprio intimo una folgorante ispirazione che la indusse a dedicarsi con tutta se stessa e con tutta la sua vita ad alleviare la condizione dei poveri, «dei più poveri tra i poveri», e a condurli a Dio. Si rese conto della necessità di abbandonare il convento in cui viveva, per abbracciare uno stile di vita che la rendesse identica ai più poveri, fra i quali cominciò a vivere, soffrendo e amando con loro e come loro. Cercava di infondere in quelle persone un senso di rispetto per se stesse, insegnando loro che Dio le amava. Poco dopo cominciarono a unirsi alla sua iniziativa giovani disposte a vivere con lei alla maniera dei poveri dell’India, mangiando solo riso e sale, fi nché qualcuno spiegò loro che se continuavano ad alimentarsi così frugalmente avrebbero fi nito per contrarre la tubercolosi, che affl iggeva la miserabile popolazione che aspiravano ad aiutare. Come avrebbero potuto lavorare per gli altri alimentandosi in modo inadeguato? Madre Teresa accettò il consiglio e decise che l’alimentazione delle monache fosse semplice, senza prelibatezze, ma suffi ciente per chi lavorava duramente tutto il giorno. Ogni mattina, mentre prestavano la loro opera negli slum, nei dispensari, negli alloggi dei moribondi e dei bambini, le suore – la cui missione si incentrava nel curare con amore i propri fratelli – erano consapevoli che ciò che le sosteneva interiormente era la forza di Cristo, che avevano ricevuto con l’eucaristia. Essa le spingeva a svolgere i loro compiti con l’allegria che lo Spirito Santo diffonde nel cuore di chi gli appartiene e lo serve con totale dedizione. Erano compiti piacevoli? Non sempre, ma li adempivano con fede, mosse dalle parole del Signore, che dopo aver lavato i piedi dei discepoli aveva promesso loro che sarebbero stati felici se avessero compiuto anch’essi ciò che aveva appena fatto. Dovunque arrivano aprono scuole per i bambini più poveri degli slum: scuole domenicali per insegnare ai piccoli a pregare, scuole professionali per insegnare a cucire e a svolgere varie professioni per potersi guadagnare da vivere; moltiplicano i dispensari, preparano i giovani al matrimonio e alla vita di famiglia. Vestono gli ignudi, distribuiscono medicine ai malati, costruiscono case di accoglienza per i bambini abbandonati, per i vecchi, per i ritardati mentali; curano la pulizia, dando così l’esempio ai poveri, invogliandoli a lavorare e a non rimanere oziosi. In alcuni luoghi hanno fondato ospedali capaci di accogliere centinaia di persone e ostelli per donne abbandonate. Ogni volta, i poveri di ogni tipo le sentono vicine, instaurano con loro relazioni personali, le percepiscono come se fossero dei loro. La prima opera importante delle missionarie è stata la Casa dei Moribondi di Kaligat, in cui alloggiano i numerosi moribondi abbandonati sui marciapiedi. Uno di costoro confessò a madre Teresa, che lo assisteva mentre stava morendo: «Grazie, madre! Ho vissuto per la strada come una bestia; grazie alle vostre cure amorose, sto per morire come un angelo». Teresa li trattava come persone e insegnava loro a essere tali, anche nella morte, sottraendoli allo spet-

tacolo delle strade. Verso la fi ne della propria vita, rivelò che sotto quel tetto erano morte circa 45.000 persone. Più tardi fondò la Città della Pace, una colonia e centro di riabilitazione per i lebbrosi. Non vi si offrono solo cure, tranquillità e medicinali, ma anche speranza; speranza e fede nella bontà eterna di Dio. Le religiose, giovani e istruite, si chinano sui malati, lavano le loro piaghe, sorridono e fanno forza, senza mai perdere la pazienza e l’allegria. Benché siano degli sconosciuti, li curano come autentiche sorelle, rispecchiando sempre e con semplicità l’amore di Dio. Grande ammiratrice di san Francesco d’Assisi, ricordava alle sue religiose che il santo non si era vergognato di chiedere per i poveri e di ricevere gli avanzi, che divideva con loro. Allo stesso modo, le religiose non dovevano vergognarsi di chiedere per i poveri, benché la questua rappresenti una forma di povertà disprezzata nel mondo moderno. Spronava le religiose sempre con dolcezza: «Siate allegre, Dio vi ama, soprattutto quando il lavoro che realizzate in suo nome è duro». Le incitava a imitare la perfetta allegria di san Francesco, il suo totale abbandono in Dio, la sua fi ducia fi liale nel Padre che per amarci ci ha creati. Di fatto, le suore recitano tutti i giorni la preghiera di san Francesco per ottenere da Dio la grazia di essere amabili, tramite devoto di amore e allegria: «Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace». Questa preghiera riassume lo spirito di suor Teresa e della sua opera: la mia felicità dipende dalla felicità degli altri e dall’amore di Dio. Siamo suoi strumenti, «una matita in mano a Dio» per scrivere sul cuore degli esseri umani ciò che lui desidera e determina. Un giorno, nella Casa dei Moribondi di Kaligat, un visitatore restò ammirato dalla pace che vi regnava. Madre Teresa gli rispose che era dovuta alla presenza di Dio. Dio era sempre presente e attivo con il suo amore.

1. Madre Teresa nella Casa dei Moribondi a Kaligat. 2. William Congdon, Bombay, 20. Olio su pannello, 1973, particolare. Sul marciapiede della metropoli indiana stanno gruppi di «uomini larva». Per il pittore americano Congdon le strade dell’India sono il luogo della condizione umana radicalmente immiserita.

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MADRE TERESA E LE MISSIONARIE DELLA CARITÀ 3. William Congdon, Crocefi sso, 64. Olio e cenere su pannello, 1973.

3 Congdon, proveniente da una facoltosa famiglia di Providence, negli Stati Uniti, aveva partecipato alla guerra guidando disarmato un’ambulanza sul fronte italiano. Nel dopoguerra decide di fare il pittore a New York, dove frequenta la Bowery, quartiere allora pieno di senza tetto. Incontra poi Dorothy Day e il movimento Catholic Worker e dipinge i luoghi più oppressi di New York, una specie di preparazione all’India, che visita già negli anni Cinquanta, ma con cui negli anni Settanta ha un nuovo incontro. Madre Teresa gli ricorda Dorothy Day, ma ciò che più conta è quanto espresso dalla sua pittura. Il Crocefi sso, 64 è un «uomo larva»: nella fi gura degli ultimi e dei più miserevoli Congdon vede Cristo. La stazione di Calcutta, con i corpi stesi per terra, è una specie di apocalittica costruzione del disagio umano.

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5. Il sorriso di madre Teresa di Calcutta nell’abito della congregazione delle Missionarie della Carità, da lei fondata.

6. Un gruppo di Missionarie della Carità durante il Congresso Eucaristico del Sud-Est degli USA a Charlotte, Carolina del Nord, nel 2005.

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Molti cristiani nella storia sono stati capaci di porre strettamente in rapporto nelle loro vite la preoccupazione per un’umanità più giusta e solidale, più fraterna e aperta, con l’intenso sentimento di fi liazione da un Dio sempre presente. Ricordiamo i nomi di Catherine Labouré, Elizabeth Ann Seton, Frédéric Ozanam, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione e tanti altri grandi santi, fondatori, protettori generosi della società, che affollano la nostra storia credente di cristiani. Come spesso succede, non si tratta tanto di parole, formule e concetti, quanto di sentimenti e coerenza, di dedizione e accettazione del grande comandamento dell’amore. Si tratta sempre di scoprire la presenza di Dio, che ispira e attrae verso il suo modo d’essere e di agire. I suoi fi gli allora lo servono spontaneamente nel prossimo, quando se ne occupano aiutandolo, difendendolo e proteggendolo, curando le piaghe e le sofferenze dei fratelli e delle sorelle dolenti di Cristo. In loro, la constatazione del fatto che il sacro è presente nella vita rafforza il rispetto e l’amore per Dio.

Capitolo 38 EMMAUS E ALTRE COMUNITÀ

La preoccupazione per i fratelli malati, abbandonati, senza tetto e senza futuro, la sofferenza di chi vive con noi e i bisogni di quelli che non conosciamo personalmente ma sappiamo che esistono continuano a costituire nel nostro secolo una sfi da alla nostra bontà e alla nostra sincerità. Si moltiplicano nelle nostre comunità credenti gli esempi di persone, iniziative e istituzioni sorte con l’intenzione di migliorare il destino di tante popolazioni sottomesse nei cinque continenti a una miseria che non cessa di aumentare. Ci sono molte persone nel nostro mondo che rifi utano l’inaccettabile, cioè la miseria e l’ingiustizia, che si sentono fratelli dei poveri, che combattono l’esclusione e dedicano la propria esistenza a difendere i diritti dell’uomo, anche mettendo in grave pericolo la propria vita. L’abbé Pierre (1912-2007) aveva conosciuto fi n da piccolo le sofferenze del prossimo, perché suo padre l’aveva posto ben presto in contatto con i più diseredati: un incontro che avrebbe segnato la sua vita. Dopo aver scoperto la fi gura di san Francesco d’Assisi e deciso di farsi cappuccino, rinunciò all’eredità che gli spettava e la distribuì a diverse opere di carità. Ben presto cominciò a ospitare in casa sua gente che viveva all’aperto, nella miseria più assoluta, e la ricerca di un modo per sostentarsi li indusse a trasformarsi in rigattieri, che raccoglievano nella spazzatura quanto poteva essere ancora utilizzabile. Lavoro, vita comunitaria, aiuto ai più bisognosi…, aspetti che costituiranno l’essenza stessa del movimento di Emmaus, erano già presenti in questo piccolo gruppo di pionieri. Nel 1952 rese cosciente l’opinione pubblica del dramma della mancanza di alloggi in Francia, e si spinse a costruire con i propri collaboratori i primi blocchi di case, costringendo così il governo a riconoscere il grave problema. Il gruppo dell’abbé Pierre si tenne costantemente in azione affi nché nessuno dovesse continuare a vivere sui marciapiedi. Dopo il suo appello alla radio si produsse un incomparabile moto di solidarietà, «l’insurrezione della bontà», che forzò il parlamento francese ad approvare una legge per la costruzione di case popolari. Grazie all’abbé Pierre nessuno può più sostenere che procurare l’alloggio non sia un dovere dello Stato. Le sue capacità e il suo carisma «di servire in primo luogo quelli che soffrono di più» lo condussero a intraprendere una battaglia universale della quale furono testimoni e benefi ciari moltitudini di uomini isolati e di vagabondi. Il suo movimento si estese ai cinque continenti, trasformandosi in una crociata mondiale contro la miseria e a favore della pace. Visitò numerose nazioni difendendo con le parole e le opere quelli che non avevano voce. Fondò innumerevoli comunità, ispirandosi per tutte allo stesso principio: «la povertà giudica il mondo», accusando quanti ipocritamente non solo non si mobilitavano, ma guardavano anche dall’altra parte e dimenticavano la realtà. Fu il motore del movimento, ma poté contare su migliaia di volontari che si dedicavano anima e corpo a ottenere condizioni di vita più umane e giuste per gli abbandonati di questo mondo. Nel corso della sua vita denunciò tutte le forme di ingiustizia, lottò contro la fame nel mondo, animò infaticabilmente le imprese delle comunità di Emmaus. Si trasformò in uno sprone contro l’indifferenza di quanti avevano la capacità e i mezzi per risolvere molti dei problemi esistenti fra i più deboli e gli emarginati della società. Nel 1974, dopo la crisi petrolifera, protestò contro le nuove povertà, in favore dei nuovi poveri: «Ricchi sciagurati, che accumulano oro e gioielli nei forzieri delle banche! Sono

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