18 minute read

LE TENTAZIONI CONTRO LA CARITÀ

8-9. In Mott Street a New York, oltre alla sede centrale del giornale, c’era la casa di ospitalità per i diseredati e i lavoratori stagionali. I poveri facevano la fi la per usufruire di una mensa gratuita (Archivi della Marquette University). A fronte: 1. Fotogramma dal fi lm Il diario di un curato di campagna di Robert Bresson, tratto dall’omonimo romanzo di Georges Bernanos. La scena rappresenta il dialogo tra il curato e il diacono.

e indirizzo, senza tenere conto del suo spirito comunitario e delle sue caratteristiche di movimento sociale, religioso, culturale e politico, movimento che per decenni attrasse tante persone inquiete e generose, e aiutò in mille modi generazioni di bisognosi43 . Gesù è il fondatore di un movimento comunitario e questa caratteristica costituisce la pietra angolare della sua storia. Nel corso di duemila anni, gruppi di cristiani si sono uniti per essere presenti nel mondo, per camminare insieme, per sviluppare progetti che migliorassero la vita umana, per fare compagnia ai più deboli, per affrontare il male in tutte le sue sfaccettature. È emozionante verifi care come in ogni momento, in ogni luogo, si siano radunati uomini e donne, con una disponibilità e immaginazione sorprendenti, allo scopo di far sorgere un’umanità più felice, più solidale, più vicina a Dio e alle sue creature, in progetti che abbracciavano tutte le manifestazioni della vita umana, dalla più tenera infanzia alla cura dei defunti, in una disponibilità che riguardava tutti gli emisferi, tutti i continenti. Dorothy Day si rivela una fi gura affascinante di donna, ma ciascuno di noi potrebbe mostrare esempi analoghi nei nostri rispettivi paesi o città. L’amore per Dio e per i fratelli costituisce uno stimolante costante nella società, sprona, suggerisce, anima. A volte, sconvolti dalla violenza e dall’egoismo presenti nel nostro mondo, dimentichiamo le grandi utopie che mobilitano di continuo gli esseri umani: l’utopia di essere fi gli di Dio, di essere tutti fratelli, di realizzare un mondo in comunione, di superare le calamità, l’odio, la miseria, gli ostacoli, le paure e i sospetti. Sono questi esseri fuori dal comune, illuminati da un’idea o da un amore, capaci di dare la propria vita per seguire una chiamata, generosi all’estremo, che illuminano, animano, entusiasmano noi che camminiamo spesso senza progetti, senza speranze, senza aiuti, senza consolazione. Non è facile immaginare la vita senza santi, persone innamorate di Dio e che si preoccupano per gli esseri umani.

9

Capitolo 31 IL DIALOGO CON IL DIVERSO. I CRISTIANI SCOMODI

La storia della Chiesa è una storia di progresso, di cambiamenti, di adattamenti continui alle diverse mentalità e culture, di creatività, ma anche di confl itti personali e istituzionali. Nello svolgimento, nelle motivazioni e nelle peculiarità di questi confl itti scopriamo il modo di concepire l’unità ecclesiale e di praticare l’amore fra i suoi membri, ma anche i fermenti dominanti di intolleranza e le paure esistenti là dove dovrebbe dominare la libertà di spirito e la fraternità. In questo contesto, vogliamo rifl ettere sui cattolici scomodi, cioè i non conformisti, i riformatori, quelli in anticipo sui tempi, ma anche i santi, che agirono all’interno dell’ortodossia e della comunità ecclesiale. Il decano di Blangermont dice al curato di campagna del romanzo di Bernanos44: «Dio ci liberi dai riformatori!». Il dialogo continua: «Signor decano, molti santi sono stati riformatori». «Dio ci liberi anche dai santi!». In effetti, non pochi santi furono scomodi per i loro superiori, per la gerarchia e persino per gli ordini religiosi che essi stessi avevano fondato. Sono impressionanti le storie di chi ha sofferto o è stato emarginato per difendere idee che più tardi sarebbero state accettate e avrebbero infl uito positivamente sulla vita della Chiesa. Pensiamo ai problemi di coscienza che poté avere un Savonarola nel denunciare Alessandro VI, papa spesso indegno. Poteva tacere nella sua intransigente ricerca di una Chiesa più pura ed evangelica sull’esempio offerto da Alessandro, dalla sua famiglia e dalla curia? La lotta di questo domenicano costituisce un esempio incisivo di un problema centrale del cattolicesimo moderno, la defi nizione del giusto rapporto fra uffi cio, gerarchia e individuo, fra Chiesa e coscienza individuale. Gregorio VII, che nessuno potrebbe sospettare di aver coltivato novità temerarie, affermava: «Cristo non disse: Io sono la tradizione, ma: Io sono la verità. Una tradizione, per quanto antica e diffusa che sia, deve sempre ritrarsi di fronte alla verità». In una Chiesa continuamente incarnata nella storia, risulta urgente purifi care e distinguere ciò che è concrezione e aggiunta posteriore al nucleo essenziale della fede. Nel corso dei secoli, la maggioranza dei confl itti e delle scomuniche ecclesiali è stata originata da aspetti marginali, di routine, formalistici e tradizionalistici, cioè dalla parte radicalmente umana della Chiesa, che spesso è stata messa in questione per amore, per compassione di chi soffriva immeritatamente o si era allontanato dalla comunità ecclesiale per essere stato trattato ingiustamente. La storia della Chiesa ci presenta una galleria di personaggi per mille motivi notevoli. Alcuni furono in anticipo sui tempi, propugnando princìpi o teorie che più tardi divennero dominanti, ma che all’inizio

si scontravano con l’incomprensione e il rifi uto dei più; altri concordavano ed erano in sintonia con i movimenti più attivi e creativi, mentre l’apparato ecclesiale rimaneva ancorato al passato e all’abitudine. Altri attaccavano privilegi che consideravano ingiusti o semplicemente anacronistici, sollevando le ire di chi li voleva conservare, come notava il cardinale Consalvi due secoli fa: «Nessuno è più contrario ai cambiamenti di chi ha qualcosa da perdere a causa di essi». Non è facile che una società con tanti componenti si trovi in perfetto accordo, ma per quanto è possibile occorre convivere nella carità, nella comprensione e nel rispetto reciproci. Spesso la difesa aspra della verità – o di ciò che si considera la verità – senza tener conto della possibile verità dell’altro, o il carattere autoritario e intollerante di chi si ritiene dotato di maggior sapienza e autorità del resto della comunità, o la superbia del potere hanno impedito una convivenza fraterna tra i credenti, provocando inutile dolore alle persone o alle istituzioni. Credo che sia stato Bernanos a scrivere che la cosa più diffi cile non sia soffrire per la Chiesa ma soffrire a causa della Chiesa, a causa di persone prive di prospettiva, intolleranti, con un’opinione eccessiva delle proprie mansioni e capacità, e soprattutto prive di carità. È gente che non è cosciente del fatto che bisogna cercare l’amore prima della morale e delle regole. Ricordiamo alcuni nomi che hanno vissuto tali situazioni. Tommaso d’Aquino dovette lottare su diversi fronti a causa della novità delle sue opinioni teologiche. Nel 1270, l’arcivescovo di Parigi e i dottori di teologia cercarono di causarne la rovina nella sua disputa con John Peckham, mossi dall’invidia e confusi dalla semplicità con cui distruggeva le abitudini imposte e difese per comodità. Il neoconvertito Newman, che sperimentò il rifi uto dei più conservatori per la sua difesa dell’autonomia della coscienza personale, o Las Casas, fi gura controversa tanto ieri quanto ancora oggi, che attaccò l’egoismo e la cupidigia dei colonizzatori a danno degli indigeni. Non venne assassinato come Montesinos, ma dovette abbandonare la sua diocesi e sperimentare il rifi uto. Ricordiamo anche come furono trattati Lamennais, Rosmini, Congar, de Lubac, padre Pedro Arrupe o Hélder Câmara45. Quasi sempre si trattava di dispute fra scuole diverse, di persone che identifi cavano le proprie opinioni con la rivelazione o con la verità,

2

2. Benozzo Gozzoli, Trionfo di san Tommaso d’Aquino. Affresco, 1470-1475. Musée du Louvre, Parigi. Il santo è raffi gurato tra Platone e Aristotele ed è benedetto da Cristo. Alla scena assistono un papa, vescovi e religiosi. Ai piedi del santo è raffi gurato Averroè. dimostrando la scarsa considerazione che nutrivano per quest’ultima. Male frequente e ricorrente in alcuni ambienti ecclesiastici. Molti credenti che avevano apportato qualcosa di nuovo incontrarono l’opposizione di chi voleva ascoltare solo quello che egli stesso ripeteva di continuo. Congar e altri innovatori come lui erano consapevoli del fatto che nel riformismo degli anni 1940-1950 non si discutesse in alcun modo l’autorità ecclesiastica, ma che si potevano cercare forme di evangelizzazione che rispondessero meglio a uno stato di cose che ormai non corrispondeva più a quello della cristianità e nemmeno a quello di un mondo abituato al rispetto della religione, bensì a un mondo pagano, egoista, laico a oltranza. Gli «scomodi» cercavano forme di Chiesa più comunitarie e missionarie, un adeguamen-

3

3. A differenza di Tommaso, che dopo le accuse venne riconosciuto sino ad essere santifi cato, all’abate Hugues-Félicité Robert de Lamennais, qui ritratto in un’opera di Paulin Guérin del 1831, oggi a Versailles, resta sulle spalle la condanna del 1834. Con la sua visione apologetica egli voleva ricostruire un’indipendenza della sfera politica da quella religiosa, per non assoggettare i cristiani al potere delle classi dirigenti. to più stretto delle nostre parrocchie, scuole e opere alla situazione esistente, eventualmente un’organizzazione rinnovata del ministero e rapporti più fl uidi fra la base e la gerarchia, con una miglior comprensione della funzione dei laici nell’organizzazione ecclesiale. Quanti sospetti e rifi uti provocarono allora questi pionieri, quanti esili interiori in persone di grande zelo religioso e capacità intellettuale! Più di un santo è stato imprigionato, anche nelle segrete del Sant’Uffi zio: san Giovanni d’Avila, il cardinale Morone, san Giovanni della Croce, sant’Ignazio di Loyola, san Giuseppe Calasanzio, san Luigi Maria Grignion de Montfort e tanti altri, certamente non per motivi oggettivi ma per l’orgoglio, l’intransigenza e l’ignoranza dei loro persecutori. San Basilio fu accusato di eresia davanti a papa Damaso; san Cirillo di Gerusalemme fu condannato come eretico e deposto da un concilio di quaranta vescovi; sant’Atanasio fu accusato di stregoneria e san Giovanni Crisostomo di cattivi costumi. Non sempre si riesce a far sì, evidentemente, che le comunità dei credenti siano spazi di comunione e riconciliazione. Bisognerebbe ricordare anche il caso non infrequente di fondatori di ordini religiosi che vennero emarginati dai loro stessi discepoli. Sono i grandi cristiani scomodi: per la loro coerenza e radicalità evangelica, come san Francesco, o per la loro semplice onestà, come Guillaume-Joseph Chaminade, o perché si scontrarono con gli interessi e gli egoismi dei loro successori, come santa Raffaella del Sacro Cuore. A volte, questi fondatori dovettero lottare anche contro le autorità ecclesiastiche, perché le loro intuizioni risultavano poco compatibili con la legislazione vigente o con le norme e le abitudini consolidate. La loro costanza e la loro fi ducia in Dio fecero sì che con il tempo venissero riconosciuti e approvati. Molte volte, fu la gente semplice a rendersi conto del valore religioso e umano delle nuove fondazioni e ad appoggiarle con entusiasmo. Non so perché dèstino tante paure e angosce le minoranze e i miseri, fragili e apparentemente insignifi canti, che spesso seminano incertezza e timore nelle maggioranze o in chi governa ed esercita il potere. La storia ci offre esempi di personaggi piccoli e insignifi canti che fanno esitare o riescono persino a sconfi ggere i più potenti, come Davide di fronte a Golia. Ma anche Giovanni XXIII, Martin Luther King, Hélder Câmara, Teresa di Calcutta, frère Ro-

ger di Taizé o Nelson Mandela, «Davidi» del passato e ispiratori di molti, che hanno mostrato come l’apparente fragilità di alcuni sia fonte di vita, di futuro e di utopia per l’umanità. Il Dio che scese a piantare la sua tenda fra i più piccoli continua a incarnarsi una volta ancora nella fragilità umana di persone concrete. È morto in croce, mentre costoro hanno spesso sofferto persecuzioni e abbandono, ma seguitano a essere fonte di ispirazione per tanti esseri umani. Ovviamente, ci sono state anche epoche di armonia, di conciliazione e dialogo, e la Chiesa è stata per i suoi fedeli la sposa bella con cui hanno convissuto in gioia e consolazione spirituale. Altri sono stati capaci di ideare esperienze arricchenti, come quella di Chiara Lubich (1920-2008), che ha fondato il Movimento dei Focolari, composto da uomini e donne, laici, nubili e celibi, consacrati, sposati, cristiani e credenti di altre religioni ma anche non credenti, attratti dall’ideale di un mondo unito e solidale. La sua spiritualità è incentrata sul comandamento nuovo di Gesù: «amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati»; «che tutti siano una cosa sola» (Giovanni 15,12 e 17,21). Da qui sono sbocciati l’ascolto, la fratellanza, la benevolenza, la comprensione affettuosa delle ragioni degli altri, il dialogo come testimonianza dell’atteggiamento cristiano. Chiara Lubich ha profuso un impegno costante per la comunione nella Chiesa, per il dialogo ecumenico e per la fratellanza fra i popoli, tre frutti trascendentali dell’amore per Dio e per i fratelli, risultati che rendono manifesta la sincerità o la falsità di tanti cristiani che usano fi no alla sazietà le parole «amore» e «carità». La Chiesa dovrebbe in ogni momento manifestare nella propria vita la comunione delle persone divine. Che tutti siano una cosa sola costituisce o deve costituire l’anelito ecclesiale. La missione del papa, dei vescovi e dei cristiani deve essere centro di comunione nei rispettivi ambiti. Solo così può realizzarsi ciò che afferma il Vaticano II: «il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Matteo 5,13-16), è inviato a tutto il mondo» (Lumen Gentium 9). Essere incapaci di creare comunione nelle diocesi e nella Chiesa costituisce uno dei peccati più nefasti di un vescovo, perché questa è la sua missione principale. E la comunione non consiste nell’uniformità, né nell’obbedienza cieca, né tanto meno in quello che uno solo in ciascuna Chiesa pensa e decide, ma nella fraternità, nella comprensione e nella misericordia, nell’amore e nel perdono reciproci.

4 4. Chiara Lubich.

A fronte: 1. Il cardinale Giacomo Lercaro in conversazione all’epoca del concilio Vaticano II.

Capitolo 32 IL MISTERO DI CRISTO NEI POVERI

L’elaborazione degli schemi preparatori che dovevano essere discussi nel Vaticano II si svolgeva secondo la procedura abituale degli ultimi concili. Teologi e vescovi si riunivano seguendo il calendario prestabilito e redigevano gli schemi delle questioni considerate importanti sia dalla rifl essione teologica sia da quella pastorale. In essi la parola «povero» non ricorreva molte volte. Sappiamo che il clima conciliare si andò sviluppando nei primi mesi con un atteggiamento sinceramente pastorale e rinnovatore, tendendo a esporre le diverse questioni in accordo alle speranze e ai problemi del momento che si stava vivendo. Un gruppo di una cinquantina di vescovi, di origine latinoamericana e asiatica, era intenzionato a far sì che il concilio si occupasse delle diffi coltà e delle angosce umane più pressanti, in particolare di quelle dei poveri e di quanti soffrivano il dramma della fame e della miseria, consapevoli di come il problema della povertà implicasse aspetti teologici rilevanti. Prima che le sessioni iniziassero, questi vescovi ricevettero un documento da un gruppo di operai, che li sollecitavano a far presenti al concilio le speranze del mondo operaio, del mondo dei piccoli, del mondo dei poveri, a considerare cioè il rapporto d’amore che unisce la Chiesa ai poveri, identifi cati con Gesù, affi nché chiunque si volgesse alla Chiesa di quel tempo riconoscesse in essa Gesù di Nazaret, il falegname. I vescovi erano coscienti del fatto che, se non fossero stati capaci di affrontare il tema con coraggio, avrebbero trascurato uno degli aspetti più importanti della realtà umana ed evangelica. In riunioni parallele a quelle conciliari, questi vescovi di diversi paesi insistettero sulla necessità che la Chiesa intraprendesse un cammino di riforma e di autocomprensione evangelica, incentrato sulla povertà, cominciando dalla rinuncia spontanea alle proprie ricchezze, alle automobili di lusso e alle residenze prestigiose, sostituendo le insegne episcopali troppo preziose con altre più semplici e meno costose; ma la cosa non era facile. Pensavano che i vescovi non potessero parlare di Cristo povero se essi stessi non vivevano in povertà. Cristo aveva detto che il suo regno non era di questo mondo, ma la nostra debolezza ha trasformato la sua Chiesa in un impero, e non è facile sbarazzarsi di tanto sovrappiù antievangelico. Probabilmente, il risultato più rilevante ottenuto dal gruppo fu il discorso tenuto il successivo 7 dicembre dal cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna, nell’aula conciliare. Lercaro propose davanti ai vescovi, come idea dominante dell’ecclesiologia conciliare, quella della «Chiesa dei poveri», un termine tratto dal magistero di Giovanni XXIII: «Questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della Chiesa

madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero». Per Lercaro non si trattava di svolgere questo tema in un ennesimo documento, come una delle tante questioni da esaminare, ma di considerarlo come l’unico «tema di tutto il Vaticano II», «l’elemento di sintesi, il punto di chiarifi cazione e di coerenza di tutti gli argomenti sinora trattati e di tutto il lavoro che dovremo svolgere». Per il cardinale, il più ampio e decisivo orizzonte della Chiesa doveva essere quello dei poveri e dell’attenzione pastorale alle loro necessità e ai loro desideri. Insistette che si trattava di una prospettiva urgente, perché il problema della povertà risultava angoscioso e ineludibile, a tal punto che per lui il concilio si stava svolgendo nell’«ora dei poveri»46. Questa situazione richiedeva che vescovi e teologi approfondissero la dottrina evangelica sulla povertà, in quanto «aspetto essenziale del mistero di Cristo». Lercaro chiese che venisse chiarita la connessione profondissima, «ontologica», esistente tra la presenza di Cristo nei poveri e la sua presenza nelle altre due realtà profonde del mistero di Cristo nella Chiesa: l’eucaristia e la gerarchia. Infi ne, segnalò ed esaminò alcune necessarie conseguenze di questa nuova considerazione della povertà nella vita della Chiesa: la limitazione dell’uso dei mezzi materiali nell’organizzazione ecclesiastica; l’adozione di un nuovo stile di vita e di azione da parte delle autorità ecclesiastiche, meno pomposo e più austero; la fedeltà degli ordini religiosi alla povertà, non solo nell’ambito individuale ma anche in quello comunitario; l’abbandono di mode e tradizioni, riti e simboli, strutture patrimoniali, reliquie del passato che non solo non costruivano nulla ma erano occasione di scandalo; lo sforzo di darsi a tutti, ma – sull’esempio di Cristo – preferibilmente ai poveri47 . Il tema della «Chiesa dei poveri» era stato già proposto da Giovanni XXIII nella sua allocuzione dell’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del concilio: «Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Non dimentichiamo che la spiritualità cristiana ha considerato la povertà non solo come un abbandono dei beni e dei criteri mondani, ma anche come un gesto di amicizia e fraternità per

2. Papa Giovanni XXIII annuncia il concilio Vaticano II. La «Chiesa dei poveri» è già presente nella sua allocuzione preparatoria al concilio.

2 gli esseri umani più sfortunati. Si tratta di superare qualsiasi barriera esistente, allo scopo di dimostrare amicizia e vicinanza al proprio fratello, ed è la miseria a costituire il più alto muro di separazione. In ogni caso, non possiamo ignorare la considerazione della povertà che il pensiero teologico dimostra, prima e dopo il Vaticano II. Troveremo sicuramente presenze e sfumature prima impensabili. Per esempio, Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, ha invitato l’episcopato ad aiutarlo a scoprire la via verso la povertà perduta. Sarebbe anche molto utile e illuminante dar conto delle progressive reazioni di vescovi e religiosi nel periodo postconciliare. Lo Spirito del Signore è certo stato presente anche qui, nella lenta e complessa evoluzione seguita al concilio. Bisogna riconoscere che molte cose sono cambiate da allora sotto la corazza ecclesiastica: Paolo VI vendette la tiara ricevuta in regalo dai suoi fedeli milanesi e destinò il ricavato ai più poveri. Poco prima della fi ne del concilio, lo stesso papa donò a ciascuno dei vescovi una medaglia commemorativa. Su una delle facce, si vedeva un crocifi sso di fronte al quale il papa deponeva la tiara, mentre dal cielo un angelo gli porgeva la mitra e un Vangelo. È il messaggio di una Chiesa povera, che non si vuole più sovrana alla maniera del mondo, ma evangelica e missionaria. Da allora nessun pontefi ce si è più posto sul capo la tiara, che in realtà manifesta soltanto la sovranità politica e il potere terreno. Sono anche cadute in disuso le sedie gestatorie, il patriziato romano, la corte pontifi cia, i corpi militari vaticani. I cardinali ormai non sono più considerati come principi, né portano più cappe di ermellino con i relativi strascichi, e non pochi vescovi hanno abbandonato i propri palazzi e gli anelli con pietre preziose, benché in alcuni di loro si intuiscano certe nostalgie e alcune velleità di ritorno al passato. In modo particolare, si ha l’impressione che questi religiosi abbiano compreso meglio la necessità di vivere una povertà istituzionale; in effetti, insieme a molti sacerdoti alcuni di essi hanno deciso di vivere e lavorare nei quartieri più poveri, a fi anco delle persone più bisognose. La comunità cristiana deve mantenersi vigilante su questo atteggiamento, ed esigere dalle nuove generazioni che perseverino nel cammino intrapreso.

3 3. Un’immagine della prima sessione del concilio Vaticano II, che sarà il concilio in cui verrà messa a tema la «Chiesa dei poveri».

This article is from: