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MISSIONARI ITINERANTI
Capitolo 22 FRATERNITÀ E CONFRATERNITE OSPEDALIERE
Già nell’852 Incmaro di Reims, parlando delle confraternite, che avevano in genere natura corporativa, elencava le attività di cui si occupavano: raccoglievano offerte per la manutenzione e l’illuminazione delle chiese, favorivano forme di intenso aiuto reciproco fra i propri membri, provvedevano ai funerali dei confratelli defunti, offrivano e raccoglievano elemosine per i poveri e realizzavano «molte altre opere di pietà». Già allora queste istituzioni erano dotate di organi di governo e di una struttura piuttosto articolata. Nel X secolo sono frequenti le notizie riguardo ad associazioni di questo genere e i loro obiettivi. Erano tempi duri, tanto nell’ambito religioso che in quello civile, e i laici percepivano con dolore i limiti della loro formazione religiosa e la miseria economica, la povertà di una società ingiusta in cui molti vivevano in condizioni drammatiche. Le confraternite corporative costituivano in realtà associazioni di mutuo soccorso, di aiuto solidale fra i membri di una medesima corporazione, per rafforzarne i diritti e la capacità di risposta a diffi coltà e limitazioni di vario genere. Allo stesso tempo, esse si occupavano di organizzare e fi nanziare atti di culto, di conseguire una migliore formazione dottrinale, e si sforzavano coraggiosamente di aiutare chi tra le loro fi la si trovava nelle situazioni più drammatiche, e di alleviare la povertà di tutti gli altri, cioè della maggioranza della popolazione. Fu nel XIII secolo che il processo di maturazione e di assunzione di una identità propria da parte del laicato si fece signifi cativo, sull’onda di una progressiva articolazione del tessuto sociale secondo il modello dei comuni, delle associazioni di arti e mestieri e delle confraternite universitarie, e grazie anche al fatto che la Chiesa si era maggiormente appoggiata ai fedeli laici durante i duri scontri fra Papato e Impero. L’importanza dei movimenti spirituali di laici nel secondo Medioevo, la loro varietà e molteplicità manifestano il malessere di ceti più maturi, più coscienti dei propri valori e della propria autonomia, del proprio infl usso sul cammino di una società che intendeva sottrarsi allo stesso tempo alla tutela della Chiesa istituzionale e a quella dell’Impero; ma mostrano anche la coerenza di quei fedeli cui era stata insegnata l’esigenza di riprodurre la comunità primitiva e che, oltre a predicare con l’esempio, vollero insegnare la dottrina con la parola, spesso ardente, e far rivivere la vita stessa di Cristo, anche con atti e istituzioni che si prodigavano ad addolcire le conseguenze della miseria di tanti cristiani. Era un popolo angosciato dalla malattia e dalla morte precoce, dalla nuda economia di sussistenza, dalla disperazione di poter ottenere il perdono dei peccati, dalla miseria dei corpi, dalla fame e dal dolore. Nella Chiesa trovava la speranza della salvezza e nelle confraternite, cioè nella solidarietà dei cristiani, scopriva un certo sollievo ai suoi bisogni. Non esisteva medicina organizzata, né Stato sociale. Era l’amore cristiano che si offriva a modo di tenue sicurezza sociale e di vicinanza fraterna. Queste confraternite permettevano di sperimentare il sentimento di solidarietà e di comunità, dando al popolo cristiano la capacità di far corpo, di esercitare l’amore reciproco e la responsabilità di gruppo. In una Chiesa ogni giorno più clericale, le confraternite costituivano vie di fuga per l’autostima, espressioni di generosità e di solidarietà, istituzioni che giunsero a essere agenti effi caci di risposta al fenomeno imponente della povertà26 . In tutte le confraternite, specialmente a partire dal XIV secolo, era presente la preoccupazione per la morte, la salvezza personale e i suffragi per i defunti. Per questo, molti si facevano confratelli nella speranza che i loro suffragi non venissero trascurati,
1. Interno della basilica tardomedievale di Santa María del Mar, Barcellona. Questo edifi cio monumentale, che gareggia con la cattedrale della città, è opera votiva, ma ad un tempo ecclesiale e sociale, della grande confraternita dei pescatori.
2. «Maestro dell’Osservanza» (attr.), Funerale di sant’Antonio. Particolare della Pala di sant’Antonio abate, 1440 ca., proveniente dalla chiesa di Sant’Agostino (?), Siena. National Gallery of Art, Washington. L’opera fa parte di una serie di otto tavole sulla vita di sant’Antonio abate; alla sua morte chiese ai suoi discepoli di seppellirlo subito e in luogo segreto. L’opera, di scuola senese, rappresenta la particolare attenzione alla morte e all’accompagnamento dei defunti, tipica della fi ne del Medioevo.
2 3. Domenico di Bartolo, affresco del «pellegrinaio» dell’ospedale di Santa Maria della Scala, Siena, 1444. Particolare con la costruzione dell’ospedale, evento fondamentale che coinvolse tutta la vita cittadina. Pagina seguente: 4. Gustave Courbet, Funerale a Ornans. Olio su tela, 1849-1850. Musée d’Orsay, Parigi. Pittore socialista dotato di un forte realismo, Courbet riesce a trasmettere il senso di comunità riunita nel rito religioso.
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evitando il rischio di dipendere interamente dalla buona volontà dei propri eredi. Queste associazioni davano spesso maggiori assicurazioni di eseguire i desideri postumi di quante ne dessero fi gli o familiari in generale. In effetti, il culto dei morti è tanto antico quanto Homo sapiens. I riti funebri sono perpetuati in tombe e sepolture. Esse testimoniano la fede in una vita ultraterrena, che induce i vivi a preoccuparsi del corpo del defunto e a esprimere un simbolismo religioso sempre più ricco. Il cristianesimo aggiunse a tutto ciò la fede in Cristo, Alfa e Omega dell’intero creato, e la carità cristiana si preoccupò fi n dall’inizio affi nché nessun corpo rimanesse insepolto e privo di suffragi. Per la prima volta nella storia, ai giorni nostri, la cremazione e la dispersione delle ceneri sfociano invece nella scomparsa totale di ogni riferimento immediato ai defunti. Tuttavia, benché la società contemporanea desideri eliminare la morte e comportarsi come se non esistesse, questa continua a essere un punto di riferimento che ci accompagna sempre e che ci rende tutti fratelli. Per questa ragione Lamennais, portando la propria sensibilità religiosa e solidale alle estreme conseguenze, chiese di essere inumato in una fossa comune (1854), con lo scopo di «riposare tra i poveri», cioè di attendere il Giudizio fi nale circondato da coloro che avevano meritato la benevolenza di Dio. L’importanza del lavoro assistenziale dipendeva dalla disponibilità di mezzi e dalla capacità di raccogliere elemosina con continuità. Fino a quando le loro rendite non furono confi scate dai vari Stati nel XIX secolo, tutte le confraternite disponevano di vari beni, che possiamo riassumere in proprietà rustiche o urbane e le relative rendite, entrate in contanti derivanti da quote annuali, multe, elemosine, e alcuni beni particolari dipendenti dalla storia o dalle circostanze. I bisogni esistenti obbligarono con il passare del tempo ad adottare forme più strutturate e tecnicamente complesse, allo scopo di amministrare ingenti patrimoni immobiliari e agricoli, costituiti nel corso del tempo grazie a donazioni e a lasciti testamentari. Nel XX secolo erano state fondate congregazioni, come quella delle Religiose degli anziani abbandonati, che raccoglievano e curavano coloro che non potevano contare su familiari che si preoccupassero di loro. Oggi, ormai ridottesi le vocazioni per queste congregazioni religiose, sono i laici a esercitare questa missione di amore e compassione. Osservando i tanti atti di amore generoso che si prodigano nel nostro mondo, possiamo rispondere a Jacques Monod27 che, benché il microscopio non riesca a vedere l’Eterno, benché nessuno ci riesca, chiunque dica no all’ingiustizia, chiunque per amore rinunci ai suoi guadagni e si dedichi a migliorare la vita del suo prossimo sa che Dio lo ama e, a sua volta, ama i propri fratelli. Le attuali congregazioni della Settimana Santa sono interclassiste, estendono i propri rami a tutti gli ambiti sociali e, se lo fanno in modo effi cace, possono essere capaci di intrecciare la liturgia uffi ciale con la pietà popolare, mentre contemporaneamente le loro casse caritative si riempiono considerevolmente per la redistribuzione ai più bisognosi. I santuari più visitati ottengono lo stesso risultato in maniera ugualmente effi cace28 .
Capitolo 23 PERDERE LA LIBERTÀ AFFINCHÉ IL FRATELLO SIA LIBERO
A partire dalle invasioni degli arabi nelle terre cristiane, cominciò ad accadere di frequente che i cristiani fi nissero sotto il dominio di costoro, come prigionieri di guerra, esiliati o oppressi per diritto di conquista. Si trovavano sottomessi in tal grado, che risultava loro diffi cile o impossibile coltivare la propria fede, esprimerla per mezzo dei sacramenti o delle devozioni. Per questo la Chiesa li ricordava con affl izione, si preoccupava di loro e cercava di liberarli: «la prigionia è la miseria più profonda per gli uomini, perché Dio li ha creati nella totale libertà, e mentre si trovano detenuti sotto il potere dei saraceni vivono in maniera assolutamente miserabile: non sono padroni di se stessi, si consumano nella povertà più profonda» (Costituzione dell’ordine di Santa Maria della Mercede). Il fervore e la passione esistenti nel mondo cristiano durante le crociate stimolarono sempre di più la preoccupazione per i territori perduti e per i cristiani in mano ai maomettani. I «nemici della fede» combattevano con le armi della guerra; con quelle stesse armi i cristiani dovevano difendere i propri interessi. Si pose così in tutta la sua crudezza la questione della guerra santa: santa per i musulmani, che diffondevano e proteggevano la propria fede per mezzo della spada; santa per i cristiani, che, levando lo stendardo della croce fornito dal papa, difendevano nel mondo la presenza e la libertà di Gesù. La sensibilità dei cristiani per le terre occupate e per i credenti in Cristo incarcerati si fece impetuosamente acuta. Dobbiamo tenere conto del fatto che il pericolo per la loro fede non proveniva solo dalle costrizioni e dagli abusi patiti, ma, soprattutto, dall’attrazione che potevano esercitare su alcuni cristiani le condizioni di vita del mondo islamico, geloso della propria fede e socialmente compatto, e dalla tentazione di acquistare libertà e favori e agi accettando la religione dei propri custodi, capi o compagni. Le più indifese erano le donne, che entrando in un harem perdevano ogni speranza di praticare la propria fede, e i bambini, che se venivano adottati dimenticavano rapidamente la propria storia precedente. Nei porti del Mediterraneo correvano in continuazione voci sulla dura sorte e sui pericoli dell’anima che correvano i prigionieri in Africa. Giovanni de Matha (1160-1213) e Felice di Valois (?1212) decisero di testimoniare la misericordia divina consacrandosi alla liberazione e al riscatto di questi prigionieri, e fondarono l’ordine della Santissima Trinità per la redenzione dei prigionieri. La loro prima spedizione nell’Africa del Nord ebbe luogo nel 1199. Tornarono da essa con 186 cristiani liberati dalle segrete barbaresche. Per ottenere risultati come questo, i Trinitari mettevano a disposizione i beni di cui disponevano, chiedevano elemosina per mezzo di organizzazioni di volontari che percorrevano il regno, e si impegnavano a offrire se fosse stato necessario la propria libertà, rimanendo in cattività al posto di quelli che non potevano riscattare in altro modo. Fondarono inoltre «case di misericordia» per ospitare coloro che, dopo aver riottenuto la libertà, si trovavano in grave condizione di abbandono. Curavano gli infermi negli ospedali, senza trascurare la cura delle anime né le missioni presso gli infedeli. Dedicavano la vita, fondamentalmente, al riscatto dei cristiani ad Algeri e Tunisi, a Costantinopoli e in Egitto. Confortavano quelli che erano costretti a rimanere, convertirono molti rinnegati e apostati, si offrirono come ostaggi per liberare altri e, in molti casi, sacrifi carono la propria vita. Il 19 settembre 1580 riscattarono ad Algeri Miguel de Cervantes, l’autore del Don Chisciotte, per 500 scudi. Alcuni anni più tardi, Pietro Nolasco (1180-1249) fondò un ordine militare, nato a Barcellona da
1. Imbarcazioni militari medievali arabe con le quali il Mediterraneo veniva conteso, con grande effi cienza, alle fl otte crociate ed europee. Cantigas de Santa María, n. 95, F139D (XIII secolo). Real Biblioteca del Monasterio de El Escorial. 2. Mons Gaudi, dal quale i pellegrini in arrivo vedevano le mura di Gerusalemme. Spesso i pellegrini arrivavano dall’Africa del Nord e potevano essere fatti prigionieri dagli eserciti arabi. 3. Simbolo dell’ordine dei Mercedari.
4. Simbolo dell’ordine dei Trinitari.
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5. Chiostro della Mercede a Città del Messico, ricostruito nel 1634. I Mercedari, con la scoperta del Nuovo Mondo, andarono in America centrale e meridionale per sostenere le situazioni di maggior disagio delle popolazioni e dedicarsi all’educazione e all’insegnamento.
6. Chiostro della Mercede a Quito, Ecuador.
un’associazione di laici devoti, allo scopo di salvare e riscattare i cristiani prigionieri, che si trovavano esposti al pericolo di abbandonare le pratiche della vita cristiana e di perdere la fede. Le sue costituzioni riassumono in poche righe la ragion d’essere della vocazione e dell’impegno dei membri, affermando che «l’opera di redenzione dei prigionieri è per l’edifi cazione del regno di Dio; è un autentico servizio al popolo di Dio mediante la difesa della fede tra gli oppressi, compiuta con spirito di perfetta carità a imitazione di Cristo Redentore». Nel 1318 si trasformò in ordine mendicante. Seguendo i consigli della Vergine della Mercede, i Mercedari hanno professato nel corso dei secoli un quarto voto, con il quale si impegnano, qualora la situazione lo richieda, a esporsi ai pericoli del mare, alle frecce dei nemici e ad accettare prigionia, tormenti e persino la morte. Già nel 1291 indicavano, come fondamento della loro decisione, di essere disposti a mettere in pratica ciò che afferma san Giovanni nel Vangelo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». «Si fa quarto voto di rimanere in ostaggio nella terra dei mori, se fosse necessario per liberare qualche cristiano prigioniero; quando si abbia timore che [questo cristiano] possa rinnegare la fede, siamo obbligati sotto la pena di peccato mortale a liberarlo e a rimanere al suo posto, fi nché l’ordine non ci riscatti, ché è segno di grande perfezione dare la vita per quella del prossimo. Molti sono così rimasti […]»29 . Dalla fi ne del XVIII secolo, salvo che negli anni della esclaustrazione, rispondendo alle nuove circostanze politiche e sociali, i Mercedari hanno dedicato la loro attenzione all’apostolato penitenziario, lavorando nelle carceri con i condannati a pene imposte dalle autorità; attività che, al fondo, corrisponde bene a quanto si impegnano con il quarto voto. Le carceri raccolgono ai nostri giorni tutta la gamma possibile dei delitti, con gradi differenti di responsabilità e di capacità di redenzione. In esse si esercita l’apostolato fra i carcerati, l’aiuto ai familiari dei reclusi e il sostegno a chi viene rimesso in libertà, allo scopo di ottenere il suo reinserimento nella società mediante la creazione di case, scuole e posti di lavoro appropriati. Questi religiosi e laici, che cooperano con la loro specifi ca preparazione e con la loro dedizione, sono capaci di risvegliare la speranza e il senso della propria dignità personale in questo sottobosco umano. La sensibilità per il problema carcerario aumenta nelle diocesi e si moltiplica il volontariato inserito nelle parrocchie e nelle istituzioni religiose, che dedica il suo tempo e la sua capacità di dialogo al lavoro nelle prigioni, e che con gesti e segni di giustizia, verità e amore rende testimonianza al Vangelo che annuncia. Le comunità cristiane diocesane iniziano ad avere una coscienza viva del problema penitenziario, sono consapevoli che una società così satura di materialismo genera emarginazione, e fanno sì che il carcere non rimanga al margine delle comunità credenti. Questi volontari sono coscienti della necessità di offrire occasioni di reinserimento a quanti per motivi personali o sociali hanno infranto le norme di convivenza e fraternità. Fra di essi ricordiamo i gruppi di avvocati cristiani che collaborano effi cacemente a questo scopo, e le tante persone che prendono in carico le case in cui vengono accolti i giovani che escono dal carcere dopo aver espiato la pena, per far loro trovare uno spazio adatto di vita e rapporti sociali in un momento delicato delle loro esistenze.
Capitolo 24 AL SERVIZIO DEI MALATI
Ci è stato detto che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, ma bisognerebbe aggiungere che per comprendere veramente il nostro prossimo dovremmo poter provare nella nostra carne la sua condizione. Il malato, sapendosi invalido, è più facilmente cosciente dell’angoscia sperimentata da quanti soffrono nella sua stessa situazione. I malati, per la loro stessa infermità, appartengono al mondo dei poveri e di quanti patiscono l’angoscia dell’incertezza, il dolore e la mancanza di protezione. Fra il culmine del Rinascimento e l’inizio della Riforma, il portoghese Giovanni di Dio, al secolo Juan Ciudad (1495-1550), vive lucidamente, come un folle, la testimonianza della solidarietà e della libertà cristiane, in un’epoca segnata dalle divisioni in Occidente e dalle guerre di religione. Nato a Évora, soldato nell’assedio dei francesi a Fuenterrabía, arruolato nell’esercito di Carlo V contro i turchi, si dedicò all’allevamento a Siviglia e lavorò a Ceuta. Finalmente, nel 1539, a Granada, ascoltò predicare san Giovanni d’Avila e si sentì completamente trasformato nel momento in cui udì il suo commento a Luca 6,17-32 sulle beatitudini, soprattutto sulla beatitudine dei poveri. Trasformato intimamente, sentendosi un abominevole peccatore, cominciò a percorrere le strade lamentandosi amaramente dei propri peccati; a causa di ciò fu preso per pazzo e, dopo essere stato condotto in un ospedale di folli, subì diversi maltrattamenti. Giovanni di Dio decise di dedicare la sua vita integralmente, «seguendo ignudo l’ignudo Gesù Cristo e facendosi del tutto povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte quante le sue creature, si è fatto povero per mostrare loro la via dell’umiltà»30 . Giovanni di Dio fu creduto pazzo nel momento in cui comprese la vera natura dell’amore di Dio, riconobbe i propri peccati e chiese perdono con forza, allo stesso modo in cui Gesù era stato scambiato per un folle e i suoi familiari lo avevano preso e ricondotto a casa (Marco 3,20-21). Si rese simile a Cristo, seguì le sue orme, esercitò con semplicità la carità, dando a quanti ne avevano bisogno consolazione ed elemosina, ponendo tutto al di sopra di se stesso. Consapevole di come venissero trattati i malati, in particolare quelli mentali o incurabili, Giovanni di Dio, «vedendo punire i pazzi che erano lì con lui, disse: ‘Gesù Cristo mi lasci uscire per tempo e mi conceda la grazia di avere un ospedale, in cui possa raccogliere i poveri abbandonati e privi dell’intelletto e servirli come desidero’». Con l’aiuto di alcune persone affi ttò una casa, la dotò dell’indispensabile e, vedendo tanti poveri sdraiati sotto i portici, nudi, piagati e malati, «iniziò a dare un letto ai poveri che trovava per tutta la città». Per lui l’ospedale era un luogo santo, casa di Dio, aperto a tutti i poveri senza distinzione: «Essendo la città grande e gelida, soprattutto d’inverno, sono molti i poveri che conducono a questa casa di Dio […] accolgono dunque in essa ogni tipo di malati e ogni sorta di gente, di modo che vi si trovano invalidi, monchi, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi e anche molti anziani e molti bambini e, oltre a questi, molti pellegrini e viandanti che là si raccolgono» (Seconda lettera di Giovanni di Dio a Gutierre Lasso, 5). Dava loro sollievo, li curava, li dotava di abiti, mantelli, tuniche, camicie, scarpe e calze. L’identifi cazione con il dolore umano segna tutta la sua vita, le sue azioni e la sua opera. È per questa ragione che l’accoglienza praticata dalla Casa di Dio di Giovanni era universale e non veniva limitata da alcun tipo di considerazione sociale, culturale o religiosa. Qualsiasi bisognoso o abbandonato aveva diritto a esservi accolto31 .
1. Progetto di Filarete per l’ospedale della città ideale. Di fatto su suo progetto si costruì a Milano l’ospedale Maggiore nel 1456. All’epoca, gli ospedali divengono il grande problema delle città, ma nulla si potrebbe fare senza le congregazioni e gli ordini che se ne fanno carico.
2. L’isola Tiberina e l’ospedale Fatebenefratelli a Roma, particolare della pianta prospettica di Roma di Antonio Tempesta, del 1593, la cui copia del 1606 è conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Si tratta di una delle grandi iniziative dell’ordine degli Ospedalieri.
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3. Veduta aerea dell’isola Tiberina.
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