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LA TENEREZZA DELLA PATERNITÀ
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3. Vetrata del Buon samaritano, navata sud della cattedrale di Chartres.
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4. Vetrata del Figliol prodigo, transetto nord della cattedrale di Chartres.
5. Gesù e l’adultera. Particolare di una miniatura del Vangelo egiziano dell’Institut Catholique di Parigi, 1249 ca. 1. Resurrezione di Lazzaro. Miniatura di un evangeliario siriano del VI secolo. Tesoro della Cattedrale, Rossano.
gia quotidiana, ha compreso la paternità divina, la sua presenza nei mutamenti climatici delle stagioni, il suo aiuto nelle calamità, la sua preoccupazione nelle infermità. Gli ha chiesto pioggia al tempo della siccità, protezione nelle epidemie, vicinanza nelle calamità. Al di là delle esperienze quotidiane, i credenti hanno confi dato che un giorno Dio avrebbe concesso loro la fi ne del male, dell’ingiustizia e della morte. Nel frattempo, i fedeli cristiani erano consapevoli del fatto di vivere grazie al perdono e alla misericordia di Dio, e, mentre recitavano quotidianamente il Padre Nostro, si impegnavano a loro volta a perdonare e a essere misericordiosi con il loro prossimo, e a tener salda la loro volontà di aiutare ciascuno a costruire la propria dignità. Questo processo di avvicinamento di Dio ai suoi fi gli e dei fi gli fra di loro raggiunge un vertice nella parabola che presenta, più di ogni altra, i segni di identità del cristianesimo: la parabola del fi gliol prodigo o, meglio, del padre misericordioso. È chiaro che Gesù si riferisce a Dio quando ci presenta questo padre che spera sempre, che non smette di amare, che non condanna benché ne abbia tutti i motivi, che è felice quando il fi glio ritorna pentito nel suo grembo. Il cristianesimo è la religione di una Trinità d’amore, che ama disinteressatamente i propri fi gli creati a sua immagine e somiglianza, che conosce i loro limiti e li ama per quello che sono ed esige che si amino come fratelli, come fi gli di un padre comune. «Guardate come si amano!», osservavano sorpresi i romani di fronte ai rapporti reciproci dei cristiani. Per questi ultimi non si trattava solo di un comandamento del Maestro, ma di un movimento spontaneo del cuore. L’annuncio della buona novella consisteva nel dire che Dio era il loro Padre comune, la loro roccia e la loro salvezza. In una lettera alla sorella Marcellina, commentando i pensieri del fariseo Simone riguardo alla peccatrice che aveva unto i piedi di Gesù e alle parole che Gesù aveva rivolto a Simone, sant’Ambrogio scrive: «I capelli sono considerati superfl ui per il corpo, ma se li si unge acquistano un buon odore; ornano il
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capo, ma se non sono unti diventano un peso. Lo stesso accade con le ricchezze: diventano pesanti se non sappiamo usarle, se non acquistano il profumo di Cristo. Ma se sostentiamo i poveri, se laviamo le loro ferite e le purifi chiamo della loro sporcizia, allora è come se asciugassimo i piedi di Cristo». In un’altra occasione, rimproverando l’imperatore Valentiniano II a proposito dei sacerdoti del culto pagano, Ambrogio afferma: «Il sostentamento dei poveri costituisce il patrimonio della Chiesa. Dicano i nostri avversari quanti prigionieri hanno riscattato con le rendite dei loro templi, quanti alimenti hanno distribuito agli affamati, quanti soccorsi hanno inviato agli esiliati». In questo testo troviamo elencate alcune delle opere di assistenza svolte dalla Chiesa, basate sempre sulle esortazioni del Maestro4 .
Capitolo 3 I MIRACOLI DI GESÙ
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Gli abitanti della Galilea, agricoltori, piccoli commercianti, pastori, si incontrarono un tempo con Gesù che passava per i loro villaggi curando malati, cacciando demoni e liberando le persone dal male, dalla mancanza di dignità e dall’esclusione. Nel corso di tre anni camminò per paesi e villaggi e li convinse, con la sua passione, le sue parole e le sue azioni, che Dio li amava, rimaneva con loro, si preoccupava delle loro cose. I malati recuperavano la salute, i posseduti dal demonio venivano riscattati dal loro mondo di angustia e oscurità, e molti di essi trovarono il senso delle loro vite. «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò benefi cando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui», troviamo scritto negli Atti degli Apostoli 10,38. I Vangeli ci dicono che il Maestro realizzava tante guarigioni perché aveva pietà di coloro che soffrivano per motivi fi sici e spirituali, perché sentiva nel profondo la misericordia di Dio per l’essere umano. Scoprì che il popolo era come «pecore senza pastore», ebbe pietà di loro e parlò loro del Padre celeste, assicurandoli che il Dio di Israele era un Dio vicino e misericordioso. A chi lo ascoltava, risultava evidente non solo che egli non parlava per sentito dire né ripeteva stereotipi o formule vuote, ma anche, vedendone il modo di vivere e la tenerezza, che le sue parole manifestavano la sua gioiosa esperienza personale. Si sentivano curati, la loro sofferenza riceveva sollievo, il loro spirito rimaneva pacifi cato, la loro vita ristabilita, e si sentivano fi gli di Dio: erano questi i sentimenti che sperimentavano coloro che lo ascolta-
vano, provando che le parole con cui aveva risposto agli inviati del Battista erano veritiere: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» (Luca 7,22). I primi cristiani erano coscienti che le azioni di Gesù erano centrate su due obiettivi complementari: annunciare la buona novella che il regno di Dio era vicino e, allo stesso tempo, essere sollecito e curare le infermità e i dolori del popolo (Matteo 4,23). In questo modo egli annunciava effi cacemente, con parole e segni, che l’azione salvatrice di Dio era già presente nella sua persona. Dopo aver inviato per la prima volta i suoi discepoli ad annunciare la buona novella, «essi partirono e giravano di villaggio in villaggio, annunziando dovunque la buona novella e operando guarigioni» (Luca 9,6). Questo è stato anche il compito ricevuto dai cristiani nel corso dei secoli: proclamare la grandezza di Dio e, allo stesso tempo, stare vicini alle miserie e alle sofferenze degli uomini, cercando la loro felicità e la loro guarigione, e collaborando alla rigenerazione di una società spesso divisa e priva di speranza. La presenza e la vicinanza di Dio producono incessantemente ogni tipo di beni nella sua creazione: la bellezza, la bontà e la verità, sempre presenti, in qualche modo, nella natura e negli esseri umani. È bello provare come i miracoli di Dio siano presenti in abbondanza nella nostra vita. Discernerli e godere di essi costituisce una delle sensazioni più gioiose della nostra esistenza. Noi cristiani parliamo con gratitudine della Provvidenza, questa presenza diffusa, creativa e generosa del Creatore nella natura e nella vita degli esseri umani. Una presenza che viene percepita nella speranza e che, a sua volta, provoca speranza. Una speranza celebrata da Ezechiele quando espresse in un primo momento la propria esperienza personale di scoraggiamento: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente di Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (Ezechiele 37,11), che però in poco tempo si mutò in gratitudine e in progetto per il futuro nel constatare la decisione amorosa di Dio: «Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele» (37,12). Questa speranza è indirizzata solo verso Dio, ma Dio si serve sempre degli uomini per diffondere i suoi doni e manifestare la sua vicinanza. Essere coscienti di questa capacità personale di cooperazione con il progetto divino costituisce una delle esperienze più gratifi canti dell’essere umano.
2. Guarigione del cieco. Pittura murale della chiesa di Ravanica in Moravia, 1387.
3. Guarigione dell’idropico. Affresco, 1316-1319. Chiesa di San Giorgio, Staro Nagoricino, Macedonia.
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4. Nozze di Cana. Particolare di una miniatura del Vangelo egiziano dell’Institut Catholique di Parigi, 1249 ca.
5. Guarigione del posseduto di Gerasa. Miniatura dell’evangeliario della badessa Hitda, 1000-1020 ca., Colonia. Hessische Landes- und Hochschulbibliothek, Darmstadt.
Durante i secoli XIX e XX varie congregazioni religiose hanno inserito la parola «Provvidenza» nei propri nomi. Esse hanno dedicato la loro attenzione e la loro esistenza ai bambini abbandonati, agli anziani, ai poveri, ma – prima di tutto – hanno voluto indicare che era la Provvidenza divina, tramite le loro opere, a curarsi di proteggerli e assisterli. In un certo senso, i miracoli divini continuano a manifestarsi in tutti gli ambiti umani, di giorno in giorno, per mezzo dell’amore e della dedizione degli uomini. La vera avventura umana consiste nello scoprire il volto autentico dell’amore, e per ottenere ciò risulta imprescindibile scoprire e mettere in pratica la nostra capacità di amare. Troppo spesso limitiamo e impoveriamo noi stessi con amori gretti e dall’orizzonte limitato, senza percepire l’amore immenso che ci circonda e che, di fatto, muove, libera e arricchisce un mondo sempre contraddittorio e sconcertante. Il pensiero umano, l’arte in tutte le sue espressioni, le diverse religioni hanno concepito il mondo come la manifestazione splendida e l’espressione plastica dell’onnipotenza di Dio, ma non sempre della bontà e della tenerezza di Dio. Tuttavia, fi n dall’alba dei tempi, Dio ci ha conosciuto, e tutta la creazione è sempre stata in rapporto con la nostra esistenza e condizionata da essa. Egli sapeva che alcuni si sarebbero ribellati al suo amore e alla sua misericordia, ma anche che altri lo avrebbero amato dal primo istante in cui fossero stati capaci di amare, e che non lo avrebbero mai più abbandonato. Ci sarà allegria fra le stelle a causa di alcune conversioni e, alla fi ne dei tempi, nella gloria fi nale della creazione, tutte le creature si riuniranno per celebrare il suo amore, in modo che, alla conclusione dei secoli, tutti gli ambiti della creazione si volgeranno di nuovo al loro Creatore. Nel frattempo, nel corso della storia, gli esseri umani incontrano e affrontano ogni volta i miracoli che Dio va disseminando per l’universo. Sono segni che devono essere investigati, decifrati e compresi. Alcune anime più umili o più ingenue o più pure hanno intrapreso e intraprendono la missione di comprenderli, tradurli e farli conoscere: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il fi rmamento», riconosce il Salmo 19,2, e Tommaso da Celano, nella sua Vita di Francesco d’Assisi, commenta: «Che estasi gli procurava la bellezza dei fi ori, quando ammirava le loro forme e aspirava la loro fragranza delicata! […] Si metteva a predicare loro, li invitava a lodare e ad amare Dio, come se fossero stati esseri dotati di ragione. Allo stesso modo, le messi e le vigne, le pietre e le selve, le belle campagne, le acque correnti, i giardini verdeggianti, la terra e il fuoco, l’aria e il vento, con
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6. Giotto, Miracolo della fonte. Scena dal ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco, 1295-1300. Facciata interna della basilica superiore di San Francesco, Assisi.
7. Giotto, Predica agli uccelli. Scena dal ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco, 1295-1300. Facciata interna della basilica superiore di San Francesco, Assisi. 1. Guarigione dell’emorroissa. Particolare del lato anteriore della lipsanoteca. Civici Musei di Arte e Storia, Brescia.
2. Guarigione della fi glia di Giairo. Particolare del lato sinistro della lipsanoteca. Civici Musei di Arte e Storia, Brescia.
semplicità e purezza di cuore invitava ad amare e lodare il Signore»5 . Il Cantico delle creature costituisce un’ulteriore espressione dell’ammirazione di Francesco: «Altissimu, onnipotente bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare». Ancora ai nostri giorni, all’inizio di ottobre si offrono nelle chiese i frutti dei campi come ringraziamento per il miracolo continuo delle stagioni e del cibo che la natura offre a nostro benefi cio. L’eucaristia costituisce uno straordinario rendimento di grazie al Dio che ci salva, che il popolo cristiano offre ogni giorno in ricordo di Cristo. Quando noi cristiani ringraziamo Dio per essere il nostro Padre, allo stesso tempo lo stiamo ringraziando per tutti i nostri fratelli e, in quel momento, l’umanità diviene più compatta e solidale. I grandi santi hanno ripetuto i miracoli di Gesù, come leggiamo nelle loro Vite. La presenza viva e decisiva del Signore si incontra nella vita dei suoi santi, nel loro straripante amore per Dio e per gli uomini, nei miracoli che compiono, nella loro capacità di creare pace e solidarietà. Essi hanno considerato che esiste un solo universo, quello degli uomini, che nella sua evoluzione sfocia sempre in Dio, e hanno utilizzato nelle loro azioni il principio che si deve servire, prima di se stessi, coloro che sono meno felici. Servire in primo luogo coloro che soffrono di più, che hanno più bisogno e sono più soli di noi.
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Capitolo 4 LA COMPASSIONE E LA MISERICORDIA DI GESÙ
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Nel Vangelo di Marco incontriamo un miracolo particolarmente signifi cativo, quello dell’emorroissa (Marco 5,24-34). Non conosciamo il suo nome; sembra essere sola, senza parenti né amici, e ci viene detto che i medici l’avevano rovinata. Dati i costumi dell’epoca, la sua malattia, oltre a renderla sterile, la poneva in un universo rituale di impurità, vergogna e disonore. Per questo non osa fare la sua richiesta apertamente, arrischiandosi solo a toccare il mantello di Gesù di nascosto. Secondo la religione ebraica, dopo averlo toccato, egli sarebbe rimasto impuro. Mossa da ciò che aveva udito di Gesù, osa accostarsi alla fonte di un dono che può essere ricevuto solo gratuitamente, in contrasto con la fortuna consumata inutilmente con i medici. Il suo timido e semplice contatto rivelava il suo timore e tutta la sua speranza, nel tempo in cui si manifestava la tenerezza di Dio. In questo miracolo vediamo la grandezza di Dio e l’amore misericordioso del Signore. A Gesù non basta guarirla, vuole raggiungere il profondo della sua anima e non rimane soddisfatto prima di aver iniziato un dialogo che li avvicini e stabilisca una relazione. Gesù non è un funzionario, ma l’amico che si preoccupa e ci viene incontro. La donna non solo viene curata ma riceve una lode per la sua fede e viene chiamata fi glia, un titolo raro nei Vangeli. Gesù ci invita a fare nostra l’esperienza della donna: prendere coscienza, in primo luogo, della nostra debolezza e della nostra piccolezza, consapevoli che la vita ci sta sfuggendo, a causa di tante perdite di valo-
ri fondamentali e della presenza di aspetti confl ittuali nella nostra esistenza che ci fanno sentire sterili, mentre tralasciamo ciò che è importante e trascuriamo il senso ultimo della nostra vita. L’immensa sensibilità di Gesù per il dolore degli esseri umani lo rendeva capace di mettersi in rapporto con essi con tutti i suoi sensi, con pietà e misericordia: guardava nei loro occhi, ascoltava le loro parole, facendo loro coraggio, toccando con le mani colui che alla fi ne guariva. Quando l’emorroissa gli si accostò da dietro in mezzo alla moltitudine e lo toccò, uscì da lui un potere curativo che sanò per sempre la malattia (Marco 5,25-34), e quando toccò il lebbroso con le sue mani conferì a quell’uomo, evitato da tutti, una dignità e una sicurezza in se stesso che credeva irrimediabilmente perdute (Marco 1,40-45). Il cieco dalla nascita fu abbagliato da una luce insperata, che inondò i suoi occhi quando le dita di quel galileo sconosciuto accarezzarono le sue palpebre e udì questo invito: «Va’ a lavarti nella piscina di Siloe» (Giovanni 9,7). Il sordomuto sentì che qualcuno lo prendeva per la mano e lo tirava fuori dalla folla; quando furono da soli, Gesù gli infi lò le dita nelle orecchie, gli toccò la lingua con la saliva e pronunciò quindi un ordine imperioso alle sue orecchie chiuse: «Apriti!» (Marco 7,34). E la forza di quelle parole attraversò le barriere della sua sordità, slegando allo stesso tempo la sua lingua e la sua intera esistenza condannate al silenzio6 . Ancora oggi Cristo si serve dell’acqua, del vino, del pane, della luce, dell’olio, dell’amicizia e dell’affetto per curare, rianimare, alimentare, fortifi care e salvare quanti lo cercano. Egli ottiene per noi un cuore nuovo e ci infonde uno spirito nuovo, ci fa uscire dalla nostra routine e ci induce a rinnovarci. Forse è per questo che, malgrado la crisi delle Chiese e delle religioni, la fi gura generosa di Gesù continua a suscitare ammirazione e interesse, e gli esseri umani seguitano ad attribuirle autorità morale in un’epoca che difetta di riferimenti etici. Per noi, inoltre, egli è l’amico che offre la sua vita per noi, che concede il suo perdono con accoglienza amichevole, che ci chiede di essere pietosi come lo è il Padre celeste e di cambiare il nostro cuore. Siamo discepoli di un Maestro che era padrone dell’arte di accogliere, di proteggere e di offrire asilo fra le sue braccia alle vite ferite e ai corpi malconci di tanti uomini e donne. Siamo impegnati a far sì, con la nostra solidarietà, sollecitudine, sintonia e vicinanza, che la comunità credente, la Chiesa, si converta in uno spazio di comunione, di accoglienza, di misericordia e di fraternità condivise, capace di abbracciare coloro che nel nostro tempo continuano a soffrire nel corpo e nell’anima. È orribile recitare tutti assieme il Padre Nostro e condividere l’eucaristia se, allo stesso tempo, teniamo chiusi i nostri cuori e disprezziamo o ignoriamo quanti ci circondano. Agendo in questo modo, riusciamo solo ad annacquare l’appartenenza alla Chiesa e il senso autentico dell’identità cristiana. Al contrario, Gesù ci chiama a rimodellare il nostro modo di pensare, a ricostruire la nostra vita, le nostre ami-
3. Gesù e la samaritana. Particolare di una miniatura del Vangelo egiziano dell’Institut Catholique di Parigi, 1249 ca.
4. Moltiplicazione dei pani. Miniatura dell’evangeliario di Reichenau, 990 ca. Biblioteca Apostolica Vaticana.
3 Pagina seguente: 5. Paolo chiede al sommo sacerdote le credenziali per la sinagoga di Damasco; conversione di Paolo; imposizione delle mani di Anania e battesimo di Paolo; Paolo predica a Damasco; Paolo guarisce un paralizzato a Listra. Miniatura della Bibbia di Baviera, ultimo quarto del XII secolo. Universitätsbibliothek, Erlangen.
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cizie, la nostra fede, a partire dal suo insegnamento sui poveri e sui piccoli. Secondo Gesù, il regno di Dio diviene presente là dove le persone agiscono con misericordia. Perché la sua presenza sia visibile bisogna introdurre nella vita la compassione, un sentimento sempre presente nelle manifestazioni divine. Bisogna guardare con occhi pietosi i fi gli perduti, gli esclusi dal lavoro e dal pane, i delinquenti incapaci di rifarsi una vita, le vittime cadute sul ciglio della strada. Bisogna radicare la misericordia nelle famiglie e nella vita dei paesi. Gesù arriva offrendo il perdono e la misericordia di Dio, inaugurando una dinamica di perdono e compassione reciproca e agendo sempre di conseguenza, così come aveva augurato Isaia: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Isaia 1,16-17). Il modo di operare di Gesù si svincola da tutti gli stereotipi e modelli mondani di autorità e prepotenza, e squalifi ca qualsiasi manifestazione di dominio di fratelli su altri fratelli: si inaugura uno stile nuovo in cui il forte non si impone sul debole, il ricco sul povero, chi possiede informazione sull’ignorante. Per Gesù, nel nuovo regno il vincolo fondamentale è la fraternità nel mutuo servizio, condividere la mensa con coloro che all’apparenza erano «meno» e stavano «in basso», invalidando qualsiasi pretesa di credersi «più» o di porsi «al di sopra» di altri. Gesù presenta altre priorità, ci indica in che cosa consiste la sostanza della sua proposta, in che modo potremo giungere ad essere davvero suoi discepoli. Ci ripete che per ottenere il necessario cambiamento di mentalità, di amore, di modo di agire e di reagire, risulta inevitabile nascere di nuovo, come aveva insegnato a Nicodemo. Ai nostri giorni, dovremmo essere capaci di incontrare altri modi di incarnare Cristo, ora che siamo coscienti dell’insuffi cienza di molte delle nostre istituzioni, simboli e atteggiamenti. Con troppa frequenza la Chiesa si è guardata negli specchi mondani e non abbastanza nello specchio del Vangelo. È con la sua vita, prima ancora che con la sua dottrina, che Cristo ci ha insegnato ciò che è Dio e ciò che desidera che siamo noi; questo è ciò che compresero i suoi discepoli sin dal primo momento7. Teresa d’Avila ha cominciato la sua autobiografi a con il desiderio di «cantare gli atti di misericordia del Signore», e Teresa di Lisieux si è decisa a scrivere con la convinzione di «dover fare una cosa sola: cominciare a cantare ciò che più tardi ripeterò per tutta l’eternità: gli atti di misericordia del Signore». La storia del cristianesimo è in un certo senso la storia di questa misericordia e della gratitudine che proviamo per esserne i destinatari.
Capitolo 5 IL DIACONATO
Nel greco classico diákonos signifi ca «colui che sta al servizio di», ovvero «servitore». In questo senso Gesù afferma che non è venuto per essere servito ma per servire, conferendo così una nuova dimensione al signifi cato della sua persona e del suo insegnamento. Questa idea di servizio ha pervaso nei suoi momenti migliori l’esercizio dei ministeri ecclesiastici, la vocazione cristiana e i rapporti tra i credenti. Al contrario, quando coloro che dirigono l’organizzazione e l’amministrazione della comunità agiscono a fi ni di potere o di dominio, fi niscono per prostituire uno degli insegnamenti più importanti di Cristo. Di frequente, noi credenti ci vediamo pervasi da una schizofrenia attiva fra i concetti che utilizziamo e i metodi di governo con cui li attuiamo. San Gregorio Magno, per rimproverare la condotta del patriarca di Costantinopoli che aveva assunto il titolo di «ecumenico», adottò quello di «Servo dei Servi del Signore», ma la storia ci insegna che, a volte, all’ombra di questa defi nizione si è continuato a opprimere e maltrattare i servi e i fi gli del Signore, mutandosi così in lupi prevaricatori nel gregge di Cristo. Il Signore è stato molto chiaro quando ha istruito i suoi discepoli. Essi non dovevano comportarsi nello stesso modo di chi detiene il potere mondano: «Gli ultimi saranno i primi» è stato il suo monito. Bisogna essere disposti a condividere, a partecipare, a perdonare, ad aiutare in ogni momento, con l’edifi cazione attiva di quel regno dei cieli che già si trova, in qualche modo, nei nostri cuori: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi si farà vostro schiavo» (Matteo 20,25-27). Un tempo, quando i consoli venivano inviati al loro incarico, si dava loro questo consiglio: «Comportati non come un giudice ma come un vescovo». Nel corso dei secoli, al contrario, siamo passati spesso dal servizio al dominio e alla tirannia. L’esperienza ci dice però che la diaconia è rimasta sempre viva nella memoria ecclesiale. Non c’è dubbio che una delle attività più importanti svolte dalla Chiesa di Gerusalemme nei suoi primi anni di vita fu, sul piano sociale, la diakonía kathemeriné, cioè l’aiuto alle vedove, agli orfani e ai poveri, agli infermi e ai prigionieri, a quelli che avevano fame e sete, a quelli che si ritrovavano nudi o abbandonati. La nuova dottrina si incentrava sugli atti di Gesù, l’autentica buona novella proclamata, ma Gesù si mostrava ai suoi discepoli come verità e vita, in modo che non era possibile separare la dottrina che insegnava dalla sua vicinanza e dal suo amore per i ciechi, gli zoppi, i poveri, e dalla sua continua preoccupazione per chi soffre ed è mansueto nello spirito di fronte alle calamità che lo colpiscono. Nel parlarci della vita dei primi cristiani, gli Atti degli Apostoli ci riferiscono che «tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (Atti 2,44-45). Questa divisione e distribuzione di beni provocò spesso confl itti e forse diseguaglianze. I discepoli di lingua greca iniziarono a mormorare contro quelli di lingua ebraica, perché pensavano che le loro vedove venissero trascurate nel servizio quotidiano. Gli apostoli, coscienti che il loro compito specifi co era quello di predicare e insegnare, decisero di eleggere sette uomini che si dedicassero a servire nelle mense e ad amministrare le opere di carità. Di questi il più famoso fu san Lorenzo (Atti 6,1-6). Benché nel Nuovo Testamento non li si chiami da nessuna parte «diaconi», sant’Ireneo di Lione (135-
1. Opere di misericordia. Particolare del Giudizio fi nale, 1061-1067, tempera su tavola dei pittori di scuola romana Nicolò e Giovanni proveniente dall’oratorio di San Gregorio Nazianzeno. Pinacoteca Vaticana. 3. Beato Angelico, San Lorenzo distribuisce i beni ai poveri, 1447-1448. Cappella Niccolina, Palazzo Apostolico Vaticano.
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II III 2. Ripartizione in regioni civili ed ecclesiastiche della Roma del III secolo d.C.
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200) scrisse nel suo famoso libro Contro le eresie che «Stefano fu eletto dagli apostoli come primo diacono», istituendo così una tradizione che è giunta fi no a noi, quella di mettere in rapporto la diaconia con l’esigenza e la prassi cristiana di amare e aiutare i fratelli meno fortunati. Intorno all’anno 57, per esempio, tanto a Roma quanto a Efeso e a Filippi, le funzioni ecclesiali venivano divise tra i vescovi, che presiedevano e insegnavano, e i diaconi che servivano e distribuivano i beni agli altri cristiani, tutti egualmente membri di un popolo sacerdotale e regale. Ad ogni modo, il contesto sacramentale dell’elezione di questi sette uomini (tramite l’imposizione delle mani) attribuisce loro, allo stesso tempo, una proiezione liturgica e una dedicazione al servizio dei fratelli (Atti 6,3), che sarà quella propria dei diaconi nel corso della storia. Secondo i testi di cui disponiamo, i diaconi amministravano tutti i beni materiali delle Chiese ed erano responsabili dell’organizzazione caritativa, specialmente per gli infermi. A metà del III secolo, papa Fabiano, in un’importante riorganizzazione amministrativa della diocesi di Roma, divise la città fra sette diaconi, i quali presidiavano nelle rispettive circoscrizioni i servizi caritatevoli; alcuni decenni più tardi, il concilio di Cesarea promulgò una norma che limitava a questo stesso numero la quantità di diaconi presenti in una città, indipendentemente dalla sua grandezza. Nei banchetti (agápe), organizzati con una certa frequenza dalle prime comunità per motivi di benefi cenza, i diaconi erano incaricati di coordinare l’or-
ganizzazione liturgica con il sentimento sociale, e di distribuire il denaro e i doni ricevuti fra i bisognosi. Non passò molto tempo prima che il diacono si trasformasse in un importante aiutante del vescovo, in modo che, benché il vescovo diocesano avesse assunto la responsabilità ultima delle opere di carità così come le altre funzioni direttive diocesane, i diaconi conservarono il loro rapporto diretto con i bisogni sociali delle comunità, trasformandosi negli occhi e nelle orecchie, nelle mani e nel cuore dei vescovi. Potremmo segnalare, inoltre, che i diaconi erano abitualmente gli intermediari fra i laici e i vescovi, funzione sempre più importante man mano che il numero dei cristiani aumentava e che i compiti extraecclesiali dei vescovi si infi ttivano, accentuandosi la loro importanza nella vita sociale. Dalla collaborazione concorde tra il vescovo e il diacono dipende, secondo la Didascalia apostolorum del III secolo, il bene della comunità. Ricordiamo che buona parte delle opere di carità erano stabilite e regolate minuziosamente, ed è in questa struttura organizzativa che i diaconi esercitavano compiti direttivi di primaria importanza. Essi ricevevano e distribuivano le donazioni dei fedeli, soprattutto quei legati ed eredità che la Chiesa riceveva ogni giorno più frequentemente. Con Costantino la Chiesa ricevette dallo Stato la supervisione delle condizioni delle carceri e l’assistenza alle vedove, agli orfani e ai bambini abbandonati, cioè buona parte dell’azione sociale pubblica. Il clero si trasformò in avvocato e intermediario tra il popolo e il governo, e pagava spesso i debiti del primo. Le diocesi giunsero a farsi carico di migliaia di bisognosi. Giovanni Crisostomo, descrivendo la propria diocesi, parla di 3.000 vedove e vergini, oltre a infermi, lebbrosi, stranieri, e senza contare quanti ricevevano abitualmente vitto e vestiario. Qualcosa di simile si può affermare per le città più popolose. Nel XVI secolo, tanto Lutero quanto Calvino vollero rompere con questo modo di intendere il diaconato, e cercarono di restaurare le funzioni che i diaconi esercitavano nella Chiesa primitiva, cioè il loro impegno per i poveri, con un ruolo signifi cativo nella benefi cenza sociale; queste aspettative si realizzarono però solo parzialmente e soltanto in alcune regioni, anche se non c’è dubbio che sia rimasta nelle diverse denominazioni cristiane una certa presenza o, almeno, una certa nostalgia del diaconato con responsabilità caritative. D’altra parte, nei paesi a maggioranza protestante, le Chiese persero spesso il controllo delle loro proprietà, che passarono alle istituzioni statali, in modo che la benefi cenza e l’istruzione iniziarono ad essere considerate una responsabilità dello Stato moderno. Nella Chiesa anglicana di Elisabetta I, benché l’assistenza ai poveri fosse affi data alle parrocchie, la regina non permise l’istituzionalizzazione dei diaconi. Durante il XX secolo, in Europa, alcune eminenti personalità cattoliche tentarono di rivitalizzare il diaconato come un ministero permanente. Pio XII progettò di instaurare il diaconato permanente, ma in Europa c’erano sacerdoti a suffi cienza e la questione rimase in sospeso. Con maggiori argomenti e maggiore urgenza, in alcuni paesi americani e africani si tornò a discutere del tema, in modo che durante i lavori preparatori del concilio Vaticano II novanta vescovi chiesero al papa che si trattasse dell’argomento durante le deliberazioni conciliari. Nel corso della II sessione, i padri conciliari dibatterono l’argomento e una maggioranza di essi votò a favore della restaurazione. Il 21 novembre 1964 fu promulgata la restaurazione del diaconato permanente nella costituzione dogmatica sulla Chiesa. Le conferenze episcopali nazionali, con approvazione pontifi cia, potevano decidere la restaurazione del diaconato nelle rispettive regioni. Secondo le nuove disposizioni, uomini sposati di 35 anni o più e uomini celibi di almeno 25 anni potevano diventare diaconi permanenti. Nell’anno 2003 si contavano almeno 30.000 diaconi permanenti in 105 paesi, dei quali quasi la metà erano nordamericani. I diaconi, ordinati a una certa età, sposati e, normalmente, con una esperienza di lavoro, costituiscono una presenza accessibile e impegnata dell’organizzazione ecclesiale nella vita dei laici. Là dove esistono, sono giunti a trasformarsi in un ponte e in un vincolo spontaneo di unione fra due mondi non sempre molto vicini.
4. Martirio di santo Stefano. Affresco della cripta di Epifanio, 824-842, San Vincenzo al Volturno. Il diacono Stefano è il primo martire cristiano.
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Capitolo 6 IL MARTIRIO, SEGNO D’AMORE PER DIO E PER GLI UOMINI
2 1. Martirio di san Lorenzo. Affresco della cripta di Epifanio, 824-842. San Vincenzo al Volturno.
2. Martirio di Pietro e Paolo. Miniatura di un tropario proveniente dall’abbazia di Prüm, Renania-Palatinato, 995-1001 ca. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
Chi non teme la morte è immortale. Credere nella resurrezione di Cristo signifi ca credere nella vita eterna, signifi ca essere convinti che Dio è il Dio dei viventi, che Dio è la via e la vita. L’esempio dei martiri divenne seme fecondo di cristiani per quanti credevano che Cristo era il Dio vicino e che avendo fede in lui avrebbero conquistato la vita eterna. Incontriamo qui il paradosso cristiano: chi perde la propria vita la salva per sempre. I martiri si trasformarono in punti fondamentali di riferimento delle nuove comunità: Pietro e Paolo a Roma, Ignazio ad Antiochia, Ireneo a Lione; Policarpo a Smirne; Perpetua e Felicita e, più tardi, Cipriano a Cartagine; Fruttuoso a Tarragona; Eulalia a Mérida, Dionigi ad Alessandria. Migliaia di cristiani vennero martirizzati per la loro fede nel corso dei primi tre secoli. Il martirio forgiava la vera unione con Cristo. Il sangue costituiva un vero battesimo che comportava il perdono dei peccati; nell’eucaristia era presente Cristo sofferente e perciò il martirio era eucaristia, nella quale si beve il calice delle sofferenze di Cristo. La presenza di Cristo nel martire ha costituito la presenza carismatica più importante della Chiesa dei primi secoli. A partire dalla Rivoluzione francese si sono ripetute le persecuzioni alla Chiesa e i casi di martirio. Incontriamo processi sanguinosi di decristianizzazione durante la Convenzione (1792-1795), la Comune di Parigi (1870), la Rivoluzione messicana (1926-1938),
i regimi comunisti nei paesi dell’Est europeo e in Cina, causa di durissima e sanguinosa persecuzione, nella guerra civile spagnola. In Russia, fra il 1917 e 1941, sono stati uccisi 600 vescovi, 40.000 sacerdoti, 120.000 monaci e monache. Almeno 75.000 luoghi di culto sono stati distrutti fi no agli anni Sessanta, sotto Nikita Kruscev. Si è trattato della più grande persecuzione religiosa della storia. Amare fi no a sacrifi care la propria vita, essere coerenti e fedeli fi no all’ultimo respiro, immolarsi e soffrire tutte le pene per amore di chi non ha né voce né diritti. Il martirio fu una realtà contemporanea per i cristiani dei primi secoli e lo è nel nostro tempo, l’epoca della difesa dei diritti umani e delle libertà. Abbiamo oggi un’idea più complessa e realistica delle cause del martirio, al di là di quella tradizionale della morte sofferta per fedeltà a una fede. «Martire è anche chi soccombe nella lotta con cui si affermano le esigenze delle sue convinzioni cristiane», ha scritto Karl Rahner. «Il destino della grandezza è la sofferenza», ha ricordato Pavel Florenskij, fucilato nel 1937 nel grande Lager sovietico delle isole Solovki, e noi potremmo aggiungere che l’esercizio della carità giunge in molti casi al punto di dare la vita per i propri fratelli: per il contagio di una malattia, per esaurimento delle forze o per la violenza sopportata nel mantenere il proprio impegno con i deboli, gli emarginati e gli oppressi. La causa di queste morti non è stata sempre la forza ostile alla fede cristiana, ma la propria dedizione personale e la coerenza con le esigenze di una dottrina e di una identità forgiate dalla generosità evangelica in situazioni di rischio e di ingiustizia sociale o economica. È stato questo il caso di due suore missionarie francescane, Guilhermine e Marie Xavier, che si offrirono volontarie per lavorare nell’ospedale di Totoras durante l’epidemia di peste bubbonica che si diffuse in Argentina nel 1919. Erano coscienti del rischio della loro scelta di accompagnare e assistere i malati, tuttavia non vacillarono nella loro dedizione. Tutto il XX secolo è costellato di storie come questa. Molti religiosi e religiose sono morti per amore dei malati, dimostrando che per loro la vita non costituiva un valore assoluto, se per proteggerla avessero dovuto abbandonare coloro che avevano bisogno del loro aiuto. Dimostrarono che stare vicino ai poveri era più importante che proteggere se stessi. In molti casi l’impegno con gli infermi implica un rischio incom-
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bente di perdere la vita, e molti dei religiosi hanno intrapreso questo cammino per vocazione. Questa situazione si è verifi cata spesso durante i secoli passati, soprattutto a causa delle pestilenze e delle malattie contagiose. Ai nostri giorni, in molti paesi, per motivi politici e sociali, l’assistenza ai poveri porta a esporsi a confl itti molto duri in ambienti pericolosi. In alcune situazioni, i cristiani sono consapevoli che praticare la carità, difendere i deboli, signifi ca esporre la propria vita. La storia del cristianesimo annovera migliaia di esempi di questo genere, ma probabilmente mai come nel XX secolo questa dedizione ai poveri è risultata intollerabile per alcuni poteri economici o politici. Una
4 3. Particolare del cimitero del campo di lavori forzati di Potma, Russia.
4. Veduta delle baracche di legno del campo di Auschwitz, Polonia (foto Museo di Auschwitz).
5. Le baracche del settore quarantena del campo di Auschwitz (foto Comité International d’Auschwitz).
6. Padre Massimiliano Kolbe.
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volta di più incontriamo il principio evangelico per cui non esiste vero riconoscimento né adorazione di Dio là dove la giustizia è calpestata e schernita. Massimiliano Kolbe è uno degli esempi più emozionanti di martirio della carità in un campo di sterminio nazista. Per Giovanni Paolo II, si tratta di un «martire dell’amore»: «Essendo prigioniero nel campo di concentramento, rivendicò, nel luogo della morte, il diritto alla vita di un uomo innocente, fra tanti milioni». Padre Kolbe dichiarò «la sua intenzione di andare a morte al suo posto, perché era un padre di famiglia e la sua vita era necessaria per i suoi cari». Arrestato e deportato ad Auschwitz nel 1941 in quanto superiore della comunità francescana di Niepokalanow, salvò la vita di uno dei suoi compagni di prigionia morendo al suo posto in un «Bunker della fame» il 14 agosto 1941, dopo due settimane di sofferenze. Un’altra testimonianza di coerenza e di amore per la verità e per i propri fratelli fu data dal pastore protestante tedesco Dietrich Bonhoeffer, fondatore della Chiesa confessante («solo chi canta assieme agli ebrei può cantare gregoriano»), impiccato dai nazisti nel campo di concentramento di Flossenbürg nel 1945. La vita dell’amore, anche se nascosto, si mostra inarrestabilmente e permette, anche nelle situazioni più terribili, che brilli la fede non solo in Dio ma anche negli uomini, in quanto fede nella solidarietà e nella dignità della persona umana8 .
7. Dietrich Bonhoeffer, esponente della Chiesa confessante luterana, per la quale dirigeva il seminario di Finkenwalde.
8. Fotogramma del fi lm Des hommes et des dieux, diretto da Xavier Beauvois, che racconta la vicenda dei Trappisti di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine, Algeria. La scena mostra monaci e rapitori che scompaiono nella nebbia.
Padre Valeriano Cobbe aveva spiegato in che modo la sua infaticabile attività sociale in Bangladesh era legata alla diffusione del Vangelo: «Alla base rimane sempre un unico fatto, che siamo qui a predicare il messaggio evangelico, per creare l’‘uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo’ [Efesini 4,13]. Il contributo che il missionario dà allo sviluppo dei popoli è un’esigenza che nasce dal Vangelo. Gesù parlava alla gente, ma quando questa aveva fame ne aveva compassione e le dava da mangiare. Bisogna tenere presente, inoltre, che in questa terra dominata dai musulmani l’unico messaggio cristiano che possiamo diffondere è quello del nostro esempio, della nostra attività sociale, della nostra carità umana e cristiana». Spinto da queste idee, organizzò cooperative agricole che ebbero grande successo e che davano lavoro a un numero importante di persone, ma provocò la malevolenza di coloro che tradizionalmente avevano approfi ttato di quella povera gente. Fu assassinato il 14 ottobre 1974. Uno dei suoi compagni scrisse che era stato assassinato perché la bandiera degli oppressi si era innalzata troppo in alto. Incontriamo altri missionari assassinati per motivi analoghi in Brasile, nelle Filippine, in Honduras e in Perù. Fra le molte vittime della dittatura militare nell’Argentina degli anni Settanta del secolo scorso si trovano i religiosi della parrocchia di San Patrizio a Buenos Aires, punto di riferimento e di accoglienza per quanti si opponevano al clima di illegalità e repressione che si era scatenato nel paese. Furono assassinati da un gruppo di uomini armati che scomparvero poi indisturbati. Nell’ottobre del 1976, nella diocesi di San Félix do Araguai, in Brasile, il gesuita João Bosco Penido e il vescovo Pedro Casaldáliga cercarono di liberare alcune donne torturate dai poliziotti del luogo. Uno di questi uccise il gesuita con due colpi alla testa. Molti altri sacerdoti, religiosi e laici morirono per ragioni analoghe. I Gesuiti dell’Università Centroamericana di El Salvador sono fra di loro. Uno dei casi più noti e toccanti della fi ne del XX secolo è quello dei Cisterciensi dell’abbazia di Nostra Signora dell’Atlante, in Algeria, monaci fortemente impegnati nel dialogo e nella convivenza con il mondo islamico. I monaci erano amati dalla gente, adempivano una funzione sociale per mezzo di un dispensario di farmaci (uno dei confratelli era medico) e possedevano una grande sensibilità ecumenica. Un responsabile del GIA, l’organizzazione islamica più estremista, ordinò ai monaci di abbandonare il monastero, ma essi, dopo profonda rifl essione, decisero di rimanere assieme ai contadini della zona, che assistevano il monastero in tutte le sue necessità. Non volevano morire, ma pensarono che abbandonare il monastero signifi casse abbandonare il popolo fra cui vivevano. L’amore per l’islam e per il popolo algerino fu una delle ragioni che li spinse a rimanere nel luogo. Fratel Michel Fleu-
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ry scrisse: «‘Martire’ è un termine talmente ambiguo qui… Se ci accade qualcosa – non me lo auguro –, noi vogliamo viverlo qui in solidarietà con tutti questi algerini (e algerine) che hanno già pagato con la loro vita, soltanto solidali a tutti questi sconosciuti, innocenti. Mi sembra che chi ci aiuta oggi ad agire è Colui che ci ha chiamato. Sono pieno di meraviglia». I Trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, monaci e martiri, mostrarono che si potevano coniugare allo stesso tempo la vita monastica, l’ospitalità e il dialogo con l’accettazione del martirio, che in realtà indica l’attuazione della generosità e della testimonianza senza limiti, anche a rischio della propria vita. «Non c’è amore più grande di dare la vita per i propri amici», disse Gesù ai suoi discepoli. Seguendo il suo esempio e nel suo nome, numerosi discepoli hanno offerto la vita per i loro fratelli; fra di loro Shahbaz Bhatti, unico ministro non musulmano del governo del Pakistan, assassinato il 2 marzo 2011. Era il responsabile delle minoranze religiose e si opponeva alla legge sulla blasfemia, un vero e proprio grimaldello utilizzato contro i non musulmani. Dotato di profonde convinzioni religiose, è morto per difendere i propri ideali e i diritti delle minoranze e delle donne, totalmente cosciente di rischiare la vita. Nel suo testamento spirituale incontriamo questa confessione: «Da piccolo ero solito andare in chiesa e trovavo una profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrifi cio e nella crocifi ssione di Gesù. È stato l’amore di Gesù che mi ha portato a offrire i miei servigi alla Chiesa. Le condizioni spaventose in cui vivevano i cristiani del Pakistan mi commossero. Ricordo un venerdì di Pasqua, quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrifi cio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo, e pensai di corrispondere a quell’amore dando amore ai nostri fratelli e sorelle, mettendomi al servizio dei cristiani, specialmente di quelli poveri, bisognosi e perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi hanno chiesto di rinunciare al mio proposito, ma ho sempre rifi utato, anche a rischio della mia vita. Non cerco popolarità né posizioni di potere. Cerco solo un posto ai piedi di Gesù. Questo desiderio è tanto forte che mi riterrei privilegiato se, per lo sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri e i cristiani perseguitati del Pakistan, Gesù volesse accettare il sacrifi cio della mia vita». Mi piacerebbe segnalare altre forme di oblazione, di martirio silenzioso per così dire, da parte di tante persone che hanno portato nel tempo la loro carità per gli altri fi no al punto di condizionare la loro stessa esistenza: giovani che non si sposano per poter assistere genitori invalidi o fratelli colpiti da gravi disabilità; persone che per aver difeso i compagni di lavoro ingiustamente puniti sono state licenziate; quelli che per onestà non si sono prestati a imbrogli fi nanziari, venendo per questo emarginati nell’impresa in cui lavoravano; madri che non interrompono la gravidanza pur sapendo che il fi glio soffre di gravi malformazioni che ne limiteranno gravemente la vita; religiose trattate ingiustamente nella clausura, senza mai una rimostranza, senza mai ribellarsi. Una vita di coerenza morale o di compassione per gli altri produce di frequente conseguenze dolorose che segnano un’esistenza, un’esistenza donata per amore e fedeltà.