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1.3. Le strutture urbanistiche: vie e porte
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book
combatterono alla battaglia del Lago Regillo, cui anche il guerriero di Lanuvio poté partecipare. Si tratta ovviamente di un individuo di altissimo livello sociale, come si deduce dal corredo funebre, eccezionale in un periodo come questo, caratterizzato da un’assoluta austerità in questo campo. Coglie quindi nel segno la proposta di riconoscervi una di quelle personalità «tiranniche», la cui presenza è segnalata a Roma agli inizi della Repubblica.
Sulla più notevole di queste, P. Valerio Publicola, dominatore della scena repubblicana subito dopo l’espulsione dei Tarquinii, un documento scoperto pochi decenni fa ha gettato una nuova luce. Si tratta dell’ormai famoso lapis Satricanus (fig. 17), un’iscrizione arcaica di enorme importanza, reimpiegata nel rifacimento del Tempio di Mater Matuta a Satricum, nella pianura pontina (ciò che permette di datarla non più tardi degli ultimi anni del VI secolo a.C.).
L’iscrizione, quasi completa, tranne una o due lettere all’inizio, è la seguente: […]NIEISTETERAI POPLO-
SIO VALESIOSIO / SVODALES MAMARTEI.
Il dubbio, che verte soprattutto sulle prime 12 lettere, ha dato luogo a una lunga discussione tecnica, nella quale non è qui possibile entrare. Tuttavia, è probabile che non si tratti, come si è pensato, di una dedica a Marte, ma della menzione di sodales Martiales, una corporazione di cultori di Marte, con funzioni militari, che potrebbe essere assimilata ai Salii. In ogni caso, questi «compagni marziali» sono i dedicanti, mentre i dedicatari vanno cercati nella prima riga, che può essere ricostruita, ad esempio, Manieis Teterai Popliosio Valesiosio, «agli dei Mani della Terra di Publio Valerio».
Se è così, si tratterebbe di un’iscrizione funeraria, di un epitaffio, dedicato «ai Mani» di un Publio Valerio, che potrebbe essere lo stesso Publio Valerio Publicola, che in tal caso sarebbe stato sepolto a Satricum. Del resto, in un’età così antica non si vede quale altra potrebbe essere la natura di un documento riferito direttamente a una persona precisa: non conosciamo nell’Italia tirrenica alcun esempio di dediche onorarie di VI secolo a.C., mentre epigrafi funerarie sono note in Etruria fin dalla fine del VII secolo a.C. Si può citare, ad esempio, il caso della stele vetuloniese di Avele Feluske (fig. 17), dove è rappresentato un guerriero con scudo rotondo, elmo e doppia ascia, certamente un principe aristocratico, con la seguente iscrizione (forse la più antica su pietra in Etruria): «[Io sono la stele] di Avele Feluske, figlio di Tusnutaie e di […]panai. Mi ha donato Hirumina il Perugino (?)». Anche in questo esempio, più antico di un secolo rispetto al lapis Satricanus, appaiono analoghe caratteristiche: nome al genitivo del personaggio onorato e nome del dedicante (probabilmente il figlio).
Alcuni indizi fanno pensare che la gens Valeria esercitasse una sorta di monopolio militare nella regione pontina, analogo a quello della gens Fabia in Etruria. Nel nostro caso, anche se non si trattasse di Valerio Publicola, saremmo comunque in presenza di un contemporaneo, membro eminente della stessa famiglia, morto a Satricum alla fine del VI secolo a.C.
87 0 4 8 12 cm
86,5
83,2 18,5
17. A sinistra, lapis Satricanus (Roma, Museo delle Terme). A destra, stele di Avele Feluske, da Volterra (Firenze, Museo Archeologico).
3. L’ELLENIZZAZIONE E I SUOI LIMITI
I rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale, iniziati fin dall’Età del Ferro tramite la navigazione fenicia ed ellenica e favoriti dal fenomeno della colonizzazione greca a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., assunsero una particolare intensità nel corso del secolo successivo: ciò è documentato in particolare dall’importazione dal Vicino Oriente di merci di lusso, destinate a un ceto aristocratico emergente, arricchitosi con i prodotti minerari, monopolio dell’Etruria settentrionale, e con la grande produzione agricola dell’Etruria meridionale. Come abbiamo visto, l’emergere di ristrette aristocrazie locali, detentrici della ricchezza e del potere, diede origine a una nuova cultura, detta «orientalizzante», che si manifesta nell’importazione e nella produzione di beni di lusso (attestati in quantità e qualità straordinarie soprattutto nei grandi sepolcri gentilizi), ma anche nell’introduzione di «beni culturali», in particolare la scrittura e l’immaginario mitico. L’estensione al Lazio (compresa Roma) di questo fenomeno è attestata dalle necropoli laziali, in particolare da quella di Palestrina.
La nascita di mercati interessati all’importazione di prodotti orientali di alto artigianato provocò anche l’immigrazione di artefici, ricordata dalle fonti antiche e confermata dall’archeologia. Il fenomeno, certamente reale, si traveste in forme mitiche nella narrazione relativa a Demarato, padre di Tarquinio Prisco, che troviamo, nella sua forma più completa, in Dionigi di Alicarnasso (III, 46):
Un uomo di Corinto, di nome Demarato, della stirpe dei Bacchiadi, aveva navigato verso l’Italia col proposito di esercitarvi il commercio, conducendovi la sua nave da carico e le proprie merci. Vendutele nelle città etrusche che allora erano le più fiorenti in Italia ed essendosi procurato un guadagno notevole, non volle più toccare altri porti, ma continuò i suoi traffici nelle medesime acque, trasportando le merci greche fra gli Etruschi e quelle etrusche fra i Greci: in questo modo divenne molto ricco. Quando avvenne la rivolta a Corinto e il tiranno Cipselo cacciò i Bacchiadi, ritenendo di non poter continuare a vivere in sicurezza sotto la tirannide, viste le ricchezze che possedeva e visto che apparteneva alla classe aristocratica, prese quanto poteva portar via dei suoi averi e si imbarcò da Corinto; poiché aveva molti e buoni amici fra gli Etruschi, in seguito alla sua attività commerciale, e in particolar modo a Tarquinia, una città allora grande e fiorente, vi prese dimora e sposò una donna di illustre casata. Da lei ebbe due figli, ai quali diede nomi etruschi, Arrunte a uno, Lucumone all’altro, e li educò alla greca e all’etrusca; quando divennero adulti li fece sposare con donne di alto lignaggio.
L’episodio, anche se si accantona il problema della sua probabile storicità, riflette una situazione perfettamente verosimile: e cioè l’effettiva prevalenza del commercio corinzio nei decenni centrali del VII secolo a.C., attestato dalle importazioni di ceramica in Italia, e la natura «aristocratica» di questo commercio. Altre notizie troviamo in Plinio (XXXV, 152): «Demarato, che generò in Etruria il romano Tarquinio, profugo da Corinto, fu accompagnato
18. «Cratere di Aristonoto», da Cerveteri (Roma, Musei Capitolini).
dai formatori Eucheir, Diopos e Eugrammos, che trasmisero in Italia questa tecnica». I nomi fantastici di questi artefici («quello dalla buona mano», «il bravo livellatore», «l’abile disegnatore») rimandano in realtà a un fatto sicuro: l’introduzione dalla Grecia, alla fine del VII secolo a.C., delle tecniche della plastica in terracotta. D’altra parte, la presenza reale di artigiani ellenici (di provenienza corinzia e ionica) in Etruria è dimostrata dalla comparsa di prodotti di fattura greca, ma realizzati in loco, in particolare di ceramica: i cosiddetti «vasi pontici» e le «idrie ceretane», fabbricati a Cerveteri da vasai di origine greco-orientale, e oggetti come il celebre «Cratere di Aristonoto» (fig. 18), opera di un artigiano forse siceliota, che lavorò a Cerveteri intorno al 670 a.C. Su questo grande vaso, firmato dall’autore, è rappresentato su un lato l’episodio odissiaco dell’accecamento di Polifemo, sull’altro una scena di combattimento navale, che illustra forse l’attività piratica esercitata, come deprecano gli scrittori greci, dagli aristocratici etruschi. In effetti, la nave di destra, per la sua forma rotondeggiante e per l’uso delle vele, è chiaramente mercantile, mentre quella di sinistra, spinta solo da remi, è un’imbarcazione militare, e quindi appartiene all’aggressore, certamente un pirata. È difficile che le due figurazioni non siano in qualche modo collegate: si potrebbe pensare che il soggetto greco, di cui troviamo qui una delle prime rappresentazioni in Etruria, serva a illustrare una genealogia mitica del committente del vaso, o della città cui egli apparteneva: del resto, Cerveteri era considerata una fondazione ellenica, chiamata in origine Agylla.
La nascita delle corporazioni di artigiani è la conseguenza di una più avanzata divisione del lavoro, strettamente connessa con la nascita della città. Un prezioso passo di Plutarco (Vita di Numa, 17) riporta la lista dei mestieri, che sarebbero stati introdotti dal secondo re di Roma: flautisti, orefici, carpentieri, tintori, cuoiai, conciatori, fabbri e vasai, mentre un’altra corporazione comprendeva tutti gli altri
19. Statuetta bronzea di augure, dal Comizio (Roma, Antiquarium del Foro Romano). mestieri. L’attribuzione a Numa, come in altri casi, è di maniera: è probabile infatti che la riforma sia avvenuta verso la fine del VII o l’inizio del VI secolo a.C., contemporaneamente al consolidamento definitivo della compagine urbana.
L’opinione comune, anche tra addetti ai lavori, è che il rapporto tra la Grecia e Roma, che dà luogo al processo acculturativo denominato «ellenizzazione», sia avvenuto in epoca piuttosto tarda: iniziato nel periodo della conquista romana dell’Oriente mediterraneo, esso si sarebbe concluso solo alla fine della Repubblica.
In realtà, la formazione stessa della cultura italico-romana è inseparabile, fin quasi dalle origini, da modelli ellenici, la cui presenza sul suolo italico si manifesta già con la fondazione delle prime colonie greche, e cioè a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C. L’introduzione stessa della città in Italia, pur nelle forme originali che essa presenta rispetto al modello greco, non può spiegarsi solo come un processo esclusivamente indigeno: almeno nelle sue forme finali, esso dipende dal modello della polis.
Non si tratta solo di importazione di beni materiali, gli unici che possiamo documentare attraverso l’archeologia: si dimentica in genere, ad esempio, l’introduzione precoce della scrittura alfabetica e di altri beni immateriali, come l’immaginario mitico. Sappiamo comunque che la ceramica greca arriva a Roma già a partire dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C., ma anche – fatto ancora più importante – che le prime imitazioni locali in argilla figulina (che implicano la presenza fisica in città di artigiani greci, del resto attestata con sicurezza in Etruria) sono solo di pochi decenni più tarde.
Siamo in presenza, dunque, di un fenomeno di ellenizzazione precoce, anche se ovviamente limitato a una ristrettissima élite aristocratica: la stessa, comunque, che fu l’artefice del contemporaneo processo di urbanizzazione, processo in cui, anche per questo, sarebbe difficile negare la presenza della cultura greca.
Naturalmente, accanto a tali prodotti continua ad esistere una corrente figurativa locale, caratterizzata da un linguaggio semplice e «primitivo», anche se vivace, che si manifesta soprattutto nella decorazione figurata di oggetti e recipienti di culto o funerari, o anche in piccole figurine autonome, in genere di bronzo, di carattere votivo. Appartiene a quest’ultimo filone, ad esempio, il bronzetto che raffigura un augure (fig. 19), caratterizzato