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2. LA SCENA PUBBLICA DELLA CITTÀ

154. Roma, sepolcro degli Scipioni: resti di affreschi della facciata.

Ogni volta che muore uno dei loro uomini illustri, celebrandone le esequie, ne trasportano il corpo con alte cerimonie ai cosiddetti Rostri, nel Foro, talvolta in piedi, perché sia visibile, più raramente sdraiato. Qui, mentre il popolo assiste tutt’intorno, il figlio, se ne resta uno in età adulta e che si trovi ad essere presente, o altrimenti qualcun altro dei parenti, salito sui Rostri, ricorda le virtù del defunto e le imprese da lui compiute in vita. Avviene così che, come questi fatti vengono ricordati e quasi messi sotto gli occhi del popolo, e non solo di quelli che erano presenti, ma anche degli assenti, il tutto appare non un fatto privato di quelli che celebrano il funerale, ma un avvenimento pubblico. Dopo il seppellimento e le altre cerimonie connesse pongono l’immagine del defunto nella parte più visibile della casa, in un armadietto di legno. Il ritratto è una maschera somigliantissima, e per rilevo e per colore. In occasione delle feste pubbliche traggono fuori queste immagini e le ornano con ogni cura. E quando muore un personaggio importante della famiglia vengono portate al funerale, e indossate da individui ritenuti assai vicini per statura e per ogni altro riguardo ai defunti. Costoro vestono la toga pretesta, se il morto era stato console o pretore; la toga purpurea, se era stato censore; quella aurea se aveva celebrato il trionfo, o compiuto imprese di questo livello. Così parati avanzano su carri, e davanti a loro vengono portati fasci e scuri e le altre insegne, che sogliono accompagnare i magistrati, a seconda degli onori che ciascuno ottenne da vivo nello Stato. Giunti ai Rostri, siedono tutti in ordine su seggi di avorio. Difficilmente un giovane amante dell’onore e della virtù potrebbe assistere a uno spettacolo più bello. Chi infatti non sarebbe spinto all’emulazione nel vedere tutte insieme le immagini di uomini insigni per virtù, quasi vive e spiranti? Cosa vi potrebbe essere di più bello di un tale spettacolo? Colui che parla della persona che si sta per seppellire, quando arriva alla fine del discorso inizia a parlare degli altri, le cui immagini sono presenti, cominciando da quello vissuto per primo, ed espone gli atti e le imprese di ciascuno. E quindi, rinnovandosi continuamente la fama di virtù dei grandi uomini, viene resa eterna la gloria di quelli che hanno fatto qualcosa di importante, e viene comunicata a tutti e trasmessa alle generazioni successive la fama di quelli che hanno ben meritato della patria. Ma la cosa più importante è che i giovani sono incitati a tutto sopportare nell’interesse della repubblica per raggiungere la gloria che si accompagna agli uomini migliori.

8.2. Il sepolcro dei Cornelii e le altre tombe della Media Repubblica

Un secondo ipogeo appartenente alla gens dei Cornelii è stato scoperto nel 1956, e solo parzialmente esplorato, all’inizio della via Ardeatina. Da esso provengono parti di due sarcofagi iscritti, che in base alle loro caratteristiche si possono datare a un’epoca alquanto anteriore a quelli degli Scipioni, compresa tra la metà e la fine del IV secolo a.C.

Il reperto più antico è un grande coperchio di peperino a forma di tetto displuviato (fig. 160), munito di antefisse decorate e con testate costituite da acroteri circolari. Lo spazio dei frontoni è occupato da due ippocampi affrontati a un grande fiore. L’orlo del coperchio comporta due fasce, decorate con palmette, fiori di loto e boccioli pendenti. Piuttosto che l’imitazione di un’abitazione, quella di un tempio: espressione evidente di una «eroizzazione» privata del defunto, analoga a quella di Scipione Barbato.

Le due iscrizioni incise sul monumento menzionano il titolare del sarcofago, un L. Cornelio, figlio di Gneo. È probabile che l’epigrafe principale, con l’indicazione delle cariche, si trovasse sulla cassa del sarcofago, perduta, come nel caso del sepolcro degli Scipioni. Un coperchio simile, anche se con motivi decorativi diversi, proviene dalla necropoli di Palestrina (figg. 197-198). La datazione di ambedue può essere fissata nella seconda metà del IV secolo.

Dell’altro sarcofago si conserva la cassa di calcare bianco, liscia, con due paraste ioniche a rilievo ai lati della faccia principale. L’iscrizione incisa permette di identificare il sepolto con un P. Cornelius Scapola, pontefice massimo. La data, forse leggermente posteriore a quella dell’altro sarcofago, va fissata verso la fine del IV secolo a.C.

Altre tombe di età medio-repubblicana con corredi di grande interesse, anche se purtroppo prive di iscrizioni, sono apparse in epoca recente in varie zone della città e del suburbio.

Una di queste, un sepolcro a camera di forma rettangolare, scavato nel tufo, è apparso alcuni decenni

155. Tomba di via S. Stefano Rotondo: genio alato (Roma, Museo delle Terme). Alle pagine seguenti: 156-157. Tomba di via S. Stefano Rotondo: quadrighe di terracotta con Vittoria. 158-159. Tomba dalla Via Salaria: quadrighe di terracotta con eroti (Roma, Museo delle Terme).

or sono, nell’area del nuovo Ospedale di S. Giovanni, in via S. Stefano Rotondo. Vi si rinvennero un grande sarcofago liscio e sei urne di peperino: nel primo, chiaramente appartenente al defunto più importante, si trovavano lo scheletro di un giovane e una serie di terrecotte figurate, oltre a ceramica di Genucilia e a vernice nera, che permette di datare la deposizione negli ultimi decenni del IV secolo a.C.

Le terrecotte comprendevano: due piccole quadrighe (alte 13 cm) (figg. 156-157) guidate ciascuna da una Vittoria alata, con due coppie di cavalli divergenti, tra i quali si trova un tritone con doppia coda di serpente; due geni alati, probabili rivestimenti di recipienti di legno (fig. 155), analoghi ad altri, proveniente dalla necropoli di Palestrina; un erote alato coronato di edera; una testa femminile diademata uscente da un cespo di acanto.

Si tratta di opere di assoluto valore artistico, dipendenti da modelli greci compresi tra la fine del periodo classico e l’inizio dell’ellenismo. In particolare, le quadrighe mostrano caratteristiche di stile (forte torsione delle figure, in movimento violento) che le collegano all’arte di Lisippo: anche per questo motivo, si può pensare a un atelier di Taranto, città in cui il grande scultore realizzò alcune delle sue opere più importanti.

Di particolare interesse sono le figure di Vittoria, che rimandano alla presenza cruciale, nella Roma contemporanea, di una vera e propria «teologia della Vittoria»: questi documenti sono anzi tra i più antichi tra quelli che illustrano questa divinità, insieme alle contemporanee monete «romano-campane». In questo caso specifico, si tratta di una chiara allusione al viaggio nell’aldilà, in forme «trionfali», del defunto: diretto alle Isole dei Beati, attraverso l’Oceano, come indica la presenza del tritone sotto la quadriga. Si tratta di motivi simbolici frequenti anche in età imperiale (ad esempio, nei sarcofagi).

Da un’altra tomba di età medio-repubblicana, scoperta nel 1965 nel quartiere fuori di Porta Salaria, proviene un gruppo di terrecotte, tra le quali spiccano quattro piccole quadrighe, guidate da eroti (figg. 158-159). Lo stile, raffinatissimo, rimanda ancora una volta all’arte contemporanea della Magna Grecia: è probabile che anche qui si tratti dell’opera di una bottega di Taranto, in un periodo che si può fissare con sicurezza nella seconda metà del IV secolo a.C., in base alla ceramica scoperta nella tomba (vasi di Genucilia).

La connotazione dei piccoli gruppi è chiaramente funeraria: si è proposto di riconoscervi la rappresentazione di un mito narrato nel Fedro di Platone, dove gli eroti su quadrighe alludono alle anime in corsa verso l’Empireo: in ogni caso, questo eccezionale ritrovamento dimostra ancora una volta la conoscenza, da parte dell’élite aristocratica romana, di raffinati motivi filosofici elaborati nella Grecia contemporanea.

160. Coperchio di sarcofago di un L. Cornelio, figlio di Gneo.

9. LA SCULTURA E IL RITRATTO UFFICIALE

Altre attestazioni isolate, il cui contesto può essere ricostruito solo in base alle testimonianze letterarie, contribuiscono a completare e ad arricchire il quadro fin qui delineato. Particolare importanza riveste l’apparizione del ritratto pubblico, fenomeno che si manifesta nello stesso ambito cronologico e ideale. Molte informazioni si ricavano da quella sorta di «storia della scultura in bronzo» che Plinio il Vecchio ha delineato nella sua opera. Vi leggiamo, tra l’altro, questa preziosa informazione (Storia Naturale, XXXIV, 43):

Anche in Italia furono realizzate sculture colossali […] Spurio Carvilio fece erigere il Giove, che si trova sul Campidoglio, con le corazze, gli schinieri e gli scudi dei Sanniti da lui vinti. La sua grandezza è tale, che si può vedere fin dal Tempio di Giove Laziale. Con le limature del metallo fece eseguire una statua con la sua immagine, che si trova ai piedi del colosso.

Un precedente si trova in Livio (IX, 44, 16), che per il 305 a.C. menziona una «grande statua di Ercole eretta e dedicata sul Campidoglio». Si tratta di un’altra immagine colossale, con la stessa collocazione, e quindi probabilmente anch’essa collegata con un trionfo: la notizia infatti segue immediatamente una frase, che dovrebbe fornire l’antefatto: «Lo stesso anno furono strappate ai Sanniti Sora, Arpino e Cesennia». Di conseguenza, la statua di Ercole sembra in rapporto con un trionfo sui Sanniti, che dovrebbe essere quello celebrato lo stesso anno da M. Fulvio Curvo Petino, in qualità di console suffetto, in luogo del console Tiberio Mucio, morto in battaglia. La scelta di Ercole, divinità sannita per eccellenza, si addice perfettamente a tale circostanza.

La statua di Giove sul Campidoglio è da attribuire al secondo consolato di Spurio Carvilio (272 a.C.), piuttosto che al primo (293), dal momento che Livio, il cui testo relativo a quest’ultimo anno è conservato, non ne fa cenno. Appare chiara la connotazione «trionfale» della statua, come pure del ritratto del dedicante, che appare così investito di un’aura carismatica dalla vicina divinità, con la quale in un certo modo il trionfatore si identifica. Si tratta di un evento eccezionale, perché trasferisce in uno spazio pubblico una pratica già diffusa, ma solo in ambito privato, di «eroizzazione»: basti pensare al contemporaneo sarcofago di Scipione Barbato. Anche in questo caso, sarebbe difficile non riconoscere l’apporto determinante della cultura ellenistica.

Del 304 a.C. è l’esecuzione della statua equestre di bronzo, dedicata nel Foro al vincitore degli Ernici, Q. Marcio Tremulo. Altre statue analoghe di magistrati romani, realizzate nei decenni successivi, sono menzionate dagli autori antichi.

Di particolare rilevanza è la serie di sculture collocate nel Comizio, come le due statue di Pitagora e di Alcibiade, «il più sapiente e il più valoroso tra i Greci», realizzate nel corso di una guerra sannitica (certamente poco prima del 290) in seguito alla consultazione dell’oracolo di Apollo a Delfi (Plinio, Storia Naturale, XXXIV, 26). La scelta di questi due personaggi fa pensare all’intervento di una città della Magna Grecia, forse Napoli, dove Pitagora e Alcibiade erano popolari. Quanto all’esecuzione materiale delle statue, è inevitabile attribuirla a scultori greci.

Ma già nel 338 a.C., in rapporto a una completa ristrutturazione del Comizio, erano stati affissi sulla tribuna oratoria i rostri delle navi di Anzio. Su questi Rostra, come si chiameranno da allora in poi, vennero subito collocate le statue equestri di C. Menio (autore del restauro) e di Camillo. Successivamente, intorno al 300, un’ulteriore serie di monumenti troverà posto nella stessa area: l’edicola della Concordia, dovuta all’edile Gneo Flavio, nel 304; le già citate statue di Pitagora e di Alcibiade; il Marsia e la Lupa con i gemelli, dovuta ai fratelli Ogulnii, nel 296. Queste ultime due, per il loro ruolo fondamentale, richiedono un’analisi più approfondita.

L’immagine della statua di Marsia, restituitaci da un denario tardo-repubblicano, dai rilievi traianei con la rappresentazione del Foro e infine dalla copia della statua scoperta a Paestum (fig. 104) presenta alcune caratteristiche del tutto particolari: il diadema regale e i ceppi (compedes) ai piedi.

Il momento in cui essa fu realizzata si può fissare intorno al 300 a.C., e l’autore si può riconoscere in C. Marcio Censorino, console nel 310 e censore per ben due volte: caso unico nella storia repubblicana, da cui deriva il cognomen. Ciò spiega la presenza di un’immagine del Marsia nel denario dell’82 a.C., coniato dal suo discendente L. Marcio Censorino.

L’opera venne probabilmente eseguita nel corso della prima censura del personaggio, nel 294 a.C. La sua funzione originaria è di attestare la libertas plebeia, come indicano i ceppi spezzati: ottenuta con la liberazione dai debiti, piaga gravissima dei ceti subalterni, tramite una legge contro i feneratores (gli usurai) promulgata probabilmente dallo stesso Marcio Censorino come tribuno della plebe, nel 311 a.C. Tra l’altro, sappiamo che la statua – certo non a caso – si trovava presso la Columna Maenia, luogo dove si riunivano i feneratores e dove si svolgevano i processi ai debitori.

Ciò permette di collegare l’azione di Censorino a quella degli Ogulnii, come vedremo in seguito: in ogni caso, egli fu il primo a profittare della legge Ogulnia del 300 a.C., che aveva abbattuto gli ultimi privilegi dei patrizi, ammettendo i plebei ai collegi dei pontefici e degli auguri: si tratta del solo che, in tale occasione, venne eletto in ambedue. Da questo momento in poi, Marsia diventerà il simbolo della libertà plebea, e per questo la sua statua sorgerà nei comizi delle colonie, a partire dalle più antiche, come Alba Fucens e Paestum, dove se ne sono scoperte repliche.

L’altro monumento «plebeo» del Comizio è la Lupa con i gemelli. Sappiamo da Livio (X, 23, 11-12) che questa statua è dovuta agli edili curuli del 296, Cn. e Q. Ogulnius, due fratelli di origine etrusca. Il testo di Livio è estremamente significativo e va riportato per intero:

Lo stesso anno Gneo e Quinto Ogulnio, edili curuli, citarono in giudizio un certo numero di usurai; con il denaro delle multe, che fu utilizzato per spese pubbliche, realizzarono le soglie di bronzo del Tempio di Giove Capitolino e sulla sommità del tempio la statua di Giove sulla quadriga; presso il Fico Ruminale posero sotto le mammelle della lupa le immagini dei due gemelli e fecero lastricare la via Appia dalla Porta Capena al Tempio di Marte.

L’occasione che aveva portato a realizzare queste opere, ancora una volta, è il perseguimento in giudizio degli usurai: siamo nello stesso ambito concettuale della statua di Marsia, realizzata solo due anni più tardi (se non addirittura nella stessa occasione) da un personaggio strettamente collegato con gli Ogulnii, Q. Marcio Censorino. È notevole anche il modo con cui viene descritta la lupa, insistendo più sulle immagini dei gemelli che sull’intero gruppo: si può pensare a un’allusione ai realizzatori della statua, certamente fratelli (e forse gemelli), ma è anche possibile che si tratti di una rappresentazione plastica della doppia natura dello Stato romano. Con tutta probabilità, Romolo e Remo sono qui introdotti per rappresentare i patrizi e i plebei, finalmente equiparati, dopo lunghe lotte, dalla concessione ai secondi degli ultimi incarichi che gli mancavano: il pontificato e l’augurato.

Pochi anni più tardi, la lupa apparirà sulla terza serie delle monete «romano-campane» (figg. 181, 194), insieme all’immagine di Ercole. Come vedremo in seguito, è probabile che questa coniazione sia dovuta a un membro rilevantissimo della gens Fabia, Q. Fabio Gurgite, forse contemporaneamente alla costruzione del primo Tempio di Ercole: in effetti, i Fabii riconoscevano nel dio il loro antenato mitico, ed erano i protettori degli Ogulnii, che certo per loro intercessione avevano avuto accesso alle cariche curuli: in effetti, l’elezione all’edilità curule nel 296 si era svolta l’anno precedente, quando era console Q. Fabio Rulliano.

Il successo della famiglia si concentra in un breve giro di anni, tra il 300 e il 269, quando Q. Ogulnio raggiunse il consolato, per poi esaurirsi rapidamente. Vale la pena di menzionare altri avvenimenti di cui questa gens – gli etruschi Uclina, probabilmente originari di Volsinii – fu protagonista. Oltre agli inter-

161. Denario di Cn. Piso con ritratto di Numa (Crawford RRC, n. 446). 162. Denario di Marcius Philippus con ritratto di Anco Marcio (Crawford RRC, n. 425). 163. Denario di M. Iunius Brutus con il ritratto di Bruto (Crawford RRC, n. 433).

venti nel Tempio di Giove e sulla via Appia, possiamo menzionare il ruolo avuto dallo stesso Q. Ogulnius nel 292, come leader della commissione di dieci membri inviata ad Epidauro, per importare a Roma il culto di Esculapio; o anche nell’ambasceria ad Alessandria del 273 – non a caso insieme a due Fabii (il figlio di Rulliano, Q. Fabio Gurgite e N. Fabio Pittore) – che stipulò un trattato di amicizia con Tolomeo Filadelfo. Tutto ciò implica, naturalmente, una profonda conoscenza del greco, e induce a collocare il personaggio nella cerchia dell’aristocrazia romana ellenizzante.

All’attività degli Ogulnii si può forse collegare la realizzazione di almeno alcuni dei «ritratti» dei re di Roma e di Bruto, il primo console della Repubblica, certamente da attribuire al periodo compreso tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., collocati sul Campidoglio: sono menzionati Romolo, Tito Tazio, Numa, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Bruto. Copie di questi ritratti, identificati con il nome, si trovano in alcune monete della Tarda Repubblica (figg. 161-163).

Sappiamo che queste statue erano collocate nell’area antistante al Tempio di Giove Capitolino, nel punto dove, secondo una tradizione, sarebbe stato ucciso Tiberio Gracco: questa notizia permette di datarle anteriormente al 133 a.C. Alcuni dettagli potrebbero far pensare che non fossero tutte contemporanee: ad esempio, il fatto che i due personaggi più antichi, Romolo e Tito Tazio, vestivano la toga senza la tunica, pratica diffusa solo fino al IV secolo a.C. Si noti per inciso che anche la statua di Camillo sui Rostri – certamente di IV secolo – era priva di tunica. Solo per vezzo arcaizzante Catone il Censore aveva adottato la stessa moda. Romolo non portava l’anello, come il primo console della Repubblica, Lucio Bruto, la cui statua si trovava accanto a quelle dei re. Viceversa, gli altri sei avevano la tunica, Numa e Servio Tullio anche l’anello.

Dal momento che non è pensabile che in quell’epoca la moda del vestiario fosse ricostruita con criterio archeologico, e che l’anacronismo era normale, dobbiamo pensare a due o tre gruppi di statue di epoca diversa: le più antiche sembrano quelle di Romolo e Tito Tazio, da attribuire al pieno IV secolo; seguono quelle di Tullo Ostilio, Anco Marcio, dei Tarquinii e di Bruto, tutte con tunica ma senza anello, da attribuire forse al tardo IV secolo, mentre quelle di Numa e di Servio Tullio, con la tunica e con l’anello, sembrano le più recenti.

Ora, non sembra un caso che si tratti dei due re considerati patroni della plebe (in particolare Servio Tullio): l’anello d’oro infatti riveste a Roma un ruolo particolare come segno del rango. Plinio ricorda che, fino alla riforma di Gneo Flavio del 304, gli anelli erano una prerogativa dei patrizi: i quali li deposero al momento in cui Flavio, figlio di un liberto e scriba di mestiere, assunse la carica di tribuno della plebe. Di conseguenza, l’estensione del privilegio alla plebe deve essere successivo, e va collegata alle riforme filoplebee del 300 a.C., dovute agli Ogulnii.

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