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3. LE FONDAZIONI COLONIALI
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book
È possibile, di conseguenza, che le statue di Numa e di Servio Tullio siano opera proprio degli Ogulnii, al momento dei lavori da essi realizzati sul Campidoglio nel corso della loro edilità del 296. Esse erano probabilmente destinate a simboleggiare, come il Marsia e la Lupa del Comizio, la vittoria della plebe.
Una probabile replica della statua di Numa (fig. 165), di età imperiale, proviene dalla Casa delle Vestali, nel Foro: la testa, barbata e con lunghi capelli che ricadono sulla fronte, cinta dal diadema regale, è accostabile alla moneta di un Gneo Calpurnio Pisone, del 49 a.C. (fig. 161), con un ritratto di Numa certamente ispirato alla statua capitolina.
Sempre nel Comizio si trovava un altro celebre monumento, la colonna di Gaio Duilio. Polibio (I, 23) racconta in dettaglio la battaglia presso Milazzo, nel corso della prima guerra punica, vinta dal console del 260, Gaio Duilio, che a seguito di essa celebrò il primo trionfo navale che si sia svolto a Roma. Vari autori ricordano la colonna ornata di rostri (columna rostrata), sormontata dalla statua del console e ce ne indicano la posizione. Secondo Plinio (Storia naturale, XXXIV, 20), seguito da Quintiliano (I, 7, 12) il monumento ai suoi tempi si trovava ancora nel Foro. Il commentatore di Virgilio, Servio (Georgiche, III, 29), precisa che le colonne erano due: una collocata sui Rostra, l’altra davanti alle porte del Circo Massimo. Questa notizia è confermata dal documento più antico che ricorda il monumento, l’iscrizione con l’elogio di Duilio, collocata nel Foro di Augusto, secondo la quale la statua cum columna era collocata prope aream Vulcani, e cioè ancora una volta nel Comizio, dove si trovavano i Rostra e l’ara di Vulcano (che si identifica con il lapis Niger).
Ora, nel 1565 venne scoperta a Roma, presso l’Arco di Settimio Severo (e quindi praticamente in situ), una grande base di marmo lunense, su cui è incisa un’iscrizione che riporta l’elogio di Duilio (fig. 164), incisa evidentemente sulla base della colonna rostrata. Naturalmente, l’uso del marmo e la forma dei caratteri dimostrano che si tratta di una copia di età imperiale: dunque, la base della colonna originaria (che doveva essere in tufo), molto rovinata, venne sostituita da un’altra, probabilmente di età augustea. Il testo però conserva la forma originaria, in latino arcaico, che ripete sostanzialmente le notizie riportate da Polibio e da altri autori antichi, confermandone così la verità: si tratta della più importante iscrizione storica di età medio-repubblicana che ci sia pervenuta:
164. Iscrizione della colonna di Gaio Duilio (Roma, Musei Capitolini). [Il console C. Duilio] libera dall’assedio dei Cartaginesi i Segestani, alleati del popolo Romano; tutto l’esercito cartaginese e tutti i magistrati supremi dopo nove giorni fuggono negli accampamenti. Cattura la città di Macella combattendo. Nella stessa magistratura vince per la prima volta da console con le navi sul mare, e per primo arma soldati e flotte navali e con queste navi vince combattendo in alto mare tutta la flotta e l’esercito cartaginese in presenza di Annibale, loro generale, cattura con la forza, insieme con gli alleati, una nave a sette ordini di remi, trenta quinqueremi e triremi, e ne affonda tredici. L’oro catturato ammonta a 3700 aurei, l’argento catturato con la preda a centomila […]; tutta la moneta di bronzo catturata […]. La preda esposta nel trionfo navale la donò al popolo e condusse davanti al carro molti prigionieri cartaginesi liberi […].
Il momento preciso in cui la colonna venne rifatta si può forse stabilire in base al testo di Servio già citato: questi afferma che Augusto fece erigere quattro colonne rostrate in onore di se stesso e di Agrippa, in seguito alla vittoria di Azio. Tuttavia, una moneta che ne rappresenta una, con l’immagine di Ottaviano in nudità eroica, sembra da collegare piuttosto con la
A fronte: 165. Statua-ritratto di Numa (Antiquarium del Foro).
166. Tarquinia, Tomba degli Scudi: dettaglio. 167. Paestum, Tomba del Magistrato: dettaglio (Museo di Paestum).
vittoria di Nauloco su Sesto Pompeo, del 39 a.C., dovuta anch’essa ad Agrippa. Ora, questo scontro ebbe luogo proprio in prossimità di Milazzo: era dunque inevitabile che esso venisse collegato con la vittoria di Duilio. È probabile che anche la colonna di Ottaviano fosse collocata accanto ai Rostri, probabilmente in posizione simmetrica a quella più antica, che in tale occasione venne rifatta.
È possibile farsi un’idea dei ritratti onorari di quest’epoca solo attraverso due sculture in bronzo, miracolosamente pervenute fino a noi. Si tratta del cosiddetto «Bruto Capitolino» e della testa proveniente da S. Giovanni Lipioni, nel Sannio (conservata a Parigi).
Il «Bruto» è il più famoso di questi ritratti (fig. 168). Conservato da sempre nelle collezioni comunali, ne è ignota la provenienza precisa, anche se probabilmente questa è da identificare nella stessa Roma. Il suo isolamento ha determinato grandi difficoltà di inquadramento stilistico e cronologico, con scarti di datazione compresi tra il IV e il I secolo a.C. In realtà, oggi possiamo contare sul confronto con un gruppo di opere, diffuse tra l’Etruria e la Magna Grecia, che autorizzano soluzioni meno drammaticamente divergenti: teste votive di terracotta (provenienti da Tarquinia e da Falerii), ritratti dipinti in tombe etrusche (Tomba degli scudi a Tarquinia) (fig. 166) e pestane (Tomba del Magistrato) (fig. 167) vengono a costituire, nel loro complesso, un quadro di riferimento che corrisponde agli anni finali del IV o al più tardi al III secolo a.C. Essi dimostrano che il ritratto fisionomico nell’Italia centro-meridionale è cosa fatta in questi anni, e attestano allo stesso tempo che i modelli di riferimento provengono dalla Grecia (tramite una mediazione magno-greca).
Tale cronologia è confermata da dettagli antiquari, quali la presenza della barba, una moda che scompare a Roma intorno al 300 a.C., in seguito
A fronte: 168. Bruto Capitolino (Roma, Museo dei Conservatori).
all’arrivo nella città dei primi barbieri magno-greci. Il cognomen del console del 298, Scipione Barbato, non è casuale: esso non avrebbe senso se non per segnalare la conservazione da parte del personaggio di una moda ormai abbandonata alla sua epoca.
Il Bruto Capitolino era considerato, in passato, espressione di un ambiente etnico-culturale tipicamente «italico», connotata da una struttura stereometrica e astratta, diametralmente opposta all’organicità naturalistica dell’arte greca: si tratterebbe, in altri termini, di un’opera con caratteristiche esclusivamente indigene.
Tali aspetti, indubbiamente presenti nel «Bruto», vanno però interpretati in modo diametralmente opposto: abbandonato ormai da tutti il mito di una nascita e di uno svolgimento autonomi del ritratto «romano-italico», dobbiamo riconoscere che il presupposto imprescindibile di quest’ultimo è l’arte greca, senza la quale prodotti del genere sarebbero impensabili. Quello che rende diverso il «Bruto» dai contemporanei ritratti greci è la disposizione degli stessi elementi all’interno di una struttura geometrizzata e semplificata, interessata ad esprimere valori essenziali di durezza e severità intransigente, propri di una cultura con radici contadine e tradizionali valori civici e militari. In questo consiste, in ultima analisi, l’originalità di quest’arte: non nell’«invenzione» del ritratto realistico, già da tempo esistente in Grecia, ma nell’adattare gli elementi costituitivi di quest’ultimo in funzione dei suoi scopi particolari. In questo senso, il «Bruto» è il prodotto perfettamente realizzato di una cultura che, per quanto a conoscenza dei modelli ellenici, intende esprimere un ethos diverso: da questo punto di vista, non interessa sapere se autore materiale di quest’opera particolare sia un italico ellenizzato o un greco (come tutto compreso è più probabile), dal momento che il risultato esprime nel modo più compiuto le intenzioni del committente e del suo ambiente culturale.
A considerazioni del tutto analoghe induce l’altro, straordinario ritratto bronzeo, la testa da S. Giovanni Lipioni (fig. 169) (villaggio a 18 chilometri da Pietrabbondante, dove nel 1847 avvenne la scoperta). L’ipotesi più probabile è che esso provenga da un santuario della zona. Si trattava in origine, come nel caso del «Bruto», di una statua a grandezza naturale, forse equestre, di un personaggio di mezza età. Stile e tecnica sono molto simili a quelle dell’altro ritratto, mentre l’assenza della barba e il modo di trattare le superfici, meno risentito e rigido, suggeriscono una datazione leggermente più tarda, nei primi decenni del III secolo a.C. Alcuni dettagli, come il trattamento a punti incisi della barba tagliata, inducono al confronto con la plastica in terracotta, che in effetti costituisce la base della fusione in bronzo.
Recentemente si è discusso sull’identità etnica del personaggio rappresentato. Per alcuni si tratta di un generale romano che, basandosi sulla probabile cronologia, dovrebbe aver partecipato alla terza guerra sannitica: in tal caso, saremmo in presenza del monumento commemorativo per una vittoria sui Sanniti, eretto probabilmente in un santuario. Altri invece hanno pensato a un generale sannita. L’isolamento totale della scultura nell’ambito della produzione artistica del Sannio fa nettamente propendere per la prima ipotesi (anche se si potrebbe pensare, come in altri casi, all’intervento di maestranze campane).
Il bronzo di S. Giovanni Lipioni costituisce, insieme al «Bruto», una testimonianza preziosa della ritrattistica ufficiale medio-repubblicana, e permette di farsi un’idea precisa dell’aspetto e della qualità delle sculture contemporanee ricordate dalle fonti letterarie. Così dobbiamo immaginare opere come la statua di Marcio Tremulo o di Spurio Carvilio, prodotti caratteristici dell’«ideologia trionfale» romana, formatasi nel periodo che coincide con la conquista dell’Italia appenninica.
A fronte: 169. Ritratto in bronzo da S. Giovanni Lipioni, Molise (Parigi, Cabinet des médailles).
10. LA MONETA
La documentazione più abbondante e completa della cultura figurativa di Roma, per un periodo altrimenti così povero di testimonianze è – o piuttosto potrebbe essere – la moneta. In effetti, nonostante tali potenzialità, è indubbio che questo settore è poco sfruttato dal punto di vista che qui interessa. Ciò è dovuto certamente alla situazione degli studi sulla più antica coniazione romana, rimasti sostanzialmente chiusi in un ghetto specialistico, lasciando irrisolti molti degli aspetti più rilevanti, come quello cronologico, che non possono essere chiariti se si resta prigionieri di una ricerca puramente tecnica.
10.1. La prima coniazione del bronzo
La diffusione di ripostigli di oggetti in bronzo tra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro in tutta l’Italia centrale, composti in gran parte da oggetti d’uso (asce, rasoi, fibule – interi o in frammenti) ha fatto pensare alla possibilità di una funzione «premonetale» di questi prodotti: si tratta comunque della tesaurizzazione di materiali che detenevano un valore riconosciuto per la comunità, anche se a volte si trattava semplicemente di riserve di metallo appartenenti ad artigiani-fonditori. Più tardi, tali depositi (scoperti anche all’interno di santuari) assumeranno la forma di frammenti di metallo grezzo, designati con il termine di aes rude: si tratta ormai di materiali utilizzati non solo per la tesaurizzazione, ma anche come mezzo di scambio, misurati a peso, secondo la formula tramandata dalle fonti romane, che suona: per aes et libram («con bronzo pesato sulla bilancia»).
I primi lingotti muniti di contrassegni (aes signatum) appaiono verso la metà del VI secolo a.C., come attesta un’importante scoperta avvenuta nel Santuario di Demetra a Bitalemi, in Sicilia: si tratta di pani di rame rettangolari, contrassegnati con un motivo a spina di pesce, definito «del ramo secco», che quasi sempre si rinvengono spezzati. Ciò ha fatto pensare a una possibile conferma dell’indicazione di Plinio il Vecchio (XXXIII, 43): «Il re Servio (Tullio) fu il primo a marcare il bronzo». Anche se in effetti esemplari del genere non sono stati rinvenuti a Roma, in ogni caso è confermato già dal VI secolo a.C. l’uso in Italia di contrassegnare i lingotti con un «segno», che non può essere ancora segno di valore (dal momento che il peso ne è assai vario) ma forse piuttosto la garanzia della qualità del metallo, stabilita comunque da un’autorità «pubblica».
Il tipo «del ramo secco» sembra durare per tutto il V secolo, e viene poi sostituito da lingotti di bronzo fusi, con figure in rilievo: questi comprendono undici serie successive, databili probabilmente a partire dalla metà del IV secolo a.C.: vi si riconoscono i seguenti tipi, con rappresentazioni sulle due facce: 1. aquila con il fulmine / Pegaso, con leggenda RO-
MANOM (fig. 172); 2. ramo con iscrizione ROM[…] (certamente da integrare nello stesso modo); 3. scudo ovale, visto dall’esterno e dall’interno; 4. spada / fodero; 5. anfora / punta di lancia; 6. spiga / tripode; 7. ancora / tripode (fig. 170); 8. tridente / caduceo; 9. due galline affrontate ai lati di due stelle / due rostri affrontati ai lati di due delfini (fig. 171); 10. toro verso destra / toro verso sinistra (fig. 173); 11. elefante verso destra / maiale verso sinistra (fig. 174).
La datazione piuttosto tarda (fino alle soglie del III secolo a.C.) che in genere si attribuisce a questi esemplari di aes signatum è certamente errata, sulla base delle seguenti considerazioni: – essi precedono certamente l’inizio della vera e propria moneta bronzea, denominata aes grave,
che si conclude con il tipo della prora: ora questo, come vedremo, va datato certamente intorno al 260; – la forma del genitivo plurale ROMANOM precede certamente quella ROMANO dei didrammi d’argento romano-campani, il cui inizio è da fissare negli ultimi decenni del IV secolo; – alcuni simboli presenti nei lingotti forniscono elementi di cronologia piuttosto alti: il tipo 2, con il ramo e leggenda ROM[ANOM] deriva direttamente da quello, certamente arcaico, del «ramo secco»; – il tipo 9 con galline beccanti e rostri con delfini si collega con tutta probabilità a un successo navale (le galline alludono al tipo di auspicio utilizzato dai comandanti militari), ma il collegamento con la battaglia di Milazzo, la prima ottenuta da una flotta romana nel corso della prima guerra punica (260 a.C.), è ovviamente impossibile, perché l’episodio è troppo tardo. L’unica possibilità sembra il successo su Anzio del 338, seguito dalla collocazione dei rostri delle navi anziati sulla tribuna del
Comizio; – la presenza dell’ancora e del tripode sul tipo 7 dovrebbe alludere all’Apollo di Delfi: se l’ambasceria di Camillo del 398 a.C. è forse troppo antica, si potrebbe pensare alla ricostruzione del Tempio di Apollo del 353.
Qualche problema pone il tipo con elefante e maiale, che a prima vista va collegato con la guerra contro Pirro, prima occasione in cui i Romani avreb-
170-171. Aes signatum: con ancora e tripode; con polli e rostri. 172-174. Aes signatum: con aquila e Pegaso; con toro; con elefante e maiale
bero conosciuto gli elefanti. In realtà (come nel caso dei piatti sovradipinti di Capena e di Aleria con elefantessa) non è escluso che si tratti di un motivo iconografico introdotto già in precedenza dal mondo ellenistico.
A parte le immagini generiche – come le armi (spada, scudo di tipo gallico, punta di lancia), l’anfora, i tori – troviamo anche simboli chiaramente connessi con precise divinità: l’aquila con fulmine indica Giove, mentre il cavallo alato dello stesso esemplare non è necessariamente un Pegaso: la frequenza di tali rappresentazioni nell’imagerie arcaica romana (basti pensare alle terrecotte architettoniche di prima fase) farebbe pensare piuttosto a un’allusione al trionfo, perfettamente coerente con il simbolo di Giove Capitolino.
Per quanto riguarda lo stile, che si apprezza soprattutto nelle rappresentazioni di animali, si coglie, nonostante l’inevitabile semplificazione, una resa naturalistica che rimanda a modelli indubbiamente greci.
La vera e propria moneta appare con il cosiddetto aes grave, pezzi fusi di forma rotonda, del peso di una libbra, la cui apparizione, datata in genere al 289 a.C., va fatta risalire certamente a qualche decennio prima. È molto probabile infatti che si tratti
175-176. Aes grave: con Giano e Mercurio; con Roma e ruota. di emissioni più o meno contemporanee ai didrammi romano-campani, la cui coniazione ha inizio negli ultimi decenni del IV secolo a.C.: a questi rimanda almeno un’immagine, la testa di Roma con elmo frigio. In ogni caso, un termine cronologico anteriore è la serie librale della prora, che conclude l’emissione dell’aes grave, e che si data intorno al 260 a.C.
Conosciamo otto serie di queste monete, due delle quali di peso inferiore («leggere»), che presentano una grande varietà di immagini, caratterizzanti le diverse frazioni (oltre all’asse, semis, triente, quadrante, sestante, oncia e semuncia). Nelle divisioni maggiori (asse e semis) appaiono soprattutto teste di divinità (Giano, Mercurio, Marte, Venere (?), Apollo, Dioscuro – o forse Vulcano –, Roma); nelle minori, simboli vari (testa di satiro, fulmine, delfino, toro, testa di cavallo, maiale, cane, tartaruga, caduceo, conchiglia ecc.).
In un caso almeno, quello con testa di Giano giovane (o piuttosto Fons), conosciamo paralleli etruschi (monete di Volterra) (fig. 175). Gli elementi di datazione si ricavano da alcune immagini: – la presenza di Venere (se l’identificazione è esatta) implica una cronologia posteriore al 296, anno d’introduzione del culto a Roma; – la testa di leone con lancia nelle fauci rimanda certamente ad Alessandro; – il tipo con ruota (fig. 176) può essere inteso solo in rapporto con una via: si è pensato giustamente a un fatto epocale, come la fondazione della via
Appia nel 312 a.C.; – significativa è anche la presenza dell’immagine bifronte giovanile (fig. 175), identica a quella che appare nel quadrigato: quest’ultimo, che costituisce in definitiva l’ultimo didramma d’argento, corrisponde all’introduzione definitiva della moneta d’argento, datata al 269 a.C.
Lo stile appare in genere semplificato e sommario, certamente a causa del sistema utilizzato, la fusione. È evidente comunque la derivazione della forma del disco monetale dall’area magno-greca o siceliota, e anche le immagini rappresentate risalgono indubbiamente alla stessa fonte: basterebbe ricordare l’esemplare con testa di Minerva elmata (fig. 177) in posizione frontale, che dipende direttamente da immagini identiche, ad esempio nella monetazione di Velia.
In conclusione, l’aes grave dovrebbe apparire intorno al 330 a.C. e terminare, nel 260, con il tipo dell’asse librale della prora (fig. 178).
177-178. Aes grave: con Minerva e toro; con Giano e prora.
Per quest’ultimo, la cui apparizione è collocata in genere in un periodo intorno al 235, possediamo ora un preciso termine cronologico, in seguito alla scoperta di un esemplare nella città punica di Kerkouane, distrutta nel corso della prima guerra punica, nel 256, e definitivamente abbandonata in seguito. L’introduzione, anteriore a questo anno, può essere fissata con precisione al 260, sulla base dei soggetti rappresentati nell’asse: testa di Giano barbato al dritto, prora di nave militare al rovescio. Come è stato osservato da tempo, la seconda è da porre in relazione con una vittoria navale, che si può identificare solo con quella di Milazzo, ottenuta sui Cartaginesi nel 260 a.C.; per quanto riguarda la prima, va ricordato che il vincitore, Gaio Duilio, dedicò dopo il trionfo un tempio a Giano, presso il porto militare di Roma, nel Foro Olitorio. Sarebbe difficile immaginare una coincidenza più precisa con i soggetti rappresentati nella moneta.
Del resto, c’è un sostanziale accordo sul collegamento dell’asse della prora con la prima moneta d’argento, il quadrigato, che infatti, se è valida la nostra analisi, venne introdotto solo nove anni prima. 10.2. La coniazione dell’argento
La discussione sulle prime fasi della monetazione romana dell’argento, talvolta anche aspra, si è concentrata soprattutto sulla datazione del denario che, introdotto nel corso del III secolo, è rimasto in seguito, per secoli, la moneta fondamentale dello Stato romano. Oggi la situazione sembra stabilizzata, nel senso che tutti gli studiosi, o quasi, accettano la datazione «bassa», fissata in genere intorno al 212-211 (o piuttosto al 215-214) a.C., soprattutto in base alla scoperta, nel centro siciliano di Morgantina (distrutto nel corso della seconda guerra punica) di un certo numero di denarii pertinenti alle più antiche coniazioni.
È però curioso che, in tanta unanimità, non tutti si rendano conto del prezzo da pagare: l’eliminazione dell’unanime parere delle testimonianze antiche che, almeno a prima vista, sembrano contraddire la teoria dominante: in particolare, un testo di Plinio (Storia Naturale, XXXIII, 42-46), che costituisce l’unica testimonianza di una certa ampiezza disponibile sulla storia della moneta romana:
Il successivo crimine fu compiuto da chi inventò per primo la moneta d’oro, di cui ignoriamo l’identità. Il popolo romano non introdusse neppure la coniazione dell’argento fino alla vittoria sul re Pirro. Si usava l’asse di bronzo del peso di una libbra […] il primo a coniare il bronzo fu il re Servio, mentre in precedenza si usava bronzo grezzo, come ricorda Timeo […] L’argento venne coniato per la prima volta a 485 anni dalla fondazione della città, sotto il consolato di Q. Ogulnio e di C. Fabio, a cinque anni dall’inizio della prima guerra punica: si decise di attribuire al denario il valore di 10 libbre di bronzo, al quinario di 5, al sesterzio di 2,5.
Come si vede, Plinio attribuisce, con ben tre indicazioni cronologiche, la prima coniazione dell’argento al 269 a.C., e questa data è confermata dal riassunto (periocha) del perduto libro XV di Livio («Allora per la prima volta il popolo Romano iniziò a utilizzare la moneta d’argento») e da un gruppo di scrittori più tardi, in parte dipendenti da fonti diverse, che fissano concordemente agli anni immediatamente successivi alla vittoria su Pirro e su Taranto, e cioè a dopo il 272, la data dell’evento, reso possibile proprio dalla disponibilità di una preda immensa. Su questi dati era stata costruita la teoria che identificava questa prima coniazione con il denario, datato di conseguenza al 269 a.C.
Come sanare l’apparente contraddizione che risulta dalla nuova datazione al 212-211 (che può risalire almeno fino al 215)? Si presenta una duplice possibilità: o la difesa a oltranza della teoria tradizionale, o l’accantonamento di tutta la documentazione letteraria, da respingere come interamente falsa. Esiste una soluzione alternativa, che permetta di sfuggire a una scelta così drastica, senza mettere in dubbio da un lato la datazione archeologica del denario, dall’altro l’unanime testimonianza degli storici antichi?
Se si considera la natura del testo di Plinio, che sappiamo costruito in modo meccanico, assemblando una serie di passi di varia origine, tale possibilità appare del tutto ovvia. Plinio (come anche Livio) non afferma in realtà che il denario venne coniato nel 269: egli parla solo di argentum signatum. La frase successiva, che si riferisce indubbiamente al denario, appare come una «scheda» diversa, meccanicamente giustapposta alla precedente. Di conseguenza, cade la necessità di riconoscere nel denario la prima moneta d’argento coniata a Roma.
Alcuni studiosi, consci di questa possibilità, hanno tentato di identificare quest’ultima con un gruppo di monete d’argento, denominate «romano-campane», attribuite a un atelier non romano, probabilmente magno-greco o campano. Tuttavia, almeno il tipo più antico di questa serie, con Marte al dritto e testa di cavallo al rovescio, appartiene certamente a un periodo più antico, da fissare negli ultimi decenni del IV secolo: è esclusa di conseguenza la possibilità di riconoscervi la moneta del 269. Anche il tentativo disperato di ripiegare per quest’ultima sul terzo tipo, quello con Ercole e lupa, non ha alcun senso, dal momento che questo – inserito com’è in una serie omogenea – non rappresenta in alcun modo un inizio, ed è del resto anch’esso anteriore al 269.
A ben vedere, la soluzione è a portata di mano, ed è stata già avanzata, anche se senza successo. Sappiamo che esiste a Roma una moneta d’argento dimostrabilmente più antica del denario, ed è il quadrigato, che però ci si ostina ad attribuire ad una data piuttosto tarda, variamente fissata tra il 245 e il 220: tuttavia, vari dettagli tecnici, che indicano una durata relativamente lunga di questa coniazione (fissata da alcuni studiosi tra 35 e 50 anni), e soprattutto le sue caratteristiche interne, anche ponderali, che permettono di riconoscervi un prolungamento delle serie «romano-campane», hanno indotto qualche studioso a rialzarne la cronologia, e a identificarvi la più antica moneta d’argento coniata a Roma, quella del 269.
Ora, esistono almeno due dati archeologici che sembrano confermare definitivamente tale proposta.
Il primo di questi, noto già dalla fine dell’Ottocento, è la scoperta di un ripostiglio di quadrigati e anche di un esemplare isolato nella città greca di Selinunte, nella Sicilia occidentale. Sappiamo che quest’ultima venne distrutta e definitivamente abbandonata nel 250 a.C., nel corso della prima guerra punica: fatto di cui gli scavi recenti hanno definitivamente dimostrato la storicità.
Il secondo documento è costituito dalla scoperta di un quadrigato (e anche di una moneta bronzea del tipo della prora, dato altrettanto importante) nel centro punico di Kerkouane (presso Capo Bon). Anche in questo caso, gli estesi scavi realizzati nella città hanno mostrato che questa subì una radicale distruzione, seguita da un definitivo abbandono, intorno alla metà del III secolo a.C.: si è potuto dimostrare che la catastrofe è certamente da collegare con l’invasione del territorio di Cartagine, realizzata da Attilio Regolo nel 256 a.C.
In conclusione, disponiamo ormai per la datazione del quadrigato di due termini ante quem, il 250 e il 256: l’ovvia conclusione è che esso corrisponde alla prima moneta d’argento, coniata a Roma nel 269.
Questa lunga e tediosa premessa cronologica era indispensabile, perché ci consente di disporre l’intero complesso della prima coniazione romana dell’argento in una serie cronologica abbastanza serrata e coerente, tra la fine del IV e la fine del III secolo a.C., e ci pone in grado di utilizzare tale tipologia per ricostruire tendenze e sviluppi della cultura artistica romana nello stesso periodo.
10.3. La moneta «romano-campana»
La moneta d’argento come unità di conto e mezzo di scambio appare a Roma negli ultimi decenni del IV secolo a.C., quando vengono costruite nel Foro le botteghe dei cambiavalute, denominati per questo argentarii. Sappiamo da Varrone (citato da Nonio, p. 853 L.) che queste sostituirono a un certo punto le antiche macellerie del Foro (attribuite dalla tradizione a Tarquinio Prisco). La data di questo cambiamento si può fissare con una certa precisione, perché il passo citato si trovava nel secondo libro di un’opera perduta di Varrone (De vita populi Romani) che trattava il periodo tra la metà del IV e la metà del III secolo a.C.: grazie a Livio (IX, 40, 16), siamo in grado di precisare: prima del 310 a.C., quando, nel corso del trionfo sui Sanniti di L. Papirio Cursore, «le armi [catturate] apparvero così splendide, che gli scudi dorati furono distribuiti ai proprietari delle taberne degli argentarii per decorare il Foro». Altri documenti ricordano l’esistenza di queste botteghe nel III secolo a.C. È possibile dunque attribuire la loro costruzione a C. Menio, console nel 338 e censore nel 318, che nel corso di quest’ultima magistratura realizzò grandi lavori nel Foro, introducendo l’uso dei balconi a sbalzo al di sopra delle tabernae, che da lui presero il nome di maeniana: le botteghe dei cambiavalute forono dunque introdotte in un lasso di tempo compreso tra il 318 e il 310 a.C.
Ciò significa, indubbiamente, che la circolazione in quantità notevole della moneta d’argento era già iniziata, e quindi che in tale periodo doveva esistere una coniazione romana in quel metallo, anche se non si può escludere che si trattasse di emissioni di altre città, ad esempio di Napoli, la cui moneta era allora dominante nei mercati dell’Italia centrale e meridionale, e che era diventata da poco alleata di Roma (326 a.C.).
La comparsa delle prime monete romano-campane (didrammi derivati da modelli greci) va fissata, come si è detto, negli ultimi decenni del IV secolo a.C. Si tratta di due serie, successive nel tempo, la prima con la leggenda ROMANO (da interpretare come un genitivo plurale, cioè Romanorum, dei Romani,
179-182. Didrammi romano-campani: con Marte e protome equina; con Apollo e cavallo; con Ercole e lupa; con Roma e Vittoria.
in senso di appartenenza), la seconda con leggenda ROMA. All’interno della prima si distinguono quattro tipi, di peso via via minore, e quindi cronologicamente successivi. 1. Dritto: testa elmata di Marte; rovescio: testa di cavallo (fig. 179). Il tipo barbato permette l’identificazione con Mars Pater, il dio dell’Ara Martis, nel Campo Marzio. La presenza sul rovescio di una protome di cavallo con i finimenti ha fatto pensare a un rapporto con il rituale arcaico dell’equus October, una cerimonia che si svolgeva alle
Idi di ottobre, e prevedeva una corsa di carri, conclusa con il sacrificio di un cavallo del tiro vincitore. Resta però difficile comprendere le ragioni di tale scelta, in questo particolare contesto. In alternativa, il cavallo potrebbe celebrare l’alleanza con l’aristocrazia di Capua (equites Campani), stipulata nel 338 a.C.: la presenza della spiga accanto alla protome equina potrebbe alludere alla proverbiale ricchezza agricola della Campania.
D’altra parte, la scelta di Marte – divinità egualmente popolare a Roma e nell’area italica – può comprendersi nel quadro di un’alleanza squisitamente militare. Il peso, di 7,28 grammi circa, è chiaramente agganciato alla moneta di Napoli, cui rimanda anche lo stile della rappresentazione, puramente greco (la testa di cavallo al rovescio ha fatto pensare anche ad analoghe immagini nella monetazione cartaginese). La tesi tradizionale, che attribuisce la coniazione a zecca napoletana, sembra dunque probabile, e può fornire un ulteriore aggancio cronologico, il 326 a.C., data dell’alleanza (foedus) tra Roma e Napoli. La data della moneta potrebbe fissarsi in quello stesso anno, o poco dopo: una conferma si ricava dai ripostigli, dove questo tipo appare insieme a conii magno-greci della seconda metà del IV secolo. 2. Dritto: testa di Apollo; rovescio: cavallo in corsa (fig. 180). Il peso (7,21 grammi ca.) e la derivazione da monete della zecca di Napoli del tardo
IV secolo giustifica l’attribuzione a un periodo di una generazione più tardo. La proposta di spiegare la presenza di Apollo con una vittoria sui
Galli aveva fatto pensare alla grande vittoria di
Sentinum (295) o con quella del Lago Vadimone (284?). La presenza del culto di Apollo nelle più antiche colonie romane non contraddice a una datazione entro il primo decennio del III secolo, che potrebbe spiegarsi con la consultazione dei libri Sibyllini in rapporto all’introduzione del culto di Esculapio (292 a.C.). 3. Dritto: testa di Ercole; rovescio: lupa con i gemelli (figg. 181, 194). La differenza di peso rispetto agli altri due tipi (6,98 grammi ca.) non è comunque tale da giustificare una data di molto successiva.
La presenza di Ercole suggerisce con forza un momento posteriore al trasferimento del culto dall’ambito gentilizio a quello pubblico, avvenuto nel 312 a.C., ad opera del censore Appio Claudio.
Tale data è ulteriormente precisata dalla presenza della lupa, che dovrebbe essere quella collocata nel Comizio dai fratelli Ogulnii, nel corso della loro edilità nel 296. L’occasione precisa potrebbe riconoscersi nella fondazione del primo tempio dedicato a Hercules Invictus, aggiunto alla più antica Ara Maxima in un momento che si può fissare con sicurezza subito dopo il 292 (poiché
Livio non ne parla nella parte conservata del suo testo, che si arresta a quell’anno). Sembra probabile che la costruzione coincida con la fine della seconda guerra sannitica, e sia da attribuire a uno dei generali che trionfarono tra il 292 e il 290: i migliori candidati sembrano Q. Fabio Massimo
Rulliano e suo figlio, Q. Fabio Massimo Gurgite, soprattutto per lo stretto collegamento tra la gens
Fabia e il culto di Ercole, che ne sarebbe stato il fondatore mitico. Nella testa del dio colpiscono l’assenza di barba e il diadema: si è visto che si tratta di un tipo derivante dalle monete di Alessandro e dei suoi primi successori (Diadochi). Sarebbe difficile non collegare queste caratteristiche agli epiteti allusivi alla vittoria, introdotti, come si è visto, negli anni intorno al 300: si tratta infatti del culto di Hercules Invictus. La splendida testa, resa con volumi ampi e semplificati, su cui spicca il movimento delle ciocche virgolate, è ancora pienamente classica. Altrettanto felici le figure della lupa e dei gemelli, caratterizzati da una tensione dinamica e da una mobile vivacità, tipici dell’arte lisippea e del primo ellenismo: l’attività di Lisippo a Taranto è senza dubbio alla radice di prodotti del genere, diffusi da qui al resto della Magna Grecia.
Se si tratta, come sembra ovvio, della statua eretta nel Comizio di Roma dagli Ogulnii, nel 296, siamo certamente in presenza dell’opera di un artista greco, probabilmente tarentino, forse quello che più o meno negli stessi anni realizzò nello stesso Comizio le statue di Pitagora e di Alcibiade. La data del didramma con Ercole e la lupa può dunque fissarsi con grande probabilità intorno al 290 a.C., e costituisce anche un preciso termine ante quem per la precedente con Apollo / cavallo. 4. Dritto: testa femminile elmata (Roma); rovescio: Vittoria che fissa una corona al ramo di una palma (fig. 182). Il peso (6,6 grammi ca.) indica una datazione più tarda rispetto agli altri tipi. L’apparizione, per la prima volta, di una rappresentazione di Vittoria, mutuata direttamente dalla greca Nike, attesta in modo esplicito la nascita di una «teologia della vittoria» in questi anni (si ricordi la fondazione di un tempio della dea sul Palatino nel 294), data confermata dalla presenza della palma come simbolo di vittoria, attestata per la prima volta da Livio (X, 47, 3) per il 293: «Quello stesso anno per la prima volta gli spettatori assistettero ai giochi romani coronati e vennero offerte ai vincitori, introducendo un uso greco, dei rami di palma». La caratteristica più importante di questa moneta, per molti versi del tutto particolare, è la presenza sul dritto di una complessa serie di lettere greche, semplici o doppie, per indicare il numero del conio. Si tratta di un particolare che appare a Roma solo in questo caso, e che rimanda direttamente alle monete di Arsinoe II, sorella e moglie di Tolomeo Filadelfo. La dipendenza da queste è sicura, e può spiegarsi solo con la ratifica del trattato di amicizia tra Roma e l’Egitto, del 273 a.C. Questa data costituisce un sicuro termine cronologico per il didrammo romano, di cui è così confermata la datazione relativamente tarda.
Contemporanea dovrebbe essere l’introduzione di un altro gruppo di didrammi, con leggenda ROMA: ne fanno parte tre tipi, che riprendono i modelli delle più antiche monete romano-campane: al tipo del Marte barbato succede un Marte imberbe, rivolto a destra, mentre il rovescio conserva la testa di cavallo (fig. 183); segue una litra con Ercole barbato al dritto e Pegaso al rovescio (fig. 184); infine, un didramma con testa di Apollo e cavallo in corsa (fig. 185).
La cronologia di questi esemplari è facilmente determinabile, perché la testa di Marte deriva direttamente dalla testa di Achille delle monete di Pirro (mentre Ercole dipende dalle monete di Alessandro): di conseguenza, siamo negli anni Settanta del III secolo a.C., immediatamente prima dell’inizio della coniazione centralizzata dell’argento, fissata dalle nostre fonti al 269 a.C.
Questa si identifica certamente, come abbiamo visto, con il tipo del quadrigato (fig. 187). Alla stessa data va attribuita la fondazione della zecca sulla sommità settentrionale del Campidoglio, l’Arx, che per la vicinanza dell’antico Tempio di Giunone Moneta (da allora utilizzato come archivio) assunse per la prima volta il nome di Moneta. Ce lo conferma un deposito, costituito in gran parte da quadrigati di peso inferiore alla norma, scoperto sul Campidoglio, e chiaramente destinati ad essere rifusi nella vicina zecca.
È probabile che allo stesso periodo risalga anche la creazione degli appositi magistrati, addetti al controllo delle operazioni di coniazione, i tresviri monetales.
Il quadrigato, per il suo peso (6,6 grammi) è sostanzialmente un didrammo, come le monete romano-campane, di cui costituisce il prolungamento, come conferma l’inizio della sua coniazione nel 269. Esso costituisce la prima monetazione argentea di lunga durata e di grandi dimensioni quantitative,
183. Didrammi romanocampani (gruppo ROMA) con Marte e protome equina. 184. Litra romano-campana (gruppo ROMA) con Ercole e Pegaso. 185. Didrammo romanocampano (gruppo ROMA) con Apollo e cavallo.
incomparabilmente superiori a quelle precedenti, e soprattutto conserva fino alla fine lo stesso tipo, con al dritto una doppia testa giovanile gianiforme e al rovescio una quadriga con Giove guidata dalla Vittoria, da cui il nome. Sono tutte caratteristiche che ne confermano il carattere di «prima coniazione ufficiale» dello Stato romano, come è confermato dalle imitazioni che ne vennero battute all’epoca di Traiano, traendo senza dubbio i modelli dall’archivio della Moneta, dove essi erano ancora conservati quattro secoli dopo la loro creazione.
Grosso modo contemporanea, come sappiamo, deve considerarsi l’introduzione dell’asse librale di bronzo con la testa di Giano barbato al dritto e la prua di nave al rovescio. Di conseguenza, l’introduzione dell’aes grave della prora, destinato a durare per secoli, è solo di sei anni successiva a quella del quadrigato: la presenza delle teste gianiformi sul dritto, barbata nel primo caso, imberbe nel secondo, è un’evidente conferma di questo rapporto, anche se non è chiaro il significato di quest’ultima.
Non è accettabile per essa l’identificazione con i Dioscuri, mentre qualche ragione in suo favore ha quella con Fons, il dio delle sorgenti: questi infatti era considerato figlio di Giano. Va considerato inoltre il possibile rapporto con le porte, accertato nel caso di Giano (il cui sacello, prossimo alla Curia, non era altro che una doppia porta): la forma bifronte alluderebbe al rapporto interno-esterno, che il dio simbolizza. D’altra parte, anche Fons è in stretto rapporto con una porta, presso la quale sorgeva il suo tempio: la porta Fontinalis, appunto, che si apriva a breve distanza dal sacello di Giano, e forse ne costituiva la replica fuori delle mura serviane. È da notare, a questo proposito, che questa porta si trovava precisamente ai piedi dell’Arx, e quindi della Moneta.
Una conferma di tale interpretazione si ricava dalle terrecotte votive scoperte in due città etrusche,
186. Tarquinia, ex voto di terracotta con Fons (Tarquinia, Museo Archeologico). 187. Quadrigato.
188. Statuetta bronzea di Setlans (Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della città). 189. «Oro del giuramento».
190. Denario di Ti. Veturius.
191. Vittoriato.
Vulci e Tarquinia (fig. 186), in diretta connessione con una porta urbica. Nel primo caso, si tratta di rappresentazioni barbate, quindi di Giano, mentre nel secondo le due teste gemine sono imberbi, e vicinissime, per stile e cronologia (III secolo a.C.), a quelle dei quadrigati: sarebbe difficile escludere un preciso rapporto tra queste immagini, che trovano confronto anche in monete e in bronzi etruschi, come la statuetta di Setlans (il Giano etrusco?) da Cortona (fig. 188). Sembra confermata così l’identificazione dell’immagine sul dritto del quadrigato con Fons, e quindi con il dio della porta Fontinalis.
10.4. La monetazione aurea
La coniazione dell’oro è sempre stata eccezionale a Roma, ed è rivelatrice, specialmente in età repubblicana, di gravi difficoltà finanziarie. Nel III secolo ne conosciamo solo due esempi, per di più cronologicamente molto vicini.
Il primo è il cosiddetto «Oro del giuramento» (fig. 189), di cui ci è pervenuto un numero ridottissimo di esemplari. Metrologicamente e iconograficamente, questa moneta è strettamente collegata al quadrigato: presenta infatti sul dritto la stessa immagine giovanile bifronte. Non c’è alcun dubbio quindi sulla sua cronologia, che deve essere anteriore (anche se di poco, come vedremo) all’introduzione del denario. Per questo, possiamo rifarci ancora una volta al testo di Plinio, secondo il quale «la moneta d’oro fu coniata 51 anni dopo quella d’argento». Non è del tutto chiaro a quale dei due aurei l’autore si riferisca, ma tutto compreso è probabile che si tratti del più antico, quello «del giuramento», che dovremmo datare di conseguenza 51 anni dopo il 269 e cioè, secondo l’uso romano, al 219, o al più tardi al 218.
Il nome deriva dalla rappresentazione del rovescio, dove appare in effetti una scena da interpretare come cerimonia di giuramento: due personaggi – uno anziano, barbato e uno più giovane, ambedue armati di lancia – si fronteggiano, mentre tra di loro un terzo individuo, accovacciato, tiene un maialino da sacrificare. La precisa corrispondenza con descrizioni antiche permette di riconoscervi la stipulazione di un’alleanza (foedus). Non si tratta però di una scena reale, ma di una rappresentazione mitistorica: si è pensato al trattato stipulato tra Enea e il re Latino, ma è più probabile che si tratti del patto stipulato da Romolo e Tito Tazio, di cui presso il Comizio esisteva un gruppo scultoreo, certamente in bronzo (Servio, Commento all’Eneide, VIII, 635-641).
La moneta quindi commemora l’istituzione o la riconferma di un foedus, che deve essere in rapporto cronologico con il momento in cui fu coniata. L’altro dato da prendere in considerazione è la riapparizione della stessa immagine in due tipi monetali tardo-repubblicani: quello, celeberrimo, coniato dai federati italici al momento della loro rivolta contro Roma (90-89 a.C.) e quello, di qualche decennio anteriore, dovuto al tresvir monetalis Ti. Veturius (fig. 190).
Se il primo conferma in pieno l’interpretazione dell’immagine come giuramento comune (coniuratio) in relazione a un’alleanza, il secondo costituisce certamente il tramite tra l’«Oro del giuramento» e le monete della guerra sociale.
L’interesse per questo tipo monetale di un Ti. Veturius sembra da spiegare con una relazione di parentela tra il monetalis tardo-repubblicano e il responsabile della coniazione dell’«Oro del giuramento»: quindi, anche quest’ultimo è dovuto a un Veturius, vissuto intorno al 219 a.C. L’unico possibile è il console del 220, L. Veturius Philo. Secondo Zonara (VIII, 20) «Lucio Veturio e Gaio Lutazio si spinsero fino alle Alpi, e senza combattere si impadronirono di molte [popolazioni]».
Per vari motivi, deve trattarsi della conquista del Piemonte, che venne a completare quella immediatamente precedente della zona gallica della Lombardia, completata nel 222. Ora, è dimostrato che in tale occasione venne occupata Victimulae (zona della Bessa, presso Biella), celebre per le sue miniere d’oro, che fu poco tempo dopo, alla fine del 218, presa da Annibale.
Possiamo così constatare che in un preciso momento, compreso tra il 220 e il 218, si realizzano tutte le condizioni per la coniazione dell’«Oro del giuramento»: disponibilità eccezionale d’oro, conseguenza della vittoria di un Veturius. Inoltre, commemorazione di un giuramento, che può essere solo quello celebre, ricordato da Polibio, pronunciato solennemente da tutti i membri della confederazione romano-italica nel 225 a.C., al momento dell’invasione dell’Italia centrale da parte dei Galli Boi e Insubri, che terrorizzò tutte le popolazioni coinvolte. La conquista del Piemonte da parte di L. Veturio rappresenta infatti l’episodio finale di questa guerra, iniziata cinque anni prima: si comprende così l’enfasi della commemorazione, che si concretizzò nella prima coniazione dell’oro, che in effetti possiamo datare, sulla base di Plinio, precisamente al 219-218.
Il secondo aureo è solo di pochi anni più tardo, e fa parte del sistema del denario, come si deduce dalle sue caratteristiche metrologiche. Sul dritto è rappresentata una testa di Marte, sul rovescio un’aquila con il fulmine (fig. 192).
La presenza di un’esemplare negli strati di distruzione di Morgantina (insieme a denarii dei tipi più antichi) garantisce una datazione anteriore al 211, e più probabilmente al 213 a.C.: data confermata da una scoperta avvenuta ad Agrigento, dove è apparso un grande ripostiglio costituito esclusivamente da aurei di questo tipo, nascosto probabilmente al momento della conquista della città da parte dei Cartaginesi, nel 213.
La frequente presenza di queste eccezionali monete nella Sicilia della seconda guerra punica permette di precisarne la funzione in rapporto alle necessità di finanziamento degli eserciti romani stanziati nell’isola. Si tratta di elementi che non solo permettono di datare la coniazione dell’aureo intorno al 214, ma confermano un’analoga datazione del denario, argomento cui ora dobbiamo rivolgerci.
10.5. Il denario
L’episodio fondamentale nella storia della moneta repubblicana è l’introduzione del denario, che rimase in corso fino alla piena età imperiale. Si tratta di una moneta d’argento del peso di 10 assi di bronzo sestantali (ridotti cioè a un sesto di libbra), divisa nelle frazioni del quinario (mezzo denario) e del sesterzio (un quarto di denario). La sua introduzione venne a lungo identificata con l’inizio della coniazione dell’argento, e datata di conseguenza al 269 a.C., in base a un’errata interpretazione di un passo di Plinio, già esaminato.
Tale data venne messa in dubbio per la prima volta da uno studioso inglese, Harold Mattingly, che la spostò in basso di più di un secolo, fino al 187 a.C. In seguito, le scoperte di Morgantina hanno permesso di riportare indietro – almeno fino al 211, data della riconquista e parziale distruzione della città da parte dei Romani – tale cronologia. Questo termine da alcuni è stato riportato un po’ più indietro, al 213, data della conquista cartaginese della città: ciò rende probabile che l’introduzione della moneta si debba fissare intorno al 215-214 a.C.
Come nel caso del quadrigato, il denario presenta fin dall’inizio le caratteristiche iconografiche che conserverà a lungo anche in seguito – segno di una precisa volontà da parte dello Stato di fornire uno strumento facilmente riconoscibile e affidabile (si pensi, in età moderna, al caso del dollaro). Sul dritto appare sistematicamente la testa di Roma elmata, rivolta a destra; sul rovescio i Dioscuri sormontati ognuno da una stella, armati di lancia, su cavalli al galoppo (con rare varianti successive, ad esempio il simulacro di Luna su biga). Al di sotto, la scritta ROMA (fig. 193).
La testa femminile del dritto reca un elmo di tipo attico, alato e sormontato da una testa di grifo. Sembra accertato che si tratti di Roma. Le ali dovrebbero alludere alla vittoria. Il tipo dei Dioscuri del rovescio sembra derivare da una moneta dei Bruzii, databile all’inizio del III secolo, coniata forse a Locri, che presenta alcune diversità, come l’assenza della lancia e la mano destra alzata in segno di saluto. Il motivo della scelta sembra intuibile: l’introduzione del culto dei Dioscuri a Roma, dopo la vittoria del Lago Regillo sulla Lega Latina (499 o 496 a.C.), venne subito collegata alla vittoria dei Locresi sui Crotoniati alla Sagra (metà del VI secolo a.C.), avvenuta in circostanze analoghe: in ambedue i casi, i divini cavalieri serebbero intervenuti, determinando la vittoria di uno dei contendenti, in questo caso di Locri. L’alleanza tra le due città in epoca precedente all’introduzione del denario, nel corso della guerra contro Pirro, è illustrata dalla moneta di Locri che mostra Pistis (Fides) in atto di coronare Roma. Con la guerra annibalica in corso, Roma intendeva probabilmente sottolineare, utilizzando l’immagine della moneta dei Bruzii, l’antico legame con le città della Magna Grecia. Sappiamo che nel 215 Locri cadde nelle mani dei Cartaginesi: ciò potrebbe significare che il denario sia stato introdotto subito prima di questa data. La scelta dei Dioscuri va spiegata comunque in rapporto con la vittoria sui Latini del 499/496, illustrata dall’atteggiamento dei divini gemelli che, nella moneta romana, sono rappresentati in combattimento. Questa vittoria aprì la strada a una nuova alleanza, il foedus Cassianum, modello della confederazione romano-italica. La celebrazione di quest’ultima, come abbiamo visto, è presente in una moneta di poco più antica, l’«Oro del giuramento», coniato dopo l’eliminazione del pericolo gallico; analogamente, l’immagine del denario illustra l’episodio – la sconfitta della Lega Latina – che aveva dato origine alla potenza di Roma repubblicana, e l’intervento risolutivo dei Dioscuri, in un momento in cui la confederazione subiva l’attacco devastante di Annibale. Tale elemento di propaganda riappare in un’altra moneta coniata negli stessi anni, il vittoriato (fig. 191), in rapporto con il quadrigato, probabilmente destinato a circolare fuori di Roma, e inizialmente in Italia meridionale. Troviamo qui, al dritto, l’immagine di Giove (certamente Capitolino) e al rovescio la Vittoria che corona un trofeo: sarebbe difficile immaginare illustrazione più esplicita dell’auspicio di un futuro trionfo, esibita proprio nel momento in cui gli eserciti romani subivano le loro più gravi sconfitte.
192. Aureo con Marte e aquila. 193. Denario anonimo. 194. Didrammo romano-campano con Ercole e lupa.
11. L’ARTIGIANATO ARTISTICO
11.1. Roma e Preneste
L’immagine di Roma come città parassitaria è uno di quegli stereotipi radicati nell’immaginario comune, tanto più difficili da eliminare, quanto più privi di motivazioni razionali e documentate. Che la città sia stata sempre un importante centro di produzione è dimostrato, tra l’altro, da un numero impressionante di testimonianze epigrafiche relativo a corporazioni artigiane, che vanno dal periodo repubblicano alla tarda antichità. In ogni caso, per il periodo che qui interessa, i dati archeologici sembrano confermare la centralità di Roma, almeno per certi prodotti di grande diffusione, come la ceramica.
L’oggetto più significativo che possiamo assegnare all’artigianato romano del IV secolo a.C. è la cosiddetta Cista Ficoroni (figg. 203-208, 210211), scoperta nella necropoli di Preneste, da dove provengono numerosi altri oggetti di questo tipo. Comunque, la ricchissima produzione artigianale di Preneste in età medio-repubblicana comprende non solo le ciste di bronzo, ma anche una numerosa serie di altri manufatti, dagli specchi agli strigili, dagli elmi decorati agli oggetti in osso scolpito: si tratta di un repertorio prezioso per la conoscenza della produzione artistica del Lazio e – indirettamente – della stessa Roma.
La ragione dell’assenza praticamente totale di testimonianze analoghe provenienti da Roma non è difficile da spiegare: in primo luogo, ciò può dipendere dalla distruzione e dal saccheggio sistematico delle necropoli più antiche della città, conseguenza della sua storia urbanistica. Una situazione del genere è attestata nel caso di due grandi centri antichi, come Capua e Corinto, le cui necropoli furono sistematicamente depredate dai coloni cesariani inviati a ripopolarli.
È anche possibile che l’esiguità dei reperti provenienti dalle necropoli romane sia dovuta alla diversa natura dei rituali, fin da età arcaica regolati da apposite leggi suntuarie che imponevano la limitazione del lusso funerario. In ogni caso, questo silenzio dell’archeologia non dice nulla sulla reale dimensione dell’attività artigianale di Roma medio-repubblicana, che è confermata da altre testimonianze.
Per colmare questo vuoto documentario, i dati di Preneste (città latina di grande importanza, geograficamente e culturalmente vicinissima a Roma) appaiono preziosi, e vanno quindi esaminati con una certa ampiezza.
Abbiamo già considerato in precedenza le ricchissime tombe orientalizzanti della città, che ne riflettono l’alto livello economico e culturale in un periodo coincidente con gran parte del periodo regio di Roma. Dobbiamo ora rivolgerci all’altrettanto rilevante, e quantitativamente molto più ampia, documentazione di età medio-repubblicana, che attesta, dopo uno iato di circa due secoli, una straordinaria fioritura della città.
Lo scavo della necropoli di Palestrina è stato realizzato in gran parte nel corso dell’Ottocento, ed è opera più di saccheggiatori che di archeologi: ciò ha provocato la perdita quasi completa dei materiali «minori» dei corredi, come in particolare la ceramica – fondamentale per stabilire la cronologia – e soprattutto la decontestualizzazione e la dispersione di
195. Preneste, necropoli della Colombella: cippi funerari in calcare a forma di pigna (Palestrina, Museo Archeologico).
quelli conservati: tale disastrosa situazione rende quasi impossibile uno studio moderno dei ritrovamenti.
La prima scoperta, del tutto casuale, è anche la più rilevante: si tratta della Cista Ficoroni, apparsa nel 1738, in circostanze poco chiare. Seguirono altre scoperte nel 1828, ma il grosso dei ritrovamenti ebbe luogo tra il 1855 e il 1907, quando, con una serie di interventi successivi, fu esplorata gran parte della necropoli della Colombella, situata a sud della città antica.
Le tombe erano segnalate in superficie da cippi di calcare a forma di pigna su capitello corinzio (fig. 195), talvolta dotati di iscrizione con il nome del defunto. I più antichi di questi, a giudicare dagli elementi morfologici e paleografici, appaiono verso la fine del IV secolo a.C., e l’uso si prolunga fino alla fine del II secolo a.C.: gli esemplari conservati ammontano a più di 350, mentre molto più numerosi sono quelli anepigrafi, che forse in origine prevedevano un’iscrizione dipinta.
Talvolta i segnali erano costituiti da cippi a forma di busti femminili velati (fig. 196), incassati in una base quadrangolare, su cui è incisa l’iscrizione: si tratta di immagini generiche, di ritratti puramente «intenzionali», che esprimono una sorta di apoteosi delle defunte, equiparate a divinità quali Proserpina (o Fortuna), e per questo rappresentate solo per la metà superiore, mentre l’inferiore è immaginata immersa nel mondo sotterraneo: allusione trasparente a una sperata rinascita. Nella serie sufficientemente nutrita di queste rappresentazioni, all’inizio di evidente ispirazione ellenica, si può notare un progressivo scadimento verso forme via via più «espressionistiche» e anorganiche, secondo una tendenza universalmente diffusa in tutta l’attività artigianale
Alle pagine seguenti: 196. Preneste, necropoli della Colombella: busti funerari femminili in calcare (Palestrina, Museo Archeologico).
197-198. Preneste, necropoli della Colombella: sarcofago in peperino, dettagli (Palestrina, Museo Archeologico).
dell’Italia peninsulare, dalle terrecotte votive alla ceramica decorata alla stessa moneta.
Le deposizioni erano a inumazione, in sarcofagi – monolitici e a lastre – o a incinerazione, in urne. Tra i primi è notevole un coperchio a tetto displuviato, con ricca decorazione scolpita, databile negli ultimi decenni del IV secolo a.C. (figg. 197-198). Esso presenta evidenti analogie con quello della Tomba dei Cornelii a Roma (fig. 160).
Le tombe maschili erano quasi prive di corredo, mentre quelle femminili contenevano una ricca serie di oggetti: oltre ai gioielli, la cista, che conteneva lo specchio e le scatole di legno per i belletti. Le ciste più antiche, databili tra il V e la prima metà del IV secolo a.C., erano costituite da un cilindro in cuoio entro una gabbia metallica, con coperchio in bronzo; quelle più recenti, interamente in bronzo, presentano un corpo cilindrico in lamina, spesso con figurazioni incise. I piedi e il manico del coperchio erano invece realizzati a fusione piena.
Le scene incise sulle ciste e sugli specchi costituiscono un ampio repertorio di iconografie, per lo più mitiche, in cui si rispecchiano i valori della società prenestina contemporanea. Il recipiente, utilizzato come dono nuziale, è al centro di una complessa simbologia, che rappresenta i valori femminili della bellezza e della seduzione, ma anche quelli maschili della palestra e della guerra, convergenti, tramite un preciso percorso iniziatico, verso il matrimonio e quindi verso la riproduzione globale della società.
Particolarmente rilevante è un piccolo cinerario di calcare a forma di tempietto (fig. 199) con semicolonne ioniche, deposto all’interno di un sarcofago di peperino. Un caso analogo, nella necropoli esquilina, è notevolmente più antico: un’urna marmorea, certamente lavoro greco di VI secolo, collocato dentro un contenitore di peperino (fig. 12).
Nel caso di Preneste il corredo, conservato, permette di ricostruire un esempio eccezionale di ideologia funeraria. Come è ovvio, l’urna cineraria a forma di tempio è una chiara allusione alla natura divina del defunto: qualcosa di analogo si può dire per i sarcofagi dei Cornelii a forma di tempio o di altare, descritti in precedenza.
All’interno dell’urna erano deposti un bellissimo strigile (fig. 200) con impugnatura a forma di figura femminile nuda e soprattutto uno specchio graffito (fig. 201), con una scena mitica costituita da quattro figure. Un guerriero armato con corazza, schinieri e scudo sta cingendo la spada: egli è identificato con Aiace dall’iscrizione disposta accanto alla testa. Alla sua destra, una figura femminile nuda, in cui l’apposita scritta permette di riconoscere Teti, sta aiutando il guerriero a indossare le armi. Alla sinistra di Aiace è un’altra donna, che suona la lira (Alcmena), e accanto a questa un sileno accovacciato che beve da una coppa. È anche significativa l’immagine di sirena posta in basso al centro, che regge con le due mani i capi di una corona di alloro che, girando intorno allo specchio, forma la cornice della scena.
L’iconografia è quella utilizzata in genere per la vestizione di Achille con le armi donate da Efesto da parte di Teti: un noto episodio dell’Iliade. La sostituzione di Achille con Aiace e la presenza di Alcmena, la madre di Eracle, è stata spiegata come un tipico caso di incomprensione del mito greco da parte dell’artigiano prenestino. In realtà, appare evidente che l’iconografia tradizionale è stata volutamente
199-202. Preneste, necropoli della Colombella: urna cineraria di calcare (Roma, Museo Barracco); strigile di bronzo figurato (disegno) (Londra, British Museum); specchio di bronzo inciso (disegno) (Londra, British Museum); strigile di bronzo figurato (Roma, Museo di Villa Giulia). adattata a un altro significato. La spiegazione può venire dalla presenza, a prima vista sconcertante, di Alcmena: infatti la madre di Eracle appartiene ovviamente a un’altra generazione rispetto a quella di Aiace. Essa è qui presente in veste di sposa di Radamanto, il mitico giudice dell’Isola dei Beati (cui allude anche l’azione musicale della donna, che dimostra il carattere ultraterreno della scena). Si tratta dunque del supremo atto di giustizia per cui le armi di Achille, rifiutategli in vita per la perfidia di Ulisse, sono assegnate in morte ad Aiace. È la versione del mito cantata nei Sepolcri di Foscolo: «E la marea mugghiar portando / alle prode Retèe l’armi di Achille / sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte». Lo specchio, forse appositamente realizzato per la sepoltura, riflette dunque la cultura del committente: il morto eroizzato, come risulta dall’urna in forma di tempio, è assimilato ad Aiace: potremmo anzi pensare che si tratti dell’«antenato mitico» della famiglia, da considerare tra le più eminenti di Preneste alla fine del IV secolo. Il carattere attualizzante della figurazione, e quindi l’identificazione del defunto con l’eroe, risulta anche dalla presenza della sirena, essere per eccellenza funerario, e dalla corona d’alloro, simbolo trionfale, allusivo alle imprese del personaggio.
11.2. La Cista Ficoroni
Il tipo di oggetto più rilevante tra quelli scoperti nella necropoli di Preneste è la cista: si tratta di un tipo di contenitore bronzeo di forma cilindrica, destinato a custodire il corredo femminile (una sorta di beauty case). Diffuso anche in Etruria, esso è conosciuto soprattutto dai numerosissimi esemplari provenienti dalla necropoli prenestina. Per questo la città, famosa per i suoi artigiani del bronzo, è considerata il centro esclusivo di questa produzione.
Tuttavia, l’esemplare più notevole e famoso, la cista detta «Ficoroni» (figg. 203-208, 210-211) dal nome del suo primo proprietario, risulta prodotta a Roma, come si deduce dalla firma apposta sull’oggetto, unico caso del genere attestato: in assenza di questa, nessuno avrebbe mai dubitato della sua appartenenza a un atelier prenestino, poiché tanto la tipologia, quanto la provenienza dalla necropoli della città laziale indirizzano inevitabilmente verso questa soluzione. Del resto, l’imbarazzo provocato dalla non equivoca attestazione della provenienza romana si manifesta nella rimozione sistematica del problema, così che la cista è ancora presentata come tipico esempio dell’artigianato prenestino (quando non addirittura etrusco).
Per la restituzione di questo straordinario reperto al suo contesto culturale è necessario riprendere in dettaglio tutte le informazioni che esso è in grado di fornire: e in primo luogo insistere sul fatto che, nonostante il suo isolamento, dovuto solo a sfavorevoli circostanze storiche, si tratta di un documento in grado di capovolgere il pregiudizio diffuso sulle dimensioni e sulla qualità dell’artigianato artistico romano nell’epoca in questione.
In primo luogo va sottolineato il carattere eccezionale dell’oggetto, uno dei più grandi e certamente il più alto, qualitativamente, tra la ricca messe di recipienti di questo tipo che ci sono pervenuti: si tratta infatti di quello che conserva più fedelmente le caratteristiche e i livelli dei modelli greci da cui dipende. Allo stesso tempo, non c’è dubbio sul suo carattere artigianale, evidente oltre che per la sua natura di oggetto «di serie», per l’utilizzazione di elementi a tutto tondo (i piedi e il manico figurato) appartenenti ad altra officina, certamente etrusca, come risulta non solo dalle caratteristiche di stile, ma soprattutto dall’iscrizione incisa su uno dei piedi, con il nome del proprietario cui l’oggetto era destinato (Maquovlna = Magulnia): si tratta dunque di un assemblaggio di elementi diversi, e di diversa provenienza. Comunque, anche questo dato conferma l’eccezionalità dell’oggetto, per la menzione del committente non solo nell’iscrizione principale del coperchio, ma anche in parti relativamente secondarie: queste furono infatti espressamente ordinate per l’occasione, ciò che dimostra il carattere unico del prodotto, pur entro una pratica artigianale di serie.
L’iscrizione (fig. 203) conferma in pieno queste osservazioni: essa è incisa sulla base delle tre figure che costituiscono l’impugnatura del coperchio, su due righe parallele, disposte in senso inverso tra
loro. Vi si legge: NOVIOS PLAUTIOS MED ROMAI FECID / DINDIA MACOLNIA FILEAI DEDIT («Novios Plautius mi fece a Roma, Dindia mi donò alla figlia Magulnia»). Si tratta dunque di una signora prenestina, appartenente alla nobile gens locale dei Dindii, che fece dono della cista alla figlia Magulnia (nome anch’esso di spicco): non si tratta dunque di una donna con due gentilizi, e Macolnia va interpretato come un dativo arcaico e corrisponde al nome del marito di Dindia, ovviamente lo stesso della figlia. Siamo in presenza di un dono per nozze, degno del livello so-
ciale dei committenti, che la proprietaria avrà portato con sé nella tomba.
Il nome dell’artista e quello del luogo di produzione è seguito dall’indicazione del committente (da cui si deduce il carattere di dono matrimoniale) e dal nome del destinatario. In altri termini, non si tratta dell’acquisto di un prodotto già fatto, ma di un’ordinazione, per di più in una località diversa da quella dove se ne prevedeva l’impiego: la prima era Roma, la seconda Preneste, come si deduce non solo dal luogo di ritrovamento, ma anche dai due gentilizi menzionati nell’iscrizione, Dindius e Magulnius. In conclusione, la committente preferì servirsi in un atelier romano, invece che in una più accessibile bottega prenestina. I motivi della scelta si spiegano con la circostanza eccezionale del dono, confermata dall’alto livello della committenza, dalla qualità dell’oggetto e dalla presenza della firma. L’indicazione del luogo di fabbricazione, in tale contesto, costituisce certamente garanzia di qualità: dunque, nel IV secolo a.C. una cista fabbricata a Roma era considerata di qualità superiore a una cista fabbricata a Preneste: Roma era quindi il centro di produzione più importante.
Analogo significato ha la firma, che presenta caratteristiche del tutto particolari: in primo luogo, il suo aspetto arcaico, di «oggetto parlante», in cui è la stessa cista che si rivolge al lettore, rimanda a un’epoca piuttosto antica, confermata dall’analisi stilistica, che permette di datare l’opera alla metà del IV secolo a.C., e non alla fine, come in genere si ritiene. Il verbo utilizzato dall’artista, fecid, traduzione del greco epoiese, conferma la forte impronta ellenizzante che distingue questa bottega. L’espressione non sembra riferirsi all’incisore della scena figurata (altrimenti ci aspetteremo, come in uno specchio prenestino, il termine cailavit) ma deve appartenere al «fabbricante», nel senso di responsabile dell’officina, come avviene nel caso della ceramica attica. La presenza della firma non costituisce quindi il segno della personalità artistica, ma una sorta di marchio di fabbrica attestante la qualità del prodotto, ciò che rafforza e conferma le deduzioni precedenti sulla diffusa rinomanza dell’ambiente artistico romano alla metà del IV secolo a.C.
Altre indicazioni si possono ricavare dal nome dell’autore, Novios Plautius: il prenome è chiaramente italico, e sembra attestare una provenienza campana: è probabile che si tratti di un liberto della gens Plautia, di probabile origine tiburtina, la cui presenza nella nobiltà romana è attestata tra il 358 e il 312 a.C. Di conseguenza, è possibile che la bottega romana da cui è uscita la cista fosse collegata con questa nobile famiglia plebea.
Come si è visto, le parti plastiche del recipiente (piedi e impugnatura del coperchio) sono fuse a parte e saldate: la presenza del nome di Magulnia, traslitterato sotto uno dei piedi, permette di attribuirle a un atelier etrusco, diverso da quello dove l’oggetto è stato in seguito assemblato e inciso. I piedi, ricavati dallo stesso stampo, sono costituiti da una zampa di felino a tutto tondo, poggiante su una rana, da cui si dipartono tre figure a rilievo: Eros alato al centro, tra Ercole (caratterizzato dalla pelle di leone e dalla clava) e un altro personaggio giovanile, con lungo mantello, che poggia il mento sulla mano, in atteggiamento pensoso: dovrebbe trattarsi di Iolao, nipote e compagno di Ercole. Uno dei tre piedi è una rozza imitazione, certamente un restauro antico.
L’impugnatura del coperchio è composta da tre figure: Dioniso giovane al centro, in parte coperto da un mantello, con alti calzari. Al collo ha una bulla. Poggia ambedue le braccia sulle spalle di due satiri
203. Iscrizione della Cista Ficoroni.
A fronte: 204. Preneste, necropoli della Colombella: Cista Ficoroni (Roma, Museo di Villa Giulia).
205. Cista Ficoroni: disegno del coperchio.
itifallici – riconoscibili dalle orecchie caprine e dalla pelle di pantera – disposti ai suoi lati, che a loro volta appoggiano un braccio (rispettivamente il sinistro e il destro) sul dorso del dio. Lo stile di queste figure è quello, caratteristico, della piccola bronzistica etrusca di età tardo-classica.
Il coperchio circolare (figg. 205-206) presenta una decorazione incisa: nel cerchio centrale, intorno a un motivo floreale schematico, due grifi affrontati a due leoni. Si tratta anche in questo caso di un restauro antico. La fascia circostante rappresenta una scena di caccia a cervi e a cinghiali.
La scena più importante, incisa sul corpo della cista, compone un fregio continuo, inquadrato da fasce decorative: in alto teste di Medusa tra palmette diritte e rovesce; in basso, sfingi tra palmette.
La rappresentazione figurata (figg. 207-208, 210211) illustra un raro mito, quello della sosta degli Argonauti nel paese dei Bebrici, in Bitinia, dove regnava Amico, un gigante selvaggio, figlio di Poseidone, che sfidava gli stranieri al pugilato e li uccideva. In questo caso, egli dovette soccombere alla superiore abilità di Polluce. Al centro è presentata la conclusione della lotta: il vincitore, Polluce, sta legando a un albero lo sconfitto Amico, mentre una piccola Vittoria vola da destra verso di lui per coronarlo. Si tratta di una versione del mito (quella scelta da Teocrito) in cui il re sconfitto non viene ucciso: l’altra variante appare invece nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.
Ai lati, due gruppi assistono alla scena: a destra, Athena, la dea tutelare degli Argonauti, riconoscibile dall’egida, con la lancia ma priva di elmo. Seguono due personaggi, uno seduto e l’altro in piedi, visti di dorso, ambedue armati di lancia: si tratta probabilmente di Argonauti: quello seduto è forse Castore.
A sinistra, altri due uomini: il primo seduto su un’anfora, barbuto e di aspetto selvaggio, potrebbe identificarsi con il fratello di Amico, Mygdon; il secondo, in piedi, anch’esso barbuto e munito di grandi ali, poggia il gomito sinistro sulla gamba sollevata e sostiene con la mano il mento, nell’atteggiamento del «pensatore». Un personaggio molto simile, in uno specchio etrusco da Vulci (fig. 209), ai Musei Vaticani, raffigura Calcante (designato col nome) come aruspice. È chiaro quindi che nel nostro caso non può che trattarsi di un indovino, da identificare con Mopso, che in effetti partecipò all’impresa degli Argonauti: egli aveva dunque previsto il risultato dello scontro.
Ancora più a sinistra, segue un’altra coppia di personaggi. Quello di destra, visto di spalle, con due lance, cinge il collo del secondo, anch’egli con due lance ed il capo coperto da un berretto (pilos), che alza la gamba sinistra piegata, poggiandola su una pietra: potrebbe trattarsi di Giasone, che talvolta, nella ceramica apula, porta il pilos (berretto che caratterizza i marinai), e che soprattutto è rappresentato armato di due lance (Pindaro, Pitiche, 4, 78).
Il resto del fregio presenta un’altra scena, che forse precede: vediamo la poppa della nave Argo attraccata alla riva, su cui sono rimasti tre giovani: uno accovacciato, un altro supino, profondamente addormentato, mentre un terzo sta prendendo un otre. Da una scaletta sta scendendo un quarto personaggio, con un cesto nella sinistra e una botticella nella destra; un quinto, seduto davanti alla nave, ha un remo sulle ginocchia. Segue un altro giovane che si esercita con un sacco al pugilato (Polluce che si prepara allo scontro con Amico?), osservato da un sileno seduto a terra, coperto da una pelle di animale, che ne imita ridendo le mosse. Nei pressi è la fontana, con l’acqua che sgorga da una testa leonina entro un’anfora poggiata a terra, accanto alla quale
206. Cista Ficoroni: il coperchio e l’impugnatura figurata, con Dioniso e satiri.
207. Cista Ficoroni, dettaglio con la nave degli Argonauti. A fronte: 208. dettaglio con scena di pugilato e sileno.
209. Specchio di bronzo inciso con scena di aruspicina, da Vulci (Roma, Musei Vaticani). A fronte: 210. Cista Ficoroni, dettaglio con Amico e Athena.
è appesa una coppa ansata (kylix), chiaramente dipinta. Da una coppa analoga sta bevendo un giovane in piedi, armato di lancia, mentre un altro tiene per l’ansa un’anfora appena riempita. Sopra di questo è sdraiato su una roccia un ragazzo, da identificare con il genio del luogo. Tutta la scena allude chiaramente al motivo dello sbarco, l’approvvigionamento d’acqua che, negato, provocherà lo scontro con Amico.
La complessa scena, che si svolge entro un paesaggio impervio, indicato sommariamente con quinte di roccia, alberi e arbusti, deriva certamente da un modello della grande pittura greca. La composizione, costruita con grande perizia, è centrata sull’albero e sulla figura di Amico: intorno a questo nucleo, le figure del gruppo principale si dispongono in modo bilanciato, tre a sinistra e tre a destra, componendo un cerchio chiuso alle estremità da due personaggi barbuti, che si appoggiano su lance divergenti verso l’esterno. La profondità spaziale è accentuata da frequenti scorci, tanto delle figure umane, quanto degli oggetti (ad esempio, le anfore). Tutti rivolgono lo sguardo verso il centro della composizione, accentuando il senso di tensione sospesa che questa trasmette. La minore euritmia degli altri gruppi fa pensare che il modello pittorico di origine fosse più ampio e complesso, e che sia stato amputato per adattarlo al corpo della cista. Tale modello, per il libero atteggiarsi delle figure, rese con scorci potenti, con linee che non servono solo a segnare i contorni, ma indicano il girare dello spazio, va collocato nei decenni finali del V secolo, nell’ambiente artistico rappresentato da grandi pittori come Zeusi e Parrasio. La relativa frequenza con cui il soggetto appare nella pittura vascolare apula (mentre è piuttosto raro in quella attica) e le indubbie affinità di stile con essa farebbero pensare a un modello proveniente da Taranto, analogamente a quanto avviene nella ceramica dipinta prodotta a Roma e nel Lazio a partire dalla fine del IV secolo a.C.
Proprio a proposito di Parrasio, Plinio (Storia Naturale, XXXV, 68) ricorda che «restano di lui molti disegni su tavola e su pergamena, a cui si dice che gli artisti si ispirino»: alla circolazione di modelli del genere si deve la larghissima diffusione di temi iconografici, quali quello ripreso nella cista, dove se ne può valutare anche la notevole qualità stilistica. Singoli motivi di composizioni analoghe appaiono anche in altre ciste, e soprattutto negli specchi incisi, per lo più di livello molto inferiore, come quello con lo stesso soggetto – Polluce e Amico prima dello scontro – che, certo non casualmente, faceva parte del corredo della tomba da cui proviene la Cista Ficoroni. In un caso almeno, il già citato specchio con Calcante da Vulci (fig. 209), possiamo constatare anche una precisa analogia stilistica con la decorazione della cista, per la quale esso costituisce il confronto migliore.
Queste osservazioni rendono difficile accettare la datazione corrente agli ultimi decenni del IV secolo: lo specchio vulcente infatti appartiene all’inizio del IV secolo, ed è quindi cronologicamente abbastanza vicino ai modelli greci dai quali dipende. Del resto, anche le parti plastiche della cista sono molto simili per stile alla bronzistica etrusca della prima metà del IV secolo. Proporre, all’interno di un simile quadro, una datazione diversa per il fregio inciso non avrebbe senso, dal momento che esso dipende direttamente, come si è visto, dalla grande pittura greca degli ultimi decenni del V secolo, mentre non vi appare alcuna traccia di stilemi ellenistici. La cronologia della cista non può scendere, di conseguenza, oltre la metà del IV secolo, senza escludere neppure una data un po’ più alta.
Restano da comprendere i motivi della scelta di un soggetto così raro e particolare: va escluso, infatti, che esso sia privo di un significato particolare, per almeno due motivi. In primo luogo, la predilezione per lo stesso tema mitico si deduce dalla sua ripetizione nello specchio deposto come parte del corredo nella stessa tomba, dove sono rappresentati Polluce e Amico in procinto di scontrarsi, alla presenza della dea Luna (Losna). È da notare il livello men che mediocre di questo oggetto e la sua data notevolmente più tarda rispetto alla cista: questa, di conseguenza, dovette essere deposta nel corredo sepolcrale molto tempo dopo la sua fabbricazione (un uso prolungato si deduce con certezza dalla presenza di restauri antichi). L’aggiunta dello specchio con un episodio
211. Cista Ficoroni, restituzione grafica della decorazione figurata. dello stesso mito non può essere casuale, e conferma la sua importanza per la persona sepolta.
In ogni caso, è evidente che la cista non faceva parte dei prodotti già pronti, disponibili nella bottega dell’artigiano: come abbiamo visto, si tratta di un oggetto realizzato espressamente in seguito a una precisa ordinazione da parte di un committente di alto livello sociale, che dobbiamo immaginare esigente e dotato di notevole cultura. Che cosa poteva significare un soggetto mitico del genere in un beauty case realizzato come dono di pregio in occasione di un matrimonio?
La scena, come sappiamo, rappresenta un episodio particolare del mito degli Argonauti, in cui il ruolo principale sembra appartenere non a Giasone, ma ai Dioscuri, e in particolare a Polluce. I gemelli divini riappaiono anche in altre ciste, con la funzione di referenti mitici del mondo giovanile della palestra.
Sappiamo con certezza che la loro presenza nel Lazio è precocissima: tra l’altro, con la funzione di divinità tutelari di centri importanti come Tuscolo, da dove furono importati a Roma all’inizio del V secolo. La più antica attestazione proviene da Lavinio, in un’iscrizione votiva non posteriore alla fine del VI secolo a.C. Nel nostro caso, la particolare enfasi narrativa che caratterizza la scena mitica non può forse spiegarsi solo in rapporto alla funzione dell’oggetto su cui essa è rappresentata. Come sappiamo, esso faceva parte del corredo di nozze di una nobile
prenestina, Magulnia: va ricordato che il matrimonio aristocratico, a Roma e nel Lazio, si traduceva essenzialmente nel trasferimento nella nuova casa degli attributi ideologici fondamentali della gens di origine: per così dire, dei suoi penati. È possibile pensare, cioè, che in questo caso potesse trattarsi degli antenati del gruppo gentilizio della sposa: sappiamo che tali origini mitiche erano diffusissime in Italia, anche se ignoriamo tutto per quanto riguarda le gentes del Lazio (su Roma siamo un po’ meglio informati). In ogni caso, non è forse azzardato proporre, in via di ipotesi, che i Magulnii riconoscessero nei Dioscuri i loro antenati mitici.
11.3. Artigianato prenestino e artigianato romano
Tra le ciste scoperte a Preneste emerge un esemplare diverso dagli altri, di forma parallelepipeda (figg. 212-214). Le parti fuse comprendono quattro piedini, a forma di zampa bovina, su cui posano due cigni affrontati. Ai quattro angoli del coperchio sono disposte protome di grifi. Il manico è costituito da una figura di uomo nudo, rovesciato all’indietro.
Le quattro facce sono decorate, in alto, da un tralcio di alloro, in basso da un tralcio di edera. In una delle facce minori, inquadrato da due colonne tuscaniche, si riconosce Ercole nudo, disposto frontalmente, con le gambe incrociate e la testa di profilo a sinistra, coronata di alloro. Un mantello passa sul braccio sinistro e ricade dietro le spalle. Nella destra tiene una coppa e con la sinistra si appoggia alla clava, poggiata a terra.
Nell’altro lato minore appare Mercurio nudo, inquadrato da due colonne simili. Il mantello, ripiegato sul braccio sinistro, ricade dietro il corpo. Il dio tiene il caduceo nella mano destra abbassata, mentre il copricapo alato (petaso) è rappresentato a destra in alto.
Su uno dei lati maggiori (fig. 214) sono rappresentate tre figure: a sinistra un giovane imberbe (verosimilmente Apollo), coronato di alloro, con alti calzari e con la parte inferiore del corpo avvolta in un mantello: il dio siede su una roccia ed è rivolto verso destra. Verso di lui si rivolge, al centro della scena, una figura forse femminile (la Pizia?), avvolta in un manto da cui sporgono solo le dita della mano destra e la testa coronata di alloro. Sulla destra è un altro giovane imberbe, rivolto a destra, con la parte inferiore del corpo avvolta in un mantello, che tiene sollevato con la mano sinistra. In alto a sinistra, due uccelli affrontati si sfiorano con il becco.
Sul lato opposto (fig. 212), due personaggi femminili alati sono rivolti verso il centro, occupato da una fontana con bacino circolare. La figura di sinistra è nuda, con una collana a tre bulle e alti calzari; nella sinistra tiene uno specchio nel quale si riflette il suo viso. Un sileno nudo, semisdraiato dietro la fontana, allunga la mano destra per toccarle il sesso. La figura di destra veste un mantello lungo fino ai piedi. Si tratta di una versione particolare della scena della «toletta femminile» che riappare in numerosi specchi e ciste prenestini, e che introduce il tema «prematrimoniale» della bellezza e del sesso (rappresentato esplicitamente dal gesto del sileno). Qui però le figure femminili sono alate, e rimandano quindi a un contesto «non reale», che si potrebbe forse collegare con il mito della fondazione di Preneste.
La parte più interessante della cista è il coperchio (fig. 213), dove appare una scena più complessa. Il lato destro è occupato da un gruppo di tre persone: un giovane con corazza anatomica, il petaso sulle spalle e una lancia nella destra, avanza verso sinistra, tenendo un cavallo per le briglie. Segue un guerriero con elmo e corazza a lamine, che tiene una lancia nella destra e si volge indietro, verso il terzo personaggio: questi è un giovane vestito di clamide, che alza il braccio destro e sembra conversare con la persona che lo precede. Nella metà sinistra, un secondo gruppo di tre personaggi è occupato in un’operazione comune: due di essi sono identici, imberbi e con lunghi capelli, coperti da una toga senza tunica, che lascia scoperto parte del torso e il braccio destro. Il primo a destra si volge verso il gruppo di armati, mentre l’altro si china verso il terzo, portando la mano destra alla testa, pensieroso, e allungando la mano sinistra per prendere un oggetto di forma rettangolare che gli viene teso dall’ultimo personaggio. Questo, a giudicare dalle dimensioni, è un ragazzo, che sporge a mezzo busto da una cavità del terreno: una pianta, al di sopra, indica che la scena si svolge in un ambiente naturale.
Si tratta certamente di una rappresentazione dell’oracolo della Fortuna di Preneste: il migliore commento alla scena è infatti il celebre passo del De divinatione di Cicerone (II, 41), in cui si descrive l’origine dell’oracolo e il suo funzionamento:
212. Preneste, necropoli della Colombella: cista quadrangolare con geni alati femminili e sileno alla fontana (Roma, Museo di Villa Giulia).
213-214. Preneste, necropoli della Colombella, cista quadrangolare con geni alati femminili e sileno alla fontana: coperchio con scena di oracolo; scena con tre personaggi. Alle pagine seguenti: 215-216. Preneste, necropoli della Colombella: specchio inciso con coppia in conversazione; specchio inciso con eroti che attaccano un leone (Roma, Museo di Villa Giulia). I documenti pubblici di Preneste affermano che un certo Numerio Suffustio, uomo nobile e onesto, fu indotto da sogni frequenti, e in ultimo anche minacciosi, a scavare la roccia in un luogo preciso. Spaventato da queste visioni, tra i lazzi dei concittadini, cominciò a scavare: così dall’apertura della roccia apparvero le sorti, tagliate nella quercia con antiche lettere incise. Qui si trova il luogo, ancora oggi recinto da limiti sacri, accanto alla statua di Giove fanciullo, che siede in grembo alla Fortuna e viene allattato insieme a Giunone: il suo culto è celebrato con grande venerazione dalle madri. Si tramanda inoltre che contemporaneamente, nel luogo dove è ora il tempio della Fortuna, un olivo trasudasse miele, e gli aruspici affermarono che quelle sorti sarebbero state le più famose. Per loro consiglio, con quell’olivo fu costruita una cassetta in cui furono riposte le sorti, che ancora oggi vengono estratte su ispirazione della Fortuna. Ma cosa vi può essere di sicuro in queste, che per ispirazione della Fortuna vengono mescolate ed estratte dalla mano di un fanciullo?
Ora, nella cista vediamo precisamente un ragazzo che emerge da una cavità con una tavoletta (una sorte!) in mano: un sacerdote la riceve da lui, mentre un altro (o lo stesso, rappresentato una seconda volta?) si volge a comunicare le prescrizioni dell’oracolo al gruppo dei postulanti, che rappresentano le varie classi dell’esercito (cavalleria, fanteria, giovane appena arruolato). Sembra probabile, di conseguenza, che la forma della cista, del tutto anomala, possa essere spiegata come imitazione dell’arca di legno di olivo in cui si conservavano le sorti della Fortuna.
Come è stato riconosciuto:
Sembra dunque di poter riconoscere in questa scena una rappresentazione [in cui] si costruiscono, tramite un omen o un oracolo, le tappe e il destino vittorioso delle nuove generazioni con particolare riferimento alla paideia maschile […] Le altre scene della cista, comprendenti Hermes, Eracle e Apollo, mi sembrano facilmente inquadrabili nella prospettiva suddetta […] Come si vede, si tratta delle stesse divinità per le quali si è già segnalata la stretta relazione col mondo efebico e giovanile, anche in relazione alla palestra. (Mauro Menichetti)
Le botteghe specializzate nella produzione delle ciste estendevano la loro attività anche ad una serie numerosa di prodotti di minore impegno, come soprattutto gli specchi, la cui decorazione era incisa sulla faccia posteriore, non riflettente. La loro forma, circolare, assume, per la presenza di un prolungamento inferiore, un aspetto caratteristico, «a pera», che li differenzia dagli specchi etruschi, perfettamente circolari. I soggetti sono spesso analoghi a quelli delle ciste, ma ovviamente più sintetici: non mancano però, specialmente nei prodotti più tardi, scene «di genere», ispirate all’arte ellenistica contemporanea. Così, in un esemplare ora al Museo di Villa Giulia (fig. 215), un soggetto, forse mitologico, assume le parvenze del corteggiamento di un giovane nudo a una dama interamente vestita, seduta su un ricco trono, che si protegge dal sole con un leggiadro ombrellino. In un altro specchio (fig. 216) un gruppo di amorini che dà la caccia a un leone illustra un tema aneddotico, tante volte ripetuto nelle scene «di genere» che si ripetono, su pitture e mosaici, fino all’avanzata età imperiale. Si tratta, in entrambi i casi, di prodotti relativamente tardi, attribuibili alla seconda metà del III secolo a.C.
Tra le appendici plastiche di oggetti d’uso, spiccano soggetti di lieve eleganza, come i due esseri alati, che servono da manico al coperchio di una cista, o le impugnature di alcuni strigili, costituite da agili figurette femminili (figg. 200, 202), che si ispirano alle realizzazioni del primo ellenismo.
Sempre nell’ambito della plastica in bronzo, vanno ricordati alcuni oggetti eccezionali, teche di specchio o guanciere di elmi (figg. 217-219): una di queste ultime presenta una scena di lotta tra un greco e un’amazzone, di qualità tale da far pensare a un oggetto di importazione da un atelier della Magna Grecia (Taranto?). Il solido impianto plastico delle due figure, che divergono con movimento violento, accentuato dallo schema a V, contrasta con il grafismo ornamentale delle vesti: motivi stilistici questi che si affermano in un momento compreso tra la fine del V e la prima metà del IV secolo a.C., raggiungendo il loro culmine nell’arte di Timotheos. Questo prodotto di altissimo artigianato si colloca, di conseguenza, verso la metà del IV secolo.
La ragionevole ipotesi che nel Lazio esistessero, anche fuori di Preneste, botteghe specializzate nella fabbricazione di oggetti di bronzo (in particolare di specchi, ma certamente anche di ciste, come abbiamo visto) può essere confermata da varie considerazioni.
Particolarmente importante la scoperta, avvenuta nel 1957 a Tusculo, di una tomba che, in base alle iscrizioni incise sui cinerari in tufo, va attribuita alla gens locale dei Rabirii. Un cinerario in terracotta
217-218. Preneste, necropoli della Colombella: paragnatide di elmo di bronzo con rappresentazione di Ercole (Palestrina, Museo Archeologico); paragnatide di elmo di bronzo con combattimento tra un guerriero e un’Amazzone.
grezza era chiuso da una teca di specchio in bronzo, decorata con cerchi concentrici a sbalzo. Due specchi di tipo «prenestino» facevano parte dei corredi (figg. 221-222): su uno di questi, che conserva resti di doratura, è rappresentato un personaggio maschile a cavallo, accanto al quale è una stella a otto punte. Una doppia linea serpeggiante in alto indica il cielo: si tratta certamente di uno dei Dioscuri. L’altro specchio, anch’esso con resti di doratura, presenta una decorazione incisa con tre figure: due di queste, rispettivamente maschile e femminile, sedute ai lati, si fronteggiano, mentre una terza, femminile, in piedi, occupa il centro della composizione. A destra è rappresentata una fontana, su cui poggia una colomba. È possibile che si tratti di un «giudizio di Paride», anche se in tal caso mancherebbe una figura. La ceramica presente nei corredi permette di datare la tomba agli anni compresi tra la fine del IV e i primi decenni del III secolo a.C. La relativa modestia degli oggetti fa pensare che non si tratti di prodotti importati, come sembra confermato dalla rappresentazione di uno dei Dioscuri, il cui culto, come è noto, era il più importante della città. In conclusione, questa scoperta sembra confermare la presenza di atelier di bronzisti a Tusculo, a cui questi oggetti vanno attribuiti. Non si capisce del resto perché dovremmo negare questa possibilità a un centro del Lazio di importanza equivalente a quella di Preneste.
Lo stesso problema si pone per uno specchio (fig. 223), ritenuto proveniente da Bolsena, databile poco dopo la metà del IV secolo a.C., in cui è rappresenta-
A fronte: 219. Preneste, necropoli della Colombella: coperchio di specchio in bronzo con Athena ed Encelado.
220. Bolsena, specchio bronzeo etrusco (disegno) con Cacu, Aulo e Celio Vibenna (Londra, British Museum).
to il mito della lupa e dei gemelli. Non è qui il caso di discutere i complessi problemi che pongono i personaggi disposti intorno alla scena principale: quello che interessa è proprio la presenza della lupa, che qui appare per la prima volta. I dubbi che sono stati avanzati sull’autenticità dell’oggetto non hanno ragione di esistere, davanti all’assoluta coerenza stilistica della rappresentazione. Altrettanto discutibile è la sua attribuzione a bottega prenestina: la forma allungata, «a pera», è certo quella degli specchi di Preneste. Ma l’esistenza di prodotti analoghi anche a Tuscolo rende probabile che si tratti in realtà di una caratteristica comune anche ad altri atelier del Lazio. Nel nostro caso, nulla obbliga ad accettare l’attribuzione corrente: né la provenienza, né tanto meno il soggetto. Non si comprende infatti la ragione per cui quest’ultimo, un mito ovviamente romano, avrebbe dovuto interessare una bottega prenestina. L’esistenza a Roma di botteghe di bronzisti di altissimo livello non richiede dimostrazione, in presenza della Cista Ficoroni, firmata da Novios Plautios. Non resta che identificare nello specchio con il Lupercale l’opera di un atelier romano contemporaneo.
È interessante notare che dallo stesso territorio di Volsinii proviene uno specchio (fig. 220), questa volta etrusco, ma decorato con una scena che sembra di nuovo collegata a Roma, databile intorno al 300 a.C., dove i personaggi sono identificati da iscrizioni. Davanti a una grotta, inquadrata da alberi, è seduto Cacu, di sembianze apollinee, in atto di suonare la lira. Il carmen che egli sta cantando viene trascritto su tavolette da un giovane seduto accanto, Artile: Cacu è dunque un indovino, e la scena una cerimonia di divinazione. Ai due lati avanzano, non visti, due uomini armati (Aulo e Celio Vibenna), che si apprestano ad attaccare Cacu. Dietro una roccia fa capolino un satiro, che potrebbe essere Marsia o Fauno.
La scena, che sembra ambientata a Roma, fa parte di un tipo diffuso di episodio mitico, che potremmo chiamare «ratto dell’indovino»: lo scopo dell’azione è quella di appropriarsi di un segreto, indispensabile per la conquista di una città. L’episodio più noto è il ratto di Eleno da parte di Ulisse e Diomede, per conoscere le condizioni necessarie per la conquista di Troia. Il motivo riappare anche in episodi della pseudostoria romana, come quello dell’aruspice di Veio, narrato da Livio (V, 15), che avrebbe spiegato ai Romani il motivo del subitaneo accrescimento del Lago di Albano e il modo di conquistare la città. La descrizione è incredibilmente simile a quella dello specchio: due romani rapiscono il vecchio, che sarà obbligato a rivelare l’arcano a Camillo. Emerge qui lo stretto rapporto tra l’assedio di Veio e l’assedio di Troia, su cui insistono le fonti antiche.
Il soggetto appare così sufficientemente chiarito: i due eroi vulcenti stanno per strappare all’indovino Caco (evidentemente presentato come romano) il segreto che permetterà loro la conquista della città. Il modello greco viene così applicato alla situazione locale: Roma infatti è la nuova Troia, come è chiarito
A fronte: 221. Tusculum, Tomba dei Rabirii: specchio di bronzo inciso con cavaliere (Roma, Museo delle Terme). 222. Tusculum, Tomba dei Rabirii: specchio di bronzo inciso con tre figure (Roma, Museo delle Terme). 223. Bolsena, specchio di bronzo con il Lupercale (Roma, Antiquarium Capitolino).
224. Preneste, necropoli della Colombella: lastrine di osso di un cofanetto con rappresentazione di due guerrieri (Roma, Museo di Villa Giulia). 225. Preneste, necropoli della Colombella: lastrine in osso di un cofanetto con guerrieri e figure femminili (Roma, Museo di Villa Giulia).
dagli affreschi già esaminati della Tomba François, dove appare un altro episodio della saga dei fratelli Vibenna. Ancora una volta, cogliamo qui il particolare sistema di narrazione etrusco, che mescola epoche diverse, personaggi mitici con personaggi reali, nell’ambito di una visione storica di tipo ciclico, basata sulla teoria dei saecula.
Tornando alla documentazione prenestina, tra gli oggetti che costituivano i corredi delle tombe vanno considerati anche quelli realizzati in osso, destinati in origine a rivestire cofanetti o altri oggetti di legno. Si tratta di un uso che a Palestrina inizia già in età arcaica, e si prolunga fino al periodo tardorepubblicano.
In un gruppo di quattro lastrine (fig. 224), unite due a due, sono rapprsentati due guerrieri, muniti di corazza anatomica, mantello fissato da una fibula circolare, elmo con grande cimiero, schinieri e scudo rotondo. La lancia, impugnata verticalmente, serve per mascherare il punto di giunzione delle lastrine. Si tratta del tipico armamento oplitico, introdotto in Grecia già nel corso del VII secolo a.C., e che permane, quasi immutato, fino al IV. Di conseguenza, ogni datazione successiva al IV secolo può essere esclusa, anche se non sono mancati tentativi di abbassarla addirittura fino al I secolo: questo si deduce, ad esempio, dalla descrizione, dovuta a Polibio, dell’armamento dell’esercito romano tra il III e il II secolo, che risulta del tutto diverso. In effetti, poiché i Prenestini utilizzavano armi analoghe a quelle dell’esercito romano, il loro equipaggiamento non poteva differire sensibilmente da quello dei legionari. Gli elementi stilistici confermano questa cronologia: caratteristiche ancora di ascendenza «severa», come il mento rotondo e pesante, gli occhi grandi e sbarrati, si combinano con il modo ornamentale, grafico di rendere i particolari, come i capelli e il panneggio: si tratta di banalizzazioni di uno stile diffuso in Etruria in prodotti databili agli ultimi decenni del V secolo, come le statue e le urne di Chiusi, che si prolunga e diffonde nel mondo italico nel corso della prima metà del IV secolo a.C.
La presenza di armati nella decorazione di oggetti quasi certamente femminili, come i cofanetti, destinati con tutta probabilità a contenere gioielli, non deve stupire: essa si ritrova anche nella decorazione incisa di ciste e specchi, ma posta accanto a motivi di «iniziazione» femminile, come le scene di toletta alla fontana. Nel caso presente, la conservazione solo di una parte ridotta dell’oggetto non permette di sapere se si tratta di un caso analogo.
Il dubbio scompare nel caso di un secondo gruppo di sei lastrine d’osso (fig. 225) che, anche se costituiscono solo una parte dell’insieme originario (come si deduce dalla sicura mancanza di alcuni elementi) ci documentano una situazione più complessa. Riappaiono anche in questo caso tre guerrieri, con armamento del tutto simile a quello esaminato prima, ma accanto a questi tre figure femminili, in due casi vestite di tunica e mantello, in un caso di sola tunica. Le prime due hanno un diadema e reggono in una mano un oggetto circolare, la terza ha una collana di bulle e tiene nella sinistra un fiore di loto. Si trattava in origine di un insieme più complesso, che comprendeva un numero maggiore di personaggi, ora impossibile da ricostruire. In ogni caso, dobbiamo pensare a una scena cerimoniale, probabilmente di carattere religioso.
Il livello è più scadente rispetto al gruppo di lastrine esaminato in precedenza, e dimostra l’esistenza a Palestrina di botteghe più modeste, che operavano probabilmente per una committenza «media».
226. Pocolom con il nome di Cerere (Keri) (Roma, Musei Vaticani). 227. Pocolom con il nome di Laverna (Roma, Musei Vaticani).
A fronte: 228. Piatto a vernice nera da Capena, con elefantessa da guerra con il piccolo (Roma, Museo di Villa Giulia).
In ogni caso, gli elementi antiquari sono del tutto simili, e quindi anche la datazione, che va fissata nella prima metà del IV secolo a.C.
11.4. La produzione ceramica a Roma e nelle colonie romane
Alcuni tipi di ceramica di grande diffusione a partire dal IV secolo, come i piattelli su piede detti «di Genucilia» (decorati al centro con teste femminili, o con semplici elementi stellari), ritenuti prodotto esclusivo dell’Etruria meridionale, sono stati fabbricati anche a Roma: del resto, è latina la denominazione del piattello eponimo, che deriva da un esemplare con dipinto il nome di una donna, Genucilia appunto. Lo stesso si può dire nel caso della ceramica tarda a figure rosse o sovradipinta, il cui centro di produzione principale si colloca comunque in una città vicinissima a Roma come Falerii (Civitacastellana).
Ma è soprattutto notevole che il primo caso di produzione di ceramica a vernice nera a carattere «industriale», che precede le grandi fabbriche di Napoli, dell’Etruria e della Sicilia (dominanti a partire dall’inizio del II secolo a.C.) è proprio una classe prodotta a Roma o negli immediati dintorni, denominata «atelier dei piccoli bolli»: si tratta di un prodotto che, a partire dagli anni finali del IV secolo e per i primi decenni del III, si diffonde largamente in tutto il Mediterraneo occidentale. È importante sottolineare che tale area di diffusione (oltre all’Italia centrale intorno a Roma, costa orientale della Corsica, coste del Golfo del Leone fino alla Catalogna, Sicilia occidentale sotto il dominio cartaginese, territorio africano di Cartagine, da Utica a Leptis Magna) corrisponde precisamente alle zone concesse al commercio romano dal trattato romano-cartaginese del 279 a.C. Dal momento che la ceramica non costituisce in sé un prodotto di importanza strategica, ma solo il carico di accompagnamento di merci ben più rilevanti, ne risulta che il commercio romano di esportazione aveva raggiunto livelli e diffusione significativi già a partire dalla fine del IV secolo a.C. Non si può non vedere il rapporto tra questo e altri fenomeni paralleli, come ad esempio la prima coniazione romana dell’argento.
Anche dal punto di vista della cultura figurativa tali dati sono rilevanti: si può dimostrare, attraverso di essi, la pertinenza dei cosiddetti pocola deorum
(figg. 226-227) ad ambiente romano, dal momento che si tratta semplicemente di vasi dell’«atelier dei piccoli bolli» sovradipinti e con iscrizioni in latino. Lo stile delle decorazioni (che vanno dalle semplici figurette umane agli elefanti) si inserisce in una temperie tardo-classica ed ellenistica, coerente con quanto sappiamo della pittura a Roma all’epoca di Fabio Pittore.
Questi vasi – per lo più ciotole, ma anche brocchette e più raramente piatti – sono caratterizzati da un’iscrizione dipinta, con la dedica a una divinità, seguita dalla parola pocolom («vaso») e da una decorazione dipinta sulla vernice nera. Le ciotole appartengono chiaramente all’«atelier dei piccoli bolli».
Per identificare il luogo di fabbricazione soccorrono i nomi delle divinità, che appaiono sui vasi: a parte il nome di due che si riferiscono a culti incerti, troviamo alcuni nomi di divinità arcaiche: Laverna, Vesta, Vulcano, Fortuna, Cerere, Saturno, Giunone, Minerva; altri appartengono invece a divinità importanti a Roma tra il IV e i primi anni del III secolo a.C.: Concordia, Salus, Bellona, Venere, Esculapio. Particolarmente notevole è la presenza delle ultime quattro, alle quali sono stati dedicati templi a Roma in appena una dozzina d’anni, tra il 303 e il 291 a.C., e soprattutto quella di Esculapio, dio introdotto direttamente da Epidauro nel 292 a.C.: la datazione del pocolom, di pochissimo posteriore alla costruzione del tempio nell’Isola Tiberina, esclude la possibilità del riferimento a un culto diverso da quello di Roma.
La circostanza che tutti gli esemplari, tranne due, provengano da località esterne a Roma, sia pure a non grande distanza da essa, e per di più facciano parte del corredo di tombe, esclude l’identificazione con oggetti votivi. È probabile che si tratti di semplici oggetti-ricordo, acquistati negli stessi santuari della città. La presenza di fori di sospensione sembra confermare questa possibilità.
Alla stessa classe si possono attribuire alcuni piatti (finora due esemplari conosciuti: da Capena e da Aleria in Corsica) e un pocolom da Norchia, che presentano la stessa decorazione sovradipinta in bianco, rosso e giallo: un’elefantessa seguita dal suo piccolo e guidata da un cornac, che trasporta sul dorso una torre con due guerrieri (fig. 228).
La presenza di elefanti da guerra su ceramica di produzione romana ha fatto naturalmente pensare a Pirro, il primo che introdusse in Italia questa particolare arma, che in un primo tempo terrorizzò l’esercito romano. È da notare che un elefante appare anche in lingotti monetali di bronzo (aes signatum) più o meno contemporanei. È possibile di conseguenza che la datazione di questi esemplari sia da fissare poco dopo l’inizio dell’impresa di Pirro (280 a.C.), anche se non si può escludere che si tratti di un semplice motivo iconografico, introdotto indipendentemente da ogni precisa circostanza storica.
Ad officina romana si può attribuire anche un gruppo di ciotole a vernice nera, denominato «Heraklesschalen» per la presenza sul fondo di un bollo a rilievo con la rappresentazione di Ercole con la pelle di leone, la clava e un vaso a due anse (kantharos). Il tipo è databile alla seconda metà del III secolo ed è una chiara attestazione dell’importanza della divinità a Roma in questo periodo.
Alla più antica colonia latina, Cales (fondata nel 334 a.C.), appartiene una notevole produzione di ceramica a rilievo, denominata per questo «ceramica calena». La sicura localizzazione delle fabbriche, attive per tutto il corso del III secolo, è dimostrata dal ritrovamento nella stessa località di matrici impiegate nella realizzazione di questo particolare prodotto. Inoltre, dalle firme (in latino) degli artigiani, che si definiscono Caleni e talvolta indicano il luogo stesso di fabbricazione: Calebus («a Cales»). Ad esempio: L. Canoleios L. f. fecit Calenos («Lucio Canuleio, figlio di Lucio, di Cales (mi) ha fatto»); Retus Gabinio(s) C. s. Calebus fec(it) te («Retus Gabinius, schiavo di Gaio (mi) ha fatto a Cales»); K(aeso) Serponio(s) Caleb(us) fece(t) veqo Esqelino C. s. («Kaeso Serponius schiavo di Gaio (mi) fece a Cales nel quartiere Esquilino»). È significativa, in quest’ultima iscrizione, l’indicazione (di cui ci siamo già occupati) di un quartiere della colonia, che prende nome dall’Esquilino: chiaro indice di imitatio Romae.
Tuttavia, lo sviluppo della ceramica ellenistica a rilievo in Italia non coinvolge naturalmente questo unico centro: si tratta in realtà di una produzione diffusa anche in Etruria, e ciò ha fatto pensare che tra i coloni romani inviati a Cales vi fossero anche degli Etruschi. Ma è sicura anche la presenza dell’artigianato campano: prodotti analoghi provengono da Teano, centro vicinissimo a Cales.
Le forme, prodotte dagli stessi atelier, sono sostanzialmente tre: le patere ombelicale con decorazione disposta circolarmente, le coppe con medaglione centrale figurato e le forme chiuse (gutti e askoi) (fig. 229).
Si tratta in sostanza di repliche a buon mercato, destinate a un largo pubblico, di argenterie greche. Ciò è dimostrato nel caso delle coppe ombelicate
229. Guttus a vernice nera con testa di Helios (Roma, Antiquarium del Foro Romano).
con rappresentazione dell’apoteosi di Eracle, da due coppe d’argento (al Metropolitan Museum di New York), probabilmente di produzione siracusana della fine del V secolo a.C., e di due altre, provenienti dalla Francia meridionale (al British Museum) che presentano immagini identiche. È probabile che le coppe di New York provengano da una tomba di fine V secolo di Spina. Nella stessa necropoli ne è apparsa una copia fusa in stagno, databile, in base al corredo di cui fa parte, alla metà del IV secolo a.C. Tutto ciò potrebbe far pensare che la coppa in ceramica dello stesso soggetto, scoperta ad Adria, possa appartenere a un atelier locale, che utilizzava modelli greci importati.
Altre patere, con decorazione vegetale a fiori di loto e palmette, derivano anch’esse da esemplari in argento, del tipo di quello, proveniente da Itaca, ora al British Museum.
All’interno del tipo con apoteosi di Eracle, di cui esiste un numero notevole di esemplari (una cinquantina), si possono riconoscere due gruppi: un primo firmato da artigiani certamente di Cales, e un secondo (dove si leggono le lettere EPOEI, certamente residuo della firma in greco sull’originale argenteo) pertinente a un atelier diverso, da localizzare a Volterra, che ha fornito una vasta area che si estende all’Etruria fino all’area adriatica. Ciò conferma la pluralità delle botteghe della ceramica cosiddetta «calena», e la necessità di procedere a nuove ricerche. In ogni caso, le immagini a rilievo che caratterizzano questa produzione costituiscono uno dei più ampi repertori iconografici disponibili per il periodo (altrimenti così poco conosciuto) compreso tra la fine del IV e l’inizio del II secolo a.C., e ci forniscono un’idea precisa della cultura e del gusto diffuso in un pubblico «medio» della società romano-italica.
Nonostante l’evidente interesse di questi materiali, che nel loro insieme costituiscono una delle rarissime testimonianze seriali di quest’epoca cruciale, manca ancora uno studio complessivo di essi, dopo la meritoria, ma ormai invecchiata e insufficiente, monografia di R. Pagenstecher (pubblicata più di un secolo fa, nel 1909!).