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9. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book
noscere alla società romana della Media Repubblica uno statuto culturale relativamente evoluto, in grado di apprezzare e di adottare quanto nella cultura greca contemporanea appariva compatibile con le sue esigenze. Un tale giudizio si basa principalmente su un’apparente coincidenza con la tradizione antica: ma in realtà, quest’ultima è solo un’elaborazione della Tarda Repubblica, che riflette l’ideologia dominante della classe dirigente romana al momento della sua crisi. Per di più, la razionalizzazione moderna finisce per obliterare anche quei pochi dati, non omogenei con il canone moralistico tardo-repubblicano, che la letteratura romana trovava nelle sue fonti più antiche, e che non aveva potuto evitare di trasmettere: la rimozione di tali informazioni corrisponde a una tendenza degli studi moderni, che spiega la storia romana in senso evoluzionistico, e per questo prende per buona la ricostruzione tutta ideologica che l’aristocrazia romana dava del proprio passato.
Nel nostro caso, tale impostazione va rovesciata: dobbiamo cioè esaminare le ragioni che nel corso della Media Repubblica resero possibili scelte e atteggiamenti, ritenuti inaccettabili e addirittura incomprensibili nel clima culturale della Tarda Repubblica. Si tratta, in altri termini, di storicizzare le informazioni di cui disponiamo, inserendole nel loro contesto reale. Ci accorgiamo così che il giudizio più radicalmente negativo sulle «arti banausiche» (cioè quelle in cui la manualità sembra prevalere sulla progettazione intellettuale) si raggiunge a Roma nel periodo compreso tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero: momento che coincide, sul piano economico-sociale, con la massima espansione del modo di produzione schiavistico e di conseguenza, sul piano ideologico, con la massima svalutazione del lavoro manuale.
Non si tratta affatto, come si è pensato, di un’espressione tipica della società romana, conflittuale con quella greca, e quindi avversa alle arti figurative. A parte l’improponibilità di posizioni del genere in un momento in cui le due culture tendono a unificarsi, resta il fatto innegabile che gli scrittori greci contemporanei non esprimono in sostanza concetti diversi dagli scrittori romani. La svalutazione radicale delle arti figurative, in quanto tecniche manuali, è quindi un fatto epocale e culturale, non etnico.
Ora, il momento storico in cui, nel mondo greco, si raggiunge il livello massimo di apprezzamento delle arti figurative – e parallelamente la più alta considerazione sociale dell’artista – è il periodo classico, e cioè i secoli V e IV a.C. La figura di Fabio Pittore si inserisce perfettamente in tale contesto culturale, anche se come episodio marginale: cioè come esempio di mimetismo ellenizzante, in un momento in cui Roma stabilisce contatti intensi e diretti con il mondo ellenico. In effetti, come abbiamo visto, le notazioni di Dionigi di Alicarnasso permettono di inserire l’opera di Fabio entro la discussione critica sull’arte greca: vedremo in seguito che i prodotti della cultura figurativa romana contemporanea – dalla moneta, alla coroplastica, alla ceramica decorata – permettono di confermare e di ribadire tale giudizio.
La stessa possibilità di un tale mimetismo culturale – che si riscontra anche nella redazione in greco dei più antichi annali ad opera di un discendente di Fabio Pittore – rinvia a una situazione sociale notevolmente diversa da quella dell’età tardo-repubblicana. La figura sconcertante di un aristocratico romano che pratica la pittura, addirittura firmando la sua opera, rinvia a una società in cui la presenza dello schiavo, e quindi la radicale svalutazione del lavoro manuale, era assai meno diffusa e determinante rispetto a periodi successivi: quindi, con paradosso solo apparente, a una società economicamente meno sviluppata, più arcaica, in cui l’attività culturale era meno specializzata, meno professionale, e quindi consentita ai ceti più alti della popolazione.
Qualcosa di analogo si può riconoscere nell’ambito della letteratura, soprattutto per quanto riguarda la nascita del teatro professionistico a Roma. Intorno alla metà del III secolo si verifica il passaggio dalla performance «non letteraria», praticata dai giovani aristocratici, a una pratica «letteraria», riservata ormai ad autori e attori «professionisti», di rango sociale inferiore. Questo passaggio corrisponde alla dissoluzione finale della società romana arcaica e coincide con l’inizio del modo di produzione schiavistico.
L’attività, evidentemente «non professionale», di Fabio Pittore si inserisce dunque all’interno di una dinamica sociale ben attestata e riconoscibile. Se ne può dedurre che l’introduzione di modelli greci nella cultura romana non si presenta sotto il segno univoco dello sviluppo. Essa risponde a logiche e funzioni diverse e talora opposte, determinate in modo prioritario dalla situazione interna, cioè dalla struttura della società romana, che accoglie, sceglie e rielabora gli impulsi provenienti dal mondo ellenico, sempre in funzione della propria natura e delle proprie esigenze. 7.2. La pittura trionfale
La tradizione relativa a Fabio Pittore deve essere inserita nell’ambito di un settore fondamentale della pittura romana «celebrativa», che va sotto il nome di «pittura trionfale»: si tratta sostanzialmente dei quadri dipinti (tabulae triumphales) con rappresentazioni di carattere militare (combattimenti, assedi ecc.) che sfilavano nel corso del trionfo, e avevano lo scopo di illustrare al pubblico le imprese che giustificavano la concessione ai generali vittoriosi del diritto a celebrare la cerimonia. Di tali quadri, dipinti su tavole o su tele, nulla ovviamente ci è pervenuto: ci restano da una parte varie descrizioni, relative a cerimonie svoltesi in un lunghissimo periodo, fino alla tarda età imperiale; inoltre, la notizia di «repliche» più durature, affrescate sulle pareti di templi votivi, dedicati cioè a seguito di vittorie, e utilizzando il bottino di guerra (manubiae): è questo probabilmente il caso, come abbiamo visto, anche del Tempio di Salus, decorato da Fabio Pittore. Si tratta dei prototipi di quell’arte «storica» e celebrativa, le cui realizzazioni – soprattutto di età imperiale – sono pervenute fino a noi.
A proposito del trionfo di Scipione Africano, Appiano (Punica, 66) si esprime in questi termini:
Tutti avanzano coronati: precedono i suonatori di trombe e le portantine cariche delle prede: vengono trasportate torri, rappresentazioni delle città conquistate, quadri dipinti che raffigurano le imprese compiute. In seguito, oro e argento, sia in lingotti sia in monete e le altre cose di questo genere. Poi corone, concesse al comandante come premio del valore dalle città, dagli alleati o dallo stesso esercito; candidi buoi, elefanti e i comandanti cartaginesi e numidi prigionieri. Il generale vincitore è preceduto da littori che vestono tuniche rosse, dall’orchestra dei citaristi e dai satiri, alla maniera delle processioni etrusche, ornati di corone d’oro […] Segue il comandante, su un carro decorato di pitture, la testa coperta da una corona d’oro gemmata, vestito secondo il costume patrio di una toga purpurea, trapunta di stelle d’oro, con lo scettro d’avorio in mano, che per i Romani è sempre simbolo di vittoria […] Seguono i soldati, distinti in turme e coorti, tutti coronati, con rami d’alloro in mano, i più valorosi anche con le loro decorazioni militari.
L’illustrazione delle imprese vittoriose attraverso quadri dipinti si prolungherà senza sostanziali cambiamenti fino alla fine dell’Impero: ancora a proposito di Settimio Severo, Erodiano (III, 9, 12) ricorda che l’imperatore «scrisse al Senato e al popolo, magnificando i suoi successi e fece esporre quadri che riproducevano le battaglie e le vittorie». Tali quadri sono probabilmente all’origine dei grandi pannelli che, su più registri sovrapposti, raffigurano scene di assedio e di battaglia nell’arco trionfale che Severo fece innalzare nel Foro Romano nel 203 (fig. 138): riprendendo ancora una volta, a cinque secoli di distanza, il tipo di rappresentazione su più registri, che appare nelle pitture del sepolcro di Fabio sull’Esquilino.
Silio Italico nel suo poema (La guerra punica, VI, 653 ss.) mette in scena un episodio fittizio, e cioè la visita di Annibale a Literno, in Campania: la scelta non è casuale, perché in questa località (colonia marittima fondata solo nel 194 a.C.) Scipione Africano farà costruire una villa, dove morì e venne sepolto. Il poeta immagina che qui, in un grande portico, fossero rappresentate per intero le vicende dell’interminabile prima guerra punica:
Lì, mentre il comandante osserva il tempio e le case della paludosa Literno, scorge pitture dagli splendidi colori, testimonianza della guerra precedente, sostenuta dai padri – infatti si conservavano intatte nei portici – di cui si poteva ammirare lo sviluppo esteso per lungo tratto. All’inizio era rappresentato Attilio Regolo che, con volto severo, incitava alla guerra, guerra che avrebbe piuttosto rifiutato se avesse potuto prevederne l’esito. E colui che per primo l’aveva dichiarata ai Cartaginesi secondo il rito ancestrale, Appio, al suo fianco, coronato di alloro, conduceva un trionfo meritato per la strage dei Sarrani. Successivamente, onore del mare e trofeo navale, sorgeva la massa bianchissima di una colonna ornata di rostri e Duilio, che primo di tutti aveva affondato una flotta punica in alto mare, dedicava la preda a Marte. Accanto a lui, di ritorno dalla cena, onore notturno, appaiono torce accese e un tibicine sacro: così egli rientrava ai suoi casti penati, festeggiato da una musica allegra. [Annibale] vede anche gli estremi onori resi a un concittadino defunto: Scipione celebra il funerale di un comandante cartaginese, dopo averlo vinto nella terra sarda. Vede più avanti giovani guerrieri di schiere sbandate, in fuga sulle rive africane: li insegue, con la testa coperta da un fulgido elmo, e li incalza alle spalle Regolo; Autololi e Nomadi, Mauri e Garamanti, deposte le armi, gli consegnano le cit-
138. Roma, Arco di Settimio Severo: disegno di un pannello scolpito (dall’incisione di G.P. Bellori, Veteres arcus Augustorum, Roma 1690). tà. Il fiume Bagrada, solcando un terreno sabbioso, spuma veleno di vipere, e contro le schiere minacciose combatte un serpente e attacca il comandante romano. Gettato giù da una nave e invocando invano gli dei il guerriero spartano viene immerso nel mare da una mano traditrice: così Santippo paga nei flutti il fio della tua dignitosa morte, o Regolo. Il pittore aveva aggiunto le due isole Egadi che si alzano in mezzo al mare; tutt’intorno avresti visto i resti delle navi fracassate e i Cartaginesi galleggiare qua e là sui flutti. Signore del mare, Lutazio, con vento favorevole, spinge vincitore verso la riva le navi catturate. Tra tutte queste immagini, Amilcare, padre di Annibale, incatenato in mezzo a una lunga fila di prigionieri, attira su di sé, più di tutte le altre immagini, gli sguardi di tutti i presenti. Ma si poteva vedere anche il volto della Pace e gli altari dell’alleanza violati, e Giove tradito e i Latini che dettano le condizioni. Gli Africani tremano davanti alle scuri che stanno per colpire le loro nuche, e alzando le mani tutti insieme implorano pietà, promettendo inutilmente di rispettare i patti. E Venere, dall’alto del monte Erice, osserva lieta la scena.
Si tratta ovviamente di un’invenzione: la colonia di Literno sarà infatti fondata solo dopo la fine della seconda guerra punica, nel 194. Del resto, secondo il poeta, le pitture verranno poi distrutte da Annibale. La scelta di questa località si spiega con la presenza qui della villa e della Tomba di Scipione, meta di visite ancora nel I secolo d.C.: Seneca ad esempio ce ne ha lasciato una descrizione. Anche Silio Italico, che al momento della composizione dei Punica (alla fine del I secolo d.C.) viveva in Campania, e che praticava un vero e proprio culto per i grandi personaggi del passato (come Cicerone e Virgilio), certamente l’avrà visitata, e non avrà resistito alla tentazione di collocarvi un episodio della guerra, evidentemente inventato di sana pianta.
Allo stesso tempo, è evidente che la descrizione delle pitture è costruita sulla base di monumenti reali, ancora esistenti a Roma. Il necrologio del poeta, scritto da Plinio il Giovane (Lettere, III, 7), lo ricorda come
Philocalos [amante del bello, collezionista] al punto da meritare il rimprovero per la mania di comprare opere d’arte. Possedeva molte ville negli stessi luoghi, e quando si invaghiva delle nuove trascurava le vecchie. Ovunque molti libri, molte statue, molti ritratti, dei quali non solo era proprietario, ma che venerava: soprattutto Virgilio, di cui celebrava il compleanno con maggiore devozione del suo, in particolare a Napoli, dove era solito visitare la tomba del poeta come se si trattasse di un tempio.
Nato sotto Tiberio, intorno al 26 d.C., Silio aveva ancora potuto ammirare, ad esempio, le pitture di Fabio Pittore nel Tempio di Salus, distrutte da un incendio solo sotto Claudio, quindi tra il 41 e il 54, e certamente anche altre opere del genere, ancora conservate in città. Alcuni dettagli non sono certamente inventati, ma rivelano la conoscenza diretta di monumenti reali: in particolare, la Colonna di Duilio, descritta come bianchissima, e quindi di marmo, come essa appariva effettivamente dopo il rifacimento augusteo. Anche il ricordo degli onori particolari tributati al vincitore di Milazzo dimostrano l’accuratezza «filologica» del poeta, che qui dipende da documenti attendibili: si tratta delle stesse notizie riportate da Cicerone e da Floro, e soprattutto dall’elogio che corredava la statua del console, esposta nel Foro di Augusto.
L’edificio che ospitava le pitture, descritte realisticamente come una serie di scene disposte in una lunga serie, viene indicato come un portico, sede normale delle pinacoteche sia pubbliche sia private. Basti ricordare, a questo proposito, la galleria di pittura menzionata nel Satiricon di Petronio (88-90), dove il poetastro Eumolpo descrive in versi, non troppo diversi da quelli di Silio, le pitture che rappresentavano la Presa di Troia, ospitata in un portico che faceva parte di un tempio. Anche nel nostro caso si potrebbe pensare che l’ispirazione di Silio Italico dipenda da pitture esistenti in un tempio, costruito come ex voto per la vittoria romana nella prima guerra punica, ad esempio quello di Giano nel Foro Olitorio, dedicato da Duilio, o quello di Giuturna nel Campo Marzio (Tempio A di Largo Argentina), dedicato da C. Lutazio Catulo, vincitore della battaglia delle Egadi, che pose fine alla guerra, descritta alla fine del lungo excursus di Silio.
Gli unici documenti che ci possono restituire un’idea reale di queste opere sono gli scarsi frammenti superstiti di pitture destinate a decorare monumenti funebri di grandi personaggi dell’aristocrazia romana, che avevano ottenuto gli onori trionfali: si tratta di due tombe dell’Esquilino e del sepolcro gentilizio degli Scipioni, che esamineremo più avanti. Sembra comunque opportuno, in primo luogo, citare e commentare in breve le testimonianze più antiche relative a questa classe di documenti.
139. Heroon di Trysa (Turchia), scene di combattimento e di assedio (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Si ritiene comunemente che l’esempio più antico sia la cosiddetta tabula Valeria, un quadro che rappresentava la vittoria di Manio Valerio Massimo su Ierone e i Cartaginesi all’inizio della prima guerra punica, esposto nel corso del trionfo del 263 e poi collocato sul lato sinistro della Curia Hostilia, nel Comizio, dove rimase a lungo. Tale opinione è basata su un testo di Plinio (Storia Naturale, XXXV, 22): «La dignità della pittura si accrebbe a Roma, ritengo, a partire da Manio Valerio Massimo Messala, che per primo, nell’anno 490 di Roma, espose sul lato della Curia Hostilia un quadro con la battaglia in cui aveva vinto i Cartaginesi e Ierone in Sicilia».
In realtà, qui non si afferma affatto che questo fosse il primo esempio di «pittura trionfale», ma solo il primo esposto in un monumento pubblico. Si tratta del resto di un’opinione di Plinio (ut existimo).
Sembra certo che si trattasse in realtà di un uso notevolmente più antico, come dimostra il caso di Fabio Pittore e della sua opera nel Tempio di Salus, quasi certamente derivata da «pitture trionfali», che si data quarant’anni prima. Conosciamo anche altre pitture, di soggetto chiaramente «trionfale», più antiche della tabula Valeria:
Si può citare la scena bellica con cavalieri di un tipo particolare (ferentarii) dipinta nel Tempio di Esculapio nell’Isola Tiberina (del 292 a.C.): Varrone ricorda in proposito che le figure erano illustrate da didascalie, analogamente al contemporaneo affresco della «Tomba di Fabio», che discuteremo più avanti (Varrone, La lingua latina, VII, 57). Inoltre, le rappresentazioni di T. Papirio Cursore e di M. Fulvio Flacco in abiti trionfali (quindi all’interno di una più ampia scena di trionfo) nei templi da loro costruiti di Consus (272 a.C.) e di Vertumnus (264 a.C.), ambedue alle pendici dell’Aventino (Festo, p. 228 L.).
Per un’epoca un po’ più tarda, possiamo aggiungere la pittura con il banchetto degli schiavi volontari (volones) nel Tempio di Libertas sull’Aventino, realizzato da Ti. Sempronio Gracco nel 214 a.C. (Livio, XXIV, 16, 16-19).
Si tratta, come si vede, di una serie abbastanza nutrita, che copre tutto il periodo compreso tra la fine del IV e la fine del III secolo a.C., anche se la do-
140. Heroon di Trysa (Turchia), scene di combattimento e di assedio (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
cumentazione è molto lacunosa, se consideriamo l’eterogeneità e il carattere fortuito dei testi che ce ne hanno tramandato il ricordo.
Da tutto ciò si possono trarre alcune plausibili conclusioni. In primo luogo, l’uso delle tabulae triumphales è anteriore alla fine del IV secolo a.C., anche se non possiamo precisare di quanto. In secondo luogo, sembra che l’uso di dipingere le pareti interne dei templi con soggetti analoghi fosse comune. Anzi, alcune attestazioni letterarie permettono di far risalire questa pratica, largamente diffusa in Grecia e in Etruria, fino ad età arcaica: ma i soggetti in questo caso sono piuttosto di carattere mitologico. A partire dal IV secolo a.C. prevalgono invece i soggetti «storici» e celebrativi, collegati con le imprese dei viri triumphales, che dedicarono in questo periodo, come sappiamo, numerosi templi votivi. Sembra dunque che la diffusione di questa consuetudine si colleghi con l’inizio e il pieno corso dell’espansione romana in Italia: con una funzione perfettamente analoga a quella che avrà anche in seguito l’«arte storica» romana.
L’impiego degli stessi modelli anche nei sepolcri (in particolare in quelli di carattere pubblico) costituisce un prolungamento comprensibile del fenomeno: proprio come il funerale pubblico costituisce il prolungamento del trionfo, nel senso di un’eroizzazione del defunto.
Questa prevalenza, nell’arte pubblica e celebrativa, di contenuti «storici» è importante per individuare il rapporto tra cultura greca e cultura romana. Sarebbe errato, come avveniva un tempo, attribuire alla seconda l’esclusività delle rappresentazioni storiche, che utilizzano schemi particolari, come la «rappresentazione continua», entro uno spazio cioè (e quindi un tempo) non suddiviso in «quadri» successivi. Sappiamo ormai con sicurezza che anche nella Grecia classica questi modi figurativi erano conosciuti e utilizzati. Ancora una volta, non si tratta di soluzioni formali rispondenti a particolari «strutture» etniche, ma di soluzioni determinate da specifiche situazioni socio-culturali: la diffusione della rappresentazione «storica» fuori dalla Grecia non è infatti esclusiva dell’Italia. Basterà a proposito ricordare l’esempio
parallelo della Caria e della Licia in età classica, dove sono diffusi i grandi monumenti funerari edificati da notabili indigeni, realizzati da maestranze greche e decorati, oltre che con scene mitiche (Mausoleo di Alicarnasso), con scene di carattere storico (heroon di Gjolbaschi-Trysa) (figg. 139-140): dove è evidente che la veste greca è qui posta al servizio della committenza locale, con esiti del tutto assenti nella Grecia propria. Situazioni storiche analoghe, verificatesi con la fondazione dei regni ellenistici, determineranno più tardi soluzioni figurative analoghe: ciò può contribuire a spiegare il fatto che il grandioso sepolcro di un re di Caria, Mausolo, darà il nome (ieri come oggi) alla categoria dei sepolcri dinastici monumentali, da quello di Alessandro a quello di Augusto.
7.3. La pittura funeraria a carattere storico
La tradizione su Fabio Pittore e l’importanza preponderante della pittura rispetto alle altre arti figurative, attestata dalla tradizione antica nel caso tanto della Grecia che di Roma, ci portano ad esaminare in primo luogo i pochi resti di dipinti «storici» che ci sono rimasti. Si tratta sostanzialmente di tre sole attestazioni: il frammento appartenente al «Sepolcro di Fabio», quelli del cosiddetto «Sepolcro Arieti» (ambedue provenienti dalla necropoli dell’Esquilino) e infine resti su più strati sulla facciata del sepolcro degli Scipioni (fig. 154). Si tratta di documenti ben noti, ma controversi, la cui piena comprensione richiede una preliminare contestualizzazione topografica, oltre che un corretto inquadramento cronologico, entrambi spesso carenti.
I due sepolcri dell’Esquilino appartengono a un gruppo di sette tombe, scoperte a partire dal 1871 fuori della Porta Esquilina («Arco di Gallieno»), definiti da Rodolfo Lanciani «sepolcri singolari». Si tratta di piccoli edifici costruiti sopra terra in opera quadrata di tufo. Solo i due menzionati hanno conservato resti di pitture, ma è probabile che anche gli altri comportassero in origine un’analoga decorazione, in seguito scomparsa. La natura omogenea di questo complesso, del tutto isolato a Roma, appare evidente, e anche tale isolamento costituisce un dato interessante, che richiede una spiegazione.
Dal «Sepolcro di Fabio» proviene un resto di pittura parietale (fig. 141) in cui sono rappresentate, su più registri (quattro riconoscibili) e in modo continuo, scene di chiaro carattere «storico»: combattimenti, assedi e cerimonie militari.
Le scene, dall’alto in basso, si possono interpretare come segue:
Primo registro: ne resta solo un frammento della parte inferiore sinistra. Si scorgono pochi resti di una o più figure umane, non altrimenti identificabili.
Secondo registro: a sinistra si riconosce una città fortificata, resa come un blocco rettangolare di colore bruno, con una fascia verticale a sinistra di colore seppia. Due merli, conclusi in alto da una sorta di abaco, completano la rappresentazione, in cui si riconoscono le mura di un centro fortificato. Tra di essi compaiono due figure, rese sommariamente con tocchi di bianco (le vesti), rosso e rosso-bruno, in varie sfumature. Si tratta quindi, apparentemente, di individui in abiti civili, non militari: si è voluto così mostrare che non si tratta di una scena di battaglia. L’atteggiamento dei due personaggi sulla destra, di dimensioni molto maggiori, conferma questa interpretazione. Uno di essi è un guerriero armato, con una corazza anatomica, schinieri dorati, grande scudo con umbone rosso-bruno al braccio sinistro e un elmo a calotta emisferica conclusa da un bottone, con guanciere e un cimiero di lunghe penne rosso-brune. Il breve gonnellino è reso in bianco grigiastro, con pieghe indicate in rosso-bruno. Dalle spalle ricade all’indietro un grande mantello azzurrino, il cui colore è quasi svanito. Le carni sono rese, convenzionalmente, in un rosso scuro piuttosto caldo. Questo personaggio tende la mano aperta verso un altro, che avanza di fronte a lui: di questo restano solo il braccio destro che regge una lunga lancia, resa in nero, poggiata a terra, e parte della toga color bianco giallino, assai breve, che lascia scoperta gran parte della gamba destra. Al personaggio di sinistra si riferisce un nome indicato a lettere nere, tracciato in alto, nello spazio libero tra le due figure, di cui sopravvivono solo alcune lettere: ANIO.ST.F, da integrare […]anio St(ai) f(ilio), un nome di persona al nominativo di forma arcaica in -o.
Terzo registro: a sinistra, una figura di combattente, vista di spalle, avanza verso sinistra (il suo avversario doveva essere rappresentato sulla parete adiacente, dopo l’angolo, senza soluzione di continuità). Egli veste una corazza anatomica dorata, aperta in basso, che lascia intravedere la parte inferiore della
A fronte: 141. Roma, Esquilino, «Sepolcro di Fabio»: frammento di affresco con scena storica (Collezioni Capitoline, Centrale Montemartini).
schiena. Uno scudo dorato ovale protegge il braccio sinistro e un elmo a calotta con bottone terminale, privo di cimiero, la testa. La mano destra alzata impugna un’arma, probabilmente una spada. Il gonnellino è azzurro, le gambe sembrano prive di schinieri. La figura poggia su un rialzo del terreno nettamente superiore alla linea che segna il limite inferiore del registro. Il personaggio successivo, di dimensioni nettamente maggiori, occupa tutta l’altezza del registro e volge le spalle al precedente, con un accorgimento usuale nei fregi continui per indicare il cambiamento di scena. Indossa forse una corazza anatomica (completamente scomparsa), un gonnellino giallo e un mantello grigio-azzurro, che passa sulla spalla ricadendo davanti e dietro. La testa è scoperta, le gambe coperte da schinieri dorati. Tende la mano destra verso un altro personaggio reso nelle stesse dimensioni, vestito di una breve toga bianco-giallastra, sotto la quale appare la tunica. Questi avanza verso il primo reggendo nella mano destra, portata avanti, una lunga lancia: si tratta di uno schema praticamente identico a quello sovrastante. Seguono quattro figure, la prima delle quali è nettamente più piccola della seconda che, pur poggiando sullo stesso livello, la sovrasta di tutte le spalle. Della terza figura, posta più in alto, non si vede la parte inferiore: essa è probabilmente immaginata come posta sopra un rialzo: mentre le due precedenti sono di profilo, quest’ultima è di prospetto. Tutte e tre sembrano vestire una breve tunica. I personaggi principali sono anche in questo caso designati da iscrizioni: al primo a sinistra si riferisce la scritta posta tra i due, in alto si legge solo: M.FAN[…]. Molto più leggibile fortunatamente è il nome del secondo personaggio, in toga, che segue a destra: Q. FABIO (fig. 142).
Quarto registro: sullo sfondo si intravedono, molto svanite, le mura di un centro fortificato, rappresentate in modo simile a quelle del primo registro: tra i due merli spunta a mezzo busto una figura con lo scudo che sta lanciando un giavellotto, e oltrepassa con la testa, coperta da un elmo a bottone, la linea di separazione con il registro superiore. A sinistra in basso, davanti alle mura, una figura analoga, vestita di una tunica bianca serrata alla vita, che si protegge con lo scudo, lancia un giavellotto o impugna una spada. Segue sulla destra, in alto, una figura più grande, con corazza anatomica, sulla quale ricade un grande mantello bianco, elmo dorato munito di guanciere dal quale si alzano due lunghe penne. Si protegge con un grande scudo ovale dorato e il braccio destro si spinge avanti a colpire un nemico, scomparso nella lacuna. Anche la sua testa oltrepassa in alto i limiti del registro.
Le armi, in particolare gli elmi a bottone (fig. 142), appartengono a un tipo databile intorno al 300 a.C., mentre le toghe, che caratterizzano evidentemente dei Romani, sono del tipo «esiguo», portate sopra la tunica (ciò che conferma la stessa cronologia). La datazione è suggerita dalla morfologia e dalla paleografia delle iscrizioni, che non possono scendere oltre gli ultimi decenni del III secolo a.C.
Una datazione alla prima metà del III secolo si ricava anche dallo stile: rispetto agli esempi di IV secolo, in cui la linea di contorno è ancora predominante, si nota qui la novità di una pittura «a macchia», molto vivace e usata con abilità: basti notare il modo con cui sono resi, con densi impasti cromatici, le teste del piccolo gruppo di tunicati del terzo registro. Appare già l’uso dei «lumi», particolarmente evidente nel gruppo di guerrieri del quarto registro. Se lo splen-
142. Iscrizioni e armi del «Sepolcro di Fabio». 143. Esquilino, «Sepolcro Arieti»: frammento di affresco con littori (Collezioni Capitoline, Centrale Montemartini).
dor di cui parla Plinio, che sarebbe l’ultima invenzione della pittura greca, è proprio l’uso dei «lumi» (ciò che mi sembra innegabile), siamo in presenza di un’innovazione introdotta in Grecia verso la metà del IV secolo a.C. Il livello di questa pittura appare piuttosto alto, e trova un parallelo evidente nei pocola deorum, e in particolare nel piatto di Capena con l’elefantessa, dove la pittura «a macchia» e l’uso dei «lumi» sono ormai conquiste pienamente assorbite, come nella contemporanea pittura vascolare apula.
Il periodo storico in cui Roma partecipa pienamente della pittura della Magna Grecia viene a concludersi con la metà del III secolo a.C. A partire da questo momento assistiamo a un rapido scadimento dei valori formali di origine greca, riscontrabile un po’ ovunque, dalle monete alla ceramica, fino al tracollo definitivo di questo ambiente culturale che si determina nel corso della seconda guerra punica. Basti confrontare con il nostro frammento le grossolane pitture della Tomba Arieti (figg. 143-144), appartenenti a un sepolcro dello stesso livello sociale e collocato nella stessa zona, ma più tarde (probabilmente databili intorno al 240 a.C., come vedremo).
Il frammento di pittura dall’Esquilino, realizzato nei primi decenni del III secolo, celebra, secondo moduli tipici della pittura trionfale (narrazione continua, proporzioni gerarchiche), ma in uno stile di segno evidentemente ellenizzante, le imprese di un personaggio di nome Quinto Fabio. Tutto indica che si tratta del titolare della tomba, che dovrebbe quindi identificarsi con un membro rilevante della gens Fabia. Accanto a Q. Fabio si riconosce una figura di guerriero, certamente un romano, a giudicare dalle armi, designato come M. Fannius, al quale sembra che il primo porga una lancia: potrebbe trattarsi di una decorazione militare (hasta pura). Nei registri superiore e inferiore si distinguono le mura di una città (assediata?) e in quello inferiore dei combattimenti. Le scene dovrebbero rappresentare avvenimenti della seconda guerra sannitica.
Oltre al livello qualitativo di questo incunabolo della pittura storica romana, interessano qui il contenuto narrativo e il modo di rappresentarlo. La disposizione su più registri rimanda alle tabulae triumphales, i grandi quadri che venivano trasportati nelle processioni trionfali, e che illustravano alla
popolazione le imprese del personaggio celebrato. Questo tipo di composizione è all’origine dell’arte celebrativa romana e avrà in seguito, come è noto, una lunghissima storia. Ciò conferma il rango del personaggio sepolto, certamente un vir triumphalis, come è accertato anche nel caso della seconda tomba dipinta, il «Sepolcro Arieti»: l’ipotesi più attendibile, come vedremo, è che si tratti di Q. Fabio Rulliano, l’eroe della seconda guerra sannitica.
Tale identificazione richiede però altri elementi di prova, che confortino la datazione ai primi decenni del III secolo a.C., data di morte di Rulliano. Questa emerge con chiarezza dalla paleografia e dalla morfologia dell’iscrizione: la forma delle lettere, ancora arcaica, e il nominativo della seconda declinazione in -o (Fabio per Fabius) escludono ogni datazione posteriore agli ultimi decenni del III secolo a.C., e suggeriscono piuttosto la prima metà del secolo; in secondo luogo, i dati antiquari, come la forma delle armi, in particolare dell’elmo, è caratteristica degli anni intorno al 300.
In conclusione, si tratta della tomba di un personaggio rilevantissimo, che celebrò un trionfo per vittorie conseguite nel corso di una guerra sannitica, morto nei primi decenni del III secolo a.C., dal nome di Q. Fabius. Tutto ciò restringe in modo decisivo il campo delle possibilità, e conferma l’identificazione proposta.
Anche nel caso del «Sepolcro Arieti», che si può ricostruire nella forma di un recinto, preceduto da un’esedra dipinta, vanno riesaminati l’apparato decorativo e la cronologia. Per quanto riguarda il primo, si deve considerare lo stretto rapporto narrativo tra le scene di combattimento e la scena rappresentata sulla parete di fondo, che va identificata con un trionfo (perduta, ma di cui si conserva una copia ad acquerello) (figg. 143-144). Vi si riconosce infatti una quadriga, preceduta da un gruppo di littori (forse sei). Di particolare interesse è il personaggio con le braccia alzate, collocato sulla testata sinistra dell’esedra: dovrebbe trattarsi non già di una figura meramente decorativa, un telamone, come è stato proposto, ma di un personaggio reale, parte essenziale dell’evento rappresentato.
L’ipotesi proposta di recente che si tratti del supplizio di M. Attilio Regolo, avvenuto nel corso della prima guerra punica, e di conseguenza che il sepolcro sia da attribuire a un membro della stessa gens, A. Atilius Calatinus, non è sostenibile: in primo luogo, non risulta che Attilio Regolo sia stato crocefisso, e poi si tratta di una figura barbata, ciò che in questo periodo esclude l’identificazione con un romano. Ma soprattutto, è inconcepibile che un supplizio del genere, per il suo aspetto umiliante, possa essere rappresentato nel sepolcro di un trionfatore. Infine, sappiamo da Cicerone che la tomba di Atilio Calatino si trovava sulla via Appia (Tusc., I, 3). Si deve pensare, di conseguenza, che si tratti piuttosto di un nemico di rango eminente.
La soluzione può venire da un dettaglio della scena di trionfo, dove appaiono solo sei littori: dovrebbe trattarsi quindi di un pretore, il che limita notevolmente la lista dei personaggi possibili. Tra questi, emerge il pretore Q. Valerio Faltone, il vero protagonista della vittoria navale delle Egadi, che pose fine alla prima guerra punica, nel 241 (il console C. Lutazio Catulo, ferito, non poté partecipare alla battaglia). Per questo Faltone meritò l’onore del trionfo, eccezionale per un pretore. Sappiamo che il comandante cartaginese sconfitto in quello scontro venne crocefisso appena ritornato in patria: si potrebbe trattare quindi del personaggio rappresentato nella tomba. Tutti gli indizi sembrano confermare l’identificazione proposta: in tal caso, la tomba sarebbe databile intorno al 239, data approssimativa della morte di Faltone.
La qualità modestissima delle pitture, che contrasta con quella della Tomba di Q. Fabio, fa pensare al frammento, conservato da Festo (p. 260 L.), di una commedia di Nevio (la Tunicularia, scritta negli ultimi decenni del III secolo, e quindi contemporanea al nostro monumento), in cui si deride l’opera di un pittorucolo, di nome Teodoto, il quale «sedendo in una cella, circondato da stuoie, dipingeva con una coda di bue i Lari danzanti»: nonostante l’altisonante nome greco dell’autore, l’opera è una tipica «pittura popolare», di quelle che ancora possiamo vedere dipinte sui muri esterni delle case di Delo e di Pompei: in queste appaiono spesso i due Lari contrapposti, in atteggiamento di danza, dipinti all’ingrosso, con sommarie pennellate, che possono in effetti sembrare realizzate con code di bue: precisamente l’impressione che danno le grossolane figure della Tomba Arieti.
L’indubbio scadimento qualitativo di queste rappresentazioni si spiega non solo con la loro derivazione dalle tabulae triumphales, opere effimere, destinate a un uso immediato, per le quali, più che la qualità, era essenziale la leggibilità: non si capirebbe altrimenti il livello ben più elevato della «Tomba di Fabio», le cui pitture appartengono alla stessa categoria di documenti. In realtà, un declino analogo si può notare in tutti i prodotti dell’arte e dell’artigianato romano-italico, a partire dai decenni centrali del III secolo a.C. Il fenomeno si verifica nei più vari settori, e specialmente in quelli, assai meglio documentati rispetto alla pittura, della ceramica, della moneta e degli ex voto di terracotta. Esso è stato spiegato con la crisi che colpisce la Magna Grecia, e soprattutto il suo più importante centro culturale, Taranto, a partire dalla guerra di Pirro e dalla conquista romana della città (272 a.C.): verrebbe così a scomparire la principale fonte di ispirazione «ellenizzante», che sarà rimpiazzata da modelli provenienti dalla Grecia propria e dal mondo ellenistico solo dopo la fine della seconda guerra punica, contemporaneamente alla conquista romana di quest’area. Tale spiegazione tuttavia, anche se attendibile, appare insufficiente, poiché trascura la profondità dell’ellenizzazione dell’Italia tirrenica, di tradizione secolare, e ormai parte integrante delle culture locali, in particolare di quella romana. La dissoluzione progressiva di tale contesto ideale dipende, più che dalla carenza di modelli, dal declino della committenza tipica della società mediorepubblicana: quella delle classi intermedie, che di tale società costituivano il nerbo.
Per chiarire la natura di questo complesso di piccoli sepolcri è necessario prendere in esame il contesto topografico di cui fanno parte. L’area immediatamente all’esterno della Porta Esquilina viene occupata, dalla metà dell’VIII secolo, dalla grande necropoli unitaria della città. Tale funzione si prolunga fino alla fine dell’età repubblicana, quando essa si esaurisce, contemporaneamente alla diffusione dell’uso di seppellire lungo le vie extraurbane, impostosi a partire dalla fine del II secolo a.C.
L’abbandono definitivo della necropoli è dimostrato, oltre che dai dati archeologici, dall’utilizzazione dell’area da parte di Mecenate, che vi realizzò la sua villa suburbana. Ciò significa che il luogo, in origine di proprietà pubblica, era passato in mani private: in precedenza esso era utilizzato per seppellirvi i poveri, non in grado di acquistare un terreno. Tale uso, che costituisce un prolungamento «decaduto» della necropoli arcaica, riguarda certamente l’area poi occupata dagli horti di Mecenate, e cioè quella più meridionale, a sud delle vie Labicana e Prenestina.
Del tutto diversa è la natura dell’area settentrionale, a nord delle stesse vie, il cui nome è campus Esquilinus. In questo campus si deve collocare il culto antichissimo di Libitina, la dea dei morti e dei funerali. La presenza di un santuario in questa zona è attestata
Sopra e a fronte: 144. Roma, Esquilino, «Sepolcro Arieti»: scene di combattimento e di trionfo (acquerello).
0 1 2 3 4 5 10 15 20 25 30
1 2 3 4 5 10 15 20
145. Vulci, Tomba François: sezione longitudinale e pianta.
30 dai ritrovamenti di terrecotte architettoniche arcaiche (tra le quali quella con combattimento tra un greco e un’amazzone, illustrata in precedenza) (fig. 58) e da un cippo iscritto, trovato in situ a circa 20 metri fuori della porta, che segnala l’esistenza di un culto. Non può sfuggire, a questo punto, la posizione particolare dei «sepolcri singolari», tutti disposti nell’area antistante al santuario, in chiara relazione con esso: si tratta dunque di tombe a carattere pubblico, un onore eccezionale riservato agli eroi della Repubblica, per i quali sappiamo (da Cicerone, Filippiche 9, 7, 17) che si utilizzava, oltre al Campo Marzio, anche il campus Esquilinus.
Queste tombe erano dunque destinate a individui eccezionali, vincitori di battaglie importanti e trionfatori: ciò che costituisce una definitiva conferma dell’attribuzione proposta a personaggi come Q. Fabio Rulliano e Q. Valerio Faltone.
7.4. La Tomba François
La documentazione disponibile sulla «pittura trionfale» a Roma è interamente di carattere letterario, anche se un riflesso diretto se ne può riconoscere in alcuni scarsi frustuli di pittura funeraria: questi, destinati a illustrare le imprese dei sepolti (sia che si tratti di tombe gentilizie, come quella degli Scipioni, sia che si tratti di «sepolcri pubblici», come nel caso della «Tomba di Fabio»), dipendono direttamente dai quadri – per loro natura effimeri – trasportati nella pompa trionfale, dei quali ci forniscono, di conseguenza, un’idea precisa.
Siamo così in grado di ricostruire in modo sicuro le caratteristiche di queste pitture, che illustravano in modo sostanzialmente realistico gli avvenimenti che avevano determinato la concessione del trionfo: in esse si deve identificare l’origine di quell’«arte storica» che costituisce la caratteristica essenziale di tutto un filone dell’arte ufficiale romana, che si perpetuerà fino alla fine dell’Impero. Definire questo modo di rappresentare come «storico» e «realistico» non significa, naturalmente, ignorare quanto di schematico e di tipizzato ne caratterizza la pratica reale, basata su pochi temi ricorrenti che, come le figure retoriche dell’oratoria, costituiscono la trama reale della narrazione. Tuttavia, resta il fatto che, tranne rare eccezioni, il racconto vuole rifarsi ad episodi «veri», o ritenuti tali, non a una loro trascrizione simbolica o mitica, quale si riscontra in molte delle scene narrative dell’arte greca e anche, come vedremo, dell’arte etrusca.
Per far emergere fino in fondo questa tendenza di fondo dell’arte ufficiale romana, nulla di meglio che
146. Vulci, Tomba François: ricostruzione prospettica dell’interno.
un confronto con il monumento più importante della pittura funeraria etrusca di carattere «storico»: la Tomba François (figg. 145-151), che, per la sua datazione, più o meno contemporanea al primo apparire a Roma della «pittura trionfale», e per i soggetti rappresentati, che illustrano episodi in relazione con la storia arcaica di Roma, si presta in modo perfetto a un tale confronto. La tomba venne scoperta a Vulci nel 1857, e prende nome dal suo scavatore, l’archeologo Alessandro François. Le pitture furono in gran parte staccate e finirono, in seguito a varie vicissitudini, nella collezione Torlonia: ora giacciono, praticamente invisibili, nella Villa Albani, proprietà della stessa famiglia. Le difficoltà provocate dalla decontestualizzazione degli affreschi, strappati dalla loro sede originaria, hanno impedito, fino ad epoca relativamente recente, di indagarne fino in fondo il significato, che richiede in via prioritaria di ricostruirne la posizione all’interno del sepolcro.
Quest’ultimo presenta caratteristiche abbastanza eccezionali anche dal punto di vista architettonico: si tratta in sostanza della riproduzione di una casa ad atrio (fig. 145): l’impressionante corridoio (dromos), profondamente scavato nella roccia, conduce a un ingresso, e da qui a una sala trasversale, sulla quale si apre, sull’asse, un ambiente quadrato: l’insieme riproduce le parti ideologicamente più importanti di un atrio, le «ali» e il «tablino», destinati nella casa aristocratica all’esposizione delle immagini degli antenati e alla conservazione dell’archivio domestico. Su questi ambienti si aprono, tramite porte con cornici in stucco, i sette «cubicoli», utilizzati come celle sepolcrali.
Già da questa descrizione si comprenderà come la scelta di questo modello presupponga, negli affreschi, l’esaltazione delle glorie della famiglia dei Saties, identificata come proprietaria della tomba dalle iscrizioni conservate.
La cella principale, posta in asse con l’ingresso, appare naturalmente come la più importante: essa è infatti la sola decorata, con pannelli dipinti che imitano una parete di «primo stile».
Le scene principali, dipinte sulle pareti laterali del «tablino», sono, a sinistra, l’episodio omerico di Achille che sacrifica i prigionieri troiani (fig. 149), a destra un episodio della saga vulcente (fig. 148), su cui torneremo più avanti. Nei dettagli, lo stile di queste scene, come delle altre minori, è sostanzialmente lo stesso: un modo di rappresentare ancora tardo-classico, con uso disinvolto della prospettiva e di un chiaroscuro ottenuto con un impiego sapiente del tratteggio, ma ancora totalmente sostenuto dalla linea di contorno: ciò indica una data non di molto posteriore alla metà del IV secolo a.C.
Passando alla composizione, noteremo subito la diversità sostanziale tra le due scene: il sacrificio dei prigionieri troiani, nonostante l’inserzione di due figure di carattere etrusco (Charu e Vanth) ha conservato l’aspetto e le qualità del modello greco da cui dipende (e a cui attingono molte altre repliche della stessa scena in monumenti etruschi): una composizione complessa, ruotante intorno al gruppo centrale di Achille che sgozza un prigioniero (fig. 150). La disposizione dell’eroe assume un netto rilievo tridimensionale, accentuato dal potente scorcio della gamba destra del troiano, la cui testa costituisce il vero centro geometrico della composizione. Verso di essa confluiscono tutte le linee portanti sulle quali la scena è costruita: le braccia di Achille, il braccio destro di Aiace e gli sguardi di quasi tutti gli altri attori dell’evento. Il ruotare all’indietro della testa del prigioniero serve ad accentuare ulteriormente questa centralità e a fondare il moto rotatorio di tutta la composizione intorno a questo asse: moto che si sviluppa dal Troiano posto più all’esterno, rappresentato di tre quarti, a quello condotto da Aiace Telamonio, collocato di pieno profilo, in modo da suggerire anche una dimensione spaziale in profondità, ulteriormente sottolineata dalla posizione del prigioniero sacrificato da Achille e dallo scudo posto di scorcio tra quest’ultimo e Patroclo (allo stesso modo, ad esempio, del cavallo visto da dietro nel mosaico pompeiano della Battaglia di Alessandro, che ha la stessa funzione compositiva). Siamo quindi in presenza di una raffinata espressione della pittura greca del IV secolo, la cui traduzione, nonostante gli adattamenti, ha perduto solo in parte le sue qualità originarie. Un confronto assolutamente pertinente, e contemporaneo, è quello che si può istituire con la scena della Cista Ficoroni (figg. 203-208, 210-211), che deriva da un’iconografia greca del tutto simile e contemporanea.
Radicalmente diverso, invece, è l’aspetto della scena etrusca posta di fronte: una serie di gruppi a due personaggi, accostati meccanicamente, la cui ripetitività non è riscattata, ma semmai accentuata dal tentativo ingenuo di variare gli schemi e i modi dell’azione. Alcuni di questi schemi tradiscono la loro derivazione da modelli greci, almeno in un’altra occasione utilizzati nella stessa tomba: è il caso del secondo gruppo da sinistra, quello che vede Larth
147. Vulci, Tomba François: Marce Camitlnas uccide Cneve Tarchunies Rumach (Roma, Villa Albani).
Ulthes uccidere Laris Papathnas (fig. 148) derivato evidentemente, con minime varianti, dal gruppo di Aiace Oileo e Cassandra, rappresentato sulla parete alla sinistra dell’ingresso: quest’ultimo ovviamente tratto da un modello greco.
Altri casi simili si ritrovano in altre parti del monumento: ad esempio, nei due gruppi simmetrici di Eteocle e Polinice da una parte, di Marce Camitlnas e Cneve Tarchunies Rumach (fig. 147) dall’altra, dove il secondo appare come un semplice calco rovesciato del primo; oppure nella rappresentazione di Fenice, silhouette pedissequa dell’Agamennone rappresentato nel sacrificio dei prigionieri troiani.
Questi procedimenti sono piuttosto comuni, tuttavia il fatto che i motivi siano tratti a volte dalle iconografie greche utilizzate nella stessa tomba rende praticamente certo che essi vennero inventati proprio per quest’ultima: in altri termini, non esisteva un repertorio iconografico relativo alle saghe locali, al quale attingere in questo caso particolare, e le scene della Tomba François furono realizzate appositamente, e probabilmente non più utilizzate in seguito. Ciò ne accresce naturalmente il valore documentario.
Per quanto riguarda l’organizzazione complessiva, contrariamente a ciò che ci dovremmo aspettare, la decorazione figurata non procede dall’ingresso verso il fondo, sottolineando così il percorso principale, ma, al contrario, dal fondo verso l’ingresso, concludendosi in corrispondenza del cubicolo di destra del tablino: di conseguenza, quest’ultimo viene a costituire un secondo polo, che è anche quello determinante per la costruzione complessiva del dipinto.
Tale anomalia può spiegarsi partendo dalla considerazione che al corredo della tomba apparteneva un’anfora attica a figure rosse, databile alla metà del V secolo, e cioè molto anteriore alla realizzazione del sepolcro stesso che è di circa un secolo più tarda. Inoltre, questo è sormontato da una tomba più piccola e più antica, che venne messa fuori uso al momento in cui esso fu scavato (fig. 145). La conclusione è evidente: nel sepolcro più antico venne deposto un membro della famiglia, vissuto nel V secolo, che in seguito fu traslato nella nuova tomba, andando ad occupare, in quanto antenato di prestigio, la cella più importante, quella collocata a conclusione dell’asse principale. Il personaggio cui si deve il secondo sepolcro, al quale si riferiscono le scene dipinte, venne collocato nella cella a destra dell’ingresso: questo sembra il motivo dell’andamento anomalo delle pitture, che confluiscono verso l’ingresso. Il fondatore della tomba è dunque il Vel Saties, rappresentato proprio a sinistra della porta di accesso alla cella, dove era sepolto (fig. 151).
Se torniamo alle scene principali, ci accorgiamo immediatamente della disposizione simmetrica che esse assumono, intuibile fin dall’ingresso: questa corrispondenza speculare dei due lati, destro e sinistro, si percepisce subito per la presenza, ai due lati della porta centrale della cella di fondo, di due figure legate, che vengono trascinate in direzioni opposte, con andamento divergente. Anche le figure
Alle pagine seguenti: 148. Vulci, Tomba François: scena di massacro a opera degli eroi vulcenti (Roma, Villa Albani).