noscere alla società romana della Media Repubblica uno statuto culturale relativamente evoluto, in grado di apprezzare e di adottare quanto nella cultura greca contemporanea appariva compatibile con le sue esigenze. Un tale giudizio si basa principalmente su un’apparente coincidenza con la tradizione antica: ma in realtà, quest’ultima è solo un’elaborazione della Tarda Repubblica, che riflette l’ideologia dominante della classe dirigente romana al momento della sua crisi. Per di più, la razionalizzazione moderna finisce per obliterare anche quei pochi dati, non omogenei con il canone moralistico tardo-repubblicano, che la letteratura romana trovava nelle sue fonti più antiche, e che non aveva potuto evitare di trasmettere: la rimozione di tali informazioni corrisponde a una tendenza degli studi moderni, che spiega la storia romana in senso evoluzionistico, e per questo prende per buona la ricostruzione tutta ideologica che l’aristocrazia romana dava del proprio passato. Nel nostro caso, tale impostazione va rovesciata: dobbiamo cioè esaminare le ragioni che nel corso della Media Repubblica resero possibili scelte e atteggiamenti, ritenuti inaccettabili e addirittura incomprensibili nel clima culturale della Tarda Repubblica. Si tratta, in altri termini, di storicizzare le informazioni di cui disponiamo, inserendole nel loro contesto reale. Ci accorgiamo così che il giudizio più radicalmente negativo sulle «arti banausiche» (cioè quelle in cui la manualità sembra prevalere sulla progettazione intellettuale) si raggiunge a Roma nel periodo compreso tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero: momento che coincide, sul piano economico-sociale, con la massima espansione del modo di produzione schiavistico e di conseguenza, sul piano ideologico, con la massima svalutazione del lavoro manuale. Non si tratta affatto, come si è pensato, di un’espressione tipica della società romana, conflittuale con quella greca, e quindi avversa alle arti figurative. A parte l’improponibilità di posizioni del genere in un momento in cui le due culture tendono a unificarsi, resta il fatto innegabile che gli scrittori greci contemporanei non esprimono in sostanza concetti diversi dagli scrittori romani. La svalutazione radicale delle arti figurative, in quanto tecniche manuali, è quindi un fatto epocale e culturale, non etnico. Ora, il momento storico in cui, nel mondo greco, si raggiunge il livello massimo di apprezzamento delle arti figurative – e parallelamente la più alta considerazione sociale dell’artista – è il periodo
150
classico, e cioè i secoli V e IV a.C. La figura di Fabio Pittore si inserisce perfettamente in tale contesto culturale, anche se come episodio marginale: cioè come esempio di mimetismo ellenizzante, in un momento in cui Roma stabilisce contatti intensi e diretti con il mondo ellenico. In effetti, come abbiamo visto, le notazioni di Dionigi di Alicarnasso permettono di inserire l’opera di Fabio entro la discussione critica sull’arte greca: vedremo in seguito che i prodotti della cultura figurativa romana contemporanea – dalla moneta, alla coroplastica, alla ceramica decorata – permettono di confermare e di ribadire tale giudizio. La stessa possibilità di un tale mimetismo culturale – che si riscontra anche nella redazione in greco dei più antichi annali ad opera di un discendente di Fabio Pittore – rinvia a una situazione sociale notevolmente diversa da quella dell’età tardo-repubblicana. La figura sconcertante di un aristocratico romano che pratica la pittura, addirittura firmando la sua opera, rinvia a una società in cui la presenza dello schiavo, e quindi la radicale svalutazione del lavoro manuale, era assai meno diffusa e determinante rispetto a periodi successivi: quindi, con paradosso solo apparente, a una società economicamente meno sviluppata, più arcaica, in cui l’attività culturale era meno specializzata, meno professionale, e quindi consentita ai ceti più alti della popolazione. Qualcosa di analogo si può riconoscere nell’ambito della letteratura, soprattutto per quanto riguarda la nascita del teatro professionistico a Roma. Intorno alla metà del III secolo si verifica il passaggio dalla performance «non letteraria», praticata dai giovani aristocratici, a una pratica «letteraria», riservata ormai ad autori e attori «professionisti», di rango sociale inferiore. Questo passaggio corrisponde alla dissoluzione finale della società romana arcaica e coincide con l’inizio del modo di produzione schiavistico. L’attività, evidentemente «non professionale», di Fabio Pittore si inserisce dunque all’interno di una dinamica sociale ben attestata e riconoscibile. Se ne può dedurre che l’introduzione di modelli greci nella cultura romana non si presenta sotto il segno univoco dello sviluppo. Essa risponde a logiche e funzioni diverse e talora opposte, determinate in modo prioritario dalla situazione interna, cioè dalla struttura della società romana, che accoglie, sceglie e rielabora gli impulsi provenienti dal mondo ellenico, sempre in funzione della propria natura e delle proprie esigenze.
7.2. La pittura trionfale La tradizione relativa a Fabio Pittore deve essere inserita nell’ambito di un settore fondamentale della pittura romana «celebrativa», che va sotto il nome di «pittura trionfale»: si tratta sostanzialmente dei quadri dipinti (tabulae triumphales) con rappresentazioni di carattere militare (combattimenti, assedi ecc.) che sfilavano nel corso del trionfo, e avevano lo scopo di illustrare al pubblico le imprese che giustificavano la concessione ai generali vittoriosi del diritto a celebrare la cerimonia. Di tali quadri, dipinti su tavole o su tele, nulla ovviamente ci è pervenuto: ci restano da una parte varie descrizioni, relative a cerimonie svoltesi in un lunghissimo periodo, fino alla tarda età imperiale; inoltre, la notizia di «repliche» più durature, affrescate sulle pareti di templi votivi, dedicati cioè a seguito di vittorie, e utilizzando il bottino di guerra (manubiae): è questo probabilmente il caso, come abbiamo visto, anche del Tempio di Salus, decorato da Fabio Pittore. Si tratta dei prototipi di quell’arte «storica» e celebrativa, le cui realizzazioni – soprattutto di età imperiale – sono pervenute fino a noi. A proposito del trionfo di Scipione Africano, Appiano (Punica, 66) si esprime in questi termini: Tutti avanzano coronati: precedono i suonatori di trombe e le portantine cariche delle prede: vengono trasportate torri, rappresentazioni delle città conquistate, quadri dipinti che raffigurano le imprese compiute. In seguito, oro e argento, sia in lingotti sia in monete e le altre cose di questo genere. Poi corone, concesse al comandante come premio del valore dalle città, dagli alleati o dallo stesso esercito; candidi buoi, elefanti e i comandanti cartaginesi e numidi prigionieri. Il generale vincitore è preceduto da littori che vestono tuniche rosse, dall’orchestra dei citaristi e dai satiri, alla maniera delle processioni etrusche, ornati di corone d’oro […] Segue il comandante, su un carro decorato di pitture, la testa coperta da una corona d’oro gemmata, vestito secondo il costume patrio di una toga purpurea, trapunta di stelle d’oro, con lo scettro d’avorio in mano, che per i Romani è sempre simbolo di vittoria […] Seguono i soldati, distinti in turme e coorti, tutti coronati, con rami d’alloro in mano, i più valorosi anche con le loro decorazioni militari.
L’illustrazione delle imprese vittoriose attraverso quadri dipinti si prolungherà senza sostanziali cam-
biamenti fino alla fine dell’Impero: ancora a proposito di Settimio Severo, Erodiano (III, 9, 12) ricorda che l’imperatore «scrisse al Senato e al popolo, magnificando i suoi successi e fece esporre quadri che riproducevano le battaglie e le vittorie». Tali quadri sono probabilmente all’origine dei grandi pannelli che, su più registri sovrapposti, raffigurano scene di assedio e di battaglia nell’arco trionfale che Severo fece innalzare nel Foro Romano nel 203 (fig. 138): riprendendo ancora una volta, a cinque secoli di distanza, il tipo di rappresentazione su più registri, che appare nelle pitture del sepolcro di Fabio sull’Esquilino. Silio Italico nel suo poema (La guerra punica, VI, 653 ss.) mette in scena un episodio fittizio, e cioè la visita di Annibale a Literno, in Campania: la scelta non è casuale, perché in questa località (colonia marittima fondata solo nel 194 a.C.) Scipione Africano farà costruire una villa, dove morì e venne sepolto. Il poeta immagina che qui, in un grande portico, fossero rappresentate per intero le vicende dell’interminabile prima guerra punica: Lì, mentre il comandante osserva il tempio e le case della paludosa Literno, scorge pitture dagli splendidi colori, testimonianza della guerra precedente, sostenuta dai padri – infatti si conservavano intatte nei portici – di cui si poteva ammirare lo sviluppo esteso per lungo tratto. All’inizio era rappresentato Attilio Regolo che, con volto severo, incitava alla guerra, guerra che avrebbe piuttosto rifiutato se avesse potuto prevederne l’esito. E colui che per primo l’aveva dichiarata ai Cartaginesi secondo il rito ancestrale, Appio, al suo fianco, coronato di alloro, conduceva un trionfo meritato per la strage dei Sarrani. Successivamente, onore del mare e trofeo navale, sorgeva la massa bianchissima di una colonna ornata di rostri e Duilio, che primo di tutti aveva affondato una flotta punica in alto mare, dedicava la preda a Marte. Accanto a lui, di ritorno dalla cena, onore notturno, appaiono torce accese e un tibicine sacro: così egli rientrava ai suoi casti penati, festeggiato da una musica allegra. [Annibale] vede anche gli estremi onori resi a un concittadino defunto: Scipione celebra il funerale di un comandante cartaginese, dopo averlo vinto nella terra sarda. Vede più avanti giovani guerrieri di schiere sbandate, in fuga sulle rive africane: li insegue, con la testa coperta da un fulgido elmo, e li incalza alle spalle Regolo; Autololi e Nomadi, Mauri e Garamanti, deposte le armi, gli consegnano le cit-
151