STORIA DELL’ARTE ROMANA
L’arte romana ha imposto le sue scelte estetiche a un vasto Impero e continua, ben al di là delle frontiere all’interno delle quali si esercitava l’Imperium Romanum e senza che i nostri contemporanei ne abbiano avuto sempre coscienza, a costituire gran parte del nostro universo visuale. La ricerca si è concentrata da tempo sulla caratterizzazione dell’arte romana, allontanandosi da visioni semplicistiche, che ne facevano, per esempio, una mera trasformazione degenerata dell’arte greca. È pertanto tempo di fare il punto sullo stato attuale delle nostre conoscenze e di far conoscere ad un largo pubblico la ricchezza impressionante costituita non solo dalla massa delle opere conservate, ma soprattutto dal moltiplicarsi delle forme e dei significati che esse offrono al nostro sguardo e alla nostra intelligenza.
LE ORIGINI DI ROMA LA CULTURA ARTISTICA DALLE ORIGINI AL III SECOLO A. C. Filippo Coarelli LA REPUBBLICA DALLE CONQUISTE ALLE GUERRE CIVILI Gilles Sauron FIGURE DELL’ARTE IMPERIALE DA AUGUSTO A COSTANTINO Bernard Andreae IL TARDO IMPERO DA COSTANTINO ALLA FINE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE Josef Engemann Volume speciale IL VOLTO SEGRETO DI ROMA L’ARTE PRIVATA TRA LA REPUBBLICA E L’IMPERO Gilles Sauron
Filippo Coarelli
LE ORIGINI DI ROMA LA CULTURA ARTISTICA DALLE ORIGINI AL III SECOLO A.C.
Nuova edizione © Editoriale Jaca Book giugno 2021
INDICE
© Internazionale 2011 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Editions A. et J. Picard, Paris Verlag Philipp von Zabern, Mainz Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana settembre 2011 Copertina e grafica Jaca Book / Alessandra Prina Stampa e legatura Tipolitografia Pagani Srl Passirano (BS) maggio 2021
INTRODUZIONE PARTE PRIMA LA CITTÀ ARCAICA 1. IL PRIMO URBANESIMO 1.1. La nascita della città 1.2. Le mura e lo spazio urbano 1.3. Le strutture urbanistiche: vie e porte 1.4. La città dei morti 2. I PRINCIPI DEL LAZIO 3. L’ELLENIZZAZIONE E I SUOI LIMITI 4. L’INTRODUZIONE DELLA SCRITTURA E LA CULTURA ORALE 5. GLI EDIFICI DI CULTO 5.1. Il tempio greco e il tempio italico 5.2. Il tempio a Roma: le testimonianze letterarie 5.3. Il Tempio di Giove Capitolino 6. LA REGIA DI ROMA E LE «REGGE» ETRUSCHE 7. FORTUNA E MATER MATUTA 8. ALTRI CULTI, ALTRE IMMAGINI 9. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
ISBN 978-88-16-60655-5 Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 – 342 5084046 libreria@jacabook.it; ebook: www.jacabook.org Seguici su .
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PARTE SECONDA LA MEDIA REPUBBLICA 1. IL QUADRO STORICO 2. LA SCENA PUBBLICA DELLA CITTÀ 3. LE FONDAZIONI COLONIALI 4. L’ARCHITETTURA TEMPLARE 5. I DEPOSITI VOTIVI
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6. L’ARCHITETTURA DOMESTICA 7. LA PITTURA UFFICIALE 7.1. Fabio Pittore 7.2. La pittura trionfale 7.3. La pittura funeraria a carattere storico 7.4. La Tomba François 8. LE TOMBE GENTILIZIE 8.1. Il sepolcro degli Scipioni 8.2. Il sepolcro dei Cornelii e le altre tombe della Media Repubblica 9. LA SCULTURA E IL RITRATTO UFFICIALE 10. LA MONETA 10.1. La prima coniazione del bronzo 10.2. La coniazione dell’argento 10.3. La moneta «romano-campana» 10.4. La monetazione aurea 10.5. Il denario 11. L’ARTIGIANATO ARTISTICO 11.1. Roma e Preneste 11.2. La Cista Ficoroni 11.3. Artigianato prenestino e artigianato romano 11.4. La produzione ceramica a Roma e nelle colonie romane
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CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA
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INDICE ANALITICO
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INTRODUZIONE
La nascita e il primo sviluppo di una cultura artistica riconoscibile come «romana» erano collocati, in anni non troppo lontani, solo all’inizio del I secolo a.C., nella cosiddetta «età di Silla». In tal caso, la stessa possibilità di scrivere un libro come questo sarebbe esclusa. Tuttavia, lo sviluppo della ricerca ha permesso di dimostrare quanto errato e paradossale fosse tale giudizio, basato non solo su una reale esiguità della documentazione (fatto innegabile), ma soprattutto sul pregiudizio accademico che identificava nell’arte romana solo l’estrema espressione, quasi un prolungamento decadente, dell’arte greca. La reazione che, in seguito, ha inteso rivendicare l’originalità delle manifestazioni artistiche italiche – prima ancora che romane – ha cercato la soluzione in una pretesa «struttura profonda» di esse, del tutto autonoma e indipendente dalla visione artistica greca. In realtà, in questi termini il problema è insolubile, perché mal posto: proporlo in termini di opposizione schematica Grecia-Roma, andando poi a cercare nella documentazione quelli che sarebbero i «caratteri originari», l’«essenza» di ognuna di esse non porta da nessuna parte: se si considerano senza pregiudizi i fatti, risulta accertato che la formazione della cultura romano-italica non può essere dissociata, fin dalle sue origini, dai modelli ellenici. Oggi le due posizioni speculari precedentemente evocate – quella ottocentesca, che vedeva nell’arte romana una semplice propaggine decaduta dell’arte greca, e quella novecentesca, che affermava la radicale alterità della prima rispetto alla seconda – appaiono, in base alla documentazione disponibile,
superate. Nella ricerca attuale, che tiene più conto delle discipline antropologiche, il centro dell’interesse, quando si tratti di rapporti tra culture diverse, si è trasferito dal livello dei cosiddetti «influssi» al livello di un rapporto dialettico, che tiene conto non solo del punto di partenza (la cultura «che dà»), ma anche del punto di arrivo (la cultura «che riceve»): dove il secondo elemento appare determinante quanto il primo. In altri termini, appare fondamentale il momento della «scelta», che non è mai un fenomeno meccanico. D’altra parte, l’emergere di una cultura «romana» non può essere distinto, in un momento iniziale, dal contesto complessivo in cui la città è immersa, che comprende non solo il resto del Lazio (fig. 1), ma anche l’Etruria, la Campania e la Magna Grecia. Si tratta dunque, alle origini, di una koiné, di una comunità culturale sufficientemente omogenea, che coinvolge l’intera Italia tirrenica: quest’ultima appare interessata da un precoce processo di urbanizzazione, che dipende tanto da uno sviluppo interno, quanto dai modelli ellenici, che si rendono disponibili in seguito alla colonizzazione greca dell’Italia meridionale. In un primo tempo, piuttosto che di «arte romana» sarà opportuno parlare di «arte a Roma», dal momento che sarebbe difficile discernere una specificità della città nell’ambito di una situazione sostanzialmente unitaria. Solo quando essa sarà emersa dalla fase oscura del V secolo a.C., e avrà portato avanti la progressiva conquista della penisola, si determineranno le condizioni storiche per la nascita e il consolidamento di una cultura figurativa autonoma.
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fase si può fissare intorno al 570 a.C., confortando così l’attribuzione antica a Servio Tullio. Questa obbiettiva conferma, nelle grandi linee, della storicità degli ultimi re non significa naturalmente che si debba accettare in tutti i dettagli il racconto annalistico, per tornare alla posizione precritica della storiografia anteriore al XVIII secolo: se da una parte è impossibile negare il carattere leggendario di gran parte di questa tradizione (ma anche le leggende non sono gratuite e hanno una loro funzione, che va compresa e spiegata!), dall’altra la natura stessa della documentazione disponibile non permette – e probabilmente non permetterà mai – di ricostruire la «storia degli avvenimenti» di Roma arcaica. Un altro punto fondamentale va preliminarmente considerato: l’interesse principale della storiografia moderna si è spostato, dopo l’Ottocento, verso ambiti molto più estesi di quelli frequentati in precedenza, che si limitavano in genere alla storia politica, militare e istituzionale. Dobbiamo così parlare non più di «storia» ma di «storie»: storia delle strutture (economia, società) e storia delle idee (religione, mentalità, immaginario collettivo ecc.). Tutto ciò ha modificato le problematiche e allo stesso tempo imposto l’utilizzazione di nuovi metodi e di nuove classi di documenti. Per gli aspetti strutturali, il ruolo dell’archeologia appare dominante; per quelli ideologici, dovremo ricorrere sempre più alle discipline antropologiche. Partendo da queste ultime, è possibile rivalutare anche il ruolo della tradizione antica: se i limiti di questa sono evidenti ed ineliminabili per quanto riguarda la storia degli avvenimenti (soprattutto politici e militari), non altrettanto si può dire per la storia delle idee, che comprende i dati mitici e leggendari, dei quali si possono analizzare la complessa stratificazione e la cronologia attraverso metodi analoghi a quelli dello scavo archeologico. In questa prospettiva, un’opposizione radicale tra «mito» e «storia», come quella proposta dalla storiografia ottocentesca, perde in parte il suo valore, nel senso che il mito può essere anch’esso oggetto di storia e, uscendo da una polarizzazione meccanica e astratta «vero-falso», può entrare a pieno diritto nel quadro di una storia delle idee. Come si comprenderà facilmente da quanto si è andato finora dicendo, una storia dell’arte del periodo qui considerato non potrà in nessun caso limitarsi agli aspetti formali e stilistici: ogni monumento, ogni oggetto preso in esame richiede infatti un’analisi preliminare dettagliata, utilizzando tutte le tecniche
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Il periodo cruciale è dunque quello medio-repubblicano, corrispondente ai secoli IV e III a.C. Per quanto riguarda le fasi più antiche di questo lungo processo di formazione, dobbiamo tener conto di un’altra difficoltà: il confronto – a volte piuttosto un dialogo tra sordi – con la posizione storiografica ancora egemone, che ha radicalmente posto in dubbio la tradizione tramandata dagli annalisti latini sui primi secoli di Roma. Perfettamente legittima sul piano teorico, quando si proponga come approccio necessariamente critico a un periodo oscuro, questa dottrina ha finito per andare oltre il limite, su cui i dati disponibili e forse la stessa ragionevolezza avrebbero permesso di attestarsi. Tuttavia, nonostante tale posizione ipercritica, alcuni nodi fondamentali della storia primitiva di Roma hanno resistito, come ad esempio la storicità di un regime monarchico originario e di alcuni elementi strutturali ad esso collegati, di carattere istituzionale e ideologico, come la religione, il diritto, il calendario. Si tratta di una base sufficientemente solida, da cui prendere le mosse per metter mano alla costruzione di una storia di Roma arcaica: a tal fine è indispensabile raccogliere un complesso quanto più ampio possibile corpus di dati, indipendenti dalle testimonianze letterarie, sulle quali pesa il sospetto della manipolazione. Tali dati possono provenire solo dalla ricerca archeologica: da questo punto di vista, gli ultimi decenni sono stati un periodo di grande fervore e di grande progresso delle nostre conoscenze, che hanno portato alla conferma di una certa parte della tradizione antica, soprattutto nel campo strutturale e ideologico (economia, società e cultura). Anche la storicità degli ultimi re di Roma, i Tarquinii e Servio Tullio, e di alcuni consoli dell’inizio della Repubblica, come Publio Valerio Publicola, non è più esclusa in via di principio: in quest’ultimo caso, fondamentale è stata la scoperta di un documento epigrafico, l’ormai celebre lapis Satricanus. A questo proposito, vanno menzionati almeno il riconoscimento delle fasi edilizie della Regia, che sembrano coincidere con la cronologia tradizionale degli ultimi re; la datazione agli ultimi decenni del VII secolo a.C. del primo pavimento del Foro, che richiese la sistemazione idraulica della zona, in armonia con la tradizione antica che attribuiva a Tarquinio Prisco la realizzazione delle cloache; infine, lo scavo dell’«area sacra» di S. Omobono, con la scoperta dei templi di Fortuna e di Mater Matuta, la cui prima
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1. Mappa del Lazio arcaico.
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disciplinari a disposizione, anche solo per trovare collocazione (e spesso in via di mera ipotesi) nel suo contesto e nella sua giusta cronologia. Così si noterà, ad esempio, l’esclusione del monumento considerato più rilevante, anche dal punto di vista simbolico, di tutta l’arte arcaica romana: la Lupa Capitolina. Analisi recenti hanno infatti dimostrato che si tratta in realtà di un’opera medievale! In conclusione, quella che si troverà in queste pagine, nella maggioranza dei casi, è piuttosto una
storia della cultura materiale che una vera e propria storia dell’arte. D’altra parte, come si è spesso ripetuto − e a ragione − l’arte antica (e soprattutto quella italico-romana, che non sottende mai teorie estetiche anche lontanamente comparabili a quelle greche) è sostanzialmente una forma di alto artigianato. Sarebbe errato cercare in essa valori e significati che sono propri di periodi a noi più vicini, proiettando in tal modo nell’antichità, abusivamente, le nostre forme mentali, se non piuttosto i nostri fantasmi.
PARTE PRIMA LA CITTÀ ARCAICA
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1. IL PRIMO URBANESIMO
1.1. La nascita della città La città si presenta agli scrittori antichi, sinteticamente, come uno spazio ideale, che si concreta materialmente in alcune presenze fisiche ricorrenti: delimitazione visibile ne sono le mura, all’interno delle quali emergono alcuni punti focali: il centro economico e politico (l’agorá, il forum) e il centro religioso, in particolare il tempio della divinità protettrice della città («poliade»), per lo più situata sull’acropoli (arx, «luogo alto»). La ricerca moderna, soprattutto archeologica, introducendo parametri diversi di definizione (centrati sugli aspetti socio-economici) ha determinato una certa sottovalutazione dell’idea antica di città (sostanzialmente, della polis greca) che viene considerata come puramente formale. Da qui la reazione di molti storici, che mirano a rivalutarla, tacciando di modernismo l’approccio meramente economico-sociale. Questa polarizzazione sembra impropria, basata com’è su un falso problema. Certo, sarebbe difficile sottovalutare l’importanza delle strutture materiali per la nascita della città; tuttavia, sarebbe altrettanto errato respingere come puramente formali ed estrinseche le spiegazioni antiche, che hanno quanto meno il pregio di riflettere le forme mentali di un’epoca storica determinata. In realtà, non dobbiamo rinunciare a nessuno dei due metodi, che permettono di accedere ad aspetti diversi, anche se intimamente connessi, della stessa realtà. Le due percezioni, strutturale e ideologica, possono anzi corrispondere a due momenti diversi nella storia urbana: la prima si applica meglio alle fasi iniziali, quando si impongono
le condizioni materiali (necessarie ma non sufficienti); la seconda corrisponde alle fasi finali del processo, quando questo viene interiorizzato e consapevolmente realizzato nella sua forma finale. Non è certo un caso se gli «archeologi» tendono, in generale, ad anticipare il processo, situandolo in piena Età del Ferro (se non prima), e parlando di proto-urbanizzazione, mentre gli «storici» preferiscono spostarlo in epoche più recenti: sembra in realtà che si tratti di due momenti successivi di uno stesso fenomeno, da interpretare come un processo secolare, che viene a coagularsi in un momento puntuale, quello cioè della sua formalizzazione definitiva. È questo il momento meglio documentato, proprio perché segnalato dalle fonti letterarie e insieme dalla realizzazione di strutture esemplari, che ne costituiscono l’apparenza fenomenica. Gli indicatori che attestano l’avvenuta costituzione della città sono essenzialmente tre: 1. la delimitazione dello spazio urbano, che lo distingue dalla campagna (ager), intesa come il luogo di produzione appartenente ai cittadini, i cui diritti discendono direttamente dalla proprietà della terra; 2. la creazione di un centro (il Foro), luogo dell’attività pubblica (politica, amministrativa e giudiziaria) dei cittadini; 3. la definizione di un’acropoli (Arx), sede della divinità principale (poliadica), garante del rapporto della comunità con il divino. Tutte queste condizioni sono attestate a Roma nel periodo definito «orientalizzante recente», compreso tra gli ultimi decenni del VII e i primi del VI
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[Romolo] scavò una fossa circolare nella zona dove è ora il Comizio, per deporvi le primizie di tutto quanto era utile per consuetudine o necessario
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La concezione dello spazio a Roma è legata fin dall’inizio a pratiche religiose, gestite da uno speciale sacerdozio, quello degli auguri, la cui funzione principale è quella (non di carattere tecnicamente divinatorio) di consultare gli dei, per ottenerne l’approvazione, prima di ogni rilevante operazione di carattere pubblico. In particolare, l’intervento degli auguri è richiesto per delimitare spazi qualificati (templa), destinati a funzioni essenziali, ad esempio all’attività politica (Curia, Comitium) oppure – tramite una successiva consacrazione, ad opera dei pontefici – alle pratiche del culto. L’intervento degli auguri è indispensabile al momento della fondazione delle città: nel caso di Roma, l’augure è lo stesso Romolo, che interpella la volontà degli dei attraverso l’osservazione degli uccelli e, ottenutane l’autorizzazione, traccia con l’aratro un solco tutt’intorno alla superficie corrispondente alla futura città, separando così l’interno dall’esterno. Tale linea «inaugurata» (nel senso etimologico del termine: fissata dagli auguri) assume il nome di pomerium, cioè post moerium (murum), «dietro il muro», da intendere come «all’interno delle mura»: si tratta del limite che distingue un’area destinata all’attività civile (urbs) da un’altra a partire dalla quale ha efficacia solo il potere militare (ager). Dal momento che gli armati non possono entrare nello spazio urbano, la fascia così risparmiata all’interno delle mura permette loro di disporsi a difesa della città, senza violare questo tabù. Lo spazio così ritualmente fondato («inaugurato») prevede, oltre a un limite esterno, anche un polo centrale (mundus), una fossa rituale destinata a mettere in comunicazione le tre regioni divine: il cielo, la terra e il sottosuolo, conferendo alla città la natura e l’aspetto di un organismo cosmico, in sé concluso. Un’affascinante descrizione delle procedure di fondazione si trova nella Vita di Romolo di Plutarco (11, 2):
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Questo passo, tratto certamente da Varrone, è prezioso, perché permette di localizzare il Mundus presso il Comizio, e quindi di identificarlo con la piccola costruzione circolare ancora esistente nel Foro, e denominata Umbilicus urbis da fonti tarde. La fondazione descritta si riferisce chiaramente non alla città palatina, ma a quella, assai più ampia, centrata sul Foro, che comprende ormai l’intera area delle sette colline tradizionali, attribuendo a Romolo un’azione che si identifica in realtà con la creazione del centro di età arcaica (quello dei Tarquinii e di Servio Tullio): si tratta di un procedimento di «romulizzazione», spesso utilizzato dagli annalisti antichi: cioè l’attribuzione al fondatore mitico di azioni in realtà successive. Questa operazione sembra dunque coincidere con la fondazione rituale di età arcaica, che prevede un limite (pomerio e mura) esteso a gran parte dell’area occupata anche in seguito dalla città e un centro (religioso, oltre che politico) coincidente con il Foro. Per quest’ultimo, siamo in grado di fissare questo momento alla fine del VII secolo (data tradizionale di Tarquinio Prisco). Una data non troppo diversa dovrebbe postularsi anche per la costruzione delle più antiche mura. L’esistenza di fortificazioni fin dalle origini della città è ricordata dagli scrittori antichi, che distinguono sostanzialmente due fasi principali: una prima, attribuita a Romolo, limitata al Palatino; una seconda, collegata ai Tarquinii, o più spesso a Servio Tullio. Fino all’Ottocento quest’ultima veniva identificata con i numerosi tratti di mura, realizzati in opera quadrata di tufo di Grotta Oscura, visibili in più punti della città. In seguito, grazie a studi più approfonditi, apparve chiaro che si trattava in realtà di una cinta databile ai primi decenni del IV secolo, subito dopo l’incendio gallico del 390 a.C. (fig. 2). Il materiale impiegato, proveniente da cave del territorio di Veio, dimostrava che i lavori non potevano essere iniziati prima della conquista di quest’ultima, nel 396 a.C. Si tratta quindi delle mura che, secondo Livio (VI, 32, 1; VII, 20, 9), erano in costruzione nel 378 a.C. Da questo momento in poi, anche se non manca qualche voce discorde, è prevalsa tra gli studiosi l’i-
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1.2. Le mura e lo spazio urbano
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per natura. E infine ciascuno, portando un po’ di terra dal paese da cui proveniva, la gettò dentro e la mescolò insieme. Chiamarono questa fossa con lo stesso nome con cui designano il cielo, mundus. Poi, considerando questo punto come centro, tracciarono il perimetro della città.
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secolo a.C.: corrispondenti, certo non a caso, alla cronologia tradizionale del primo dei Tarquinii e di Servio Tullio, a cui la tradizione antica attribuisce esplicitamente il momento conclusivo del processo di urbanizzazione.
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2. Pianta di Roma arcaica, con il tracciato delle Mura Serviane. 1-23: tratti delle mura in cappellaccio.
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terrapieni (aggeres) che sbarrano l’accesso principale dei centri abitati. A partire dal VI secolo, vediamo apparire le cinte continue, realizzate in opera quadrata di tufo: è questo il caso della stessa città-madre dei Latini, Lavinio. Sembra quanto meno improbabile che, contemporaneamente, la città più estesa e potente del Lazio restasse ancora priva di mura. Ma, a parte queste considerazioni, più o meno opinabili, l’esame stesso del monumento permette di arrivare a conclusioni analoghe. Un primo punto riguarda la costruzione dell’agger, la potente opera difensiva (fig. 3) costituita da un terrapieno e da un fossato antistante, destinata a proteggere il lato orientale della città che, per la sua situazione pianeggiante, era privo di difese naturali e richiedeva una fortificazione più potente. Un accurato saggio elaborato da Giacomo Boni nel 1907, durante la costruzione del Ministero dell’Agricoltura sul Quirinale, ha permesso di riconoscere la stratigrafia del terrapieno, costituita da cinque strati successivi: i due superiori, più recenti, si addossano direttamente al muro di Grotta Oscura, che costituisce la facciata esterna dell’Agger; i tre inferiori, invece, sono chiaramente tagliati dallo stesso muro: di conseguenza, non ci sono dubbi sulla presenza di una fortificazione anteriore al IV secolo a.C. Il penultimo strato si può datare, per la presenza di un frammento di ceramica attica dei primi anni del V secolo, all’inizio della Repubblica, mentre l’ultimo,
dea che la città non fosse dotata di mura (o almeno di una cinta continua) prima di quest’ultima data: sembrava impossibile infatti che l’enorme area che esse includevano (circa 426 ettari) fosse già quella della città arcaica, che si immaginava, in base a un modello sostanzialmente evoluzionistico, assai più ridotta rispetto a quella del IV secolo. L’esistenza di una cinta arcaica venne da allora esclusa, in armonia con la teoria ipercritica, quasi incontrastata fino ad anni non lontani, che nega la realtà di una «Grande Roma dei Tarquinii». Solo di recente, in base a una documentazione archeologica in continua espansione, la discussione si è riaccesa, riproponendo, a partire da una massa di conoscenze incomparabilmente più ampia, la vecchia tesi di Giorgio Pasquali: la serie di nuovi studi è confluita alcuni anni fa in una grande mostra, che ne riassume i risultati e che reca lo stesso titolo: La grande Roma dei Tarquinii (Roma 1990). In un tale contesto si è riacceso anche l’interesse sulle mura urbane: accostandoci senza pregiudizi al problema, ci accorgiamo presto che i dati che confermano l’esistenza di una cinta precedente a quella di IV secolo sono sufficientemente numerosi ed eloquenti da autorizzare quanto meno la riapertura del problema. In primo luogo, bisogna sottolineare che l’esplorazione archeologica recente ha dimostrato l’esistenza di fortificazioni di grande antichità in molti siti del Lazio: in un primo tempo (VIII secolo a.C.) si tratta di grandi
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3. Sezione dell’Agger.
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4. Tratto delle mura del IV secolo a.C., in blocchi di tufo di Grotta Oscura (Stazione Termini).
ovviamente il più antico, è certamente anteriore, e quindi ancora di età regia. Se molti studiosi sono oggi d’accordo per attribuire l’Agger al VI secolo a.C., non altrettanto avviene per il resto della cinta muraria. La soluzione corrente è quella che propone l’esistenza di fortificazioni parziali, costituite da tratti di mura limitati ai luoghi pianeggianti tra un colle e l’altro. Ancora una volta, si ritiene che la cinta continua in opera quadrata sarebbe stata realizzata solo nel IV secolo. A ben guardare, l’esistenza di un Agger arcaico implica anche la presenza di una cinta continua: altrimenti il potenziale difensivo del primo sarebbe stato completamente vanificato dalla possibilità di penetrare agevolmente in qualsiasi altro punto del perimetro urbano. Inoltre, l’esistenza di strutture attribuibili ad età arcaica in numerosi punti del recinto murario sembra sicura: si tratta di murature in opera quadrata realizzate in cappellaccio (il tufo friabile che si ritrova in vari punti dell’area urbana), che presentano caratteristiche del tutto diverse rispetto a quelle in Grotta Oscura. Questo tipo di materiale è utilizzato esclusivamente in età arcaica, come risulta da numerosi resti di edifici ben databili, a partire dal Tempio di Giove Capitolino. La sua scarsa compattezza rende necessario un taglio dei blocchi limitato a un piede di altezza, la metà rispetto a quelli di Grotta Oscura,
anche se la lavorazione appare nel primo caso assai più accurata. Ciò impedisce di pensare che l’utilizzazione dei due materiali possa essere contemporanea. Tratti di queste strutture si conservano ancora in numerosi punti della cinta muraria, e in alcuni casi è possibile stabilire con sicurezza che essi costituiscono una fase diversa e anteriore rispetto al muro in tufo di Grotta Oscura. Esamineremo qui solo i casi più evidenti. Uno scavo di alcuni decenni fa sotto la chiesa di S. Vito, dove si trovava la Porta Esquilina (ancora conservata nel suo rifacimento augusteo, il cosiddetto Arco di Gallieno) ha portato alla luce due tratti di mura, uno in cappellaccio, l’altro in Grotta Oscura. Che si tratti di fasi diverse, successive nel tempo, risulta chiaramente dal fatto che il primo corre a un livello inferiore, e anche con un andamento nettamente divergente rispetto al secondo: si tratta dunque, senza possibilità di dubbio, di due cinte successive, la prima delle quali, quella in cappellaccio, è dunque anteriore all’inizio del IV secolo ed è databile di conseguenza al periodo arcaico. Dati ancora più decisivi si ricavano dall’osservazione del settore più importante, quello dell’Agger, conservato per notevole lunghezza in Piazza dei Cinquecento, presso la Stazione Termini (fig. 4). Qui si può tra l’altro osservare – fatto certamente non casuale, se si tiene conto dell’importanza cruciale di
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questo settore per la difesa della città – la massima concentrazione di interventi di restauro. A parte il lungo settore in Grotta Oscura, adiacente alla stazione (il più importante tra quelli conservati), che mantiene l’aspetto originario del IV secolo, tutti gli altri appartengono a rifacimenti tardo-repubblicani, realizzati in blocchi di tufo litoide legati tra loro con grappe di ferro (fig. 63), o addirittura in opera cementizia con paramento in reticolato (pertinente questo all’ultima fase, collegata con la guerra sociale e le guerre civili del I secolo a.C.). Nel settore successivo, che corre lungo le pendici nord-occidentali del Quirinale, non si nota nulla di simile: tutti i tratti conservati sono in cappellaccio, praticamente senza restauri successivi. Ciò si spiega con la situazione naturale del colle, caratterizzato su questo lato da profondi dislivelli, che rendevano inutile il potenziamento delle difese: queste conservarono così il loro aspetto originario, arcaico. Si tratta di un’altra conferma dell’anteriorità delle strutture in cappellaccio rispetto a quelle di Grotta Oscura. Un dato ulteriore si desume dall’aspetto del muro interno di controscarpa, che corre per una lunghezza notevole da un capo all’altro della Piazza dei Cinquecento, a circa 30 metri dalla fronte della fortificazione, e che era destinato a sostenere il grande terrapieno dell’Agger (un bel tratto se ne può ammirare nei sotterranei della Stazione Termini). Non solo esso è realizzato in cappellaccio, ma corre con andamento piuttosto sinuoso, e comunque divergente da quello del muro frontale che, come si è visto, presenta un aspetto variegato, con rifacimenti compresi tra il IV e il I secolo a.C. Da tutto questo si deduce la non contemporaneità delle due strutture: in effetti, mentre per quella esterna si intervenne più volte, modificandone anche il percorso, per migliorarne le qualità difensive, per il muro di controscarpa ogni rifacimento era evidentemente inutile: in questo caso si tratta dunque della struttura originaria, di età arcaica. L’ultimo settore da prendere in considerazione è particolarmente significativo: esso si trova sull’Aventino, immediatamente a nord-ovest di S. Sabina, lungo il margine della collina rivolto verso il Tevere. La scoperta avvenne nel 1855, ma in seguito il luogo rimase inaccessibile fino al 1936, quando fu possibile accedervi e studiarlo. Vi si riconoscono due parti nettamente distinte: al di sotto una struttura a blocchi di cappellaccio, sulla quale si appoggia un muro in blocchi di Grotta Oscura. L’ipotesi che si tratti di parti di una stessa opera, realizzata con materiali diversi, non regge: a
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parte l’assurdità di una fondazione in materiale assai meno resistente rispetto alla muratura sovrastante, resta il fatto che i filari di cappellaccio, come avviene anche altrove, seguono un andamento che si adatta ai dislivelli del suolo, cosa impossibile per i più grandi blocchi di Grotta Oscura, che erano collocati in orizzontale: per rendere possibile la loro collocazione, evidentemente successiva, fu necessario livellare la precedente struttura: ancora una volta, una conferma dell’anteriorità del muro in cappellaccio. Questo settore riveste un’importanza cruciale anche da un altro punto di vista: esso si trova in una zona, l’Aventino, che rimase esterna al pomerio fino all’età di Claudio: per questo, anche gli archeologi favorevoli alla datazione arcaica della cinta «serviana» lo escludevano dal percorso più antico. In realtà, pomerio e mura sono entità di segno e funzione diversi: religioso il primo, pratico le seconde. Possiamo concluderne che l’Aventino risultava fin dall’inizio compreso tra le mura e il pomerio, al di fuori di quest’ultimo. Le conseguenze di tutto ciò sono importanti: ne deduciamo infatti che le mura di VI secolo seguivano sostanzialmente lo stesso percorso di quelle di IV, e che di conseguenza la città arcaica occupava una superficie, identica a quella di età medio-repubblicana, di circa 426 ettari. Un’area enorme, superiore a quella di tutte le principali città etrusche, e comparabile solo con quella delle più grandi città greche. Questo dato, da solo, dimostra in modo evidente l’importanza della città arcaica, anche dal punto di vista demografico ed economico. Altre conferme emergeranno dall’esame dei documenti archeologici, sia pur frammentari, apparsi in vari punti di questa estesissima superficie. 1.3. Le strutture urbanistiche: vie e porte In primo luogo, è opportuno coniugare questo primo, essenziale dato quantitativo con una serie di altri elementi, ad esso organicamente connessi, che permettono di confermarlo, precisarlo e arricchirlo: cioè il complesso integrato costituito dalle vie e dalle porte, che si aprono nelle mura (fig. 2). Da questo fascio di dati emergerà la possibilità di ricostruire una, sia pur essenziale, griglia urbanistica della città arcaica. La sostanziale identità di percorso delle mura arcaiche e delle mura repubblicane permette di introdurre un primo corollario: la possibilità di collocare le porte urbane più antiche nella stessa posizione di quelle che ci sono note in periodi successivi. È in-
fatti evidente che, poiché queste ultime si aprivano in corrispondenza di percorsi viari di dimostrabile antichità, la loro posizione risultava in seguito immodificabile. Lo studio integrato di mura, porte e percorsi viari permette così di ricostruire una griglia di strade, verosimilmente originaria, la cui cronologia potrà essere verificata punto per punto sulla base di singole scoperte archeologiche. In primo luogo, si deve osservare che gli stessi nomi di vie e porte contengono in sé elementi sicuri di datazione. Per quanto riguarda le vie extraurbane, è possibile ricostruire un quadro cronologico articolato su tre livelli: quello più antico corrisponde alle vie con nomi di funzione o geografici (via Salaria, via Tiberina) che risalgono qualche volta ad età addirittura protostorica. Esse costituiscono una rete di preesistenze, alla quale la città si sovrappone solo in un secondo tempo. Un secondo livello è costituito da strade denominate in base alla loro destinazione (via Labicana, via Tiburtina, via Prenestina ecc.) che, per essere collegate a centri urbani ormai consolidati, ci appaiono contemporanee alla nascita di questi ultimi. Un terzo livello, che viene a configurare un sicuro termine ante quem per gli altri, sono le strade che prendono nome da un magistrato: in questo caso, conosciamo con certezza l’inizio del fenomeno, il 312 a.C., data della fondazione della prima di esse, la via Appia. Possiamo concludere che il dato essenziale, per quanto qui interessa, corrisponde al secondo livello, quello delle strade con nome derivato dal centro di destinazione, sempre appartenente al Latium vetus (ciò che conferma il quadro di riferimento, chiaramente arcaico). Dobbiamo ora collegare questi dati dapprima alle porte delle Mura Serviane, successivamente alle vie urbane. Le porte delle Mura Serviane (fig. 2), a differenza di quelle delle più tarde Mura Aureliane, non traggono il nome (con una sola probabile eccezione) dal luogo di destinazione delle vie che da esse si dipartono. Nel caso più frequente, il nome deriva da un luogo di culto vicino, legato spesso alla denominazione di un’area particolare della città (porte Carmentalis, Fontinalis, Sanqualis, Salutaris, Quirinalis, Viminalis, Lavernalis); un secondo gruppo, quasi altrettanto numeroso, prende nome da un toponimo (Flumentana, Collina, Esquilina, Querquetulana, Caelimontana); due sembrano denominate in base a caratteristiche particolari della loro struttura (ma anch’esse appaiono collegate a un culto: Trigemina,
Raudusculana); una infine deriva da un gentilizio (Naevia). La sola Porta Capena sembra fare eccezione: si tratta forse in origine della più importante, in quanto da essa prende origine la via che porta al santuario comune dei Latini, lo Iuppiter Latiaris del Monte Albano. È possibile che Capena sia un termine etrusco, derivato da Cabum, il centro sacrale del Monte Albano (da cui il nome attuale di Monte Cavo): in tal caso, si tratterebbe dell’unica porta della cinta serviana denominata dal luogo di destinazione. Il punto che qui interessa è lo stretto collegamento, in primo luogo tra queste porte e le vie che ne escono, che ne attesta senza possibilità di dubbio il carattere arcaico; in secondo luogo, tra le stesse porte e le vie urbane, che vi si dirigono, e che anch’esse non possono che risalire alla stessa epoca. Siamo così in grado di ricostruire un reticolo viario, datato anch’esso non dopo il VI secolo a.C. Partendo dalla facciata fluviale della città (fig. 5), saranno da considerare arcaici il vicus Iugarius (che dal Foro si dirige alla Porta Carmentalis); il vicus Tuscus (dal Foro alla Porta Flumentana); il vicus circa foros (che segue il lato meridionale del Circo Massimo, dirigendosi alla Porta Trigemina, e da qui all’antichissimo Ponte Sublicio); lo stesso si potrà dire per il clivus Suburanus (diretto alla Porta Esquilina), per il vicus Patricius (diretto alla Porta Viminalis), per l’alta Semita e per il vicus Longus (in relazione con la Porta Collina), e così via. Ne risulta così una griglia essenziale, nella quale possiamo riconoscere con certezza l’impianto urbanistico della città arcaica: un’acquisizione fondamentale, che conferma le dimensioni straordinarie di questa, e inoltre la presenza di un piano d’insieme e di una mente ordinatrice, che suggerisce con forza il confronto con l’opera delle grandi personalità politiche della Grecia contemporanea: il grande legislatore di Atene, Solone, o alcuni tiranni illuminati, come Policrate di Samo. Sarebbe difficile non collegare una tale, grandiosa operazione urbanistica con quanto ci è stato tramandato sulla personalità degli ultimi re di Roma, i Tarquinii, e soprattutto Servio Tullio. In effetti, siamo in presenza di un insieme di dati materiali ben attestati, che si integrano tendenzialmente con le notizie delle fonti letterarie, e sui quali non può gravare, come per queste ultime, il sospetto di falsificazione annalistica. Non potrà sfuggire che si tratta di una conferma delle notizie relative all’attività urbanistica in senso lato (cioè con tutte le implicazioni sociali e politiche del caso) messa in opera da Servio Tullio. L’ideazio-
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A fronte: 5. Pianta di Roma alla fine del III secolo a.C.: mura, porte e viabilità.
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22. Tempio di Giano; 23. Tempio di Spes; 24. Tempio di Apollo; 25. Tempio di Bellona; 26. Tempio di Portunus; 27. Ara Maxima; 28. Tempio di Cerere; 29. Tempio di Flora; 30. Tempio di Luna; 31. Tempio di Giunone Regina; 32. Tempio di Minerva; 33. Tempio di Diana; 34. Tempio di Honos e Virtus; 35. Tempio di Vittoria; 36. Curiae veteres; 37. Tempio di Giove Statore; 38. Tempio di Tellus; 39. Tempio di Giove Fagutal; 40. Tempio di Giunone Lucina; 41. Tempio di Fortuna Publica; 42. Tempio di Salus.
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1. Tempio di Giove Capitolino; 2. Tempio di Giunone Moneta; 3. Curia Hostilia; 4. Sacello di Giano; 5. Tempio della Concordia; 6. Comizio; 7. Tabernae novae; 8. Regia; 10. Atrium Vestae, Domus Publica; 11. Fonte di Giuturna; 12. Tempio dei Castori; 13. Tabernae veteres; 14. Tempio di Saturno; 15. Tempio di Fortuna; 16. Tempio di Mater Matuta; 17. Tempio di Giuturna; 18. Tempio di Feronia; 19. Tempio di Fons; 20. Tempio di Esculapio; 21. Santuario di Anna Perenna;
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ne e l’esecuzione di un programma così vasto, esteso a tutta l’area della città storica dei «sette colli», appare premessa essenziale di quella divisione in quattro tribù territoriali, intesa a spezzare la struttura gentilizia tradizionale, operazione attribuita al penultimo re. Così pure, l’introduzione di una qualche forma di esercito centuriato (che si tende in genere a datare in un periodo molto più tardo) e il raddoppiamento dell’effettivo di questo da trenta a sessanta centurie si spiegano con un incremento demografico, adeguato all’estensione che allora assume la città. Le notizie sulla «censura» di Servio, e sulla collegata introduzione di un primo censimento della popolazione, ci appaiono così, tutto compreso, come una riforma verosimile, in quanto indispensabile a mettere in opera il nuovo dispositivo militare. Quanto sappiamo dalla tradizione antica sull’attività edilizia, in particolare di carattere religioso, capillarmente diffusa su gran parte della superficie così urbanizzata, trova oggi esplicita conferma nell’altrettanto capillare diffusione dei documenti archeologici, in particolare delle terrecotte architettoniche, che esamineremo più avanti.
6. Villaggio del Palatino: ricostruzione di una capanna dell’Età del Ferro.
L’interdetto religioso che vieta il seppellimento dei morti all’interno dell’abitato affonda le sue radici negli strati più antichi della protostoria italica. Con la nascita della città, e la netta separazione rituale tra urbs e ager, la regola viene codificata: il pomerio assume così anche una funzione di discrimine tra città dei vivi e città dei morti. Recitano le “Dodici tavole”: intra pomerium neve urito neve sepelito («è proibito accendere roghi e seppellire all’interno del pomerio») e qui, come altre volte, la legge scritta regolamenta, all’inizio della Repubblica, norme consuetudinarie nate secoli prima. In ogni caso, la legge verrà scrupolosamente rispettata fino alla fine dell’antichità: solo nel VII secolo d.C. avrà inizio l’uso di seppellire entro i limiti della città, in genere nelle chiese. La presenza di tombe nell’area interna alle Mura Serviane è dunque indizio sicuro dell’inesistenza di una città estesa, soprattutto quando queste vengono a trovarsi nel cuore stesso dell’abitato, dentro il Foro o in prossimità di esso. Segno altrettanto significativo dell’avviarsi del processo urbano è la scomparsa di questi sepolcreti, soprattutto se contemporanea alla creazione di una necropoli unitaria: in altri termini,
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l’apparizione di una «città dei morti» è segnale sicuro dell’esistenza di una «città dei vivi». La cosiddetta «necropoli del Foro» (in realtà, poche decine di tombe, residuo di un più ampio sepolcreto, pertinente con tutta probabilità all’abitato protostorico della Velia) ha inizio alla fine dell’Età del Bronzo e sembra esaurirsi all’inizio del terzo periodo laziale (inizio del secolo VIII), quando appaiono le prime deposizioni nella grande necropoli dell’Esquilino, il sepolcreto unitario della città arcaica e medio-repubblicana. In seguito, vi si troveranno solo tombe di infanti, la cui deposizione in prossimità delle case (suggrundaria, «(tombe) sotto le gronde») era consentita. Si tratta di dati piuttosto esigui, che possono prestarsi anche ad altre interpretazioni: tuttavia, il confronto con la situazione assai meglio conosciuta delle città etrusche, in particolare di quella più vicina a Roma, Veio, fornisce una precisa conferma: nel corso dell’VIII secolo le piccole necropoli villanoviane disperse sul pianoro della futura città, pertinenti evidentemente a ridotti insediamenti capannicoli, scompaiono, sostituite da una grande necropoli unitaria. Non si può non riconoscere in questo l’inizio dell’urbanizzazione, e tutto fa pensare che la situazione di Roma non sia diversa (fig. 6). Purtroppo, le vicende edilizie di Roma non hanno consentito la conservazione delle tombe più ricche del periodo orientalizzante. Gli straordinari corredi tombali provenienti dalle necropoli dell’Italia centro-meridionale, e in particolare da quelle di Cerveteri e di Palestrina (centri vicini a Roma non solo geograficamente, ma anche culturalmente e, nel secondo caso, etnicamente), appartenenti a pochissimi, eccezionali sepolcri, permettono di immaginare la presenza di esempi analoghi anche nel caso di Roma. Non diverse dovevano essere le tombe dei re contemporanei (per intendersi, da Numa ad Anco Marcio), la cui totale scomparsa si spiega non solo per la loro ricchezza, che ne provocò certamente il saccheggio, ma anche per il loro numero esiguo. La straordinaria documentazione di Preneste (figg. 7-9, 14-15) ci restituisce un’idea probabile dello stato di queste tombe, perché nulla permette di cogliere una qualche differenza sostanziale di cultura tra le due città in un periodo così antico. Una profonda trasformazione si verifica più tardi negli usi funerari dei Latini, segnando un radicale distacco rispetto a quelli etruschi. Tra il 600 e il 580 circa, e cioè alla fine del periodo denominato «orientalizzante recente» notiamo a Roma e in tutta l’area laziale un fenomeno impressionante: la scomparsa
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totale dell’uso di deporre corredi nelle tombe. Per la sua subitaneità, per la discordanza con l’epoca immediatamente precedente (l’orientalizzante antico e medio, che comprendono grosso modo il VII secolo a.C.), quando le tombe aristocratiche si distinguono invece per la ricchezza eccezionale dei loro corredi (caso paradigmatico, quello di Palestrina), per il contrasto infine con gli usi funerari della vicina Etruria, caratterizzati invece dal lusso delle tombe, si tratta di un evento epocale, che non può spiegarsi con un’evoluzione spontanea, né con una crisi economica (impensabile in quegli anni), ma deve dipendere da una precisa normativa, imposta da un’autorità centrale. In altri termini, non può trattarsi che di leggi contro il lusso (suntuarie). È inevitabile il confronto con situazioni meglio documentate della Grecia contemporanea, in particolare con l’Atene di Solone, dove l’imposizione di una legge suntuaria che limitava il lusso funerario può essere agevolmente verificata attraverso i dati archeologici, forniti dalle necropoli attiche a partire dal VI secolo. Non si può non sottolineare che il fenomeno è perfettamente contemporaneo alla conclusione del processo di urbanizzazione, descritto in precedenza: questo ci è sembrato anch’esso dipendere dall’apparizione di un’autorità centrale, in grado di gestire processi decisionali «forti» e di imporre scelte risolutive: la tradizione sulle figure «tiranniche» della Roma di quegli anni è perfettamente conforme a quanto possiamo aspettarci sulla base dei dati archeologici e del confronto con analoghe e contemporanee situazioni in Grecia. La prescrizione del lusso funerario si spiega con la necessità di deprimere il potere delle consorterie gentilizie (che pure erano state esse stesse promotrici del processo urbano), in una fase in cui appare essenziale la concentrazione del potere nelle mani di un organo centralizzato, in grado di prendere decisioni a nome di una comunità allargata: è precisamente quanto la tradizione
A fronte: 7. Preneste, Tomba Bernardini: tripode di bronzo (Museo di Villa Giulia). Alle pagine seguenti: 8. Preneste, Tomba Bernardini: bacino di bronzo (Museo di Villa Giulia). 9. Preneste, Tomba Bernardini: in alto, elemento angolare di mobile in bronzo, con figure di uomini, centauri e animali; in basso, fibbia con due figure umane (Roma, Museo di Villa Giulia).
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antica ci ha tramandato a proposito dei Tarquinii, e soprattutto di Servio Tullio: figure sostanzialmente analoghe a quelle dei tiranni greci. L’estensione a tutto il Latium vetus di norme analoghe, documentate dalla scomparsa del lusso funerario, sembra alludere a un potere in grado di esprimersi oltre i limiti di un’unica città: ciò fa pensare all’esistenza di un coordinamento non solo religioso, ma politico, o forse meglio all’estensione del dominio della città più potente, Roma, sul resto del Lazio. È precisamente quello che afferma la tradizione antica, che ricorda un’egemonia dei Tarquinii sulla Lega Latina, forse troppo affrettatamente messa in dubbio. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che le dimensioni fisiche (e quindi anche demografiche e militari) della città di età arcaica appaiono incomparabili con quelle dei centri latini, anche dei più potenti: l’estensione di Ardea e Satricum non sorpassa i 40 ettari, e anche più ridotta è quella di Tuscolo. Si tratta di dimensioni inferiori a un decimo di quelle della Roma contemporanea. Un ulteriore elemento va sottolineato: la sparizione dei corredi funerari è perfettamente contemporanea all’apparizione della grande architettura monumentale, particolarmente di quella templare, che ha inizio poco dopo il 600 a.C.: ciò può significare solo che le risorse in precedenza rivolte al lusso «privato», quindi intese a incrementare il prestigio e il potere delle aristocrazie gentilizie, vengono ora dirottate al settore dell’attività edilizia «pubblica». Sarebbe difficile vedere in questo un fenomeno spontaneo: esso rivela in realtà la presenza di una forte autorità centrale, in
10. Rilievo grafico della Pianta marmorea Severiana relativa all’Esquilino. Al n. 593 è indicato il recinto circolare arcaico.
grado di indirizzare le scelte cruciali, a partire da quelle economiche, verso realizzazioni di carattere civico, «pubblico». Ancora una volta, un chiaro sintomo della nascita della città, e quindi della «politica». Da un simile quadro di austerità emerge un’unica eccezione, che proprio per questa sua singolarità richiede un esame dettagliato. Si tratta di un grande recinto circolare (figg. 1011), del diametro di circa 16 metri, scoperto alla
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11. Pianta del recinto circolare arcaico e dell’altare dell’Esquilino.
12. In alto, urna di peperino e cinerario marmoreo dalla necropoli dell’Esquilino (Musei Capitolini, Centrale Montemartini). In basso, restituzioni grafiche.
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fine degli anni Ottanta del secolo scorso sull’Esquilino, quasi di fronte alla chiesa di S. Martino ai Monti. Il recinto è realizzato con tre filari di opera quadrata di cappellaccio, varie volte rialzati in seguito, per adeguarli ai successivi innalzamenti di livello. Immediatamente ad est di esso si trova un’area sacra con un piccolo altare alla quale appartengono due depositi votivi, il più antico dei quali, situato quasi al centro del recinto, comprende, oltre a una serie di buccheri, una statuetta maschile di bronzo, databile alla metà del VI secolo a.C. I resti conservati del sacello sembrano appartenere al IV secolo a.C., ma vi sono tracce di una fase più antica. Sempre al VI secolo dovrebbe datarsi la struttura circolare, come si deduce dal materiale utilizzato per la sua costruzione, il cappellaccio. In conclusione, tanto il sacello, quanto il recinto sembrano appartenere ancora al periodo arcaico, più precisamente, come si deduce dal più antico deposito votivo, alla metà del VI secolo a.C. In tale epoca, una struttura del genere può essere solo una tomba, confrontabile con i sepolcri a recinto, diffusi nell’Italia centrale appenninica dall’VIII al VI secolo a.C. Niente esclude che in origine l’insieme comportasse un tumulo di terra. La presenza del sacello e dei depositi votivi, oltre alle dimensioni eccezionali del recinto, indicano che si trattava della tomba di un personaggio eccezionale, destinatario di un culto «eroico», che sembra nascere al momento stesso della deposizione, e cioè negli anni centrali del VI secolo. Sul piano topografico, è significativo il rapporto con le Mura Serviane, che corrono circa 260 metri più a est: quindi il sepolcro doveva trovarsi all’interno del pomerio, ciò che ne conferma il carattere di assoluta eccezionalità. Gli scrittori antichi ricordano alcuni casi analoghi, e li collegano con le tombe dei trionfatori: il caso più noto è quello di P. Valerio Publicola, il celebre console dell’inizio della Repubblica, che sarebbe stato sepolto ai piedi della Velia, dove era anche la sua casa. Un dato rilevante, e davvero straordinario, si ricava da un altro documento, la pianta marmorea di Roma di età severiana: nei frammenti relativi al monte Oppio, in perfetta corrispondenza con il recinto funerario, è indicato un edificio (fig. 10), che ne riproduce senza possibilità di dubbio l’aspetto: posizione, dimensioni, forma circolare. Anche le caratteristiche grafiche, in particolare la doppia linea di contorno, sembrano sottolinearne l’importanza.
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Ancora all’inizio del III secolo d.C., dunque, il monumento continuava ad esistere, ed era considerato importante. Il fatto che una struttura di tali dimensioni si sia conservata così a lungo, e sia stata restaurata per più di 700 anni, entro un’area così fittamente urbanizzata, non può non colpire: trattandosi di un sepolcro della metà del VI secolo, appartenente senza dubbio a un personaggio eccezionale, una sola possibilità sembra praticabile: che si tratti della tomba di un re, e più esattamente di Servio Tullio (o almeno, di quella che si riteneva essere la tomba del re). Secondo Livio (I, 49, 1), Tarquinio il Superbo avrebbe impedito la sepoltura di Servio, ma secondo un’altra tradizione la proibizione avrebbe riguardato solo i funerali e il sepolcro pubblici (Dionigi di Alicarnasso IV, 40, 15). Per questo il re sarebbe stato sepolto di notte, e privatamente. In realtà, l’esistenza di una tomba di Servio (o creduta tale) è attestata dalla consuetudine della plebe, durata almeno fino alla metà della Repubblica, di celebrare cerimonie funebri (parentationes) in onore del re: si trattava di un culto funerario, che prevedeva banchetti e libagioni direttamente sulla tomba del defunto. L’identificazione è confermata dai reperti rinvenuti, che confermano la frequentazione prolungata della tomba. Il deposito votivo più recente appartiene infatti al periodo medio-repubblicano, e l’altare appare obliterato solo alla fine della Repubblica o all’inizio dell’Impero. Anche se il culto vero e proprio sembra allora cessare, la tomba continua ad essere conservata e restaurata, come dimostra l’ultimo intervento, di età giulio-claudia, e la cura con cui la sua presenza viene ancora indicata all’inizio del III secolo d.C. nella pianta marmorea severiana, a 750 anni dalla sua costruzione. Carattere del tutto eccezionale presenta anche una piccola tomba a incinerazione, proveniente dalla necropoli dell’Esquilino (fig. 12). Si tratta di un pozzetto rivestito di blocchi di peperino, entro il quale era inserita un’urna, anch’essa in peperino, con incassi decorativi sulle pareti e un coperchio a doppio spiovente. All’interno era collocata una seconda urna di marmo greco, munita di peducci e di coperchio a doppio spiovente con acroteri centrali, senza alcuna decorazione (lunga 0,61 m, larga 0,38, alta 0,32). Come nelle altre tombe contemporanee, non vi era alcun corredo: si trattava comunque di un personaggio di rilievo, come si deduce dall’eccezionalità e dal costo del cinerario: forse il più antico esempio di importazione di un oggetto marmoreo greco a Roma, databile alla fine del VI secolo a.C.
2. I PRINCIPI DEL LAZIO
Un fenomeno straordinario coinvolge gran parte dell’Italia tirrenica tra la fine dell’VIII e la metà del VII secolo a.C., nel corso dell’avanzata Età del Ferro. Si tratta del cosiddetto «orientalizzante antico», un fenomeno le cui radici affondano nell’area del Vicino Oriente (Egitto, Assiria, Siria), e che si diffonde tramite intensi rapporti commerciali, che coinvolgono soprattutto Fenici, Ciprioti e Greci. Non si tratta solo di una superficiale moda culturale, limitata all’importazione e all’imitazione di prodotti di lusso: in realtà, questa «moda» è il risultato di profonde trasformazioni, che investono la società tirrenica sul piano economico e politico, oltre che culturale. Il fenomeno infatti costituisce un aspetto della incipiente urbanizzazione e si collega a fenomeni culturali rilevanti, come l’introduzione della scrittura e del sistema onomastico latino. La documentazione relativa è soprattutto di carattere funerario: in un periodo ristretto, di non più di un cinquantennio, vediamo infatti apparire, in un’area che va dall’Etruria alla Campania meridionale, una serie di sepolcri eccezionali, caratterizzati da corredi di un lusso estremo, che comprendono quantità rilevanti di oggetti in oro, argento, ambra, di importazione o di produzione locale, che testimoniano l’esistenza di gruppi dominanti ristretti, in grado di concentrare nelle proprie mani una parte rilevante della proprietà terriera (che dovrebbe apparire proprio in questi anni) e di controllare i commerci con il Mediterraneo orientale. Questo fenomeno non sembra corrispondere a trasformazioni rilevanti nell’ambito dell’architettura abitativa (parlare di edilizia pubblica sarebbe anacronistico): i ricchissimi proprietari
di queste tombe continuano ad abitare in capanne, anche se di dimensioni più ampie rispetto a quelle di epoca immediatamente precedente. Queste «tombe principesche» rivelano così l’emergere, entro la società protostorica, di personalità dominanti, che sono state definite «Principi Eroi». Tali sepolcri, a parte la ricchezza dei corredi, assumono ovunque caratteristiche particolari, che sono state descritte come segue: 1. uso eccezionale dell’incinerazione, in un contesto dove è ormai dominante l’inumazione; 2. struttura bipartita della tomba, con una fossa (o recinto) più ampio, entro il quale se ne distingue uno più piccolo, riservato alle ceneri del defunto, insieme agli oggetti più emblematici del corredo; 3. presenza delle armi, ma in posizione marginale; 4. presenza di oggetti pertinenti alla dimora, e in particolare al luogo simbolicamente più significativo di essa, il focolare (alari, spiedi, scure ecc.); 5. presenza abituale di un carro, come simbolo di status. L’uso dell’incinerazione, in particolare, sottolinea la connotazione del defunto come «eroe», come «antenato divinizzato», e quindi rappresentante del gruppo gentilizio e gestore della casa e delle sue ricchezze. È stato osservato che il modello di questa rappresentazione sociale sono i poemi di Omero, la cui conoscenza in Occidente si era già diffusa a partire dalla fondazione di Pitecussa (Ischia: intorno al 770) e di Cuma (intorno al 750). Proprio da Ischia proviene la cosiddetta «Coppa di Nestore» (fig. 13), scoperta in una tomba a cremazione databile intor-
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no al 730, su cui sono iscritti tre versi (gli ultimi due sono esametri). «La coppa di Nestore era certo piacevole per bere, ma chi beve da questa coppa subito sarà preso dal desiderio di Afrodite dalla bella corona»: si allude qui alla coppa d’oro di Nestore, menzionata nell’Iliade (XI, 632-637). Di questa cultura fanno pienamente parte i fastosi sepolcri di Preneste e la «Tomba di Enea» a Lavinio (su quest’ultima torneremo più avanti). Come è stato detto (B. d’Agostino): Nel mondo latino, verso la fine dell’VIII secolo, sembra giungere a conclusione il processo di gerarchizzazione che aveva portato, nel corso del secolo, all’emergere di una élite di guerrieri. Il nuovo ceto dominante è erede di questa élite, ed è costituito da principes delle diverse gentes. Questi hanno una cultura comune, fondata sul superamento della funzione guerriera, divenuta ormai un segno di status, sull’omologazione sociale della donna, sull’adozione della ideologia del convivio come supremo simbolo del prestigio raggiunto. In particolari situazioni ambientali, da questa élite emerge la figura del principe-eroe, che sembra denunciare una più marcata personalizzazione della funzione dominante ed una accentuata distanza dal resto della scena.
Un fenomeno parallelo è l’apparizione del nome gentilizio, che poi caratterizzerà per sempre la società romano-latina (mentre la Grecia non lo stabilizzerà mai). Esso appare insieme all’uso della scrittura, che in Etruria avviene intorno al 700 a.C., e nel Lazio forse un po’ più tardi. Il gentilizio assicura sostanzialmente la trasmissione ereditaria del nome, e con esso dei privilegi della gens, a partire dalla proprietà della terra, testimoniando così l’avvenuta rivoluzione aristocratica. A Preneste ci sono pervenuti, in tutto o in parte, i corredi di quattro tombe (Barberini, Bernardini, Castellani e Galeassi), cui forse se ne possono aggiungere altre tre, di cui ci sono rimasti pochi oggetti. Questi sepolcri, per la loro ricchezza, appartenevano certamente a «re» o principi locali: è notevole comunque che almeno una di esse (la Castellani) appartenesse a una donna: ciò che conferma il ruolo rilevante in questi gruppi gentilizi della componente femminile, garante fondamentale della continuità del gruppo e in genere della complessiva riproduzione sociale. Purtroppo, questa documentazione, per le condizioni del suo rinvenimento, non è in grado di fornire
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13. «Coppa di Nestore», Ischia, Museo Archeologico.
tutte le informazioni che oggi possiamo aspettarci dallo studio delle necropoli per la ricostruzione globale della società antica. Gli scavi, tutti realizzati nell’Ottocento, miravano solo ad acquisire oggetti di pregio per il mercato antiquario, e furono quindi compiuti senza prendere alcuna documentazione e senza raccogliere i materiali considerati privi di interesse, come la ceramica (che sarebbe stata fondamentale per precisare la cronologia). La Tomba Barberini fu la prima ad essere scoperta nel 1855: non sappiamo quasi nulla delle circostanze del ritrovamento, anche se si può dedurre quasi con certezza che si trattasse di una deposizione unica: come negli altri casi, entro una fossa, riempita in seguito di pietre. Il corredo, acquistato dallo stato, è conservato ora quasi integralmente nel Museo di Villa Giulia, a Roma. Successiva è la scoperta delle tombe Castellani (1861-1862) e Galeassi (degli stessi anni). I corredi furono purtroppo smembrati, e finirono in diversi musei (British Museum, Villa Giulia, Musei Capitolini). Infine, nel 1876, apparve la Tomba Bernardini, di cui conosciamo un po’ meglio l’aspetto. Anche in questo caso, i materiali del corredo furono acquistati dallo Stato, e sono conservati nel Museo di Villa Giulia. Si trattava di una fossa rettangolare, con le pareti rivestite di blocchi di tufo (5,45 × 3,90 m ca.), pro-
A fronte: 14. Preneste, Tomba Bernardini: piastra d’oro con decorazione plastica, (Roma, Museo di Villa Giulia).
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fonda circa 1,70 m, orientata est-ovest. Presso il lato sud era scavata una fossa minore, lunga 2 m, dove furono trovati i resti del cadavere e alcuni oggetti preziosi. Il corredo comprendeva almeno 130 pezzi, dei quali molti importati, come tre patere con soggetti egittizzanti e almeno una brocca, tutte d’argento, probabilmente di produzione cipriota; inoltre, un calderone con protome di grifi (fig. 15), forse da Cipro, e alcuni avori figurati. Di produzione etrusca (probabilmente di Cerveteri) sono invece le oreficerie, come la straordinaria piastra d’oro a decorazione plastica con animali (fig. 14), gli affibiagli e i fermagli, sempre d’oro, oltre a numerosi oggetti di bronzo (figg. 7-9). Qui si rivela la straordinaria abilità tecnica degli orafi etruschi, formati alla scuola di artisti orientali, nell’impiego delle più varie tecniche, dalla granulazione alla filigrana. Risale a un periodo molto più tardo una notevole tomba scoperta nel 1934 nei pressi di Lanuvio, al limite sud-orientale dei Colli Albani. Entro un grande sarcofago monolitico di peperino, lungo 2,12 m, con un coperchio a tetto displuviato, restava lo scheletro del sepolto e una straordinaria panoplia di armi e oggetti per la palestra (fig. 16): l’elmo (accanto alla testa); la corazza (collocata sulle tibie); il cinturone di cuoio; la spada (sul fianco destro); una punta di lancia e due puntali di ferro; un’ascia; un disco; tre unguentari in alabastro; la fiasca in bronzo e pelle per la sabbia; uno o due strigili in ferro. L’elmo da parata, in bronzo, argento e paste vitree è uno dei più notevoli che si conoscano, confrontabile solo con un altro esemplare, conservato a Berlino (fig. 16, a destra). Deriva dal normale elmo etrusco del VI-V secolo (tipo Negau), ma con molte varianti. Gli occhi, realizzati con paste vitree colorate, e il complesso cimiero, che in origine comprendeva una coda centrale (probabilmente equina) e due lunghe penne laterali, dovevano costituire un insieme impressionante. La corazza anatomica, in bronzo, rivestita di cuoio, è il più antico esempio del genere noto in Italia, appena più tardo dei prototipi greci, che risalgono alla fine del VI secolo a.C. La spada appartiene al tipo definito in greco machaira: una lunga e pesante lama a un solo taglio, che si allarga verso la punta. Queste caratteristiche si adattano al combattimento a cavallo: si tratta, in pratica, di una sorta di sciabola. Ma la particolarità più notevole del corredo è forse la presenza del servizio per la palestra: disco, fiasca per la sabbia, strigile. Il disco presenta una deco-
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razione incisa: su una faccia la rappresentazione di un cavaliere completamente armato (corazza, elmo, lancia), che scende in corsa dal cavallo: si tratta di un esercizio equestre simile a quello degli acrobati detti desultores (spesso rappresentato nei documenti figurati di questo periodo), utilizzato nell’allenamento dei cavalieri, ma probabilmente anche in battaglia. Secondo Livio (II, 20, 10) una tattica del genere fu messa in opera dai Romani nella battaglia contro i Latini presso il Lago Regillo: «Allora il dittatore (A. Postumio) si precipita verso i cavalieri, ordinando, poiché la fanteria era stanca, di scendere da cavallo e di riprendere lo scontro». Sull’altra faccia del disco è rappresentato un discobolo nel momento del lancio. Le due immagini confermano quanto si deduce dalla composizione del corredo: la duplice natura del titolare della tomba, allo stesso tempo atleta e cavaliere, non può che ispirarsi a un modello greco, quello dei Dioscuri. Questo culto, attestato nel Lazio fin dal VI secolo a.C., come dimostra un’iscrizione di Lavinio, è il più importante nella città che domina la Lega Latina in questi anni, Tuscolo. Proprio al momento dello scontro con Roma, secondo la tradizione, i divini gemelli cambieranno bandiera, passando dalla parte dei Romani. Come è noto, proprio in seguito alla vittoria del Lago Regillo sarà innalzato nel Foro il Tempio dei Castori, la cui costruzione risale in effetti, come hanno dimostrato gli scavi recenti, all’inizio del V secolo a.C. Da allora in poi, i Dioscuri saranno i protettori della cavalleria romana, che nel giorno anniversario del culto sfilerà solennemente dal Tempio di Marte (situato al primo miglio della via Appia) fino al tempio del Foro. Il cavaliere di Lanuvio visse certamente in questi anni, come si deduce dalle sue armi (in particolare dall’elmo), databili all’inizio del V secolo a.C., che ci restituiscono un’idea precisa dei cavalieri latini che
A fronte: 15. Preneste, Tomba Bernardini: piccolo calderone fenicio-cipriota d’argento dorato con teoria di armati e protome di serpente (Roma, Museo di Villa Giulia). Alle pagine seguenti: 16. A sinistra: Rilievi delle due facce del disco ritrovato in una tomba di Lanuvio con raffigurazione di un cavaliere armato e di un discobolo. A destra: Panoplia di guerriero (Roma, Museo delle Terme) proveniente dalla stessa tomba ed elmo etrusco contemporaneo (Berlino, Antikenmuseum).
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combatterono alla battaglia del Lago Regillo, cui anche il guerriero di Lanuvio poté partecipare. Si tratta ovviamente di un individuo di altissimo livello sociale, come si deduce dal corredo funebre, eccezionale in un periodo come questo, caratterizzato da un’assoluta austerità in questo campo. Coglie quindi nel segno la proposta di riconoscervi una di quelle personalità «tiranniche», la cui presenza è segnalata a Roma agli inizi della Repubblica. Sulla più notevole di queste, P. Valerio Publicola, dominatore della scena repubblicana subito dopo l’espulsione dei Tarquinii, un documento scoperto pochi decenni fa ha gettato una nuova luce. Si tratta dell’ormai famoso lapis Satricanus (fig. 17), un’iscrizione arcaica di enorme importanza, reimpiegata nel rifacimento del Tempio di Mater Matuta a Satricum, nella pianura pontina (ciò che permette di datarla non più tardi degli ultimi anni del VI secolo a.C.). L’iscrizione, quasi completa, tranne una o due lettere all’inizio, è la seguente: […]NIEISTETERAI POPLOSIO VALESIOSIO / SVODALES MAMARTEI. Il dubbio, che verte soprattutto sulle prime 12 lettere, ha dato luogo a una lunga discussione tecnica, nella quale non è qui possibile entrare. Tuttavia, è probabile che non si tratti, come si è pensato, di una dedica a Marte, ma della menzione di sodales Martiales, una corporazione di cultori di Marte, con funzioni militari, che potrebbe essere assimilata ai Salii. In ogni caso, questi «compagni marziali» sono i dedicanti, mentre i dedicatari vanno cercati nella prima riga, che può essere ricostruita, ad esempio,
Manieis Teterai Popliosio Valesiosio, «agli dei Mani della Terra di Publio Valerio». Se è così, si tratterebbe di un’iscrizione funeraria, di un epitaffio, dedicato «ai Mani» di un Publio Valerio, che potrebbe essere lo stesso Publio Valerio Publicola, che in tal caso sarebbe stato sepolto a Satricum. Del resto, in un’età così antica non si vede quale altra potrebbe essere la natura di un documento riferito direttamente a una persona precisa: non conosciamo nell’Italia tirrenica alcun esempio di dediche onorarie di VI secolo a.C., mentre epigrafi funerarie sono note in Etruria fin dalla fine del VII secolo a.C. Si può citare, ad esempio, il caso della stele vetuloniese di Avele Feluske (fig. 17), dove è rappresentato un guerriero con scudo rotondo, elmo e doppia ascia, certamente un principe aristocratico, con la seguente iscrizione (forse la più antica su pietra in Etruria): «[Io sono la stele] di Avele Feluske, figlio di Tusnutaie e di […]panai. Mi ha donato Hirumina il Perugino (?)». Anche in questo esempio, più antico di un secolo rispetto al lapis Satricanus, appaiono analoghe caratteristiche: nome al genitivo del personaggio onorato e nome del dedicante (probabilmente il figlio). Alcuni indizi fanno pensare che la gens Valeria esercitasse una sorta di monopolio militare nella regione pontina, analogo a quello della gens Fabia in Etruria. Nel nostro caso, anche se non si trattasse di Valerio Publicola, saremmo comunque in presenza di un contemporaneo, membro eminente della stessa famiglia, morto a Satricum alla fine del VI secolo a.C.
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17. A sinistra, lapis Satricanus (Roma, Museo delle Terme). A destra, stele di Avele Feluske, da Volterra (Firenze, Museo Archeologico).
3. L’ELLENIZZAZIONE E I SUOI LIMITI
I rapporti commerciali con il Mediterraneo orientale, iniziati fin dall’Età del Ferro tramite la navigazione fenicia ed ellenica e favoriti dal fenomeno della colonizzazione greca a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., assunsero una particolare intensità nel corso del secolo successivo: ciò è documentato in particolare dall’importazione dal Vicino Oriente di merci di lusso, destinate a un ceto aristocratico emergente, arricchitosi con i prodotti minerari, monopolio dell’Etruria settentrionale, e con la grande produzione agricola dell’Etruria meridionale. Come abbiamo visto, l’emergere di ristrette aristocrazie locali, detentrici della ricchezza e del potere, diede origine a una nuova cultura, detta «orientalizzante», che si manifesta nell’importazione e nella produzione di beni di lusso (attestati in quantità e qualità straordinarie soprattutto nei grandi sepolcri gentilizi), ma anche nell’introduzione di «beni culturali», in particolare la scrittura e l’immaginario mitico. L’estensione al Lazio (compresa Roma) di questo fenomeno è attestata dalle necropoli laziali, in particolare da quella di Palestrina. La nascita di mercati interessati all’importazione di prodotti orientali di alto artigianato provocò anche l’immigrazione di artefici, ricordata dalle fonti antiche e confermata dall’archeologia. Il fenomeno, certamente reale, si traveste in forme mitiche nella narrazione relativa a Demarato, padre di Tarquinio Prisco, che troviamo, nella sua forma più completa, in Dionigi di Alicarnasso (III, 46): Un uomo di Corinto, di nome Demarato, della stirpe dei Bacchiadi, aveva navigato verso l’Italia
col proposito di esercitarvi il commercio, conducendovi la sua nave da carico e le proprie merci. Vendutele nelle città etrusche che allora erano le più fiorenti in Italia ed essendosi procurato un guadagno notevole, non volle più toccare altri porti, ma continuò i suoi traffici nelle medesime acque, trasportando le merci greche fra gli Etruschi e quelle etrusche fra i Greci: in questo modo divenne molto ricco. Quando avvenne la rivolta a Corinto e il tiranno Cipselo cacciò i Bacchiadi, ritenendo di non poter continuare a vivere in sicurezza sotto la tirannide, viste le ricchezze che possedeva e visto che apparteneva alla classe aristocratica, prese quanto poteva portar via dei suoi averi e si imbarcò da Corinto; poiché aveva molti e buoni amici fra gli Etruschi, in seguito alla sua attività commerciale, e in particolar modo a Tarquinia, una città allora grande e fiorente, vi prese dimora e sposò una donna di illustre casata. Da lei ebbe due figli, ai quali diede nomi etruschi, Arrunte a uno, Lucumone all’altro, e li educò alla greca e all’etrusca; quando divennero adulti li fece sposare con donne di alto lignaggio.
L’episodio, anche se si accantona il problema della sua probabile storicità, riflette una situazione perfettamente verosimile: e cioè l’effettiva prevalenza del commercio corinzio nei decenni centrali del VII secolo a.C., attestato dalle importazioni di ceramica in Italia, e la natura «aristocratica» di questo commercio. Altre notizie troviamo in Plinio (XXXV, 152): «Demarato, che generò in Etruria il romano Tarquinio, profugo da Corinto, fu accompagnato
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mestieri. L’attribuzione a Numa, come in altri casi, è di maniera: è probabile infatti che la riforma sia avvenuta verso la fine del VII o l’inizio del VI secolo a.C., contemporaneamente al consolidamento definitivo della compagine urbana.
18. «Cratere di Aristonoto», da Cerveteri (Roma, Musei Capitolini).
dai formatori Eucheir, Diopos e Eugrammos, che trasmisero in Italia questa tecnica». I nomi fantastici di questi artefici («quello dalla buona mano», «il bravo livellatore», «l’abile disegnatore») rimandano in realtà a un fatto sicuro: l’introduzione dalla Grecia, alla fine del VII secolo a.C., delle tecniche della plastica in terracotta. D’altra parte, la presenza reale di artigiani ellenici (di provenienza corinzia e ionica) in Etruria è dimostrata dalla comparsa di prodotti di fattura greca, ma realizzati in loco, in particolare di ceramica: i cosiddetti «vasi pontici» e le «idrie ceretane», fabbricati a Cerveteri da vasai di origine greco-orientale, e oggetti come il celebre «Cratere di Aristonoto» (fig. 18), opera di un artigiano forse siceliota, che lavorò a Cerveteri intorno al 670 a.C. Su questo grande vaso, firmato dall’autore, è rappresentato su un lato l’episodio odissiaco dell’accecamento di Polifemo, sull’altro una scena di combattimento navale, che illustra forse l’attività piratica esercitata, come deprecano gli scrittori greci, dagli aristocratici
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etruschi. In effetti, la nave di destra, per la sua forma rotondeggiante e per l’uso delle vele, è chiaramente mercantile, mentre quella di sinistra, spinta solo da remi, è un’imbarcazione militare, e quindi appartiene all’aggressore, certamente un pirata. È difficile che le due figurazioni non siano in qualche modo collegate: si potrebbe pensare che il soggetto greco, di cui troviamo qui una delle prime rappresentazioni in Etruria, serva a illustrare una genealogia mitica del committente del vaso, o della città cui egli apparteneva: del resto, Cerveteri era considerata una fondazione ellenica, chiamata in origine Agylla. La nascita delle corporazioni di artigiani è la conseguenza di una più avanzata divisione del lavoro, strettamente connessa con la nascita della città. Un prezioso passo di Plutarco (Vita di Numa, 17) riporta la lista dei mestieri, che sarebbero stati introdotti dal secondo re di Roma: flautisti, orefici, carpentieri, tintori, cuoiai, conciatori, fabbri e vasai, mentre un’altra corporazione comprendeva tutti gli altri
19. Statuetta bronzea di augure, dal Comizio (Roma, Antiquarium del Foro Romano).
L’opinione comune, anche tra addetti ai lavori, è che il rapporto tra la Grecia e Roma, che dà luogo al processo acculturativo denominato «ellenizzazione», sia avvenuto in epoca piuttosto tarda: iniziato nel periodo della conquista romana dell’Oriente mediterraneo, esso si sarebbe concluso solo alla fine della Repubblica. In realtà, la formazione stessa della cultura italico-romana è inseparabile, fin quasi dalle origini, da modelli ellenici, la cui presenza sul suolo italico si manifesta già con la fondazione delle prime colonie greche, e cioè a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C. L’introduzione stessa della città in Italia, pur nelle forme originali che essa presenta rispetto al modello greco, non può spiegarsi solo come un processo esclusivamente indigeno: almeno nelle sue forme finali, esso dipende dal modello della polis. Non si tratta solo di importazione di beni materiali, gli unici che possiamo documentare attraverso l’archeologia: si dimentica in genere, ad esempio, l’introduzione precoce della scrittura alfabetica e di altri beni immateriali, come l’immaginario mitico. Sappiamo comunque che la ceramica greca arriva a Roma già a partire dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C., ma anche – fatto ancora più importante – che le prime imitazioni locali in argilla figulina (che implicano la presenza fisica in città di artigiani greci, del resto attestata con sicurezza in Etruria) sono solo di pochi decenni più tarde. Siamo in presenza, dunque, di un fenomeno di ellenizzazione precoce, anche se ovviamente limitato a una ristrettissima élite aristocratica: la stessa, comunque, che fu l’artefice del contemporaneo processo di urbanizzazione, processo in cui, anche per questo, sarebbe difficile negare la presenza della cultura greca. Naturalmente, accanto a tali prodotti continua ad esistere una corrente figurativa locale, caratterizzata da un linguaggio semplice e «primitivo», anche se vivace, che si manifesta soprattutto nella decorazione figurata di oggetti e recipienti di culto o funerari, o anche in piccole figurine autonome, in genere di bronzo, di carattere votivo. Appartiene a quest’ultimo filone, ad esempio, il bronzetto che raffigura un augure (fig. 19), caratterizzato
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dal bastone ricurvo (lituo) tipico della sua professione. Non è certamente un caso che un simile oggetto provenga dal Comizio, luogo privilegiato dell’attività degli auguri, e dove era collocata una statua arcaica del fondatore mitico del collegio, Atto Navio. Grandi oggetti di bronzo, come il carrello e l’anfora scoperti a Bisenzio nella stessa tomba (figg. 20-21), della fine dell’VIII secolo a.C., sono decorati con gruppi complessi di figurine dello stesso genere «popolare», del tutto estranee al repertorio figurativo greco, e quindi di difficilissima interpretazione. Si tratta certamente di miti o rituali indigeni, per la cui spiegazione potrebbe eventualmente essere utile un’analisi di tipo comparativo, etnologico: è comunque da escludere ogni tentativo di interpretarli, come pure è avvenuto, come illustrazioni della storia mitica romana, che è certamente di formazione più tarda. Vogliamo limitarci, a tal proposito, a un solo esempio paradigmatico: un distanziatore di cavalli in bronzo (fig. 22), trovato in una tomba dell’VIII secolo nel sito di Decima, sulla strada tra Roma e Lavinio. Le due figurine contrapposte che fanno parte dell’oggetto rappresentano una donna che tiene un bimbo al seno e un uomo che viene accecato da due uccelli. Fin dal momento della scoperta, e ancora in seguito, si è preteso di riconoscere in questo modesto manufatto un’illustrazione del mito di Anchise che, unitosi con Afrodite, si sarebbe vantato della sua conquista, subendo di conseguenza la punizione di Zeus, che lo avrebbe accecato. Nel bambino allattato dovremmo riconoscere lo stesso Enea, il cui mito così sarebbe noto nel Lazio fin dall’VIII secolo a.C. Smontare un’interpretazione del genere non richiede molta fatica: basterebbe ricordare che Afrodite non è una dea kourotrophos («allattatrice di bambini»), e mai viene rappresentata in questo atteggiamento; inoltre, Anchise venne accecato da un fulmine, e non da due uccelli (qui evidentemente promossi ad «aquile di Zeus»!). Siamo chiaramente in presenza di un mito locale, a noi sconosciuto, che potrebbe trovare un parallelo in urne etrusche, dove
Alle pagine precedenti: 20. Anfora di bronzo con figurine plastiche, dalla necropoli di Bisenzio (Roma, Museo di Villa Giulia). 21. Carrello di bronzo con figurine plastiche, dalla necropoli di Bisenzio (Roma, Museo di Villa Giulia).
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4. L’INTRODUZIONE DELLA SCRITTURA E LA CULTURA ORALE
22. Distanziatore di cavalli in bronzo, a Decima (Roma, Museo delle Terme).
è rappresentato un guerriero caduto a terra e accecato da due uccelli. L’introduzione del mito greco è un fenomeno alquanto più tardo. L’emergere della cultura orientalizzante chiarisce il livello culturale delle aristocrazie etrusche e latine nel corso di una fase storica, caratterizzata da un marcato interesse per i prodotti di lusso del Mediterraneo orientale. Ancora una volta, non si tratta solo di una moda superficiale, ma di un profondo coinvolgimento culturale: è questo infatti il momento in cui vengono introdotti per la prima volta i miti greci, ed emergono le prime interpretazioni ellenizzanti dei culti locali: si tratta, in altri termini, di un’acculturazione profonda delle aristocrazie locali, che iniziano a collegare le loro genealogie ad antenati prestigiosi, provenienti dall’Oriente mediterraneo. La spiegazione riduttiva che spesso si propone di tali fenomeni, tesa a sottolineare l’incomprensione e il ritardo delle culture indigene rispetto ai modelli ellenici, non sembra accettabile: quando i documenti sono sufficientemente espliciti, e analizzati senza pregiudizi, ci accorgiamo presto che tali pretese «incomprensioni» sono invece il risultato dell’adattamento dei modelli importati alle situazioni locali: lungi dal rappresentare una importazione meccanica, essi sono la conseguenza di un’acculturazione attiva, in grado di selezionare e scegliere all’interno dell’elemento introdotto quanto risulta integrabile nella cultura locale.
È tuttavia da un altro tipo di documentazione, spesso colpevolmente trascurata dagli archeologi, che si possono trarre le attestazioni più significative del fenomeno dell’ellenizzazione: si tratta, come abbiamo visto, dell’introduzione della scrittura nell’Italia tirrenica a partire dalla fine del VII secolo a.C.: il modello, adottato quasi contemporaneamente in Etruria e nel Lazio, è l’alfabeto calcidese, introdotto dalle più antiche fondazioni elleniche della Magna Grecia, quasi certamente da Cuma. Il fenomeno è contemporaneo al processo di formazione delle città e riveste un’importanza enorme, trattandosi non di meccanica importazione di beni materiali, ma dell’adozione di uno strumento culturale complesso, che richiedeva da parte dei fruitori una piena consapevolezza delle sue potenzialità straordinarie, e quindi capacità culturali non indifferenti in un periodo così antico. All’inizio, l’introduzione della scrittura risponde probabilmente a funzioni utilitarie: è quanto sappiamo per il sistema miceneo di scrittura, il lineare B, utilizzato esclusivamente per redigere gli inventari dei grandi palazzi. Anche la scrittura alfabetica non dovette avere all’inizio altro scopo: certo non a caso, essa è opera di Fenici e di Greci, i più noti popoli mercanti del Mediterraneo. La più antica documentazione di questo metodo di catalogazione e di inventario non è conservata, legata com’era per definizione a materiali scrittori «poveri» e deperibili. Infatti i primi alfabetari noti in Etruria sono incisi su tavolette di osso o di avorio (ma il supporto più corrente doveva essere il legno), che anche in seguito, per secoli, saranno utilizzate per redigere inventari e ricevute.
Le più antiche testimonianze di scrittura si trovano su oggetti di prestigio, poi deposti nelle tombe, o su ex voto destinati a santuari (si pensi al celebre «Vaso di Duenos»). Ma tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo (periodo cruciale, come sappiamo) si verifica un nuovo fenomeno: l’uso viene esteso a documenti incisi su bronzo o su pietra, esposti alla vista del pubblico, che con la sola loro presenza attestano la nascita di strutture «statali» e una certa diffusione della capacità di leggere a gruppi relativamente estesi di persone (di cittadini). Oltre a documenti celebri, come i cippi del lapis Niger e dell’Acquoria a Tivoli e alle nuove iscrizioni di Satricum e di Corcolle (a cui si devono aggiungere gli esempi ricordati dalla tradizione letteraria, come la lex del Tempio di Diana sull’Aventino, il primo trattato romano-cartaginese o il foedus Cassianum) si deve ricordare l’esistenza di decine di iscrizioni incise su ceramica, che attestano l’estendersi dell’uso anche all’ambito privato. La conoscenza del greco, almeno in cerchie ristrette, sembra dimostrata dall’introduzione dei Libri Sibillini − tre libri rituali scritti in greco, probabilmente provenienti da Cuma e collegati al culto di Apollo − che la tradizione attribuisce all’ultimo dei Tarquinii (e non c’è motivo di dubitare di questa cronologia): un collegio sacerdotale apposito (i duoviri − poi decemviri e quindecemviri − sacris faciundis) era incaricato della loro lettura e interpretazione: risultato della loro opera sarà l’introduzione di nuovi culti di origine greca o orientale, e quindi la progressiva ellenizzazione della religione romana. In questo stesso periodo dovette iniziare l’uso da parte dei pontefici di annotare sistematicamente la
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23. A sinistra: ricostruzione del sacello del lapis Niger, nel Comizio. A destra, restituzione grafica dell’iscrizione arcaica del lapis Niger.
cronaca degli avvenimenti, trascritta alla fine di ogni anno su tavole di legno imbiancate, esposte all’esterno della Regia: questi «annali dei pontefici», archiviati nello stesso edificio, sono all’origine della storiografia romana. Allo stesso sacerdozio apparteneva la cura del tempo, materializzata nella redazione di un calendario, le cui origini risalgono fino all’età regia: i cosiddetti «fasti Numani», accuratamente segnalati con lettere di dimensioni maggiori nei calendari più tardi. In base a un’analisi interna, è possibile datarli intorno al 600 a.C., e cioè all’epoca di Tarquinio Prisco: si tratta di un documento che attesta l’avvenuta nascita della città, che richiede, accanto a una specifica delimitazione religiosa dello spazio, un’organizzazione anch’essa religiosa del tempo. Un’impressionante conferma archeologica di questa attività si è avuta con lo scavo del silos collocato nel cortile della Regia, la sede dei pontefici, da cui proviene un grande numero di stili scrittori in osso di tutte le epoche: è difficile resistere alla suggestione di interpretare questi oggetti, testimonianza di secolari operazioni di scrittura e di archiviazione, in relazione all’attività dei pontefici. La familiarità con i testi greci, attestata a Roma fin dal VI secolo a.C. dall’importazione dei Libri Sibillini, si presta ad altre considerazioni. Sappiamo che si trattava di libri, cioè di rotuli di papiro in numero di tre, conservati in un ricettacolo lapideo
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nel Tempio di Giove Capitolino, da poco costruito. Lo scritto, certamente redatto in greco, e in versi – come sempre la letteratura di carattere oracolare – veniva consultato, previa autorizzazione del senato, in occasione di eventi particolarmente disastrosi o terrificanti (prodigia), ritenuti sintomi della collera divina. Non conosciamo la tecnica di consultazione, che doveva necessariamente far intervenire il caso (cioè la volontà degli dei): si richiedeva comunque da parte dei sacerdoti responsabili della consultazione una buona conoscenza del greco. Nozioni non superficiali di lingua e di versificazione di origine greca nella Roma arcaica sono attestate anche da altri documenti: il verso eroico romano, il saturnio (utilizzato ad esempio nella traduzione dell’Odissea da parte di Livio Andronico e sostituito dall’esametro greco solo con Ennio, all’inizio del II secolo a.C.), considerato in genere un metro tipicamente indigeno, è stato spiegato da Giorgio Pasquali come risultato di un adattamento, costituito dall’accoppiamento di due versi greci di carattere lirico (cioè da cantare). La spiegazione tradizionale, che vi riconosce un metro di origine indoeuropea cade di fronte alla constatazione che esso appare solo nel latino e nel greco. La derivazione da quest’ultimo appare dunque accertata, anche se, come sempre, constatiamo un adattamento del modello originario alle esigenze del nuovo utilizzatore: in questo caso,
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24. Il «Vaso di Duenos»: a sinistra, restituzione grafica; a destra, foto (Berlino, Antikenmuseum).
l’impiego come verso epico di elementi originariamente lirici. Secondo Pasquali, il saturnio venne introdotto già nel VI secolo a.C. Queste intuizioni sono state confermate di recente da nuove scoperte e dal riesame di vecchi documenti. Nel primo caso, si tratta di un’iscrizione della fine del VI secolo scoperta nel Lazio meridionale, a Satricum: il cosiddetto lapis Satricanus, già esaminato in precedenza, in cui si menziona un Publius Valerius, da identificare con grande probabilità con Publio Valerio Publicola, celebre personaggio dell’inizio della Repubblica. L’iscrizione, certamente metrica, comprende un intero verso saturnio e la seconda metà di un altro, confermando così sia l’autonomia originaria dei singoli emistichi di origine greca, sia la nascita già avvenuta del saturnio. Il cippo del Foro (lapis Niger) (fig. 23), nonostante la mutilazione della sua parte superiore, può essere identificato con una lex arae, cioè con il regolamento per i sacrifici da eseguire nel piccolo santuario di cui esso fa parte, certamente dedicato a Vulcano. L’identificazione della sua funzione permette anche di integrarne la parte iniziale, che ripete la maledizione che si trova all’inizio delle cosiddette leges regiae: «Chi violerà questo luogo [sacro] sia consacrato agli dei Mani». Il testo integrato dimostra che l’iscrizione è in saturni: ancora una volta, una prova che il verso esisteva già alla metà del VI secolo.
Un altro celebre documento arcaico, il «Vaso di Duenos» (fig. 24), di poco più antico (inizio del VI secolo) suggerisce conclusioni analoghe. L’oggetto apparve, alla fine dell’Ottocento, alle radici meridionali del Quirinale, presso la chiesa di S. Vitale, insieme a un deposito votivo, purtroppo disperso. Il luogo è lo stesso, il vicus Longus, dove si trovava uno dei culti serviani della Fortuna. Tutto fa pensare che il ritrovamento sia da collegare a questo santuario. L’oggetto, di bucchero, consiste di tre vasetti saldati insieme: si tratta di un tipo di recipiente chiamato in greco kernos, utilizzato per la libagione di primizie, soprattutto nel culto eleusino di Demetra. Il suo carattere di vaso votivo è confermato dalla lunga iscrizione incisa tutt’intorno all’oggetto, interamente conservata, che può forse tradursi come segue: «Giura gli dei colui che mi dedica: “Se verso di te la fanciulla non sarà compiacente, lo sarà se vorrai placarla per opera di Tutela”. Un uomo dabbene mi fece per affidarmi a un uomo dabbene: non mi consegnare a un malvagio». Tutto fa dunque pensare a un dono votivo di sostanze (magiche?) a una dea Tutela, il cui intervento servirà a procurare al dedicante i favori di una donna. La potenziale pericolosità (magica?) del vaso e del suo contenuto è illustrata dall’ultima frase. La dea in questione è indicata col nome di Toitesia, che in latino più recente corrisponderebbe a Tuteria: se la correzione in Tutela è accettabile, potrebbe
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26. Lastra architettonica di terracotta con teoria di divinità, dal palazzo di Poggio Civitate (Museo di Murlo) e restituzione grafica.
25. Lastra architettonica con scena di banchetto, dal palazzo di Poggio Civitate (Museo di Murlo) e restituzione grafica.
trattarsi di un epiteto di Fortuna (è nota da iscrizioni una Fortuna Tutela), tradotto da Plutarco con l’oscuro Euelpis («che dà buona speranza»). In ogni caso, l’iscrizione è in versi, che sembrano ottonari trocaici (ancora una volta, versi greci): lo stesso metro che si ritrova in altre formule a carattere magico, come quella cantata ai Meditrinalia dell’11 ottobre, una festa del mosto usato come medicina: novum vetus vinum bibo, novo veteri morbo medeor («bevo vino nuovo vecchio; guarisco dalla nuova, dalla vecchia malattia»). Questa formula, forse coeva al «Vaso di Duenos», presenta anche altre caratteristiche simili: in particolare il gioco retorico «nuovo/vecchio», del tutto
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analogo a quello del vaso, «buono/cattivo». Impressiona, in un’epoca così antica, un linguaggio così complesso ed evoluto, di evidente origine greca: siamo in presenza di una testimonianza straordinaria della cultura sacerdotale, diffusa nella Roma del VI secolo a.C. Un’altra via che possiamo percorrere per ricostruire la cultura preletteraria della città è il ricordo dei carmina convivalia, trasmessoci da un certo numero di autori romani, tra i quali spiccano Catone e Varrone: in particolare il primo, che scrive alla metà del II secolo a.C. Nella sua opera storica, secondo Cicerone (Tusc. Disp., 1.3; 4.3; epist. ad Brutum, 75) si afferma che «presso i nostri antenati era d’uso nei banchetti
che i singoli convitati sdraiati cantassero accompagnati dai flauti le lodi e le virtù degli uomini famosi»: ciò sarebbe avvenuto «molti secoli» prima di Catone, indubbiamente in età arcaica. Interessante anche la notazione che i banchettanti erano sdraiati: un uso greco, che in Italia appare in età orientalizzante. L’argomento presenta un interesse culturale indubbio: si tratta infatti, né più né meno, dell’esistenza di un’epica orale, espressione delle aristocrazie romane: qualcosa di molto simile alla società descritta da Omero, diffusa in tutte le strutture gentilizie arcaiche, come ha dimostrato la ricerca etnologica. Naturalmente, sull’argomento si è molto speculato, arrivando talvolta alla conclusione aberrante che
imputa a Catone la menzione di una pratica greca, mai esistita nella Roma arcaica: esattamente il contrario di quanto saremmo in diritto di aspettarci da un campione del moralismo indigeno, feroce avversario dell’ellenizzazione della società romana! Tali assurdità sono solo il frutto di una rigida divisione del lavoro nel campo della «scienza delle antichità» di tradizione ottocentesca: per evitarle, sarebbe bastato prendere visione di monumenti figurati arcaici etrusco-latini, noti da secoli (come le terrecotte architettoniche di Velletri) (fig. 55). Il modello del banchetto greco (ed eventualmente del simposio, il «bere insieme» che conclude il banchetto), va confrontato con l’abbondante documen-
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tazione figurata di età arcaica disponibile nell’Italia centrale tirrenica. Il vero e proprio simposio non appare mai pienamente realizzato in Etruria e nel Lazio: ci troviamo probabilmente di fronte a uno di quei tipici limiti dell’acculturazione ellenizzante, che dipendono dalla presenza di elementi indigeni «forti» della società che riceve, e che determinano varianti anche di rilievo nelle strutture locali «acculturate». L’uso del simposio si scontrava evidentemente con caratteristiche non omologabili della società tirrenica, che sembra di poter riconoscere soprattutto nel ruolo diverso delle donne: Varrone ne ricorda la presenza nei banchetti a Roma, ai quali esse tuttavia partecipavano sedute (De vita populi Romani, fr. 30 Riposati). L’iconografia arcaica delle scene etrusche di banchetto conferma questa notizia, che non può dipendere da fonti greche. Ora, la partecipazione della donna al banchetto (escluse beninteso le etere) è inconcepibile in Grecia: di qui lo scandalo di Aristotele per la «scostumatezza» delle donne etrusche; di qui anche l’impossibilità di uno sviluppo completo dei costumi greci in Italia, almeno nelle forme più pure, il cui culmine è appunto il simposio. Una volta riconosciuta questa fondamentale divergenza, frutto ineliminabile degli usi indigeni e della pressione da questi esercitata sugli apporti culturali greci, resta il fatto innegabile che l’introduzione del banchetto in Italia è il risultato dell’importazione, già in età molto antica (e comunque non successiva alla fine del VII secolo a.C.) di usi grecoorientali. Se infatti esaminiamo alcune caratteristiche del simposio in Grecia, ci accorgiamo che almeno i canti simposiaci (almeno quelli di carattere politico-encomiastico, forse meno quelli di carattere erotico) e l’uso di mangiare sdraiati sono attestati fin da età molto antica dalle fonti romane. Per il secondo in particolare disponiamo di un’abbondantissima documentazione iconografica contemporanea e di interi servizi di vasi da banchetto, provenienti da
tombe, che ci tolgono ogni eventuale dubbio sull’attendibilità dei dati trasmessi dall’antiquaria romana. Le testimonianze archeologiche presentano il vantaggio supplementare di offrirci documenti coevi e privi di rielaborazioni ideologiche successive. Interessano qui soprattutto le abitazioni regie o gentilizie, sedi privilegiate del banchetto arcaico, e le scene figurate su terrecotte architettoniche, soprattutto quelle provenienti dallo stesso tipo di edifici, in particolare, da alcuni «palazzi» etruschi, come quelli di Murlo e di Acquarossa. Il fatto che le scene di banchetto si trovino per lo più in edifici di carattere «privato» (anche se non mancano esempi provenienti da templi) dimostra che si tratta di rappresentazioni non generiche, ma strettamente funzionali alle strutture palaziali in cui erano inserite, spesso da identificare con le stesse sale da banchetto. In altri termini, si tratta di immagini che riproducono la sostanza delle attività reali che in queste avevano luogo. In tali rappresentazioni appaiono, coerentemente con l’uso etrusco, uomini e donne distesi su letti, ai quali si accostano inservienti per versare il vino, attinto dai vicini crateri. Quel che più conta per noi è la presenza di musici con lire e doppi flauti. Nel caso di Murlo (figg. 25-26), è anzi uno dei banchettanti a suonare la lira, secondo un costume tipicamente greco. Nello stesso rilievo un flautista si accosta a un convitato che si volge verso di lui e apre la bocca per cantare: l’atto non permette equivoci, e costituisce l’illustrazione perfetta del passo di Catone già ricordato: «I convitati erano soliti cantare nei banchetti, accompagnati da un flautista». Certo, ci piacerebbe restituire la voce a questo personaggio, ma anche in mancanza di ciò il contesto è di per sé parlante: la scena si svolge in una sala del palazzo, affacciata su di un sacello certamente destinato al culto dinastico (un larario) (fig. 40), sul cui tetto si dispone la teoria delle statue, identificabili con gli antenati eroizzati. Il canto, possiamo esserne certi, esponeva «le lodi e le virtù degli uomini famosi», come ci spiega Catone.
5. GLI EDIFICI DI CULTO
Varrone (secondo Agostino, La Città di Dio, IV, 31), «afferma anche che i Romani antichi venerarono gli dei per più di 170 anni senza realizzarne immagini». L’introduzione delle statue di culto sarebbe avvenuta, dunque, intorno al 580 a.C., negli ultimi anni di Tarquinio Prisco. Certamente Varrone sta pensando al simulacro del Tempio di Giove Capitolino, dovuto allo scultore veiente Vulca. Si tratta comunque di una data del tutto verosimile, che coincide nell’area tirrenica con il fenomeno di antropomorfizzazione degli dei, contemporaneo all’apparizione del tipo architettonico del tempio: il nome del tempio infatti, tanto in greco (naos) quanto in latino (aedes) designa la «casa»: esso non è altro, in definitiva, che l’«abitazione» della divinità, che vi soggiornava in forma di immagine. La vera sede del culto va identificata nell’altare di fronte al tempio, che esisteva da tempo immemorabile. La natura in origine non antropomorfa delle divinità romane sarebbe un risultato dell’intervento di Numa, come afferma Plutarco, che risale certamente a Varrone (Vita di Numa, 8): «Numa proibì ai Romani di venerare immagini in cui il dio avesse aspetto d’uomo o forma d’animale. Perciò in principio a Roma non esistette alcun simulacro divino, né dipinto, né scolpito». 5.1. Il tempio greco e il tempio italico Per ricostruire il processo che portò alla nascita del tempio nel Lazio si rivelano fondamentali gli scavi, realizzati alla fine dell’Ottocento e poi di nuo-
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vo alcuni decenni fa a Satricum. Sull’acropoli della città pontina aveva sede il culto poliadico di Mater Matuta. Il più antico luogo di culto non è altro, caratteristicamente, che una capanna, datata alla fine dell’VIII secolo, che non si differenzia in nulla dalle altre simili, destinate ad abitazione (figg. 28-29). Il culto cioè non appare «segnato» come tale, e la sua presenza non sarebbe riconoscibile, se al di sopra della capanna non si fossero in seguito sovrapposti edifici che presentano invece le forme caratteristiche del tempio. Il primo di questi è un piccolo sacello rettangolare (m 6 × 10,40), di un tipo che si ritrova anche altrove nel Lazio (a Gabii, a Velletri, a Lanuvio) e anche in Etruria (a Veio, a Murlo e ad Acquarossa). La costruzione, datata alla seconda metà del VII secolo a.C., nasce probabilmente (come in Etruria) non come edificio di culto autonomo, ma in rapporto con un grande edificio adiacente, nel quale si deve forse riconoscere una «reggia». È stato notato che il più antico «tempio» di Roma, quello di Giove Feretrio sul Campidoglio, che la tradizione antica attribuiva a Numa, presentava forme e dimensioni analoghe, come sappiamo da descrizioni antiche, che ce ne hanno conservate le misure (15 piedi di lunghezza, meno di quattro metri e mezzo). Il primo tempio monumentale, dotato di una ricca decorazione di terrecotte figurate, sarà realizzato a Satricum solo intorno al 540 a.C. Un’idea di questi primitivi sacelli si può ricavare dalle descrizioni letterarie e dalle immagini monetali del sacello di Giano nel Foro, la cui apertura, come è noto, indicava lo stato di guerra. Il piccolo edificio, accuratamente conservato mediante periodiche
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ricostruzioni, mostrava la sua forma originaria ancora nel VI secolo d.C., al tempo delle guerre gotiche, come risulta dal confronto tra le monete neroniane che ce ne trasmettono l’immagine e la descrizione dello storico bizantino Procopio, che poté vederlo ancora intatto (I, 25): Il tempio è interamente di bronzo, di forma quadrangolare, grande appena a sufficienza per ospitare il simulacro di Giano, che è di bronzo e misura non meno di cinque cubiti. Esso presenta forma umana, ma ha una testa bifronte, con una faccia rivolta a oriente, l’altra a occidente. Dinanzi ad ognuna di esse si trova una porta di bronzo, di cui i Romani un tempo tenevano chiusi i battenti in tempo di pace e di prosperità, mentre li aprivano in tempo di guerra.
Anche altrove l’archeologia ha fornito conferme decisive di questo processo: l’edificio di culto come struttura autonoma e riconoscibile sembra apparire nell’area tirrenica non prima dei decenni iniziali del VI secolo a.C., e dunque contemporaneamente alla notizia varroniana che ricorda l’introduzione a Roma delle statue di culto. Si deve riconoscere in questo l’azione della cultura greca, che si manifesta contemporaneamente nell’identificazione delle divinità italiche con quelle elleniche (interpretatio graeca). È dunque perfettamente vana la tradizionale ricerca di un modello originario del tempio italico, che sarebbe espressione di una struttura etnico-culturale del tutto autono-
ma: questa si manifesterebbe tramite caratteristiche spaziali di «assialità» e «frontalità», del tutto assenti nell’architettura greca. Concezioni del genere, ancora diffuse nella letteratura non solo divulgativa, possono sostenersi solo al prezzo di una radicale destoricizzazione delle realtà architettoniche, tanto greche quanto italiche, che si esprimono nella polarizzazione astratta «tempio greco» (limitata al modello del periptero) – «tempio italico» (riconoscibile nel tempio detto tuscanico). Ora, la ricerca recente ha potuto dimostrare che quest’ultimo appare relativamente tardi (almeno per quanto riguarda il tipo canonico, descritto da Vitruvio) (figg. 27, 35), e costituisce una derivazione dal tipo del periptero greco. In Italia almeno due templi arcaici (il Tempio B di Pyrgi e la seconda fase del Tempio di Mater Matuta a Satricum) presentano una peristasi completa, mentre altri edifici sembrano adattamenti del periptero greco (figg. 28-29): lo stesso Tempio di Giove Capitolino, certamente dotato di colonnati laterali, può considerarsi un precedente del più tardo peripteros sine postico («senza colonnato posteriore») da collegare, già per la stessa denominazione, con il modello greco. Il tipo tuscanico vero e proprio, con separazione netta del colonnato (limitato alla parte anteriore dell’edificio) dalle celle, che occupano la parte posteriore, appare solo nei primi decenni del V secolo: l’esempio più antico riconoscibile con certezza è forse il Tempio A di Pyrgi (circa 490-480 a.C.). Questa dipendenza non esclude, tuttavia, le indubbie differenze tra i due tipi di edificio: il modello
greco venne introdotto in maniera selettiva, e subì la pressione delle tradizioni locali, che sono all’origine di modifiche piuttosto rilevanti. Come sempre avviene, l’acculturazione non si manifesta come un fenomeno a senso unico, e le novità culturali vengono accolte solo attraverso un filtro, una scelta attiva. La «frontalità» del tempio tuscanico è sottolineata dall’assenza del colonnato posteriore, dall’unico ingresso e dal podio. Tuttavia, queste caratteristiche vanno intese non come costanti indigene, corrispondenti a una struttura «etnica», ma come risultati di condizionamenti non formali, ma determinati dalle funzioni religiose, cultuali. Tanto l’isolamento dall’area circostante – che si materializza nel podio – quanto l’esistenza di un solo ingresso assiale e la chiusura dell’edificio sugli altri lati rispondono ad esigenze precise della normativa religiosa, che conosciamo dalla tradizione letteraria antica. Secondo Festo (146 L.) «il templum è un luogo designato a mezzo della parola o recintato, in modo da essere aperto da una sola parte e da avere gli angoli inseriti nel terreno». Templum in latino, almeno in origine, non designa l’edificio templare, ma lo spazio ritualmente delimitato dagli auguri, dal quale è stata eliminata qualsiasi presenza «demonica»: solo con una seconda operazione, la «consacrazione» ad opera dei pontefici, l’area potrà essere dedicata a una precisa divinità, e trasformarsi in un «tempio» (aedes): il podio corrisponde al templum, l’edificio soprastante alla aedes. Di conseguenza, il tempio italico sarà sempre costituito da due parti, il
CAPANNA
27. Il tempio tuscanico secondo Vitruvio: pianta e ricostruzione prospettica.
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28. Satricum, pianta dei resti del Tempio di Mater Matuta.
SACELLO
TEMPIO I
TEMPIO II
29. Satricum, fasi del Tempio di Mater Matuta.
podio e il vero e proprio tempio, con funzioni indipendenti, anche se collegate tra loro. Questa struttura rituale tipicamente italica, inesistente in Grecia, ha radicalmente condizionato il modello greco, che verrà modificato per adattarlo alle esigenze locali. 5.2. Il tempio a Roma: le testimonianze letterarie L’unica trattazione teorica generale sul tempio italico (tuscanico) si trova in Vitruvio (L’architettura, IV, 7, 1-5) (figg. 27, 35): Ora tratterò del modo di realizzare l’ordine tuscanico. L’area dove sorgerà il tempio misurerà in lunghezza sei parti, in larghezza una di meno. Si divida la lunghezza in due e la parte più interna sia destinata alle celle, mentre quella sul lato della facciata si lasci alle colonne. Si divida poi la larghezza in dieci parti: di queste tre siano assegnate a destra e a sinistra a ciascuna delle celle minori o agli ambienti diversi da queste, le altre quattro al santuario centrale. Lo spazio del pronao antistante alle celle sia destinato alle colonne, in modo che quelle angolari si trovino di fronte alle ante, all’altezza dei muri esterni, le due mediane in corrispondenza delle pareti tra le ante e la cella centrale. Altre saranno collocate nello spazio compreso tra le ante e le colonne della facciata. E siano in basso dello spessore di 1/7 dell’altezza, mentre l’altezza corrisponderà alla terza parte della larghezza del tempio e il diametro della colonna alla sommità sia ridotto di un quarto. Le loro basi debbono misurare metà del diametro, e debbono avere un plinto circolare alto metà dell’altezza della base; e il toro al di sopra, con l’apofisi, sarà spesso quanto il plinto. L’altezza del capitello sarà pari alla metà del diametro, la larghezza dell’abaco uguale al diametro inferiore della colonna […] Sopra le colonne poggino travi congiunte […] sopra le travi e sopra i muri i mutuli sporgano per la quarta parte dell’altezza della colonna, e sul loro taglio si fissino i rivestimenti decorati, e al di sopra il timpano del frontone, in muratura o in legno, e su di esso la trave maestra, le travi laterali e quelle longitudinali, in modo che la sporgenza corrisponda a un terzo dell’intero tetto.
È da notare che l’autore, vissuto in un momento culturale caratterizzato prevalentemente in sen-
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30. Roma, pianta schematica della città antica, con la posizione dei templi di Fortuna e degli altri culti serviani: 1. Fortuna e Mater Matuta; 2. Fortuna Primigenia; 3. Fortuna Respiciens; 4. Fortuna Virgo (?); 5. Fortuna Euelpis (Tutela?); 6. Fortuna Virilis; 7. Fortuna Viscatrix; 8. Fortuna Obsequens; 9. Fortuna Privata?; 10. Fortuna Barbata; 11. Fors Fortuna; 12. Libitina; 13. Diana; 14. Luna.
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La reale esistenza di alcuni di questi culti è dimostrata: oltre alla Fortuna Redux (a mio avviso certamente quella del Foro Boario, collegata con il trionfo), va citata almeno la Respiciens, a cui dovrebbe appartenere il frontone fittile di via S. Gregorio (pertinente a un restauro del II secolo a.C.) e che si può collocare – anche per la presenza sul Palatino di un vicus Fortunae Respicientis – nella zona orientale della collina. Accertato è anche il culto capitolino di Fortuna Primigenia (evocatio da Palestrina?) e quello di Fortuna Virilis nella Valle Murcia, alle pendici dell’Aventino verso il Circo Massimo. A questa lista, della cui storicità a mio avviso non è lecito dubitare, si devono aggiungere il culto di Fors Fortuna al primo miglio della via Campana, i templi di Diana e forse di Luna sull’Aventino, di Libitina e forse di Giunone Lucina sull’Esquilino, anch’essi attribuiti, da altre fonti, a Servio Tullio: collocando su una pianta (fig. 30) tutte le indicazioni relative,
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1. Fortuna Brevis (Mikrà); 2. Fortuna Felix? (Euelpis): nel vicus Longus; 3. Fortuna Redux (Apotropaios): nel Foro Boario; 4. Fortuna Obsequens (Meilichia): sul Celio; 5. Fortuna Primigenia (Protogeneia): sul Campidoglio; 6. Fortuna Virilis (Arren): nella vallis Murcia; 7. Fortuna Privata (Idia): sul Palatino; 8. Fortuna Respiciens (Epistrephomene): sul Palatino; 9. Fortuna Virgo (Parthenos): sull’Esquilino? 10. Fortuna Viscatrix (Ixeutria): sul Celio.
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La serie più numerosa di templi è quella attribuita all’attività di Servio Tullio, grazie soprattutto a una notizia di Plutarco, ripetuta in due opuscoli diversi (Questioni Romane, 74 e La Fortuna dei Romani, 10), certamente tratta da Varrone e, nonostante l’autorità di questa fonte, singolarmente trascurata. Si tratta della lista dei templi o sacelli di Fortuna, realizzati dal penultimo re di Roma: l’introduzione del culto della dea nella prima metà del VI secolo sembra confermata almeno in un caso, quello del Tempio di Fortuna e Mater Matuta del Foro Boario, come dimostra lo scavo dell’«area sacra» di S. Omobono, sul quale torneremo più avanti. La lista di Plutarco (Varrone), che indica in greco gli appellativi della dea, di cui talvolta non è facile identificare il corrispondente latino, come spesso anche la localizzazione dei relativi luoghi di culto, è la seguente:
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so classicistico, privilegia il tempio greco, mentre confina la trattazione del tempio italico (da lui definito tuscanico) alla fine della trattazione. Questo spiega il carattere eccessivamente schematico della sua descrizione, che mira ad assimilare, nei limiti del possibile, gli edifici italici a quelli greci: condizione indispensabile per una valutazione positiva dei primi. In ogni caso, anche se la realtà delle singole realizzazioni non corrisponde a questo schema quasi in nessun caso, si può affermare tranquillamente che il modello vitruviano è, nei suoi limiti, sostanzialmente corretto, e deriva dall’osservazione reale di un certo numero di edifici, quasi tutti localizzati a Roma. Le fonti antiche menzionano una serie di culti introdotti nella città dagli ultimi re, i Tarquinii e Servio. In alcuni casi si può pensare a un’operazione di evocatio, cioè di «appropriazione» di divinità tutelari di città o popoli sconfitti, che in un certo senso costituivano anch’esse una parte della preda. L’operazione ci è nota in particolare dall’episodio relativo alla Giunone Regina di Veio che, evocata da Camillo nel corso dell’assedio della città, troverà la sua nuova sede a Roma nel tempio eretto sull’Aventino. Il rito, di sicuro carattere arcaico, non nacque certo così tardi: è probabile che alcuni casi siano da attribuire ancora al VI secolo, come verrebbe da pensare almeno per Mater Matuta, la dea di Satricum: il culto appare a Roma molto presto, e si potrebbe pensare a un’introduzione seguita alla conquista di Pometia (certamente da identificare con Satricum) da parte di Tarquinio il Superbo. In ogni caso, nel corso del VI secolo a.C. dovettero verificarsi vari episodi analoghi (anche se non necessariamente tramite l’evocatio), che avviarono un processo ininterrotto di «importazione» di culti, continuato, praticamente senza interruzione, fino all’età imperiale. Naturalmente, si è dubitato della storicità del fenomeno per quanto riguarda il periodo arcaico. Tuttavia, l’indagine archeologica ha dimostrato in molti casi che si tratta di episodi autentici, dei quali non è lecito dubitare in via di principio. Tra l’altro, le notizie di questo tipo erano certamente documentate negli archivi dei pontefici, e sono tra le più sicure tra quante la tradizione antica ci ha trasmesso. Una verifica sommaria della dislocazione dei culti nell’ambito della città arcaica può prendere per base il confronto fra la disposizione all’interno della città di tutti i culti arcaici attestati dalle fonti letterarie di cui si conosca la posizione precisa e i luoghi di ritrovamento attestati da terrecotte templari.
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ci accorgiamo che i culti «serviani» appaiono ovunque, all’interno e immediatamente all’esterno delle mura arcaiche: Palatino, Campidoglio, Foro Boario, Esquilino, Celio, Quirinale, Aventino. In un certo senso, la distribuzione dei santuari della dea cara a Servio sembra quasi destinata a sacralizzare sistematicamente l’intera area della «città serviana». Nel caso dei Tarquinii, l’attività di fondazione di nuovi culti, se non più ridotta, sembra concentrata soprattutto nel settore centrale della città. A parte la gigantesca impresa del Tempio di Giove Capitolino, si possono attribuire ad essi i culti di Semo Sancus sul Quirinale (evocazione a seguito di una vittoria sabina?), l’inizio dei lavori del Tempio di Saturno (terminati all’inizio della Repubblica) e forse l’introduzione del culto di Mater Matuta (evocazione da Pometia-Satricum?), del culto di Ercole all’Ara Maxima e di quello di Marte nel Campo Marzio. 5.3. Il Tempio di Giove Capitolino Ogni studio sulla Roma dei Tarquinii non può evitare di confrontarsi con il tema centrale e spinoso
del Tempio di Giove Capitolino, tema che riveste un ruolo decisivo per la conferma (o per la confutazione) del quadro trasmessoci dalle fonti antiche. Per questo la critica moderna è tornata periodicamente sull’argomento, spesso negando il carattere eccezionale di questo edificio: negazione che, in presenza di dati archeologici che lo confermano in pieno, ha dovuto negare la datazione dei resti conservati, e attribuirli a un’epoca più recente, in genere al IV secolo a.C. Una soluzione di compromesso è quella che propone di interpretare l’enorme struttura conservata come un semplice podio, destinato (come nel caso di S. Omobono) a sostenere un edificio assai più piccolo. Ancora più di recente si è affermato che templi peripteri sine postico non esisterebbero prima del IV secolo: è stato facile obiettare che in realtà ne conosciamo almeno un esempio, la prima fase di quello di Satricum (fig. 29), databile al pieno VI secolo. Prima di affrontare l’esame dei dati archeologici, è opportuno riassumere le informazioni che ci provengono dalla tradizione antica. Si afferma in genere, per contestarne l’attendibilità, che in questa sia presente una contraddizione interna, e cioè l’attribuzione dell’opera all’uno e all’al-
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tro Tarquinio. In realtà, almeno in termini formali, tale contraddizione non esiste: le fonti migliori infatti collegano il voto del tempio, la designazione dell’area e l’inizio dei lavori a Tarquinio Prisco, in seguito alla sua vittoria sui Sabini, mentre il loro completamento sarebbe dovuto a Tarquinio il Superbo, che vi avrebbe impiegato la ricca preda ricavata dalla conquista di Suessa Pometia (Satricum). Dopo tutto, le dimensioni dell’opera dovettero richiedere lavori prolungati nel tempo, valutabili in un cinquantennio. Particolarmente significativo è il testo di Livio, che descrive le modalità della costruzione (I, 56, 1): «[Tarquinio], impegnato nella costruzione del tempio, dopo aver chiamato artefici da ogni parte dell’Etruria, non utilizzò a questo scopo solo denaro pubblico, ma anche il lavoro della plebe». L’utilizzazione delle corvées per la realizzazione di grandi opere pubbliche è ricordata anche in altri casi coevi, la costruzione del Circo e delle cloache. Ora, tale dettaglio corrisponde perfettamente alle condizioni sociali ed economiche di una città arcaica, e difficilmente potrebbe essere inventato: Cicerone del resto nota che tale uso di manodopera gratuita permise di limitare al massimo il costo dell’operazione (Contro Verre, 2, II, 19, 48). Del tutto verosimile è anche il ricordo dell’operazione di exauguratio (espulsione rituale) dei culti già presenti in loco, per liberare l’enorme superficie indispensabile al nuovo edificio, operazione alla quale si sottrassero solo gli inamovibili sacelli di Terminus e Iuventas (e forse anche di Marte): la realtà di tale operazione è dimostrata dal fatto che questi culti antichissimi erano in seguito ancora conservati all’interno dell’edificio.
L’accenno di Livio ai fabri convocati da tutta l’Etruria per collaborare ai lavori è completato da altre testimonianze: fondamentale quella di Plinio (Storia Naturale, XXXV, 157): «Da Veio venne chiamato Vulca, a cui Tarquinio Prisco affidò la realizzazione del simulacro di Giove per il tempio del Campidoglio che era di terracotta, e periodicamente veniva dipinto col minio; per lo stesso tempio venne eseguita la quadriga di terracotta, che si trovava alla sommità del frontone». Certamente alla stessa bottega era stata affidata la realizzazione della grande figura di Summanus (divinità solare, raffigurata con torso umano e code serpentine), anch’essa di terracotta, collocata nel frontone, che venne colpita dal fulmine nel 275 a.C. Con la stessa tecnica Vulca aveva plasmato anche un’immagine di Ercole, che doveva trovarsi nel santuario dedicato al dio nel Foro Boario: è molto probabile infatti che l’introduzione del culto a Roma, chiaramente tramite l’Etruria, si debba agli stessi Tarquinii, che potrebbero averlo introdotto da Corinto (da dove proveniva, secondo la tradizione antica, il fondatore della dinastia, Demarato). Una narrazione mitica, certamente molto antica, riporta un interessante episodio relativo alla realizzazione di queste opere. La quadriga di terracotta destinata al tempio, al momento della sua produzione nella stessa Veio (come ricorda Festo, 340 L. che, senza nominarlo, accenna a Vulca definendolo «un certo maestro dell’arte della terracotta»), invece di ridursi durante la cottura, come sarebbe stato normale, cominciò a gonfiarsi fino ad occupare l’intera fornace. Gli aruspici etruschi interpretarono il prodigio nel senso che al possessore dell’opera sarebbe
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Fondazione tempio: parte conservata
Fondazione tempio: parte ricostruita
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TEMPIO CAPITOLINO SECONDO MURA SOMMELLA
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TEMPIO DELLA NOCE TEMPIO DEL BELVEDERE ARDEA ORVIETO
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TEMPIO CAPITOLINO SECONDO CIFANI
VULCI
MARZABOTTO
TEMPIO DEI DIOSCURI ROMA
TEMPIO A PYRGI
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31. Sostruzioni del Tempio di Giove Capitolino, rilievo grafico.
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TEMPIO DI APOLLO ROMA
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32. Tempio di Giove Capitolino, sezione trasversale (da Cifani). 33. Tempio di Giove Capitolino, pianta ricostruttiva (da Cifani). 34. Denario di Petilius Capitolinus con il Tempio di Giove. 35. Piante dei principali templi arcaici dell’area tirrenica (da Cifani). Alle pagine seguenti: 36-37. Veio, Tempio di Portonaccio: frammento di acroterio di terracotta con testa di Mercurio; acroterio di terracotta raffigurante Apollo (Roma, Museo di Villa Giulia).
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38. Ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino.
spettata l’egemonia sull’Italia. Di qui il rifiuto da parte dei Veienti di consegnarla ai Romani, che solo con grandi difficoltà riuscirono a recuperarla. La verosimiglianza di questa tradizione è stata confermata dalla scoperta, nel Santuario veiente di Minerva, dei grandi acroteri fittili (figg. 36-37) che rappresentavano, tra l’altro, la lotta tra Apollo ed Ercole per il possesso della cerva cerinite: eccezionali opere della fine del VI secolo a.C., attribuite a Vulca al momento della scoperta che, anche se l’identificazione non è sicura, dimostrano comunque l’eccellenza dei coroplasti della città nel periodo contemporaneo all’ultimo dei Tarquinii. Una precisa descrizione del tempio, nella sua ricostruzione successiva all’incendio dell’83 a.C. (che ne conservò comunque le dimensioni originarie) si trova in un autore di età augustea, Dionigi di Alicarnasso (III, 69, 1-2) (figg. 32-34, 38): «Fu costruito su
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un podio di quasi otto plettri di perimetro (800 piedi), con lati di quasi duecento piedi: si riscontra una piccola differenza di meno di 15 piedi tra lunghezza e larghezza». Vitruvio (L’architettura, III, 3, 5) ricorda la disposizione «areostila» del colonnato, cioè con intercolumni amplissimi, tipica dei templi tuscanici. I grandiosi resti dell’edificio, noti da tempo, sono stati recuperati di recente, per la nuova sistemazione dei Musei Capitolini. Questo ha permesso di riprenderne lo studio, con risultati di notevole importanza. Lo scavo (condotto tra il 1998 e il 2000) ha permesso di liberare in gran parte l’impressionante sostruzione in blocchi di cappellaccio, che ora è interamente visibile nella grande sala del Marco Aurelio (figg. 31, 39). La datazione dell’edificio si deduce già dall’utilizzazione del cappellaccio, in blocchi di un piede di altezza accuratamente lavorati e connessi, del tutto
39. Sostruzione del Tempio di Giove Capitolino.
analoghi a quelli della prima fase delle Mura Serviane: l’uso di questo tipo di materiale, soprattutto con tali caratteristiche e in tale quantità, non è immaginabile a Roma dopo il periodo arcaico. In ogni caso, lo scavo ha permesso di risolvere in modo definitivo il discusso problema della cronologia. L’area era occupata in precedenza da un abitato del Medio Bronzo (XVII-XIV secolo a.C.), di cui già prima erano apparse tracce al margine del colle (nell’«area sacra» di S. Omobono), la cui vita si prolunga fin verso la metà del VI secolo, quando verrà eliminato per la messa in opera dell’enorme cantiere del tempio. I lavori relativi sembrano prolungarsi fino alla fine del VI secolo a.C., ciò che conferma in pieno la tradizione antica. Per quanto riguarda le dimensioni, è confermata nell’insieme la ricostruzione di E. Gjerstad e l’atten-
dibilità delle misure fornite da Dionigi di Alicarnasso, anche se esse ovviamente appaiono arrotondate. Il podio misura 62 metri circa di lunghezza per 53 di larghezza, pari a 210 × 180 piedi di 29,7 cm, con un rapporto di 7 a 6 tra le due dimensioni. Il perimetro è di circa 230 metri e la superficie coperta di 3286 mq (figg. 32-33): si tratta senza alcun dubbio del più imponente tempio tuscanico mai realizzato, comparabile per dimensioni solo alle più grandi realizzazioni greche della Ionia e della Sicilia. La struttura comporta un muro perimetrale spesso 6,9 metri e quattro muri longitudinali, spessi 3,8, tagliati da due trasversali di 4,5. Sul podio (alto 4,5 m) sorgeva nella parte anteriore un triplice colonnato, mentre la parte posteriore era occupata dalle tre celle, destinate a Giove (la centrale), a Giunone (quella di destra) e a Minerva (quella di sinistra).
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Le difficoltà principali della ricostruzione riguardano l’alzato: in particolare, le trabeazioni, di lunghezza che a molti è sembrata eccessiva: le colonne, certamente di tufo, del diametro di circa 2,10 m, presentavano un interasse laterale di 8,40-8,88 m, che raggiungeva i 12,68 al centro. La distanza tra le tre file di colonne era di circa 6,75. In ogni caso, è escluso l’uso della pietra per gli epistili, e si deve pensare a doppie travi di abete affiancate: lunghezze simili si ritrovano in templi greci arcaici e nelle coperture delle basiliche. Travi ben più lunghe, di 100 e 120 piedi, presenti a Roma, sono ricordate da Plinio. I colonnati, come si è visto, si prolungavano sui due lati, lungo le celle, prefigurando un tipo molto diffuso più tardi, designato da Vitruvio come peripteros sine postico. Altro problema cruciale è quello della copertura, che può ricostruirsi a due o a tre falde. Forse la soluzione più probabile è la seconda (utilizzata in templi molto antichi, come quello di Thermos in Grecia), con un solo frontone, quello anteriore: in esso si trovava l’immagine di Summanus, divinità solare, le cui code serpentine si adattavano perfettamente allo spazio triangolare disponibile; al di sopra, la quadriga di terracotta, sostituita all’inizio del III secolo a.C. da una di bronzo. La realizzazione di un simile colosso, che dominava dall’alto del Campidoglio il sottostante Foro, è di per sé sufficiente a confermare le notevoli disponibilità economiche della città, e soprattutto il suo potere, preminente all’interno della Lega Latina, che si estendeva fino ai limiti meridionali
del Lazio costiero: lo attesta il più antico trattato romano-cartaginese, databile secondo Polibio al primo anno della Repubblica, ma che doveva rinnovarne uno precedente, stipulato ancora in età regia. La tradizione annalistica attribuisce al primo anno della Repubblica anche la dedica del tempio, dovuta al console Orazio Pulvillo, il cui nome, iscritto sull’edificio, si poteva ancora leggere prima dell’incendio dell’83 a.C. In realtà, sembra più probabile che i lavori si fossero già conclusi prima della caduta dei Tarquinii, e che l’edificio, monumento principale del culto politico a Roma, avesse richiesto una nuova inaugurazione, destinata a obliterare la memoria del tiranno. La conferma dei dati tradizionali che si ricava dalle nuove indagini, tanto nel caso del principale tempio della città, quanto nel caso della prima cinta muraria, che include l’enorme superficie di 426 ettari, dovrebbe ormai scoraggiare i tentativi, senza posa reiterati, di confutare totalmente le notizie antiche su Roma arcaica, nella quale si continua a riconoscere – nel migliore dei casi – solo un piccolo centro provinciale, soggetto all’egemonia di questa o quella metropoli etrusca. Non si tratta più solo di tarde e incerte tradizioni annalistiche, viziate da visioni ideologiche e condizionate dal successivo sviluppo della Roma imperiale: anche se le vicende della città in età regia continueranno in gran parte a sfuggirci, dovrebbe almeno essere chiara la sua rilevanza nella storia complessiva dell’Italia tirrenica, in cui essa dovette comunque esercitare un ruolo non marginale.
6. LA REGIA DI ROMA E LE «REGGE» ETRUSCHE
Un dogma indiscusso fino ad anni recenti (e del resto ancora accettato da alcuni) è che l’uso delle terrecotte architettoniche con fregi e figurazioni a rilievo fosse riservato solo alla decorazione dei templi. Per questo la Regia di Roma (fig. 40, in alto), la cui funzione originaria di «abitazione del re» dovrebbe essere pacifica, in ragione dello stesso nome, è stata in un primo tempo identificata con un santuario: in effetti, gli scavi che ne hanno a più riprese esplorato i resti, situati ai limiti orientali del Foro, hanno rivelato che fin dalle fasi più antiche l’edificio comportava una ricca decorazione di terrecotte a rilievo e dipinte. Studi più approfonditi, e soprattutto la scoperta in Etruria meridionale e nello stesso Lazio di edifici analoghi, nei quali è impossibile riconoscere luoghi di culto, ha obbligato a modificare tale opinione. Le scoperte più significative a riguardo sono quelle di Murlo (Poggio Civitate, presso Siena), nell’Etruria settentrionale, e di Acquarossa (vicino Viterbo), in Etruria meridionale. Il palazzo di Murlo (fig. 40, al centro), isolato in una zona non urbanizzata e certamente sede di un
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principe etrusco, presenta due fasi, una del periodo orientalizzante (metà del VII secolo) e una arcaica (intorno al 580): solo di quest’ultima è possibile ricostruire una pianta completa, che riprende comunque, più in grande, quella dell’edificio precedente. Si tratta di un edificio quadrato, di circa 60 metri di lato, con un grande cortile centrale, intorno al quale si dispone una serie di ambienti: i settori più importanti sono quello di nord-ovest (un gruppo di tre stanze, di cui la centrale identificabile con un sacello del culto gentilizio) e quello di sud-ovest (una struttura analoga, con al centro la sala destinata ai banchetti). Una serie di statue fittili a tre quarti del vero (fig. 41) era collocata, a mo’ di acroteri, sul tetto della zona nord, in connessione con la parte cerimoniale del palazzo. Si tratta certamente di rappresentazioni di antenati eroizzati. La presenza di sime rampanti dimostra che le sale cerimoniali possedevano frontoni, e sono quindi assimilabili a edifici di culto. Lastre figurate formavano fregi continui (figg. 25-26), con rappresentazione di concili di divinità, corse di cavalli, banchetti e cortei
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40. A sinistra: Roma, pianta della Regia. Al centro, palazzo di Murlo: pianta. A destra, palazzo di Acquarossa («zona F»): pianta.
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nuziali. È agevole riconoscere nell’insieme di questo apparato decorativo, realizzato sul posto e ispirato a modelli corinzi e della Grecia orientale, una messa in scena delle attività e dei valori gentilizi, in una fase in cui il potere era ancora prerogativa di gruppi aristocratici. La scomparsa dell’edificio negli ultimi decenni del VI secolo si spiega con la crisi di questo modello arcaico e con la nascita della città, che nell’Etruria settentrionale avviene con netto ritardo rispetto alle aree più meridionali dell’Etruria e del Lazio. Il caso di Acquarossa (nell’attuale provincia di Viterbo) appare diverso (fig. 40, in basso): anche qui si tratta di un palazzo, ma non isolato, bensì collocato all’interno di un’ampia area di circa 80 ettari, urbanizzata già a partire dalla metà del VII secolo a.C., ma per breve durata: alla metà del VI, infatti, il sito viene abbandonato, per essere sostituito dal vicino abitato di Ferento. Il complesso è organizzato anche in questo caso intorno a una corte, su cui si affacciano ad angolo retto due ali principali: una di queste, a est, è costituita (come a Murlo) da tre ambienti comunicanti tra loro, dei quali il centrale, più grande, va probabilmente identificato con una sala da banchetto. L’altra ala, dotata di frontone, sembra destinata ad attività cultuali, certamente di carattere gentilizio. Le terrecotte figurate (datate intorno al 530 a.C.) comprendono antefisse e fregi, questi ultimi collocati principalmente sulla copertura della sala da banchetto: processioni di carri con fanti e cavalieri armati, scene di banchetto e di danza orgiastica (komos) (fig. 43). È interessante la presenza, nei rilievi con corteo (chiaramente di carattere militare e «trionfale») di soggetti mitici, del tutto assenti a Murlo: si tratta di due delle «fatiche di Ercole», il leone Nemeo e il toro Cretese. Se ne può dedurre che, come nella Roma contemporanea, anche ad Acquarossa l’introduzione del mito greco, in particolare di quello di Eracle, sia funzionale a forme di eroizzazione o divinizzazione del sovrano. Di conseguenza, le caratteristiche cultuali di questi edifici non configurano templi di carattere pubblico, ma sono piuttosto la risposta alle
41. Poggio Civitate (Murlo), statua acroteriale in terracotta. A fronte: 42. Lastra in terracotta con felini e Minotauro, dalla Regia (Antiquarium del Foro Romano). 43. Acquarossa, lastra architettonica in terracotta con scena di danza (Museo di Viterbo).
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esigenze ideologiche e di potere di un ceto aristocratico, nel momento in cui da questo vanno emergendo figure di «principi» e di «tiranni» analoghe a quelle che conosciamo a Roma nello stesso periodo. I modelli architettonici in questi due esempi sembrano desunti dalle regge del Vicino Oriente, mediate dalla cultura greca della Ionia, come si desume dalle caratteristiche stilistiche delle terrecotte ornamentali. La scoperta di questi complessi palaziali in Etruria, in contesti antecedenti o contemporanei alla formazione delle città, permette di comprendere meglio la situazione di Roma, dove lo scavo della Regia e degli edifici connessi ha rivelato situazioni sostanzialmente analoghe. Anche in questo caso, le strutture, esplorate in vari momenti, sono state in un primo tempo interpretate come templi, esclusivamente per la presenza di terrecotte architettoniche, anche se il loro aspetto non corrispondeva in alcun modo a edifici di culto. L’interpretazione come dimora regale appare oggi accertata, non solo in base alle forme dell’edificio, del tutto analoghe a quelle dei «palazzi» etruschi, ma anche per la testimonianza delle fonti antiche, che vi riconoscono l’abitazione primitiva dei re e in seguito quella del «re sacro» (rex sacrorum) repubblicano, che dei monarchi precedenti eredita le funzioni sacrali. Ritrovamenti eccezionali, come la coppa di bucchero degli ultimi decenni del VI secolo a.C., con la scritta REX (fig. 44), contribuiscono a confermare tale interpretazione. Come le «regge» etrusche, la Regia di Roma (fig. 40, in alto) (che costituiva solo una parte del complesso abitativo originario) si accentra intorno a un cortile triangolare, sul cui lato di fondo si dispone una struttura tripartita, comprendente tre ambienti comunicanti, coperti da un unico tetto trasversale a doppio spiovente con copertura di tegole e accesso dall’ambiente centrale: si tratta di un tipo di casa che appare nel corso del VII secolo (quando scompaiono le grandi capanne longitudinali con tetto stramineo) e si diffonde ovunque nell’area tirrenica. Ne possiamo conoscere l’alzato tramite le riproduzioni che sono rimaste in tombe rupestri, come quella perfettamente conservata di Tuscania. Come negli esempi etruschi, la sala centrale doveva servire per il banchetto, mentre gli ambienti laterali avevano funzioni cultuali: nel caso di Roma, sappiamo che essi ospitavano i culti di Marte e Ops Consiva, divinità rispettivamente della guerra e dell’abbondanza agricola e chiare proiezioni divine del rex
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e della regina. Anche qui le terrecotte architettoniche appaiono funzionali a questa presenza religiosa: in particolare, la lastra frammentaria con teorie di felini, trampolieri e la figura del Minotauro (fig. 42), che non è possibile separare dal mito ateniese di Teseo, da interpretare in questo caso come modello ideale del re, in una dimensione di apoteosi. Questi rilievi, la cui datazione intorno agli anni 570-550 corrisponde a quella tradizionale di Servio Tullio, potrebbero appartenere alla reggia di quest’ultimo.
44. Frammento di bucchero dalla Regia con la scritta REX (Antiquarium del Foro Romano).
7. FORTUNA E MATER MATUTA
Nei fasti arcaici, detti «numani», si deve riconoscere il calendario urbano arcaico, databile intorno al 600 a.C.: regolamentazione del tempo solidale alla regolamentazione dello spazio, funzionali ambedue alla definizione formale della nuova città, che per vari indizi va collocata in questo stesso momento. È sintomatico che in esso non appaia il culto di Fortuna, che sarebbe stato introdotto, secondo l’unanime testimonianza delle fonti antiche, dal penultimo re di Roma, Servio Tullio, a cui venivano attribuiti, come sappiamo, numerosi templi della dea. Questo conferma la cronologia del calendario, da attribuire di conseguenza al periodo di Tarquinio Prisco, mentre la successiva apparizione del culto di Fortuna intorno alla metà del VI secolo è dimostrata dallo scavo del tempio della dea, venerata insieme a Mater Matuta nella cosiddetta «area sacra» di S. Omobono, nel Foro Boario. La scoperta, avvenuta negli anni ’30 del secolo scorso, è forse la più importante per la conoscenza della città arcaica; d’altra parte il sito è ancora ben lontano dall’aver restituito tutte le informazioni che è in grado di fornire, dal momento che i livelli più antichi sono stati esplorati solo in minima parte, nonostante l’amplissima messe dei materiali già recuperati, che è possibile coniugare con la serie piuttosto nutrita delle notizie fornite dalle fonti letterarie antiche. Da queste apprendiamo che Servio Tullio avrebbe fondato nel Foro Boario un duplice culto, di Fortuna e di Mater Matuta. La presenza di quest’ultima nel «Calendario Numano» fa pensare però che esso fosse in realtà più antico: come abbiamo visto, potrebbe
trattarsi di un’importazione del culto, tramite evocatio, dal suo luogo di origine nel Lazio meridionale, Satricum. Questa città, la più importante della Pianura Pontina, va identificata certamente con Suessa Pometia, conquistata e saccheggiata, secondo la tradizione, da Tarquinio il Superbo. Comunque, il racconto tramandato insiste soprattutto sul culto di Fortuna, e sul suo intimo legame con la figura di Servio: il re sarebbe stato amante e favorito della dea, che lo avrebbe potentemente aiutato nella sua ascesa da un’umile origine al potere. Non si tratta di una tarda storiella romantica, come si è pensato, ma della traccia residuale di una struttura mitica, diffusa nell’Oriente antico e recepita successivamente dalle società arcaiche del Mediterraneo: questa stabilisce un rapporto diretto tra regalità e divino, che si manifesta nella protezione da parte di una «grande dea» ritenuta detentrice del potere, che viene trasferito al sovrano tramite un rapporto coniugale (una «ierogamia»). Ne troviamo un’attestazione esplicita e contemporanea nelle note lamine d’oro di Pyrgi, il porto di Cerveteri, redatte in fenicio e in etrusco: in queste un sovrano (o più probabilmente un tiranno) di Cerveteri, Thefarie Velianas, afferma di aver ottenuto il dominio sulla città grazie alla dea Astarte (identificata con l’etrusca Uni, la Giunone romana) tramite una cerimonia, in cui si può forse riconoscerere una ierogamia. Troviamo così in una città vicina, non solo geograficamente, la documentazione epigrafica di un modello orientale, la cui presenza a Roma è attestata dal racconto mitico. Il modello originario si può riconoscere nell’Egitto faraonico, dove la «grande dea» Iside è legata
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45. S. Omobono: facciata del tempio arcaico di prima fase (disegno ricostruttivo).
a un «dio morente», Osiride, sostituito provvisoriamente dal nuovo sovrano, che assume l’identità del figlio di Osiride e Iside, Horus. «Grande dea» e «dio morente» costituiscono una coppia, funzionale alla regalità sacra, che troviamo ovunque nel Vicino Oriente: basterà citare gli esempi di Cibele-Attis e di Astarte-Adone. In quest’ultimo caso, si tratta precisamente della coppia testimoniata a Pyrgi, mentre a Roma l’Astarte-Afrodite fenicio-cipriota sembra identificarsi con Fortuna, che assume le stesse funzioni rispetto alla regalità di Servio Tullio. È stato osservato che in Egitto l’intronizzazione del re segue immediatamente la designazione divina e assume le forme di un trionfo sul nemico vinto. Analoghe osservazioni si possono fare a proposito del trionfo romano, che sappiamo introdotto dall’Etruria ad opera dei Tarquinii. In primo luogo, il nome stesso di «trionfo» deriva direttamente dal greco thriambos, che designa la cerimonia della vittoria di Dioniso sull’India: Dioniso è infatti un altro «dio morente», analogo a Eracle, eroe figlio di un dio e di una mortale, che dopo la morte diventerà una divinità. Ora, il trionfo arcaico, come sappiamo, si traduce sostanzialmente nell’identificazione del re con Giove. Le insegne che caratterizzano la cerimonia non lasciano adito a dubbi: il trionfatore utilizza la quadriga di cavalli bianchi, indossa gli abi-
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AEDES FORTVNAE ET MATRIS MATVTAE 1938 1959 V 1964
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A fronte: 46. Piante della prima e della seconda fase del tempio arcaico; 47. Pianta della fase medio-repubblicana dei templi di Fortuna e Mater Matuta. 48. S. Omobono: leoncino in avorio; 49. Retro dello stesso con iscrizione etrusca (Musei Capitolini).
ti e la corona del dio, si dipinge la faccia di minio, a imitazione del simulacro di Giove Capitolino: egli è in quel momento Giove in persona, dopo aver celebrato il «matrimonio sacro» con la dea. Anche nella Roma arcaica dunque intronizzazione del re e cerimonia di vittoria si identificano, nell’ambito di una complessiva «divinizzazione» o «eroizzazione» del sovrano, base e giustificazione del potere assoluto, connotato come sacro. Nel contesto così ricostruito, acquista senso il rapporto «coniugale» tra Servio e la Fortuna, soprattutto se consideriamo il fatto che il tempio della dea nel Foro Boario è strettamente collegato al trionfo: al centro dell’«area sacra» di S. Omobono si trovava infatti la Porta Trionfale, di cui si conservano ancora i resti di età imperiale, e il Tempio di Fortuna (che assumerà in seguito l’appellativo di Redux, «la garante del ritorno vittorioso») è sempre presente nelle scene storiche che raffigurano il trionfo o il ritorno solenne dell’imperatore (adventus). Per questo, i resti del Santuario arcaico di Fortuna e Mater Matuta nel Foro Boario rivestono un valore cruciale per la comprensione delle strutture non solo religiose, ma di potere della Roma dei Tarquinii e di Servio. I resti scavati (figg. 45-47) appartengono alle fasi medio e tardo-repubblicana: si tratta di un grande
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50. Tempio arcaico di S. Omobono, seconda fase: ricostruzione grafica del tetto.
podio unitario, sul quale sorgono i due templi gemelli, prova di una forte solidarietà tra i due culti. È probabile che questa struttura, che si conserverà anche nei rifacimenti successivi, appartenga al restauro dovuto a Camillo, successivo alla presa di Veio (396 a.C.). Della fase più antica, risalente al VI secolo a.C., è stato esplorato solo un settore minimo, riportando in parte alla luce uno dei due templi, la cui identificazione è discussa: la sua posizione ad est del complesso farebbe comunque pensare a Mater Matuta, dal momento che Fortuna, per la sua funzione «trionfale», doveva trovarsi all’esterno del pomerio, e quindi più a ovest. Il podio del tempio, solo in parte scavato, presenta due fasi: la prima databile intorno al 550, la seconda (ricostruita dopo un incendio) al 530 a.C.: tali date corrispondono a quelle tradizionali di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo: sarebbe difficile non riconoscere in questi dati una conferma palese della tradizione antica, che attribuisce al primo l’introduzione del culto di Fortuna, introduzione che possiamo dunque considerare storica.
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Tra i ricchissimi materiali scoperti nel corso degli scavi, oltre agli ex voto di lusso (costituiti per lo più da ceramica greca – corinzia, attica, laconica – oltre che etrusca) spiccano oggetti straordinari, come un leoncino in avorio (figg. 48-49) su cui sono iscritti due nomi, uno dei quali relativo a una nota gens di Tarquinia, gli Spurinas: conferma preziosa della presenza a Roma di aristocratici emigrati a Roma da questa città, contemporaneamente ai Tarquinii. Di grande rilievo è anche il ritrovamento di un cospicuo gruppo di terrecotte architettoniche, pertinenti a uno o ad ambedue le fasi del tempio. Il dubbio riguarda l’attribuzione di due grandi leoni a rilievo (fig. 45), chiaramente inseriti in origine nello spazio del frontone (unico caso in area etrusco-italica di frontone chiuso arcaico, su modello chiaramente corinzio), per i quali si è proposta l’attribuzione alla fase più antica. Per altri, invece, potrebbe trattarsi della decorazione del secondo tempio, ancora non scavato. Certamente alla seconda fase appartengono i frammenti di almeno due lastre che decoravano gli spioventi di un frontone (sime) (figg. 50-52), appartenenti
51-52. Tempio arcaico di S. Omobono, seconda fase: restituzione di una lastra di terracotta con fregio figurato («processione 1»); restituzione di una lastra di terracotta con fregio figurato («processione 2»).
a un tipo che conosciamo anche in altre località del Lazio (il gruppo più completo è quello di Velletri) (fig. 55), e che deriva dalle stesse matrici: ciò sembra autorizzare l’attribuzione a un solo centro di produzione, che potrebbe essere Veio o forse la stessa Roma, dove si concentra la maggior parte dei ritrovamenti (fig. 53) (si veda per questo il paragrafo seguente). Le lastre presentano processioni di carri rivolti verso destra e verso sinistra, convergenti verso il centro del frontone. Nel primo tipo (Processione I) (fig. 51) si riconoscono (da destra a sinistra) il dio Mercurio (Hermes), o un araldo con breve perizoma, copricapo (petaso) e caduceo; un carro a tre cavalli (triga), guidato da un auriga in lunga veste, accompagnato da un personaggio maschile, mentre un altro dietro la triga saluta; una biga di cavalli alati, anch’essa occupata da un auriga e da un altro personaggio. Nel secondo (Processione II) (fig. 52) un uomo armato di lancia precede una triga occupata da un auriga e da una donna, con il capo coperto da un berretto a punta (tutulus); dietro il carro si trova un uomo armato di lancia; segue una biga alata, an-
che in questo caso con un auriga e una donna dietro la quale è un guerriero armato di lancia; chiude il corteo un uomo che saluta. Una prima differenza tra i due rilievi è evidente: i personaggi del primo sono disarmati, quelli del secondo (almeno in due casi) armati di lancia; uno di questi ultimi apre il corteo (che quindi è connotato in senso militare), mentre nell’altro appare Mercurio (o un araldo in veste di Mercurio) con il caduceo, segno di pace. La prima impressione è che si tratti di due scene simmetriche, l’una di partenza (profectio), come attesta anche il personaggio all’estremità destra, che sembra estraneo all’azione, e che saluta; l’altra di ritorno dalla guerra (adventus), dove a salutare è colui che arriva, non chi resta: infatti il nu-
Alle pagine seguenti: 53. Frammenti di lastre di terracotta arcaiche dal Palatino (Antiquarium del Palatino). 54. Tempio arcaico di S. Omobono, seconda fase: acroterio di terracotta con Ercole e Minerva.
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mero complessivo delle figure è di sei, non di sette. I due uomini sui carri nella prima scena sono simili a quelli appiedati e armati della seconda, con i quali forse si identificano. L’elemento in più nel secondo rilievo sono le due donne che occupano i carri al posto degli uomini. Si è pensato a rappresentazioni di Fortuna e di Mater Matuta: in ogni caso, a dee connotate in senso militare, che fanno pensare ad Astarte-Fortuna. Un dato fondamentale è la presenza, in ambedue i casi, della biga con i cavalli alati: un elemento che ne attesta il carattere sovrannaturale e sembra alludere alla natura divina di uno dei due personaggi dei rilievi: un dio e una dea (o due antenati divinizzati) sembrano così contrapposti a un uomo e a una donna. L’insieme può far pensare a una ierogamia, collegata con imprese militari. Nonostante le incertezze che permangono nell’interpretazione dei rilievi, è probabile che essi intendano illustrare una forma di trionfo arcaico. A questo proposito, è interessante la descrizione della pompa dei ludi Romani (cerimonia certamente molto antica, attribuita dalla tradizione ai Tarquinii) che leggiamo in Dionigi di Alicarnasso (VII, 72, 1-3): Prima di dare inizio alle gare, i magistrati che ricoprivano la carica più importante allestivano una processione in onore degli dèi e la guidavano dal Campidoglio, attraverso il foro, fino al grande ippodromo. Aprivano la processione i figli dei Romani prossimi alla pubertà, che avevano l’età per prendervi parte: a cavallo quelli i cui padri avevano il censo equestre, a piedi quelli che erano destinati a prestare servizio nella fanteria; gli uni divisi in squadre e battaglioni, gli altri in gruppi e schiere, come se andassero a scuola; lo scopo era quello di far ammirare agli stranieri il fior fiore per numero e bellezza della gioventù romana, che si avvicinava all’età adulta. Questi erano seguiti da aurighi, che guidavano quadrighe, bighe o cavalli non aggiogati; dopo di loro venivano i partecipanti alle gare di atletica leggera e pesante, completamente nudi, fatta eccezione per i genitali, che coprivano. Que-
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sta usanza è perdurata a Roma fino ai miei tempi, ed esisteva all’inizio anche presso i Greci […] Dopo gli atleti venivano molte schiere di danzatori, suddivisi in tre gruppi; il primo era formato da uomini adulti, il secondo da giovani imberbi, il terzo da bambini, seguiti da flautisti, che soffiavano in piccoli flauti antichi, come si fa anche attualmente, e da suonatori di lire d’avorio a sette corde, che si chiamano barbita […] Le vesti dei danzatori erano chitoni rossi, stretti da cinture di bronzo; essi portavano al fianco spade e lance più corte delle solite. Gli uomini avevano anche elmi di bronzo, adorni di notevoli cimieri e di pennacchi.
Questa descrizione presenta, come si vede, singolari coincidenze con le scene rappresentate sulle terrecotte architettoniche già esaminate. Un chiarimento ulteriore sulla natura del santuario si ricava da un gruppo di sculture a tutto tondo a tre quarti del naturale, attribuibili alla seconda fase del tempio, forse acroteri (per altri si tratta invece di donari). Il meglio conservato di questi gruppi rappresenta Ercole, nella tipica iconografia cipriota, accompagnato da una dea armata, che potrebbe essere Atena-Minerva, o anche Astarte-Fortuna (fig. 54). Poiché si tratta, in questo caso, non di elementi di serie, realizzati a stampo (come le lastre con processione), ma di sculture a tutto tondo modellate a stecca, il loro valore documentario risulta più rilevante. La scena sembra rappresentare l’introduzione di Ercole in Olimpo, e cioè la sua trasformazione in dio: un’allusione trasparente all’apoteosi del sovrano, connessa con la celebrazione del trionfo. Un gruppo analogo e contemporaneo, proveniente dal Santuario di Portonaccio a Veio, esprime certamente lo stesso significato. Se il frammento conservato del secondo gruppo acroteriale di S. Omobono rappresentava Dioniso e Arianna, come è stato proposto, si tratterebbe di una straordinaria conferma della natura «dionisiaca» del trionfo: come attesta fin dalle origini il nome stesso della cerimonia, derivato dal greco thriambos, il corteo destinato a celebrare la vittoria del dio sull’India.
8. ALTRI CULTI, ALTRE IMMAGINI
Nella sua pionieristica evocazione della Grande Roma dei Tarquinii, Giorgio Pasquali non si limitava a riunire i testi letterari favorevoli al suo assunto, ma estendeva l’esame alle testimonianze di carattere archeologico, già all’epoca disponibili per chi volesse vederle: In parecchi punti dell’antica Roma, sul Palatino, sul Campidoglio, nel Foro, sull’Esquilino, nel letto del Tevere presso l’Isola Sacra, sono stati scoperti frammenti di terracotte architettoniche. Quasi tutti i tipi hanno riscontro in altre città del Lazio e dell’Etruria meridionale; tutti, pur risentiti originalmente, «etruscamente», per nominare il popolo dell’antica Italia la cui arte ci è meglio nota, ricordano esemplari greci, ionici. Queste terrecotte sono di tali dimensioni che dovettero ornare edifici monumentali. Una tale serie di scoperte significa secondo me ancor più che le maestose costruzioni del Tempio di Giove Capitolino, le quali pure appartengono a quest’età. Privatum illis census erat brevis, commune magnum [le loro sostanze private erano scarse, quelle pubbliche grandi]; e cattedrali medievali torreggiano talvolta su cittadine che non furono mai né molto potenti né molto ricche. Ma una comunità povera può fare uno sforzo per costruire una chiesa che le dia gloria, non più di una; nella Roma dei Tarquinii gli edifici monumentali furono molti: oltre il Tempio di Giove, ne ebbe un altro anche il piccolo Campidoglio in un’altra località, là dove ora è l’Aracoeli; nel Foro frammenti si ritraggono dalla Regia e dal Comitium; quelli del Palatino provengono da almeno tre edifici sopra le
Scalae Caci, da almeno uno in prossimità del Lararium. I cittadini romani dell’età dei Tarquinii ebbero gioia di rappresentanze di guerrieri a cavallo e di scene di simposio, di Amazzoni ferite e di favolosi grifi, più di tutto di Satiri e Menadi danzanti; ebbero gusto per tipi che conobbero dall’arte greca. Attraverso l’Etruria? Ma in questa età è arbitrario distinguere arte etrusca e arte latina, e si deve piuttosto stabilire un’unica cerchia di cultura che comprendeva il Lazio e l’Etruria meridionale. I Romani di quel tempo ebbero una finestra aperta sul mondo greco, e parteciparono in qualche modo della sua arte, anche se dovettero ricorrere a un maestro veiente, Volca, perché scolpisse la statua fittile di Giove nel tempio capitolino.
A tanta distanza di tempo, dopo tante nuove scoperte e nuove sistemazioni di dati, sarebbe difficile dire meglio: tali parole non sono infatti motivate da pregiudizi di carattere nazionalistico, come pure si è affermato: si tratta invece di una dimostrazione impeccabile, che parte da una ragionevole ipotesi di lavoro, nutrita e confermata via via da documenti concreti, in primo luogo di carattere archeologico. A noi non resta che ripercorrere lo stesso itinerario, arricchendolo beninteso con le acquisizioni non solo di nuovi dati materiali, ma anche e soprattutto dei risultati che la riflessione archeologica e storica ha continuato ad accumulare nel corso dei decenni trascorsi. La documentazione più rilevante per la storia architettonica e urbanistica di Roma arcaica è costituita, per noi come per Pasquali, dalla rilevante massa
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di terrecotte architettoniche che, intere o in frammenti, sono state rinvenute quasi ovunque nell’area della città. L’apparizione degli edifici in muratura, che sostituiscono la primitiva architettura straminea, ha luogo a Roma, come in Etruria, negli ultimi decenni del VII secolo a.C., non solo nell’ambito dell’edilizia di culto, ma anche in quella privata di alto livello. Ciò comportava l’uso del tetto «pesante», in tegole di terracotta, e quindi di travature lignee di grande solidità. L’invenzione sembra da attribuire a Corinto, dove sono stati scoperti i più antichi tetti del genere, databili tra il 675 e il 650. In Etruria il fenomeno ha inizio poco dopo la metà del VII secolo a.C. Contemporanea è la diffusione di elementi decorativi in terracotta, dipinti o a rilievo, destinati alla parte alta degli edifici, in particolare, ma non solo, dei templi. Gli esempi più antichi a Roma provengono dai lati opposti del Foro, il Comizio e la Regia (fig. 40, in alto), e appartengono a un’unica fase, successiva a un incendio avvenuto intorno al 600 a.C. Questo più antico sistema decorativo, che si riscontra, oltre che a Roma, in Campania e in Etruria settentrionale, si può attribuire agli anni 590-575 a.C.: si tratta in particolare di lastre con teorie di felini, e in un caso con un cavaliere armato. Gli aspetti tecnici e stilistici permettono di collegarne l’origine a un atelier corinzio, e quindi alla discendenza «demaratea» del primo dei Tarquinii. Particolare interesse riveste il fregio della Regia, dove, come abbiamo visto, insieme ai felini e ai trampolieri, appare anche una rappresentazione del Minotauro. La svalutazione di questo soggetto, implicita nella definizione riduttiva di uomo-toro che se ne è proposta, non è sostenibile: l’isolamento della figura si spiega con la sua appartenenza alla «casa del re», ciò che giustifica l’uso di soggetti iconografici di particolare pregnanza simbolica. Ora, in quel periodo storico (intorno al 570 a.C.), la saga ateniese di Teseo era certamente nota, come pure le sue valenze di «mito di sovranità»: la pertinenza a un edificio in cui si può riconoscere l’abitazione di Servio Tullio si spiega con la volontà di collegare al fondatore di Atene quello che possiamo a buon diritto considerare il «secondo fondatore» di Roma. Nei decenni successivi, sotto l’ultimo dei Tarquinii, viene creato – probabilmente ad opera di artisti veienti che lavorano a Roma: ovvio il riferimento a Vulca – un tipo di decorazione architettonica (detto tipo Veio-Roma-Velletri), caratterizzato da sime a rilievo, che si diffonde da qui in gran parte
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del Lazio. I tipi rappresentati, tratti per lo più dalle stesse matrici, anche se ne esistono alcune varianti, comprendono un gruppo limitato di soggetti: processioni di carri (come quelli da S. Omobono, già esaminati in precedenza), corse di cavalieri armati, coppie di cavalieri, corse di bighe, banchetti (fig. 53). Nella stessa Roma conosciamo un numero notevole di esemplari, per lo più in frammenti, che provengono da quasi tutte le aree della città serviana, e anche dall’esterno di essa: oltre che dal Foro Boario (Santuario di Fortuna e di Mater Matuta), dal Comizio, dal Campidoglio, dal Palatino, dall’Esquilino. È quasi sempre impossibile collegare questi reperti con edifici identificabili: in un caso, la provenienza di una lastra quasi completa da un luogo all’esterno alla città, fuori della Porta Esquilina (anche se riadoperata in un sepolcro) sembra autorizzare l’attribuzione al santuario di Libitina, la divinità della necropoli. Nel caso del Comizio, appare inevitabile il collegamento con l’unico edificio arcaico della zona, la Curia Hostilia. Fuori di Roma, il complesso più importante, e il primo conosciuto, è quello di Velletri, scoperto nel 1784 (fig. 55): si tratta della serie più completa e meglio conservata di lastre figurate di questo tipo, appartenente a un edificio templare (per altri identificabile piuttosto con un palazzo) che è stato di nuovo esplorato negli ultimi anni. Il carattere latino della città prima dell’occupazione volsca e la sua natura di colonia romana (attestata già dal 494, e forse risalente, come nel caso di Segni, a un’iniziativa dei Tarquinii) permette di spiegare la presenza di queste terrecotte, provenienti probabilmente da botteghe romane. Un gruppo di lastre, di un tipo parallelo, ma con motivi figurati leggermente diversi, è apparso nell’area pontina, a Cisterna: si tratta di processioni di armati, con la presenza di carri tirati da cavalli alati (in questo caso, trighe invece di bighe). A un ulteriore tipo, conosciuto solo a Palestrina, appartengono due lastre (fig. 56), sempre con processioni di carri, di uno stile più provinciale, chiaramente locale. La loro provenienza probabile da un vicino santuario extraurbano di Ercole potrebbe attestarne il carattere «trionfale», analogo a quello del Santuario romano di Fortuna e Mater Matuta.
55. Lastre architettoniche di terracotta da un tempio arcaico di Velletri: cavalieri, corteo di carri, banchetto (Napoli, Museo Nazionale).
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9. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
56. Lastra architettonica di terracotta da Palestrina, con corteo di carri (Palestrina, Museo Archeologico).
Lo stile di queste lastre figurate, caratterizzato da forme arrotondate, dove predomina una sinuosa linea di contorno, mentre i particolari interni, indicati da semplici linee ornamentali, non interrompono la continuità delle superfici, risale all’esperienza figurativa della Grecia orientale, che assume nel corso del VI secolo a.C. le caratteristiche e la valenza di un vero e proprio «stile internazionale». Gli artefici ionici, la cui presenza in Occidente va collegata con la colonizzazione focea, cui si affianca la presenza di Samii, soppiantano ovunque i più antichi atelier corinzi. La scelta corrisponde alle tendenze culturali della società mediterranea di questo periodo, caratterizzata da strutture politiche ed economiche aristocratiche: una società di «consumi opulenti», che si rispecchia perfettamente in questi raffinati stilemi di provenienza ionica. La scoperta di un frammento derivante dalle stesse matrici nei recenti scavi del Tempio di Giove Capitolino permette forse di collocare su una base archeologica più solida la tradizione letteraria relativa a Vulca. In effetti, l’attribuzione canonica a quest’ultimo dell’Apollo e degli altri grandi acroteri del Tempio di Portonaccio a Veio è stata recentemente contestata, per la cronologia troppo tarda di
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queste opere (databili agli ultimi anni del VI secolo d.C.) rispetto ai lavori del tempio, che risalgono a un momento nettamente più antico. Se il frammento di recente scoperta appartiene veramente al tempio, come tutto indurrebbe a pensare, sarebbe logico attribuire a Vulca l’invenzione di questo tipo di lastre, che risale agli anni centrali del VI secolo. Si comprenderebbe meglio, in tal caso, la loro diffusione, attestata da ritrovamenti a Veio, Roma, Velletri e nella pianura pontina: dal luogo iniziale di produzione (Veio) alla principale città committente (Roma), che appare in seguito essa stessa come artefice della diffusione in un’area, che non a caso corrisponde alla colonizzazione romana più antica, quella in direzione del Lazio meridionale costiero. La diffusione capillare sul suolo di Roma di frammenti di terrecotte architettoniche di età arcaica costituisce una prova indiscutibile della fitta presenza di edifici templari, come già era apparso a Giorgio Pasquali. Una tale, intensa attività edilizia corrisponde al quadro di una città non solo di grande estensione territoriale, ma dotata di risorse economiche notevoli, del tutto incomparabili con quelle delle altre città latine, e certo non inferiori a quelle delle grandi metropoli dell’Etruria meridionale.
La cacciata dei Tarquinii e la fondazione della Repubblica, tradizionalmente fissati al 509 a.C., vengono talvolta intesi, con lettura modernizzante, come episodi di uno sviluppo «democratico»: in realtà, siamo in presenza di una reazione antitirannica (nel senso specifico che questo termine assume nel mondo antico), dovuta all’oligarchia patrizia, mirante a bloccare le novità sociali ed economiche introdotte dagli ultimi re: come dimostra chiaramente il processo di «chiusura» della cittadinanza introdotto dal nuovo regime, che mirava ad escludere dal potere i nuovi strati sociali emersi nell’ambito di una società più «aperta», quale era senza dubbio quella dei Tarquinii. Risultato di questo ripiegamento fu la lotta secolare tra patrizi e plebei. Sul piano delle forme ideali, la Repubblica degli inizi volle presentarsi come un ritorno alle origini, alla società basata sui clan gentilizi, che era stata profondamente corrosa dalle riforme serviane. Questa scelta contribuì potentemente a condizionare l’ideologia senatoria romana, che identificò da allora in poi i suoi valori costitutivi negli exempla maiorum, nei modelli tradizionali del passato. Come sempre, l’innovazione diviene possibile a Roma solo se presentata come un ritorno al passato: anche il potere autocratico di Augusto assumerà le forme di una restaurazione della Repubblica. L’esistenza di una tale struttura profonda sarà determinante, ad esempio, nei rapporti con la cultura greca: all’apertura che distingue l’epoca degli ultimi re si contrappone un ripiegamento, anche se questo non si manifestò subito dopo la rivoluzione istituzionale: durante i primi decenni del nuovo regime
notiamo anzi una relativa continuità con la fase precedente, mentre le novità fondamentali si manifesteranno un po’ più tardi. Ad esempio, la politica filellenica si prolunga con fondazioni di templi, dedicati a nuovi culti introdotti dalla Magna Grecia o dalla Sicilia. Possiamo tuttavia riconoscere, all’interno di queste, la presenza di scelte politicamente orientate: così, ad esempio, una tensione è riconoscibile tra il culto aristocratico dei Dioscuri, Castore e Polluce, e quello plebeo di Cerere, Libero e Libera. Il primo, realizzato tra il 499 e il 484, viene ad insediarsi nel cuore stesso della città, sul lato meridionale del Foro. In questo caso, l’attendibilità della notizia è confermata dai recenti scavi, che hanno rivelato la fase più antica dell’edificio, più volte ricostruito in seguito (figg. 57-59). Il podio del tempio, piuttosto ben conservato, è realizzato con spessi muri in opera quadrata di cappellaccio, che formano un reticolo di sostegno alla struttura superiore (non conservata, ma che doveva comprendere muri in pietra all’esterno, in mattoni crudi all’interno). Esso misurava m 27,50 per 37/40 circa, ed era quindi di poco più piccolo di quello attuale, costruito in età augustea. L’edificio era decorato con notevoli Alle pagine seguenti: 57. Antefissa di terracotta con testa di sileno, pertinente al Tempio dei Castori (Antiquarium del Foro Romano). 58. In alto, antefissa con testa di Giunone con corna bovine, dal Tempio dei Castori (Antiquarium del Foro Romano). In basso, torso di guerriero (Amazzone?), dall’Esquilino (Musei Capitolini).
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terrecotte architettoniche, di cui si sono conservate in particolare alcune antefisse a testa di Giunone e di Sileno (figg. 57-58), analoghe a quelle, tratte dalle stesse matrici, rinvenute altrove a Roma e in molti altri siti del Lazio. Meno fortunati siamo nel caso del contemporaneo culto di Cerere, Libero e Libera (identificati con i greci Demetra, Dioniso e Persefone), fondazione plebea, e per questo relegato in un’area marginale, alle estreme pendici della collina «plebea» dell’Aventino, ma di cui non si conservano i resti. In questo secondo caso, la natura ellenica del culto, certamente collegato alle importazioni di grano dalla Sicilia, risulta anche dall’etnia delle sacerdotesse, sempre provenienti dalla Magna Grecia. Non è certamente un caso che l’edificio sia stato realizzato da artefici greci (come risultava dalle firme, ancora leggibili al tempo di Varrone), Damophilos e Gorgasos, i cui nomi dorici suggeriscono una provenienza siracusana o tarentina. Così, la componente plebea della popolazione si rivela fin dall’inizio, coerentemente con la sua natura e le sue origini, più aperta ai rapporti verso l’esterno. Un’idea di questa decorazione si può ricavare da un frammento di gruppo in terracotta trovato sull’Esquilino (fig. 58, in basso), che potrebbe appartenere al Santuario di Venere Libitina, la dea della morte, situato dentro la necropoli (forse parte di un donario, piuttosto che di decorazione frontonale o acroterio). Si tratta del torso di un guerriero caduto, rappresentato a metà del vero, che faceva parte di una scena di combattimento, certamente di carattere mitico. Il personaggio, ferito, indossa una corazza, gli schinieri e tiene con la sinistra un grande scudo rotondo, visto dall’interno. La pelle, di colore bianco, fa pensare che si tratti di un’amazzone. La notevole qualità del pezzo (argilla depurata, motivi dipinti di grande raffinatezza), di stile «severo», lo distacca nettamente dalla coroplastica locale: tutto fa pensare all’opera di una bottega proveniente dalla Magna Grecia o dalla Sicilia, attiva a Roma nei primi decenni del V secolo, e quindi contemporanea a quella, probabilmente siciliana, di Damophilos e Gorgasos, che potrebbero essere autori anche di questa scultura. Conosciamo almeno un’altra fondazione templare degli stessi anni e della stessa natura plebea: Mercurio, il «dio della merce», identificato con il greco Hermes, venne a insediarsi nella stessa zona, alle pendici dell’Aventino, come protettore dei commercianti del vicino Foro Boario e del porto del Tevere.
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Un notevole cambiamento si nota in questo periodo nell’architettura templare, in cui, proprio negli anni tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., avviene una svolta importante, soprattutto nell’ambito della decorazione fittile. È questa la cosiddetta «seconda fase», in cui viene introdotto un sistema di copertura più pesante, di origine campana, che prevede la sostituzione delle sime laterali con antefisse di un tipo particolare, caratterizzato da un grande nimbo baccellato, con al centro protomi umane (per lo più teste di Giunone o di satiro); aumenta l’importanza del frontone, dove le sporgenze delle travi vengono ricoperte da lastre figurate, in genere con soggetti mitici. Il mito greco in effetti assumerà da questo momento in poi un ruolo maggiore: da una prevalente presenza di Ercole si passerà a temi di repertorio, come la Gigantomachia o il ciclo troiano. La frequente presenza di scene di battaglia è stata collegata con la particolare conflittualità di un momento storico, caratterizzato dalla crisi dei regimi monarchici e dalle tensioni che ne seguirono (per Roma, in particolare, la guerra contro la Lega Latina). Fra le più antiche manifestazioni di questo nuovo corso si colloca il Tempio di Minerva a Veio, con le sue celebri terrecotte acroteriali e le sue antefisse nimbate a testa di Gorgone, mentre a Roma gli esempi dovettero essere numerosi, anche se solo il Tempio dei Castori ce ne fornisce ancora un’idea. Questa fase è caratterizzata da radicali cambiamenti stilistici, che consistono sostanzialmente nell’adozione dello stile «severo», nato nella penisola greca, e caratterizzato da forme austere e semplificate, del tutto aliene dalla raffinatezza estenuata dello ionismo asiatico. Anche in questo caso, si tratta di una scelta ideologica precisa delle classi dominanti in questa fase storica, che a Roma si identificano con l’oligarchia patrizia, artefice dell’abbattimento del regime tirannico dei Tarquinii. Nel corso del V secolo si manifesta una notevole egemonia culturale dell’Etruria interna (che sembra avere inizio con il dominio militare della Chiusi di Porsenna): Volsinii (Orvieto) e Falerii (Civitacastellana) assumono in questa fase un ruolo centrale, che si prolungherà fino alla loro distruzione, avvenuta nei decenni centrali del III secolo, ad opera di Roma: la città cioè che, da qualche decennio, era diventata
A fronte: 59. Colonne del Tempio dei Castori: ricostruzione di età augustea.
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60. Roma, pianta della fase arcaica del Tempio di Apollo.
non solo il centro politico, ma anche il centro culturale dell’Italia peninsulare. Gli anni successivi, caratterizzati da violente contese civili tra patrizi e plebei e dal dominio del senato patrizio, vedono la cessazione quasi totale di nuove fondazioni cultuali di origine ellenica. Per trovarne un’altra si dovrà attendere il 431 a.C., quando, in seguito a una pestilenza, verrà consacrato ad Apollo Medico un tempio nell’area del futuro Circo Flami-
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nio (fig. 60). Si trattava però di un culto già esistente, come sappiamo dalla menzione di un Apollinar situato nella stessa zona: tutto fa pensare che l’introduzione risalga all’ultimo dei Tarquinii, e che il dio sia giunto da Cuma insieme ai Libri Sibillini. Parallelamente, notiamo il quasi totale arresto delle importazioni di ceramica greca (attica) a Roma negli anni successivi al 470 a.C., fatto interpretato di solito, e con ragione, come indizio di una grave crisi economica, analogamente alle contemporanee carestie, segnalate dalle fonti letterarie. È possibile però che il fenomeno dipenda anche da una chiusura culturale voluta dai patrizi, perfettamente coerente con le loro scelte ideali. Il cosiddetto «medioevo» romano, come si è voluto definire il V secolo a.C., manifesta in tal modo la sua caratteristica natura di reazione non solo politica, ma anche ideale, che si traduce in un rifiuto cosciente della cultura greca, in quanto strumento ideologico proprio delle nuove classi emergenti che si erano formate nella fase finale, «tirannica», della Monarchia. Sono anni decisivi per la formazione di una cultura romana autonoma, nel corso dei quali i fermenti greci, ineliminabili, saranno sottomessi a una totale riconversione, determinando la nascita di nuovi modelli artistici; questi troveranno la loro forma definitiva nel secolo seguente, quando la ripresa dei rapporti con la Magna Grecia darà origine al nuovo linguaggio artistico medio-repubblicano che, a seguito della conquista, finirà per estendersi progressivamente a tutta l’Italia peninsulare.
PARTE SECONDA LA MEDIA REPUBBLICA
1. IL QUADRO STORICO
Abbiamo visto l’importanza che la fase iniziale della Repubblica (il «secolo oscuro» che corrisponde al V secolo a.C.) ha avuto per la definitiva formazione di una cultura romana autonoma. Se prendiamo in esame situazioni archeologicamente meglio documentate, come quelle dell’Etruria e della Magna Grecia, dobbiamo constatare che il V secolo corrisponde ovunque, per certi aspetti, a una fase di ripiegamento e addirittura di involuzione. È caratteristico il fatto che la grande arte greca del primo periodo classico (quella, per intenderci, dei Mirone, dei Fidia e dei Policleto) non penetrò mai nell’Etruria marittima, ma fu sostituita da un prolungamento provinciale dei modelli tardo-arcaico e soprattutto severo, che si perpetueranno fino alla fine del V e all’inizio del IV secolo a.C., quando l’arte classica troverà accoglienza. È possibile collegare questo fenomeno alla crisi politica ed economica delle città dell’Etruria marittima, ma forse anche all’attaccamento delle aristocrazie tirreniche ai modelli tardo-arcaici, che meglio corrispondevano alle esigenze di una committenza tipicamente oligarchica, come rimase sempre quella etrusca. Anche in Magna Grecia e in Sicilia la straordinaria fioritura dell’arte arcaica e severa non si prolunga allo stesso livello nella produzione della seconda metà del V secolo, che appare attardata e provinciale rispetto ai modelli della metropoli. Novità importanti si osservano a partire dalla fine del VI secolo a.C., quando il potere economico e militare delle città etrusche dell’interno, da Chiusi a Volsinii (Orvieto) alla semilatina Falerii, va assumendo un ruolo preminente: è il periodo che si apre con la personalità emblematica di Porsenna, che spinge i
suoi eserciti a sud, fino ad impadronirsi di Roma e a tentare, anche se senza successo, di estendere la sua egemonia sul complesso della Lega Latina. Anche sul piano della cultura artistica, quest’area assume a partire da questo momento, e in modo sempre più accentuato nei decenni successivi, un ruolo egemone: il fenomeno coinvolge senza dubbio anche la stessa Roma, le cui mire espansionistiche si erano indirizzate, già intorno al 400 a.C. – con la conquista di Veio – in direzione della media valle del Tevere. Anche se, come al solito, la documentazione relativa alla città è quasi inesistente, quel poco che ci resta (soprattutto per il periodo più recente di questa fase, il IV secolo a.C.) suggerisce una partecipazione diretta all’elaborazione dei nuovi modelli artistici, che assumerà un carattere dominante a partire dalla seconda metà del secolo. Significativo, in proposito, è il ruolo di Falerii, un centro vicinissimo a Roma, alla quale esso è affine anche sul piano etnico (i Falisci non sono una popolazione etrusca, ma strettamente imparentata con i Latini). La produzione artistica delle due città nel corso del IV secolo appare sostanzialmente analoga, ad esempio nell’ambito della coroplastica e della ceramica decorata, al punto che è talvolta impossibile distinguere tra le due: l’esistenza di vasi a figure rosse attribuiti correntemente a bottega falisca, ma con iscrizioni latine, permette quanto meno il dubbio. Lo stesso si può dire a proposito di opere eccezionali, come la testa di terracotta da Antemnae (fig. 61) (certamente un prodotto romano), che presenta caratteristiche di stile del tutto affini ad alcune produzioni di Falerii, come le terrecotte del Tempio dello Scasato (fig. 62). La scomparsa dalla
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61. Testa giovanile di terracotta, da un Tempio di Antemnae (Roma, Museo Nazionale Romano).
scena di quest’area culturale è una conseguenza della conquista romana, avvenuta in una forma particolarmente brutale: la distruzione, seguita dalla deportazione dei cittadini dei due centri più importanti, Volsinii (264 a.C.) e Falerii (241 a.C.). L’introduzione in quest’area della cultura figurativa classica, percepibile nelle decorazioni templari di Volsinii già dalla seconda metà del V secolo, si rivela ancora una volta come il risultato di un cambiamento epocale: a Roma, come nel resto dell’Italia peninsulare, i decenni centrali del IV secolo conoscono una trasformazione radicale della struttura sociale, che si traduce in un ampliamento sostanziale del corpo civico e nell’arrivo al potere di nuove classi.
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Per quanto riguarda Roma, ciò si verifica con la vittoria della plebe, dopo il lungo periodo di lotte con il patriziato, iniziato nei primi anni della Repubblica. Le leggi Licinie-Sestie (367 a.C.) stabiliranno per la prima volta l’eguaglianza dei diritti politici tra i due ordini, anche se la lotta si prolungherà ancora per più di mezzo secolo, prima che la totale parità possa infine essere raggiunta. Tali cambiamenti non corrispondono certo a una democratizzazione radicale dello Stato, sul modello ateniese, ma solo a un notevole ampliamento della classe dirigente, che si identifica con la nobiltà patrizio-plebea. Tale fenomeno è perfettamente contemporaneo e collegato alla conquista dell’Italia da parte di Roma,
62. Testa giovanile di terracotta, da Falerii Veteres, Tempio dello Scasato (Roma, Museo di Villa Giulia).
che porterà a un aumento esponenziale della potenza militare ed economica della città e che, insieme allo sciamare dei coloni e alla cooptazione delle aristocrazie locali, darà origine alla progressiva romanizzazione della penisola. Le esigenze culturali delle nuove classi dirigenti non potevano restare chiuse entro il quadro ristretto dell’ideologia patrizia, e l’elemento novatore poteva provenire solo dalle classi emergenti. Il problema del rapporto con la cultura greca, dominante da secoli in tutto il Mediterraneo, si pone allora su basi rinnovate: possiamo infatti constatare la presenza di nuovi modelli ellenici, sostanzialmente tardo-classici, nella ricca produzione artistica e artigianale del
periodo medio-repubblicano (IV-III secolo a.C.). In un primo tempo, ciò è certamente dovuto all’intervento diretto di botteghe provenienti dalla Magna Grecia e dalla Sicilia, che trasformeranno radicalmente l’ambiente, determinando la nascita di una nuova cultura artistica locale. Mentre l’architettura – specialmente quella religiosa –, più fortemente condizionata dalle strutture ideologiche tradizionali, conserverà a lungo le forme primitive, grandi novità si manifestano nell’ambito della scultura, soprattutto in bronzo, della pittura e dell’artigianato. Vediamo così apparire per la prima volta il ritratto fisionomico e la pittura di tema «storico», che fanno allora i primi passi su una strada destinata a un gran-
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de avvenire. Ancora più significativa, perché diffusa a un ambito sociale ben più vasto, la produzione minore, con l’apparizione di un artigianato seriale (che utilizza materiali poveri, in particolare la terracotta) destinato a un pubblico «medio»: prova anche questa di un ampliamento esponenziale della committenza, conseguenza dei profondi cambiamenti sociali contemporanei. È questa l’età della produzione massiccia degli ex voto in terracotta, diffusi omogeneamente da Roma a tutta l’Italia centrale e meridionale, segno sicuro della presenza dei coloni romani, che trasmigrano verso le nuove sedi in Italia, seguendo i progressi della conquista. Un fenomeno analogo è riconoscibile nella diffusione di botteghe di vasai che, ispirandosi ai modelli di Atene e della Magna Grecia (in particolare di Taranto), danno inizio all’estesa produzione di ceramica a vernice nera, che si prolungherà fino all’inizio dell’Impero: anche questi prodotti sono destinati a un pubblico «medio», interessato a imitazioni a buon mercato delle argenterie, diffuse nelle classi superiori. In questo campo si distingue però una produzione di alta qualità, come la ceramica a figure rosse o sovradipinta (prodotta a Falerii e probabil-
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mente anche a Roma), che può sostenere il confronto con i migliori esemplari della Magna Grecia. Contemporanea, certo non a caso, è l’apparizione nella città della prima moneta d’argento, destinata al soldo dei coscritti e al commercio, che dipende direttamente da modelli magnogreci, probabilmente napoletani. Si tratta di un contesto ricco e variato, che dimostra l’intensa e precoce ellenizzazione della cultura romana a partire dal IV secolo a.C.: ellenizzazione non più esclusiva di una ristretta oligarchia, ma estesa capillarmente, nei modi banalizzati di un artigianato diffuso, a un esteso settore di ceti medio-bassi. L’esistenza di un tale contesto, a lungo ignorato ed emerso solo per merito della più recente ricerca archeologica, permette finalmente di comprendere l’apparizione di prodotti artistici di qualità notevole, realizzati certamente a Roma e per un pubblico romano, come il Bruto Capitolino, la Cista Ficoroni e il sarcofago di Scipione Barbato. In questi dobbiamo ormai riconoscere la manifestazione più alta e visibile di un fenomeno assai più diffuso e socialmente radicato, nel quale non è difficile riconoscere l’impronta della società in espansione della Media Repubblica romana.
2. LA SCENA PUBBLICA DELLA CITTÀ
Le profonde modificazioni avvenute nella società romana a partire dal IV secolo a.C. si possono riconoscere da vari indicatori: in primo luogo, un livello economico, che corrisponde a un arricchimento globale e generalizzato, riconoscibile nell’estensione della proprietà terriera a ceti sempre più ampi e nell’esaurimento dei rapporti di produzione arcaici, che si colgono nella scomparsa dei vecchi legami di clientela e nell’inizio dello schiavismo, che conoscerà la sua espansione più ampia nei secoli seguenti. L’estensione della produzione e degli scambi è rivelata, come abbiamo visto, dalla comparsa della moneta d’argento, mezzo indispensabile del commercio internazionale. L’accresciuta complessità della società si rivela, ad esempio, nella più ricca articolazione delle magistrature, destinate ad affrontare l’incremento progressivo delle funzioni amministrative e giudiziarie: da quest’ultimo punto di vista, è particolarmente significativa l’apparizione (nel 242 a.C.) del pretore peregrino, titolare dei processi che coinvolgevano Romani e stranieri. Come è evidente, un processo del genere imponeva la realizzazione di nuove infrastrutture, e in primo luogo di interventi nell’edilizia pubblica, destinata a soddisfare le nuove esigenze. Purtroppo, la documentazione archeologica sugli aspetti urbanistici e architettonici della Roma di questo periodo, travolti dallo sviluppo successivo della città, è quanto mai esigua. Questa lacuna può solo in parte essere colmata dalle fonti letterarie, particolarmente lacunose, soprattutto per la perdita del testo fondamentale di Livio, relativo a gran parte del III secolo a.C.
Fortunatamente, gli scavi realizzati nelle colonie latine (Fregellae, Alba Fucens, Cosa, Paestum) ci forniscono un quadro affidabile dell’aspetto contemporaneo della città madre. Sembra infatti attendibile – nonostante dubbi a mio avviso ingiustificati – l’affermazione dell’imperatore Adriano, in una lettera riportata da Aulo Gellio, che le colonie non erano che «piccoli simulacri di Roma». In effetti, i dati archeologici emersi da questi scavi contribuiscono a provare la derivazione diretta di edifici e di interi complessi monumentali dal modello della città dominante. L’impresa più imponente di questi anni è la ricostruzione integrale della cinta fortificata arcaica, che aveva dimostrato la sua insufficienza al momento dell’invasione gallica del 390. In questa occasione si rinunciò a servirsi del tufo locale, utilizzato in precedenza, un materiale poco solido e friabile («cappellaccio»), non adatto alle nuove esigenze, determinate dai progressi della scienza militare («poliorcetica»). Vennero così aperte per la prima volta alcune cave di tufo che, anche se si trovavano a una certa distanza, offrivano un materiale molto più solido e resistente: quelle di Grotta Oscura, nel territorio di Veio, che si erano rese disponibili in seguito alla conquista della città etrusca, nel 396 a.C. Per il trasporto vennero utilizzati i vicini corsi d’acqua che confluivano nel Tevere. Conosciamo il momento dell’inizio e la durata complessiva di questi lavori: secondo Livio (VI, 32, 1), nel 378 i censori appaltarono la costruzione delle mura «in opera quadrata» (saxo quadrato). Sembra che venticinque anni dopo, nel 353, l’opera fosse in
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via di completamento o richiedesse restauri (Livio, VII, 20, 9). Il progresso tecnico riconoscibile nelle mura così rinnovate e l’uso di marchi di cava, che utilizzano un alfabeto greco (segno di una rinnovata organizzazione dei cantieri) hanno fatto pensare all’intervento di maestranze siracusane, che pochi anni prima avevano realizzato, per il tiranno Dionigi il Vecchio, la nuova, imponente fortificazione di Siracusa. La tecnica di costruzione è la stessa su tutto il percorso: un’opera quadrata che utilizza blocchi di tufo di Grotta Oscura alti due piedi (circa 59 cm) (figg. 3-4), disposti alternativamente per testa e per taglio. L’altezza del muro doveva raggiungere in origine circa 10 m, lo spessore circa 4; nel tratto meglio conservato, quello di Piazza dei Cinquecento (fig. 4), si possono notare i punti di sutura tra i diversi cantieri, che lavoravano contemporaneamente: ciò permette di riconoscere, almeno in un caso, l’opera di uno di essi, estesa per circa 36 m. La lunghezza complessiva è analoga a quella del precedente muro arcaico, circa 11 km, e include un’area di circa 426 ettari. Questa cinta, più volte restaurata e rinforzata (figg. 63, 67), conserverà la sua funzione difensiva fino al I secolo a.C., cioè fino all’epoca della guerra sociale e delle guerre civili. In
seguito, a partire dall’età augustea, essa verrà a poco a poco ricoperta da costruzioni di vario genere, perdendo così la sua funzione originaria. Il tufo di Grotta Oscura resterà il più importante materiale di costruzione utilizzato nel corso della Media Repubblica, fino alla metà del II secolo a.C., quando furono aperte le nuove cave del tufo dell’Aniene, di qualità migliore e più facile da trasportare grazie alla prossimità di questo affluente del Tevere, su cui veniva inviato fino ai cantieri di Roma anche il travertino di Tivoli, impiegato in grandi quantità a partire dalla Tarda Repubblica. I grandi lavori realizzati a Roma dopo l’invasione gallica del 390, dei quali la cinta muraria costituisce la testimonianza più rilevante, sono descritti da Livio in un capitolo famoso (v, 55): Si cominciò a costruire la città senza alcuna regola. Le tegole vennero fornite dallo Stato e fu permesso di procurarsi liberamente le pietre e il legname, purché ci si impegnasse a terminare le costruzioni entro l’anno. La fretta impedì di tracciare le vie in modo regolare, mentre ciascuno costruiva nello spazio vuoto, senza curarsi di accertare che si trattasse di proprietà sua o di altri. È questa la causa per cui le antiche cloache, che in origine passavano sul suolo pubblico, ora qua e là corrono sotto case
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In realtà, i danni provocati dall’incendio gallico non furono certamente così gravi, altrimenti la ricostruzione della città in un’area totalmente libera avrebbe determinato l’adozione di un piano regolare. Quello che qui si descrive è invece il risultato di una storia urbana secolare, svoltasi senza rotture traumatiche e ricostruzioni totali: tutte le descrizioni della città antica che ci sono rimaste insistono sull’aspetto caotico dell’abitato, ben diverso da città, come Capua, che avevano conosciuto all’origine una sistemazione urbanistica regolare. Così si esprime Cicerone (La legge agraria, II, 35, 96): «Roma, situata su colli e convalli, che si innalza come sospesa con case a più piani, con vie mediocri e vicoli angusti, indecorosa rispetto a Capua, che si espande liberamente in un’area tutta in piano». Molto significativa è l’attività nell’ambito delle opere di carattere utilitario: rilevante in particolare la costruzione degli acquedotti e l’apertura di nuove strade, che procedono parallelamente, a partire dalla celebre censura di Appio Claudio nel 312 a.C.: in quel momento, eccezionale da tutti i punti di vista, vediamo nascere il primo acquedotto, l’aqua Appia, e la prima strada di lungo percorso, la via Appia:
d’ora in poi, tutte le strade in partenza da Roma prenderanno nome dal magistrato costruttore: così la Valeria, del 307; l’Aurelia, del 240; la Flaminia, del 220. Il secondo acquedotto, l’Anio vetus, verrà ad aggiungersi dopo soli quarant’anni al primo. Si tratta di un’attività del tutto caratteristica di Roma, la più innovatrice rispetto agli abituali modelli greci. Più tardi, questo aspetto della città colpiva ancora un osservatore esterno, come Strabone, che osserva ammirato (V, 3, 8): Questi sono i vantaggi che la natura del paese offre alla città: i Romani vi aggiunsero anche quelli della loro lungimiranza. Mentre infatti i Greci nelle loro fondazioni hanno giudicato importanti la bellezza, la sicurezza dei porti e la fertilità del territorio, i Romani si sono occupati soprattutto di quello che i Greci avevano tralasciato: la costruzione di strade, l’adduzione di acquedotti e l’apertura di cloache in grado di convogliare le immondizie della città fino al Tevere […] Tale è la quantità d’acqua che fluisce dagli acquedotti, che veri e propri fiumi scorrono nella città e nelle sue cloache, e che quasi ogni casa possiede tubature, cisterne e fontane inesauribili.
In alcuni, limitati casi siamo in grado di riconoscere interventi di ristrutturazione di edifici pubblici più
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64. Roma, pianta schematica del Comizio nel III secolo a.C. con posizione dei vari monumenti: 63. Resti delle mura urbane in Piazza dei Cinquecento: fase tardo-repubblicana.
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1. Statua di Atto Navio; 2. Fico Ruminale; 3. Lupa; 4. Marsia; 5. Puteal; 6. Colonna Menia; 7. Statua di Pitagora; 8. Statua di Alcibiade; 9. Tabula Valeria; 10. Sedili dei tribuni della plebe.
65. Paestum, pianta del Comizio della colonia.
66. Agrigento, pianta dell’ekklesiasterion.
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antichi: ciò è possibile soprattutto nel caso del Comizio, l’area a nord del Foro, destinata fin dall’età regia all’attività politica e giudiziaria. Nella seconda metà del IV secolo venne introdotta, per la prima volta, una pavimentazione lapidea e venne ampliata la tribuna dei magistrati, alla quale furono affissi i rostri delle navi prese agli anziati nel 338 a.C.: da questo momento la costruzione assunse il nome di Rostra. Questi interventi si spiegano con la creazione di altri magistrati, per i quali vennero rinnovate le vecchie strutture, aggiungendone di nuove. Si tratta, in particolare, dell’introduzione del pretore urbano (367 a.C.), cui fa seguito quella del pretore peregrino (242 a.C.). Un secondo intervento si ebbe nella prima metà del III secolo a.C., quando la piazza sembra assumere una forma circolare, con una gradinata interna: questa caratteristica si può desumere con certezza dai resti del lato meridionale, che presentano un andamento curvo, in origine esteso a tutto il complesso (fig. 64). Questo dettaglio è di grande significato, perché permette di dimostrare l’utilizzazione di modelli architettonici di origine urbana nelle colonie latine, fondate da Roma tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. In effetti, comitia di questa
forma appaiono a Fregellae, Alba Fucens, Paestum e Cosa (figg. 65, 72-73, 84, 89-91, 96, 100-101), e permettono di confermare la tradizione che identifica in queste fondazioni vere e proprie repliche (simulacra) di Roma. Significativamente, il modello di queste strutture circolari è da riconoscere negli ekklesiasteria greci (edifici per le assemblee popolari), di cui si conoscono esempi in Italia meridionale (Paestum, Metaponto) e in Sicilia (Agrigento) (fig. 66). È importante notare tuttavia che non si tratta di semplici imitazioni: i pochi resti conservati a Roma e quelli scavati nelle colonie mostrano che la gradinata circolare era sempre iscritta entro un’area quadrata. Si tratta dunque di un adattamento del tipo architettonico importato alle necessità religiose locali, che prevedevano per i comitia l’utilizzazione di luoghi «inaugurati», cioè delimitati ritualmente dagli auguri, e di forma necessariamente quadrata. Ancora una volta, come nel caso del tempio italico su podio, siamo in grado di riconoscere attraverso questo esempio le modalità con le quali la cultura ellenica era introdotta a Roma: non in modo indiscriminato, ma attraverso il filtro delle funzioni e delle ideologie indigene.
67. Roma, mura repubblicane a Piazza Albania.
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3. LE FONDAZIONI COLONIALI
Il processo di colonizzazione che accompagna la conquista romana tra la presa di Veio (396 a.C.) e la prima guerra punica (264-241 a.C.) costituisce il fenomeno più impressionante delle capacità espansive e integrative della società romana. Esso permette inoltre di conoscere meglio la situazione di Roma (urbanistica, architettonica, artistica) per un periodo in cui la documentazione disponibile è estremamente esigua, se non inesistente: questo perché le colonie (specialmente quelle latine) prendevano a modello, al momento stesso della loro fondazione, la cittàmadre: ciò non solo è del tutto naturale, ma è confermato da precise affermazioni di autori antichi e documentato dall’archeologia. Il testo fondamentale in proposito è quello di Aulo Gellio (XVI, 13, 4), un autore vissuto in età antonina, che riferisce un discorso pronunciato in Senato dall’imperatore Adriano a proposito della sua città di origine – Italica, in Spagna – che aveva chiesto di trasformare il suo statuto municipale in quello di colonia. L’imperatore, nella sintesi di Gellio, spiega che «la struttura delle colonie è diversa (da quella del municipio): infatti esse non entrano dall’esterno nella cittadinanza, né hanno radici autonome, ma sono per così dire emanazioni di Roma, e tutte le loro leggi e istituzioni non sono locali, ma sono quelle del popolo romano, di cui queste colonie appaiono come immagini e copie in miniatura». Questa definizione riguarda le istituzioni, ma anche le strutture che ne costituiscono il supporto materiale, in particolare gli edifici pubblici, come anche la «cultura», nel senso più generale. È quindi possibile utilizzare le informazioni relative alle fasi più
antiche di queste colonie per conoscere meglio la situazione della Roma contemporanea, di cui esse costituiscono, per l’appunto, delle copie in miniatura. Gli strumenti fondamentali del dominio romano, nella sua prima e decisiva fase, furono quelli della conquista-occupazione (la colonia) e della conquista-assimilazione (il municipio): in sostanza, la creazione artificiale di nuove entità urbane nel primo caso; l’assimilazione nella cittadinanza romana di centri già esistenti nel secondo. Accanto a questi due modelli, elaborati contemporaneamente, si deve citare anche l’assegnazione individuale («viritana») delle nuove terre conquistate, che va di pari passo con la diffusione territoriale della cittadinanza romana, scandita dalla creazione di nuove tribù. L’inizio dell’espansione in Italia, che è alla radice di questo gigantesco fenomeno, si può collegare con due episodi: la presa di Veio del 396 a.C., che provocò uno sviluppo del territorio romano pari almeno al doppio della sua estensione precedente, e la prima annessione di un’importante città latina, Tuscolo (nel 381), che divenne il primo municipio, e avviò la dissoluzione della Lega Latina, formalizzata nel 338 a.C. Anche se non si possono trascurare gli importanti precedenti di colonizzazione «arcaica», non c’è dubbio che il momento determinante per l’affermazione di una politica coloniale sistematica e massiccia coincide con quest’ultimo avvenimento. Si tratta in sostanza di una risposta a problemi di ordine interno e insieme esterno, che permetteva da un lato di risolvere le tensioni politiche intestine, canalizzando quote rilevanti della popolazione – proveniente quasi esclusivamente dagli strati inferiori della cittadi-
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lonia latina di Suessa Aurunca (313) e quelle romane di Minturnae (296) e Sinuessa (296). La via Valeria, che (probabilmente a partire dal 307) prolunga al di là di Tivoli l’arcaica via Tiburtina, è realizzata in funzione delle colonie latine di Alba Fucens (303) e di Carseoli (298). Lo stesso si può dire per la via Aurelia (probabilmente del 240) che serve la colonia latina di Cosa (273) e quelle romane di Castrum Novum (264), Pyrgi (264?), Alsium (247) e Fregenae (245). Il successivo prolungamento della via Appia fino alla costa adriatica va collegato con la fondazione di Beneventum (268) e di Brundisium (244). Considerazioni analoghe si possono fare per la via Flaminia (220), in rapporto alle colonie latine di Ariminum (268) e di Spoletium (241). Emerge con chiarezza, da questa grandiosa operazione, l’esistenza di un progetto di conquista controllato dal centro del potere romano e perseguito nel tempo con notevole coerenza. La possibilità di un’attività del genere è garantita dall’esistenza di un gruppo dirigente omogeneo, che non è altro che il senato romano. Parallela a questo grande sistema di infrastrutture è la creazione di un modello omogeneo di città coloniale che, come abbiamo visto, appare calcato su Roma. Prima ancora delle strutture urbanistiche e dell’architettura pubblica, tale modello prevedeva l’organizzazione di apparati istituzionali, amministrativi, religiosi che in quelle strutture trovavano le loro basi materiali. Sappiamo che, al momento della fondazione, il magistrato incaricato tracciava con un aratro tirato da buoi un solco, che corrispondeva al pomerio del nuovo organismo urbano: fin dall’inizio, quest’ultimo era dunque assimilato alla città romulea, che ne costituiva il modello ideologico. Per questo, prima di esaminare i dati materiali, forniti dall’esplorazione archeologica, occorre prendere in considerazione i documenti superstiti che ci restituiscono un’immagine di tali modelli ideali. Tra questi, una particolare rilevanza presenta un gruppo di iscrizioni imperiali da Rimini (colonia latina del 268 a.C.), che documenta con sufficiente precisione la divisione della città in quartieri (vici), non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche istituzionale. Conosciamo da questi documenti il nome di cinque di questi vici, una percentuale notevole del totale, che era di sette, come sappiamo da iscrizioni che li menzionano collettivamente. I nomi sono i seguenti: vicus Dianensis, vicus Germali, vicus Aventini, vicus Velabri, oltre a un probabile vicus Fortunae
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nanza – verso l’esterno, e allo stesso tempo mettendo in opera una politica di espansione sistematica, per la quale era disponibile un potenziale umano crescente, originario di Roma o delle città latine ormai integrate. L’efficacia di questa politica non risiedeva solo nella forza militare – certamente enorme rispetto a quella disponibile nelle società antiche del Mediterraneo – ma soprattutto nella straordinaria capacità di integrazione delle aree conquistate. Le nuove fondazioni coloniali furono organizzate fin dall’inizio secondo due tipi ben distinti: le colonie «romane» e le colonie «latine», le prime definibili come guarnigioni di cittadini (che comprendevano solo 300 coloni), destinate per lo più alla sorveglianza e al controllo delle coste (per questo definite anche «colonie marittime»): questi nuclei non godevano di autonomia amministrativa, e possono essere considerati come semplici frammenti separati della città di origine. Le colonie «latine», viceversa, sono insediamenti ben più consistenti dal punto di vista demografico (non meno di 2500 coloni), stabiliti in genere in aree lontane, spesso non urbanizzate, e che godevano di totale autonomia amministrativa: i coloni dedotti, compresi i Romani, perdevano infatti la cittadinanza originaria, per acquistare in cambio quella della nuova città. Il fenomeno è rilevante soprattutto nel periodo compreso tra la fine della guerra latina (338 a.C.) e la fine della prima guerra punica (241 a.C.), quando vennero fondate ben ventuno colonie latine e 10 colonie romane (fig. 68): si è calcolato che solo nella fase più antica, fino al 298, ciò corrispose all’invio di circa 38.000 giovani cittadini (iuniores). Queste fondazioni, collocate ai confini del territorio conquistato, venivano a formare una catena di potenti fortezze, con funzione tanto difensiva che offensiva. Tale funzione strategica richiedeva rapidi collegamenti con il centro urbano: ciò contribuisce a spiegare la creazione di una rete viaria, che appare in stretto rapporto cronologico e funzionale con la colonizzazione. L’arcaica via Latina – che in origine era diretta al centro religioso della lega omonima, il Monte Albano – venne prolungata verso sud, lungo le valli del Sacco e del Liri, più o meno contemporaneamente alla creazione della via Appia (312 a.C.). Il rapporto con la strategia delle guerre sannitiche e con la fondazione delle colonie latine di Cales (la più antica, 334 a.C.), Fregellae (328), Interamna Lirenas (312), Sora (303) appare del tutto evidente. Analogamente, lungo il percorso della via Appia si dislocano la co-
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68. Carta dell’Italia centrale, con le colonie romane di età repubblicana.
o Forensis. L’idea che si trattasse di una divisione tarda, relativa alla ristrutturazione augustea della città è da respingere, in base a varie considerazioni. È probabile in primo luogo che questa ripartizione corrispondesse al canone dei «sette colli» di Roma, come avviene nel caso della colonia cesariana di Corinto, dove era esposta, probabilmente nel foro, una statua di Roma sorgente sui sette colli, raffigurati come elementi rocciosi e indicati con il nome rispettivo: si trattava evidentemente dei sette vici della colonia. Nel caso di Rimini la lista è diversa, ma rimanda anch’essa alla città-madre, che si conferma così come modello di riferimento. Ciò che attesta definitivamente la notevole antichità della pratica di attribuire ai quartieri delle nuove fondazioni nomi di colli romani è la documentazione proveniente dalla più antica colonia latina, Cales (334 a.C.). Qui, in un’iscrizione imperiale, troviamo menzione di un vicus Palatinus, ma soprattutto, in
un vaso di produzione locale della fine del IV-inizio del III secolo a.C., la firma di un artigiano che, oltre al suo nome e a quello della città, menziona anche il quartiere dove era situata la sua bottega: K(aeso) Serponio(s) Caleb(us) fece(t) veqo Esqelino C(ai) s(ervus) («Kaeso Serponius, servo di Gaio, mi ha fabbricato nel quartiere Esquilino»). È notevole che anche a Roma l’Esquilino fosse sede di vasai, probabilmente già a partire dal periodo arcaico (come vedremo più avanti). Di conseguenza, la divisione in vici (che sono anche circoscrizioni elettorali) di Ariminum, nella forma che ci è nota da iscrizioni di età imperiale, sembra da attribuire alle origini stesse della colonia. È interessante anche la scelta dei toponimi: sembra che questi si riferiscano alla zona meridionale di Roma, a sud del Foro e del Palatino (come del resto, per quanto ne sappiamo, avviene anche a Cales). Si può anzi precisare che a Rimini si manifesta
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una prevalente connotazione «plebea», che ha come centro l’Aventino. Accanto al vicus Germali (che allude ovviamente alla zona alle pendici del Palatino dove si trovava il Lupercale) troviamo infatti il vicus Aventini e il vicus Velabri, l’area compresa tra Palatino e Aventino. Ma tale indirizzo emerge anche dalla presenza di teonimi, come accade nel caso del vicus Dianensis e del probabile vicus Fortunae: nomi che rimandano ancora una volta all’Aventino (dove si trovava il tempio di Diana), ma soprattutto all’attività edilizia del re «plebeo» per eccellenza, Servio Tullio. Una tale scelta non può stupire, trattandosi di una colonia latina, situata in un’area investita dalle deduzioni «plebee» di Curio Dentato e – più tardi – di Gaio Flaminio. Simili osservazioni si possono fare anche per la colonia gemella di Ariminum, Paestum, fondata nello stesso anno, il 268. Non solo troviamo qui una replica fedele del Comizio romano, ma anche la riproduzione della statua di Marsia (fig. 104) che si trovava a Roma, e che era il simbolo della libertà plebea. Una situazione identica è attestata anche ad Alba Fucens, colonia del 303: anche qui, oltre al Comizio di pianta circolare, gli scavi hanno riportato alla luce parti di una statua in bronzo di Marsia. Si tratta di un uso che si protrarrà fino ad età imperiale avanzata, quando nei fori delle colonie continueranno ad essere collocate statue di Marsia, che sono documentate da riproduzioni su monete. Questa serie di dati può introdurre altre considerazioni: in particolare, la possibilità che tale mimetismo del centro urbano, teorizzato, come abbiamo visto, dall’imperatore Adriano, potesse spingersi fino a precise repliche oggettive, topografiche, naturalmente entro i limiti consentiti dalla stessa conformazione fisica delle località prescelte per le nuove fondazioni coloniali. Una tale possibilità si può forse verificare nel caso di Norba (fig. 70), una colonia latina arcaica dell’area pontina, fondata secondo la tradizione all’inizio del V secolo a.C., rifondata e ampliata probabilmente verso la metà del IV secolo. Tra l’altro, questo esempio permetterebbe di far risalire questo modello fino ad età notevolmente antica, confermando così il dato, di poco successivo, di Cales. La conformazione topografica che la città assume nel IV secolo (fig. 69), con la realizzazione della più ampia cinta di mura, è caratterizzata da tre sommità, più rilevanti quelle settentrionale e orientale, meno quella meridionale. È sicura l’identificazione dell’arx nella collina a est, che coincide tra l’altro con l’abitato più antico, del V secolo a.C. Il più grande dei due
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69. Norba, pianta della città. 1. Arx; 2. Tempio di Diana; 3. Tempio di Giunone Lucina.
templi qui esistenti va attribuito, in analogia a quanto sappiamo dell’altra colonia arcaica di Signia (Segni), a Giunone Moneta, esemplato, come è evidente, su quello dell’Arx di Roma. Questo tempio è posto perfettamente in asse con una via, che percorre in senso est-ovest la depressione centrale del colle, ove doveva trovarsi il foro. Si tratta chiaramente di una replica della via Sacra di Roma: sappiamo tra l’altro che in quest’ultima gli auspici degli auguri venivano presi da un luogo dell’Arx, detto Auguraculum, secondo un asse visivo corrispondente alla via Sacra. Una situazione del tutto analoga, come vedremo, si riscontra nella colonia latina di Cosa, del 273 a.C. La situazione planimetrica dell’Arx, della «via Sacra» e del Foro di Norba permette di ricostruire un paesaggio ideale, calcato direttamente su Roma. Partendo da questa base possiamo estendere il confronto alle altre due sommità, che si vengono a trovare rispettivamente a destra e a sinistra di una linea corrispondente alla «via Sacra», quindi all’asse probabile dell’osservazione (spectio) augurale. Ora, sulla sommità del colle di destra (a nord) si trova un tempio, certamente tra i più importanti, dal momento che sopravvisse anche alla distruzione della città,
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70. Norba, le mura costruite in opera poligonale.
avvenuta nell’82 a.C., e fu più tardi trasformato in chiesa. Le iscrizioni provenienti dall’edificio dimostrano che si tratta di un tempio dedicato a Diana: sembra quindi evidente che, come nel caso di Rimini, si trattasse del colle chiamato «Aventino», imitazione di quello di Roma, dove sorgeva il Tempio di Diana fondato da Servio Tullio. Il colle di Norba viene infatti a trovarsi, come a Roma, sulla destra di un osservatore ideale posto sull’Arx. Il nome di questa collina sarebbe ancora una volta connotato in senso «plebeo»: in questo caso, il carattere «popolare» del culto si deduce anche dalla sua durata. L’edificio che occupa la leggera eminenza sulla sinistra (a sud) è anch’esso identificato, da iscrizioni, come tempio di Giunone Lucina. Ancora una volta, si impone il confronto con Roma, dove a sinistra dell’Arx si trovava, sull’Esquilino (altra collina «copiata» nelle colonie!) un identico culto, anche questo connotato come «plebeo» e dovuto a Servio Tullio: forse non a caso, il rifacimento di questo tempio nel 375 a.C. è di poco anteriore alla rifondazione di Norba. Quest’ultimo dato sembra confermare in modo decisivo la ricostruzione di «paesaggio urbano virtuale» che abbiamo proposto, e permette l’identifi-
cazione a Norba di tre vici: un vicus Capitoli, un vicus Aventini e un vicus Esquilini, il secondo e il terzo dei quali sono conosciuti anche a Rimini e a Cales. È possibile che si tratti della totalità delle circoscrizioni della città, se consideriamo l’antichità di essa, che potrebbe spiegare un’ispirazione alla città romulea delle tre regioni. Altri indizi farebbero supporre una divisione in cinque vici o tribù per le colonie latine della seconda metà del IV secolo (questo sembra il caso di Fregellae e di Alba Fucens) e infine in sette per le più tarde colonie del III, come Ariminum. La definizione adrianea delle colonie come effigies parvae simulacraque di Roma non descrive dunque una realtà contemporanea, medio-imperiale, ma proprio la struttura originaria delle più antiche colonie latine. Recenti scavi archeologici hanno permesso di conoscere un po’ meglio le strutture urbanistiche ed edilizie di alcune colonie latine del periodo classico, successive alla fine della guerra latina (338). Tra queste vanno ricordate, in ordine cronologico, Fregellae, Alba Fucens, Cosa e Paestum. Di Fregellae conosciamo con sicurezza la data di fondazione (328) e quella della distruzione definitiva
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(125): si tratta quindi di un sito «chiuso», prezioso per la conoscenza del periodo storico di cui ci stiamo occupando. Lo scavo, iniziato nel 1978 e ancora in corso, ha accertato la realtà della distruzione, di cui alcuni avevano dubitato, e permette quindi di disporre di una documentazione estremamente affidabile dal punto di vista cronologico. La città, da considerare la più importante colonia latina, occupava un’area enorme di quasi 100 ettari. Lo scavo ne ha portato alla luce in parte l’impianto (fig. 71), costituito da una serie di vie parallele (decumani) orientate est-ovest, che si impostano su un asse nord-sud (cardo), costituito dal tratto urbano della via Latina: una tessitura regolare, tipica delle città di fondazione, che ritroviamo anche negli altri casi di colonie sufficientemente conosciute, e che costituirà il modello anche di centri non coloniali. Approssimativamente al centro di quest’area si trova il foro, che misura circa 145 metri da nord a sud, per una larghezza di circa 55 (fig. 72). La piazza era pavimentata con un battuto di ghiaia, e presentava, sui lati corti, due serie parallele di dodici pozzetti, formati da due elementi di calcare contrapposti, a
forma di pi greco, con un’apertura di circa 30 cm. È probabile che si trattasse di elementi destinati all’installazione di corde, tese a mezzo di argani, che formavano una serie di corsie parallele (cinque più cinque, separate da un vuoto) (fig. 72): apprestamenti simili a Roma ospitavano le circoscrizioni elettorali (centurie o tribù) al momento del voto: ancora una volta, un’imitatio urbis, questa volta estesa al sistema elettorale. Questo documento permette inoltre di ricostruire il numero delle circoscrizioni elettorali (e quindi dei quartieri) della città: probabilmente cinque, distribuite in dieci corsie, metà per gli iuniores e metà per i seniores, che votavano separati. Sul lato nord del foro si trovava il comizio circolare (fig. 73), concluso in fondo dalla curia: un impianto del tutto analogo a quello di Roma. Un importante quartiere residenziale si disponeva lungo una via trasversale (decumanus maximus) che si dipartiva dal foro verso est (fig. 72). Qui, oltre a un gruppo di notevoli case, si trovava l’altro complesso pubblico conosciuto, un edificio termale di grandi dimensioni, che occupava un intero isolato (fig. 75). Lo scavo ha portato alla luce l’intera struttura, data-
A B C D E
Curia Comizio Foro Acquedotto Tempio
F G H I L
bile nella prima metà del II secolo a.C., che comprende una sezione maschile e una femminile. Al di sotto di questa è stata in parte esplorata la fase precedente, anch’essa di carattere termale, databile al pieno III secolo a.C. Si tratta del più antico esempio conosciuto di terme romane, ispirate alle simili strutture della Magna Grecia e della Sicilia. Di grande importanza sono i raffinati elementi decorativi: ad esempio, i telamoni di terracotta di tipo giovanile (figg. 76, 81), derivati da modelli greci, disposti in origine alla base di volte realizzate con elementi laterizi. Inoltre, vanno ricordati gli straordinari pavimenti in piastrelle policrome di terracotta (fig. 77). Conosciamo nella città tre edifici templari: il primo, nella zona nord-orientale del foro, era probabilmente dedicato a Concordia, come si deduce dalla statua di culto, parzialmente conservata, caratterizzata dalla cornucopia. Il culto della stessa dea è attestato anche nel foro di Cosa: entrambi gli edifici si ispirano a quello dedicato alla dea garante della pace civile, che si trovava in prossimità del Comizio di Roma. Gli altri due templi esplorati si trovano all’esterno della città: il primo sorgeva su uno sperone a nord-
est dell’abitato, e comprendeva, oltre all’edificio di culto, un portico dorico. Un’iscrizione attesta che esso era dedicato ad Esculapio (come quello, importato da Epidauro all’inizio del III secolo a.C., che si trovava a Roma, sull’Isola Tiberina). Tuttavia il complesso fregellano venne realizzato solo agli inizi del II secolo a.C.: in precedenza l’area, dove sgorgava una sorgente, doveva essere dedicata a una divinità femminile della guarigione, come attestano i numerosissimi ex voto in terracotta del III secolo a.C., del tipo diffuso a Roma e nelle città latine (figg. 79, 82). Potrebbe trattarsi di Salus, dea la cui presenza è attestata da un’iscrizione votiva. L’altro tempio extraurbano si trovava nel punto in cui la via Latina entrava in città, da nord. Il piccolo edificio ha restituito una serie di terrecotte architettoniche e votive, che potrebbero far pensare a un culto di Fortuna (fig. 71). Il quartiere, quasi interamente scavato, che si disponeva lungo il decumanus maximus costituisce, nonostante il cattivo stato di conservazione, un esempio quasi unico di insediamento abitativo databile al III secolo a.C., anche se le case vennero in gran
G
Macellum Quartiere di abitazioni Terme Santuario di Esculapio Tempio extraurbano
50 m 40 30
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20
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AL
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G G
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I MAR ADRIATICO Carseoli
VI
AL
AT IN A
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Alba Fucens
ROMA
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Sora FREGELLAE Interamna Lirenas Snessa Aurunca Cales Capua MAR TIRRENO
A
E
72. Fregellae, la zona centrale: A. curia; B. comizio; C. foro; D. Tempio della Concordia; E. mercato (?); F. casa con fregi figurati; G. case; H. terme.
73. Fregellae, ricostruzione prospettica del comizio.
B
C
71. Fregellae, pianta generale con indicazione delle parti scavate.
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99
74. Fregellae, pianta ricostruttiva della domus 7.
1
9
a/t 2 al
a/t 3
pr t/s/l 4
ser/la 6
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75. Fregellae, pianta delle terme: in nero, la fase di III secolo a.C.; in grigio, la fase degli inizi del II secolo a.C.
76. Fregellae, ricostruzione di un ambiente voltato delle terme.
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parte ricostruite nei primi decenni del II (fig. 72). Si tratta in gran parte di abitazioni appartenenti all’aristocrazia locale, come si deduce, oltre che dalla qualità della decorazione, dalla stessa vicinanza al Foro. Una conferma sicura è la presenza, in alcune di esse, del vestibulum, ovvero del piccolo ambiente situato al di fuori della porta d’ingresso, destinato alla sosta dei clientes che precedeva la salutatio mattutina al patrono, proprietario della casa. Si tratta di domus ad atrio del tipo tradizionale, di una superficie media di 350-400 mq., che presentano ricchi apparati decorativi, comprendenti pavimenti in cocciopesto con tessere di calcare, mosaici, intonaci di «primo stile» e terrecotte ornamentali e figurate. Si possono identificare tre fasi edilizie principali: l’ultima di queste è probabilmente da collegare con le notizie sull’immigrazione a Fregellae di 4000 famiglie peligne (territorio di Sulmona) e sannite, installate in città prima del 177 a.C., come ricorda Livio (XLI, 8). Questa fase, che si prolunga fino alla distruzione della città nel 125 a.C., appare come una radicale e traumatica ristrutturazione del centro urbano, in particolare delle domus più ricche, che vengono in gran parte trasformate in officine per la fabbricazione delle stoffe di lana. Di poco più antica è la fase precedente, che consiste per lo più in un sistematico intervento di ristrutturazione e di ridecorazione delle case, che assumono allora un aspetto di particolare lusso: siamo negli anni immediatamente successivi alla guerra annibalica, nei primi decenni del II secolo a.C., quando anche a Roma si verifica un fenomeno analogo, sia nell’edilizia pubblica che nell’edilizia privata. Infine, in alcuni settori è stato possibile identificare l’esistenza di una fase più antica: in un punto, anzi, un intervento di livellazione attribuibile alla seconda fase (analogo e contemporaneo a quello che si può riscontrare nelle terme), dell’inizio del II secolo a.C., ha ricoperto edifici sottostanti. In un caso, è stato possibile portare alla luce una casa, che si può attribuire agli anni finali del IV secolo e all’inizio del III (fig. 74). Siamo così in grado di conoscere un esempio di abitazione aristocratica mediorepubblicana in un soddisfacente stato di conservazione. Si tratta di una domus ad atrio tuscanico, dotata di un impluvio pavimentato con mattonelle a losanga e decorata con intonaci di «primo stile» con pannelli policromi a rilievo, attribuibili alla metà del III secolo a.C.: l’esempio più antico conosciuto nell’Italia peninsulare non greca. I pavimenti sono di vario tipo: in particolare, cocciopesti deco-
rati con tessere di calcare, di un tipo che in genere veniva datato non prima del II secolo a.C. Anche in altri settori della città sono stati recuperati pavimenti relativi alla fase più antica: eccezionale tra questi un elemento circolare a mosaico, costruito con semicerchi in due colori (realizzati con calcare e cotto) (fig. 78), collocato al centro di un pavimento in cocciopesto decorato con tessere di calcare. Al di sotto di questo, al momento dello stacco, si è rinvenuta una fossa circolare, più o meno coincidente per dimensioni con il mosaico, riempita con materiali (soprattutto ceramica a vernice nera) databile non dopo gli inizi del III secolo. Il mosaico dovrebbe essere di poco più tardo, e comunque non posteriore alla metà del secolo: anche in questo caso, si tratta del più antico esempio conosciuto nel Lazio, confrontabile con esemplari analoghi scoperti recentemente a Pompei, anch’essi del III secolo a.C. Nel complesso, le scoperte di Fregellae contribuiscono in modo determinante alla ricostruzione di una cultura coloniale, che ci fornisce un preciso riflesso della situazione urbana di età medio-repubblicana. Per la prima volta, in modo così ampio, siamo in grado di valutare la qualità e il grado di ellenizzazione della società latina contemporanea attraverso un insieme di prodotti artistici (dall’edilizia ai pavimenti alla decorazione pittorica) che si conoscevano solo per periodi più tardi, e la cui esistenza in una fase così precoce costituisce un dato del tutto inedito.
77. Fregellae, terme, fase di III secolo a.C.: pavimento in pelte policrome di terracotta.
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Nel 304 a.C., nell’intervallo tra la seconda e la terza guerra sannitica, Roma mise in atto una sistematica operazione di conquista e di controllo dell’area interna della penisola (odierno Abruzzo) abitata dagli Equi e dai Marsi. In soli cinquanta giorni furono conquistati e distrutti 41 centri fortificati degli Equi, sterminando gran parte della popolazione (Livio, IX, 45). Nell’area così occupata vennero fondate due colonie latine, Carseoli (298 a.C.) e Alba Fucens (303). Quest’ultima ricevette ben 6000 coloni, ciò che conferma il rilevante ruolo strategico della nuova fondazione. Per collegare quest’area con Roma era stata già avviata poco prima (probabilmente nel 307) la creazione della via Valeria, che prolungava verso est il più antico tracciato della via Tiburtina. La storia urbana della città è stata in gran parte chiarita dagli scavi di una missione belga. Il sito comprende tre colline, tra la quali si estende una zona pianeggiante, che venne occupata dal vero e proprio abitato (figg. 83, 87). La sommità più alta (1016 m) rimane inesplorata, occupata com’è dal villaggio moderno di Massa d’Albe, distrutto dal terremoto del 1915 e in seguito abbandonato. Qui doveva trovarsi l’arx della città, con almeno un tempio. Le altre due colline, il Pettorino a est e il colle di S. Pietro a sud, erano occupate anch’esse da due templi. L’area della città, di circa 45 ettari, è limitata da una grande cinta in opera poligonale di calcare, lunga quasi tre km e con quattro porte.
78. Fregellae, restituzione grafica di un emblema in mosaico policromo.
L’impianto urbanistico è sostanzialmente quello originario, come si deduce dalla presenza di grandi cloache, certamente realizzate per prime, e dai muri in opera poligonale, orientati come le vie, disposti sulle pendici delle tre colline e destinati a sostenere i terrazzamenti che ospitavano le abitazioni. La rete viaria, corrispondente al più antico impianto della colonia, è costituita da un sistema di grandi assi paralleli orientati da nord-ovest a sud-est, che percorrono nel senso della lunghezza il pianoro (detto Piano di Civita). Il principale corrisponde al tratto urbano della via Valeria, come dimostra il miliario 68 della via, con il nome di Magnenzio (350-351 d.C.), ancora in situ. Vie perpendicolari vengono a formare un reticolo regolare, con i lati lunghi disposti secondo le vie principali. Il settore pubblico della città occupa il centro del vallone. Qui si trova la piazza del foro, allungatissi-
79. Fregellae, due terrecotte votive.
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80-82. Fregellae: telamone in terracotta dalle terme, tipo «anziano»; telamone in terracotta dalle terme, tipo «giovane»; rilievo votivo in terracotta.
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87. Alba Fucens, panoramica con il Monte Velino.
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In alto: 83. Alba Fucens, pianta: A. comizio; B. foro; C. basilica. 84. Alba Fucens, pianta del foro e del comizio. In basso: 85-86. Alba Fucens, Tempio di Colle S. Pietro: pianta e ricostruzione prospettica.
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ma (172,68 × 43,50 m), che appartiene all’impianto originario (fig. 84). Immediatamente a nord di questa, oltre una via trasversale, si dispone il comizio, non totalmente esplorato: un edificio quadrato, comprendente all’esterno due ali allungate e al centro un’area circolare (diametro 17 m), che doveva essere conclusa a nord dalla Curia. Ancora una volta, un impianto tipico di molte colonie (Fregellae, Cosa, Paestum), che riprende la pianta del Comizio di Roma nella sua fase medio-repubblicana. Il confronto è confermato dalla scoperta in questa zona di parti di una statua in bronzo, certamente una copia di quella di Marsia, esposta nella piazza di Roma (un caso analogo è documentato a Paestum). I due templi conservati (quello del Pettorino e quello del Colle di S. Pietro, trasformato in seguito nella chiesa omonima) appartengono alla fase originaria della città. Ambedue presentano una doppia cella, certamente destinata a due divinità: nel secondo caso (figg. 85-86), dovrebbe trattarsi di Diana e di Apollo. L’edificio, tuscanico, sorge su un alto podio, le cui modanature, ora scomparse, appartenevano probabilmente al tipo coloniale a doppio cuscino contrapposto, conosciuto a Sora, Isernia e Villa S. Silvestro, di cui parleremo più avanti. Non è improbabile che anche in questo caso – come in quello già esaminato di Norba – si debba
riconoscere nella forma urbana complessiva una riproduzione ideale di Roma: il Colle di S. Pietro, disposto a destra dell’arx, corrisponderebbe allora all’Aventino, con il Tempio di Diana (cui in questo caso era stato affiancato il culto di Apollo, fratello della dea), mentre nel Pettorino dovrebbe identificarsi l’Esquilino: in tal caso è possibile che il culto praticato nel relativo tempio possa essere quello di Giunone Lucina, affiancato da un altro che resta sconosciuto. Un’altra colonia latina di cui, grazie ad estesi scavi, conosciamo abbastanza bene l’aspetto complessivo è Cosa (presso Ansedonia). Fondata come Paestum nel 273, in un’area sottratta alla città etrusca di Vulci (sconfitta definitivamente da Roma nel 280), essa aveva la funzione di controllare la costa nel punto più avanzato raggiunto dal territorio romano, e di proteggere le colonie romane di Castrum Novum, Pyrgi, Alsium e Fregenae, disposte più a sud: si tratta di una delle rare colonie latine insediate sul mare, che era destinata evidentemente a difendere questo tratto di costa dalle incursioni cartaginesi, provenienti dalla Sardegna e dalla Corsica. L’area prescelta, un colle alto 114 metri, è piuttosto ridotta (poco più di 13 ettari), e corrisponde a un numero di coloni senza dubbio non superore ai 2500 (fig. 88). È circondata da mura in opera poligonale,
105
munite di torri, della lunghezza di 1,5 km, con quattro porte. La griglia urbana è articolata in tre grandi strade orientate nord-ovest sud-est, e in una serie più numerosa (8) di vie nord-est sud-ovest, che vengono a limitare isolati rettangolari allungati. L’angolo sud-ovest, più elevato e fornito di una cinta autonoma, corrisponde all’arx: qui si trovava una piattaforma quadrata (8 metri di lato), tagliata nella roccia, in cui è stato identificato il luogo di osservazione degli auguri (auguraculum), che riproduce quello situato sull’Arx di Roma. Come nel caso di quest’ultima, da questo punto si può osservare l’intera area della città, con le mura, e gran parte del territorio, secondo le prescrizioni consegnate nei libri rituali degli auguri. Sempre come a Roma (e come nella più antica colonia di Norba), una via di ampiezza particolare conduce dall’acropoli al foro, e può essere identificata con la «via sacra» locale: nell’insieme, una replica precisa della situazione urbana. L’auguraculum venne in seguito occupato da un grande tempio a tre celle, identificabile con il Capitolium: esso fu preceduto da un altro tempio, probabilmente anch’esso dedicato a Giove, di cui restano solo tracce della pianta tagliate nella roccia. Le terrecotte appartenenti a questo edificio si confrontano con quelle di area etrusca (Tarquinia e Talamonaccio), e vanno datate nel corso del III secolo, poco dopo la fondazione della colonia. Notevoli le antefisse a testa di Minerva e di Ercole. Il foro in questo caso non si trova al centro della città, ma nel quadrante orientale (fig. 89). La sua area ridotta (90 × 36 m), che occupa lo spazio di quattro isolati, è adeguata alle dimensioni modeste della città. Gli edifici principali sono dislocati sul lato nord della piazza, dove troviamo il comizio (della solita forma circolare) e la curia (figg. 90-91), oltre a un tempio dedicato, come risulta da un’iscrizione, a Concordia, la dea politica per eccellenza: una situazione identica, esemplata evidentemente sul Comizio di Roma, si riscontra anche a Fregellae. È interessante confrontare con Cosa la colonia di Paestum, che è dello stesso anno (273): qui la situazione appare molto diversa, perché la deduzione non avvenne in vacuo, ma nel luogo di un’antica fondazione greca, Poseidonia, passata successivamente attraverso un’occupazione lucana. L’area occupata dalla città, estesissima (circa 120 ettari) (fig. 92), è chiusa da una lunga cinta muraria in opera quadrata di calcare, lunga 4750 metri. Questa venne realizzata nel corso del IV secolo a.C., ma
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Porta N O Porta N E
0 1
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Porta S E 10 m Porta della cittadella
88. Cosa, pianta: 1, 2. templi dell’Arx; 3. foro
0
90. Cosa, pianta dei resti del comizio e della curia.
5 10 15 20
89. Cosa, pianta del foro.
91. Cosa, piante della prima e della seconda fase del comizio.
fu ampiamente rifatta al momento della fondazione della colonia: a tale rifacimento appartiene la Porta Sirena, così denominata da una testa femminile scolpita nella chiave di volta: analoghe decorazioni, databili al III secolo a.C., si trovano in porte di varie città italiche, da Perugia a Falerii Novi a Pompei. L’area urbana, che occupa un esteso pianoro calcareo, ha conservato l’impianto greco arcaico, costituito da tre larghe vie est-ovest, distanti tra loro circa 300 metri, incrociate ad angolo retto da strette e numerose vie nord-sud, che delimitano isolati allungatissimi (273 × 35 m). Al centro si distingue un’ampia fascia di carattere pubblico, estesa da nord a sud, dove si trovano l’agorá e i grandi santuari greci. Le modificazioni più ampie introdotte dalla colonia riguardano proprio quest’area: l’originaria agorà greca, utilizzata anche nel periodo lucano, venne abbandonata in età romana e il foro venne spostato più a sud. Questo è una piazza molto allungata (150 × 57 m) (fig. 93), in origine bordata da tabernae di negozianti. Più o meno al centro del lato settentrionale si trova il comizio (figg. 96, 100-101), a pianta rettangolare con gradinata circolare interna, sulla quale si affacciano a nord cinque ambienti: di questi, quello centrale è certamente la curia, mentre i quattro laterali vanno identificati con altri uffici amministrativi. È questo l’esempio meglio conservato di un tipo di impianto che si ritrova in tutte le
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93. Pianta del foro. 11
0 10 30
50
70 90
150
200
300 m
PALESTRA
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4 12
6
8 9 7 14 5 9
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92. Paestum: pianta 1. Heraion; 2. Tempio di Zeus?; 3. Tempio di Atena; 4. Heroon; 5. Foro; 6. Tempio di Mens Bona?; 7. Comizio; 8. Anfiteatro; 9. Piscina; 10. Porta Aurea; 11. Porta Giustizia; 12. Museo; 13. Porta Marina; 14. Porta Sirena.
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2 1
10
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94. Paestum: Tempio di Mens Bona.
96. Paestum: pianta del comizio e del Tempio di Mens Bona.
10 m
5
0
95. Paestum: Tempio di Mens Bona, capitello.
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97. Ricostruzione grafica della facciata del Tempio di Mens Bona.
colonie latine, e ci fornisce un’idea precisa di quello contemporaneo di Roma. L’analogia è confermata dalla scoperta di una statua di Marsia (fig. 104), replica provinciale di quella che si trovava, a partire dal 300 circa a.C., nel Comizio di Roma. In un secondo tempo, la struttura a gradinate venne tagliata da un tempio peripteros sine postico, su alto podio modanato tipicamente italico (figg. 94-97); le colonne sono dotate di bei capitelli italo-corinzi con teste femminili. Nelle metope scolpite, pertinenti al fregio dorico, sono rappresentate scene di combattimento (figg. 102-103). È questo uno dei più notevoli esempi di un modello, che appare a Roma già all’inizio del III secolo (Tempio C di Largo Argentina). L’attribuzione a Mens Bona, il cui culto è attestato a Paestum da numerose iscrizioni, permette di associarlo al Tempio romano di Mens, dedicato sul Campidoglio nel 215 a.C., nel corso della guerra annibalica. L’edificio di Paestum dovrebbe essere di pochi anni posteriore. A nord-ovest del foro si trova un complesso del tutto particolare, costituito da una grande piscina (47 per 21 m), nel cui settore occidentale si conserva una struttura di fondazione in blocchi di calcare, che sosteneva in origine un tempietto (figg. 98-99). Si è proposto di identificarvi una replica della Piscina publica di Roma, situata a sud-est dell’Aventino, che aveva dato il nome a una delle regioni della città augustea. Il tempietto sarebbe stato dedicato, in questo caso, a Fortuna Virilis, culto legato ad arcaicissimi riti iniziatici femminili, che prevedevano un bagno collettivo delle donne nel corso delle feste della dea. Ancora una volta, una struttura coloniale ci permette di ricostruire l’aspetto di un edificio pubblico di Roma, di cui conosciamo solo il nome. Il tipo originario della colonia romana, piccolo insediamento di soli 300 coloni, destinata alla protezione delle coste, è rappresentato dal cosiddetto castrum di Ostia (fig. 105), il più antico esempio conosciuto, la cui fondazione è stata recentemente fissata all’inizio del IV secolo a.C., ma può risalire fino agli ultimi decenni del V. L’insediamento primitivo, di forma rettangolare (194 × 125,70 m, meno di due ettari e mezzo), è cinto da mura in opera quadrata di tufo di Fidene. Due strade ortogonali, che si incrociano al centro e in corrispondenza delle quali si aprono quattro porte, dividono l’area in quattro quadranti, occupati in origine quasi interamente da case: mancava una piazza centrale, un foro, poiché le colonie romane (che erano solo elementi distaccati della città-madre) non
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98-99. Paestum, la piscina pubblica e ricostruzione prospettica della stessa.
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100-101. Paestum, il comizio e ricostruzione prospettica dello stesso.
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102. Paestum, metope del Tempio di Mens Bona con un guerriero caduto.
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103. Paestum, metope del Tempio di Mens Bona, figura femminile in fuga.
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avevano un’amministrazione autonoma. Uno o più templi (di cui restano poche tracce) dovevano trovarsi comunque nella zona centrale. La più recente indagine ha riconosciuto l’esistenza originaria di soltanto 60 abitazioni unifamiliari: esse rappresentavano un quinto del numero dei coloni (che erano 300) e dovevano essere destinate all’élite cittadina: gli altri dovevano abitare in fattorie dislocate nel territorio. La forma di questo tipo di insediamenti è stata in genere confrontata a quella dell’accampamento romano (castrum), descritto da Polibio: tuttavia, alcune obiezioni decisive sono state avanzate a tale ipotesi. In realtà, questo tipo di accampamento sarebbe stato introdotto dai Romani solo all’epoca di Pirro, a imitazione di quello del sovrano epirota. La soluzione più probabile è che si tratti invece di un impianto basato sulla disciplina augurale: il modello, in questo caso, non può essere altro che la cosiddetta Roma quadrata del Palatino, attribuita a Romolo, che sembra teorizzata proprio nel corso del IV secolo: cogliamo qui ancora una volta, e nel modo più evidente, la presenza normativa del modello urbano (in questo caso, un modello teorico, astratto) che è alla base delle fondazioni coloniali. Questo insediamento, fin dall’inizio, ebbe la funzione di proteggere le foci del Tevere, controllando la navigazione fluviale in direzione di Roma, mercantile e militare. Questo ruolo delle colonie marittime si svilupperà attraverso una serie di insediamenti, tutti dello stesso tipo, a partire da Anzio, fondata nel 338. Ostia venne certamente coinvolta dai primi tentativi di costituire un potere marittimo, che troverà il suo punto di sbocco nell’armamento delle grandi flotte della prima guerra punica. Non è un caso l’introduzione, nel 264 a.C. (e cioè proprio all’inizio della guerra) dei questori ostiensi, detti classici, e cioè addetti alla flotta. Il primo manifestarsi, e il progressivo sviluppo della flotta militare romana, già forse a partire dall’età dei Tarquinii, si può seguire attraverso le clausole dei successivi trattati tra Roma e Cartagine, trascritti da Polibio (III, 24), il primo dei quali sarebbe dell’anno iniziale della Repubblica (ma probabilmente era destinato a sostituirne un precedente, ancora di età regia). Qui va considerato soprattutto il testo del secondo trattato, che è del 348
A fronte: 104. Statua di Marsia in bronzo (Museo Archeologico di Paestum).
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circa, e quindi di poco successivo alla creazione del castrum di Ostia: A queste condizioni ci sarà amicizia tra i Romani e i loro alleati e il popolo dei Cartaginesi, dei Tirii e degli Uticensi e dei loro alleati. I Romani non saccheggino, non commercino e non fondino città al di là del Bel Promontorio (Capo Bon o Capo Farina) e di Mastia dei Tartessi. Se i Cartaginesi conquistano nel territorio latino una città che non appartiene ai Romani, conservino i beni e gli uomini, ma restituiscano la città. Se alcuni dei Cartaginesi catturano abitanti di città con le quali i Romani hanno stipulato un accordo di pace scritto, ma non sono ad essi soggette, non dovranno farli sbarcare in porti dei Romani; ma se un Romano tocca uno di quelli sbarcati, sia lasciato libero. Lo stesso non facciano neanche i Romani. Se un Romano si approvvigiona di acqua e viveri in un territorio sotto il comando dei Cartaginesi, non faccia danno servendosi di queste risorse a nessun popolo con cui i Cartaginesi hanno rapporti di pace e di amicizia. Anche i Cartaginesi non lo faranno. Altrimenti, non si procederà a vendette private; se qualcuno lo farà, l’ingiustizia sia considerata questione pubblica. Nessun romano commerci o fondi città in Sardegna o in Libia, e sbarchi solo per rifornirsi di viveri o riparare la nave. Se è trascinato da una tempesta, dovrà ripartire entro cinque giorni. Nelle zone della Sicilia soggette ai Cartaginesi e a Cartagine faccia e venda tutto quello che è concesso a un cittadino cartaginese. Lo stesso faccia anche un Cartaginese a Roma.
Il modello approntato per le città coloniali, sistematicamente applicato, con poche varianti ed adattamenti, anche a città di natura diversa costituisce la base del processo di urbanizzazione dell’intera Italia: forse lo strumento fondamentale, accanto alla messa a punto di strutture amministrative omogenee, per la romanizzazione del territorio conquistato. Questo fenomeno si può riscontrare con chiarezza in alcuni casi privilegiati, come Pompei, Volsinii Novi e Falerii Novi. Nel caso di Pompei, gli studi recenti hanno mostrato come la città, nata già all’inizio del VI secolo a.C., ma poi semiabbandonata dopo la conquista sannitica della fine del V secolo, abbia conosciuto un intervento di totale ristrutturazione, che possiamo datare intorno al 300 a.C.: momento che, non a caso, coincide con l’inserzione delle città della Campania
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meridionale nella confederazione romano-italica. Viene allora riformulato l’intero impianto urbanistico, dalle mura al reticolo stradale, che si ispira direttamente al modello delle contemporanee colonie latine: un chiaro esempio di quel particolare processo di integrazione spontanea, che è stato definito come «autoromanizzazione». Altrettanto significativi i casi di Volsinii Novi e di Falerii Novi: in entrambi i casi si tratta della ricostruzione di città dell’area tiberina, Volsinii (Orvieto) e Falerii (Civitacastellana), conquistate e distrutte, dopo un breve assedio, rispettivamente nel 264 e nel 241 a.C. Gli abitanti superstiti (da identificare in gran parte con i membri del partito «filoromano») vennero spostati in zone lontane dalle sedi originarie e prive di difese naturali rilevanti (Bolsena e S. Maria di Falleri), dove i centri abitati furono integralmente ricostruiti secondo impianti regolari, ancora una volta esemplati sul modello coloniale romano, che sono stati rivelati da ricerche archeologiche recenti. Nel caso di Volsinii Novi, gli scavi francesi hanno portato alla luce una parte della città antica, che occupava le pendici a nord del Lago di Bolsena, con una serie di terrazzamenti destinati a regolarizzare il forte dislivello, compreso tra 350 e 590 metri sul livello del mare. Il circuito delle mura, di poco più di 4400 metri, includeva una superficie di 65 ettari, dei quali solo 35-38 occupati dalla zona costruita. Questa si articolava in una serie di isolati regolari, larghi intorno ai 35-38 metri. L’intero impianto presenta
evidenti assonanze con quelli delle colonie latine, in particolare con Norba e Alba Fucens. Il sito di Falerii Novi (S. Maria di Falleri), nonostante l’assenza di scavi regolari, costituisce oggi un documento eccezionale per la conoscenza della città antica in Italia. Esso occupa un pianoro a circa 200 metri sul livello del mare che, rimasto quasi interamente libero da costruzioni dopo l’abbandono del centro, ha permesso una sistematica esplorazione geofisica, ad opera della Scuola Britannica di Roma, che ha dato risultati eccezionali. La cinta muraria in opera quadrata di tufo, lunga circa 2 chilometri, includeva un’area di circa 30 ettari, in gran parte occupata dall’abitato. Il nucleo più ampio di questo, al centro del pianoro, era diviso da vie ortogonali in una serie di isolati regolari (69 in tutto) che per lo più corrispondono a un modulo di circa 70 metri di larghezza, per una lunghezza variabile nei diversi settori. Si riconosce al centro l’area del foro mentre il teatro (scavato in passato), annesso ad alcune altre costruzioni di carattere sacro, si trovava sul lato meridionale. L’arx doveva occupare una lieve eminenza nell’angolo occidentale. Nel complesso si riscontra, ancora una volta, il sistema di organizzazione regolare, desunto dal modello delle colonie latine contemporanee: in questo caso, anche per le dimensioni ridotte e per la cronologia, di pochi anni successiva, sembra proponibile il confronto con Cosa, fondata nel 273 a.C.
100 m
0
105. Ostia, pianta del castrum.
118
4. L’ARCHITETTURA TEMPLARE
Il periodo delle guerre sannitiche (343-290 a.C.) coincide sotto molti aspetti con una svolta radicale nella storia romana. Si tratta della fase cruciale del periodo medio-repubblicano, quando la città, impegnata nella conquista dell’Italia, raggiunse un livello economico, demografico e culturale senza precedenti. Uno degli aspetti più rilevanti, sul piano religioso ed edilizio, di questa nuova situazione è l’incremento straordinario delle costruzioni templari, di carattere prevalentemente votivo (in relazione a vittorie militari) che accompagna il procedere della conquista, dando origine a una vera e propria «teologia della vittoria». Molti anni fa, in un articolo epocale, Stefan Weinstock aveva dimostrato il collegamento di questo fenomeno a uno degli aspetti più tipici dell’ideologia del primo ellenismo. L’improvvisa e massiccia apparizione a Roma di nuove entità divine legate alla vittoria a partire dagli anni intorno al 300 a.C. (Victoria, Hercules Invictus, Iuppiter Victor, Bellona Victrix ecc.) va collegata ad epiteti (derivati dal nome della dea greca Nike, corrispondente alla romana Vittoria) come Aniketos, Kallinikos, Nikator, Nikephoros, assunti da Alessandro e dai suoi primi successori, i Diadochi. Si tratta di uno dei più caratteristici aspetti dell’intenso fenomeno di ellenizzazione, che investe la società romana in questi anni. La coscienza di questo collegamento ideale traspare dal notissimo excursus liviano su Alessandro (Livio, IX, 17, 1-9), che pone a confronto il Macedone con i grandi generali romani del periodo, chiedendosi chi sarebbe uscito vincitore da un eventuale scontro: con l’inevitabile risposta favorevole ai Romani.
Tutta la struttura politica, militare e religiosa dello Stato romano in questo periodo ruota intorno all’ideologia della vittoria, che trova il suo momento culminante e rappresentativo nel trionfo, prolungamento senza grandi trasformazioni della cerimonia introdotta dai Tarquinii. Questa perennità quasi fuori del tempo delle cerimonie di Stato romane trova la sua più chiara espressione in un testo di Dionigi di Alicarnasso (II, 34, 2-4), che potrebbe riferirsi a qualsiasi momento della storia regia (la descrizione si riferisce a Romolo, con ovvio anacronismo) o repubblicana: [Romolo] ricondusse le sue truppe a casa portando con sé le spoglie dei caduti in battaglia e le primizie del bottino da offrire agli dèi; inoltre offerse a questi molti sacrifici. Ultimo nella processione veniva Romolo stesso rivestito di una veste purpurea, con le chiome incoronate di alloro: per conservare intatta la dignità regale avanzava su una quadriga. Lo seguiva il resto dell’esercito, fanti e cavalieri, divisi per squadroni, celebrando gli dèi con inni indigeni ed esaltando il comandante con versi improvvisati. Gli abitanti della città, venuti loro incontro con mogli e figli, disponendosi ai lati della strada, si congratulavano per la vittoria e manifestavano in ogni modo la loro gioia. Al suo arrivo in città l’esercito trovò crateri colmi di vino e tavole imbandite di cibi di ogni genere, che erano poste davanti alle case più ragguardevoli, perché ogni soldato si saziasse a piacere. Questa era dunque la processione per la vittoria, durante la quale si trasportavano trofei e
119
si celebravano sacrifici, com’era stata istituita per la prima volta da Romolo, e che i Romani chiamano trionfo.
Uno degli aspetti più significativi di questo periodo è dunque il grande incremento di fondazioni templari di carattere votivo, e dunque strettamente collegate all’intensa attività bellica contemporanea. Mentre in precedenza sono attestati solo pochi casi del genere, successivi alle vittorie sugli Etruschi, sui Galli e sui Volsci (Veio: Giunone Regina, 396 a.C.; Galli: Marte, 388 a.C.; Volsci: Giunone Moneta, 346 a.C.), a partire dalla fine della seconda guerra sannitica e per tutta la terza il fenomeno assume un’accelerazione impressionante: dal 311 (voto del Tempio di Salus) al 272, ben 13 templi vengono fondati, e almeno 8 di questi in seguito a un voto pronunciato nel corso di una guerra sannitica, come illustra la tabella a piè di pagina. È accertato che tale tendenza continuerà, anzi si accentuerà nei decenni successivi, anche se le nostre informazioni sono scarse, a causa della perdita della seconda decade di Livio, relativa agli anni dal 292 al
Divinità
Voto
Dedica
Salus
311
302
Bellona
296
Iuppiter Victor Venus Obsequens
219. Possiamo così enumerare in tutto, fino al 231, almeno ventuno fondazioni templari. Il fenomeno dei «templi dimicatori» (collegati cioè a uno scontro militare) non è nuovo: basti pensare al caso del Tempio dei Castori, realizzato a seguito della vittoria del Lago Regillo contro la Lega Latina (499 o 496 a.C.): ma esso assume ora un rilievo preminente, e appare in rapporto all’apparizione, già ricordata, di una sorta di «teologia della vittoria», che si palesa negli epiteti divini, di origine ellenistica, di Victor e Invictus, oltre che nell’introduzione della dea Victoria. Si può stabilire un collegamento tra queste fondazioni e la lotta politica a Roma, di cui riconosciamo a partire da questo momento manifestazioni evidenti. Il voto e la dedica di un tempio, quasi sempre in rapporto alla celebrazione di un trionfo, vengono ad assumere, con accelerazione progressiva, valore e peso determinanti nell’affermazione di personalità, di cui ora per la prima volta possiamo conoscere la biografia: L. Papirio Cursore, Q. Fabio Rulliano e naturalmente Appio Claudio Cieco. Nell’esame del fenomeno vanno presi in considerazione, oltre
Autore
Luogo
Fonte
L. Iunius Bubulcus
Quirinalis
Livio, IX, 43,25
?
Ap. Claudius Caecus
Campus Martius
Livio, X, 19, 17
295
?
Q. Fabius Rullianus
Quirinalis
Livio, X, 29, 14
295
?
Q. Fabius Gurges
Ad Circum
Livio, X, 31, 9
?
294
L. Postumius Megellus
Palatinus
Livio, X, 33, 9
294
?
M. Atilius Regulus
Palatium
Livio, X, 36, 11
?
293
L. Papirius Cursor
Quirinalis
Livio, X, 46,7
Fors Fortuna
293
?
Sp. Carvilius
Trans Tiberim
Livio, X, 46, 14
Aesculapius
293
292
In Insula
Livio, X, 47, 6-7
Feronia
290
272
276 ca.
?
272
?
Victoria Iuppiter Stator Quirinus
Summanus Consus
120
M. Curius Dentatus?
L. Papirius Cursor
In Campo Ad Circum
Ovidio, Fasti, VI, 731-732
In Aventino
Festo, 228 L.
all’occasione della dedica, il tipo della divinità e il luogo destinato all’edificio templare: elementi fondamentali per chiarire ruolo ideologico e funzione politica di esso. La scelta della divinità è spesso determinata dal rapporto con il concetto di vittoria, o di analoga categoria astratta, come Salus (la Salute, ma in primo luogo la Salvezza). Una conferma evidente se ne ricava dall’esame delle monete contemporanee, in primo luogo delle più antiche coniazioni di Roma, denominate «romano-campane», dove appare la rappresentazione di Vittoria (fig. 182). La data di questa moneta, a lungo discussa, sembra di poco posteriore alla fondazione del Tempio di Vittoria sul Palatino (294 a.C.): si tratta in ogni caso di un modello concettuale e iconografico di origine greca. Un analogo collegamento è stato da tempo proposto per i quadrigati, così denominati dalla rappresentazione nel rovescio di Giove su una quadriga, guidata dalla Vittoria. La data anche in questo caso è discussa, ma va ormai fissata con certezza al 269 a.C., quando ha inizio la prima coniazione ufficiale romana dell’argento, da identificare proprio con il quadrigato (si veda il capitolo La moneta). Si è proposto con grande verosimiglianza di riconoscervi la riproduzione della quadriga di bronzo, collocata sul fastigio del Tempio di Giove Capitolino dagli Ogulnii, edili curuli nel 296, e di identificarvi una parola d’ordine politica, collegata alla vittoria dei plebei, in seguito alla quale essi furono ammessi ai principali collegi sacerdotali. Tale connotazione plebea si riconosce anche in altre fondazioni templari contemporanee, come quella di Fors Fortuna, del 293 a.C., dovuta al plebeo, e «uomo nuovo», Spurio Carvilio Massimo. Non a caso Livio sottolinea la caratteristica posizione del tempio, al primo miglio della via Campana, accanto a quello omonimo, dovuto, secondo la tradizione, al re «plebeo» Servio Tullio. Anche i luoghi occupati dai templi sono significativi: in tre casi la scelta cade sul Quirinale: Salus, Quirinus e verosimilmente Iuppiter Victor. Per quest’ultimo, dedicato da Q. Fabio Rulliano, sembra da escludere la localizzazione tradizionale sul Palatino, frutto di una confusione con Iuppiter Invictus. Nel nostro caso, la scelta del Quirinale si spiega con la presenza sul colle del culto ancestrale dei Fabii. Notiamo qui un altro aspetto caratteristico di queste fondazioni: la volontà di collegarsi con la Roma delle origini. È questo il caso, oltre che del già evo-
cato Tempio di Fors Fortuna, di almeno altri cinque templi: di Victoria (294), che L. Postumio Megello costruisce sul Palatino, dove secondo una tradizione si trovava il sacello della stessa dea, attribuito ad Evandro; di Iuppiter Stator (294 a.C.), fondato da M. Attilio Regolo sul luogo del precedente culto omonimo, attribuito a Romolo; di Consus sull’Aventino (272 a.C.), dovuto a L. Papirio Cursore, collegato con l’antichissima ara, anch’essa fondata da Romolo nell’area del futuro Circo Massimo; di Quirinus (293 a.C.), eretto sul Quirinale dallo stesso L. Papirio Cursore sul luogo dell’antichissimo sacello del dio; di Salus (302 a.C.), sempre sul Quirinale, realizzazione di C. Giunio Bubulco nel sito del culto precedente della dea. Anche le eccezioni – praticamente una sola – sono significative: il Tempio di Bellona (296 a.C.), dedicato da Appio Claudio Cieco nella zona in seguito occupata dal Circo Flaminio, accanto al più antico Tempio di Apollo; in questo caso la scelta si spiega con la presenza, alle radici del vicino Campidoglio, del sepolcro familiare dei Claudii. Si deve notare che quest’ultimo si inserisce in una serie nutrita di templi votivi, localizzati lungo il percorso del corteo trionfale: questa posizione naturalmente non può essere casuale, ma riflette ancora una volta la «teologia della vittoria» che è alla radice di queste fondazioni. Dal punto di vista di un possibile movente politico nella scelta del luogo, sembra significativa l’associazione dei templi, praticamente contemporanei, di Quirinus e di Iuppiter Victor, ambedue localizzati sul Quirinale e certamente vicini tra loro. È difficile non cogliere il significato di questa prossimità, se solo consideriamo i rapporti personali e politici tra i personaggi che ne sono gli autori. L’inimicizia profonda tra Fabio Rulliano e Papirio Cursore era infatti proverbiale, e la scelta voluta di collocare i due edifici l’uno accanto all’altro illustra un’esplicita polemica personale e politica. Il Tempio di Quirino fornisce un’importante testimonianza dell’uso di esporre nell’edificio templare le armi prese al nemico. Livio ce ne informa a proposito della dedica, avvenuta dopo il trionfo di L. Papirio Cursore, nel 293 a.C. (X, 46, 2-8): Trionfò nel corso della sua magistratura con una cerimonia per quel tempo eccezionale. Sfilarono fanti e cavalieri carichi di decorazioni; si videro molte corone civiche, vallari e murali; si ammira-
121
106. Roma, S. Omobono: iscrizione di M. Fulvius Flaccus con la menzione della conquista di Volsinii.
rono le armi predate ai Sanniti, che venivano confrontate per importanza e bellezza con quelle del padre del console, che erano conosciute per aver decorato ovunque i luoghi pubblici; venivano condotti in processione nobili prigionieri, famosi per le imprese loro e dei padri. Si esposero 2.533.000 monete pesanti di bronzo, che si dicevano ricavate dalla vendita dei prigionieri; il peso dell’argento, predato nelle città, era di milleottocentotrenta libbre [...] Dedicò il tempio di Quirino, che da nessuno scrittore antico risulta votato nel corso di una battaglia, né in un tempo così breve poteva essere completato: quindi era stato votato dal padre e venne dedicato dal figlio e ornato con le spoglie dei nemici; la quantità di queste era tale, da permettere non solo di ornare il tempio e il Foro, ma anche i templi e i luoghi pubblici delle città alleate e delle colonie vicine, tra le quali vennero divise.
L’accenno al trionfo del padre del console sui Sanniti, avvenuto nel 310 a.C. (Livio, IX, 15-16), fa pensare che le ricche spoglie attribuite a quest’ultimo, e descritte molto più in dettaglio, fossero in realtà quelle del figlio: Il dittatore trionfò con l’autorizzazione del Senato, e a quel trionfo conferirono uno straordinario prestigio le armi catturate. La loro bellezza era tale, che gli scudi dorati furono distribuiti ai proprietari delle botteghe dei cambiavalute per ornare il Foro. È tradizione che questo sia stato l’inizio dell’uso di ornare il Foro quando i carri con le immagini divine venivano fatti sfilare dagli edili.
La descrizione di tali armi sannitiche è introdotta da Livio prima dell’inizio della battaglia (IX, 40, 2-3): Vi erano due eserciti: gli scudi del primo erano dorati, quelli del secondo argentati [...] gli elmi avevano alti cimieri, che conferivano l’impressione di un’altezza maggiore ai combattenti. Le tuniche dei soldati con armi dorate erano policrome, quelle degli altri con armi argentate, bianche.
122
Si è talvolta pensato che la descrizione di Livio sia tratta da documenti molto più tardi, e si riferisca ai gladiatori sanniti. Basterebbe però prender visione delle pitture provenienti dalle tombe campane e lucane, che riproducono guerrieri dalle ricche armi policrome, per ricredersi (fig. 107). L’esempio di un’altra preda particolarmente ricca, tramandata da un testo antico, ma che può essere confermata su base archeologica, è quello successivo alla distruzione di Volsinii Veteres (Orvieto) nel 264: ce ne informa Plinio (Storia Naturale, XXXIV, 34), che menziona duemila statue portate via dai Romani: questo enorme numero si spiega solo se gran parte di esse furono asportate dal santuario federale del Fanum Voltumnae, prossimo alla città. Ora, lo scavo del santuario di Fortuna e di Mater Matuta («area sacra di S. Omobono») ha dimostrato che i due templi furono ricostruiti proprio da M. Fulvio Flacco, il console che aveva conquistato Volsinii, come dimostra un’iscrizione di età mediorepubblicana trovata nell’area: M. Folvios Q. f. cosol dedet Volsinio capto («il console M. Fulvius ha offerto [questo dono] dopo la conquista di Volsinii») (fig. 106). L’iscrizione era ripetuta due volte, su donari diversi, che conservano superiormente le tracce evidenti di fori di fissaggio, destinati a sostenere statue bronzee di tre piedi (tripedaneae). Su un altro basamento circolare, con una ricca decorazione a ovoli, si notano tracce del tutto simili: è inevitabile collegare questi documenti alle duemila statue menzionate da Plinio, alcune delle quali furono collocate davanti ai due templi, ricostruiti per l’occasione. In ogni caso, si tratta di una delle più notevoli conferme archeologiche di un testo letterario antico. Dei numerosi edifici templari del periodo mediorepubblicano quasi nulla è conservato nella forma originaria: la maggior parte di essi è scomparsa, e
A fronte: 107. Affresco di una tomba di Paestum, guerrieri lucani.
123
PIANO E ARA PIANO D
PAVIMENTO IN TRAVERTINO
D
x
PIANO C PIANO B
0 1
2
3
4
A
1
2
3
4
5m
5m
108-109. Roma, Largo Argentina: Tempio C (di Feronia); sezione longitudinale del Tempio C.
124
B
A
PIANO A
0
y C
110-111 Tempio A (di Giuturna); sezione longitudinale del Tempio A.
125
0
5
10
15
20
25
30 m
Tempio D Tempio C
Tempio B
Ara
Ara
Ara?
Ara
Tempio A
Hecatostylum
Sala decorata
Ara Limite del piano di travertino Ara
Piano di tufo Piattaforma
Piattaforma Limite del piano di travertino
112. Roma, Largo Argentina: pianta del complesso.
anche quelli conservati ci sono pervenuti nella forma assunta dopo integrali rifacimenti e restauri di età tardo-repubblicana e imperiale. Gli unici conservati in modo sufficiente sono i due templi più antichi del Largo Argentina (Porticus Minucia vetus) (figg. 108-112), contraddistinti dalle lettere C e A (figg. 109-111): il primo è identificabile quasi certamente con il Tempio di Feronia, divinità introdotta dalla Sabina probabilmente dopo la conquista di questa regione nel 290 a.C. Di conseguenza, l’autore di questa iniziativa è da identificare con Manio Curio Dentato, conquistatore della Sabina, che dovette portarla a termine nel corso della sua censura del 272. Il Tempio C (figg. 108-109) sorgeva in origine sul piano di campagna, in una zona del Campo Marzio probabilmente posta al margine della Villa Publica. Si tratta di un edificio di dimensioni non grandi (30,50 × 17,10 m, pari a circa 105 × 60 piedi), impostato su un altissimo podio in tufo (4,25 m), concluso in alto da una semplice modanatura a gola rovescia, cui si accedeva tramite una scalinata di circa venti gradini. I colonnati laterali, come si può dedurre dalle tre basi superstiti, comprendevano cinque colonne, separate da ampi intercolumni
126
di 3,16 metri. Il colonnato frontale doveva essere tetrastilo, con quattro colonne molto distanti tra loro (3,75 m). Si trattava dunque di un peripteros sine postico (secondo la definizione di Vitruvio, cioè senza colonnato posteriore) areostilo (con intercolumni molto dilatati), dotato di un pronao molto profondo (7,20 m). Il tipo arcaico del tempio tuscanico è qui sostituito da una struttura che dipende direttamente da modelli ellenistici: si tratta di una scelta piuttosto precoce, di cui conosciamo a Roma solo applicazioni più tarde (ma questo può dipendere dall’esiguità della documentazione superstite). L’altro tempio medio-repubblicano di Largo Argentina (Tempio A) (figg. 110-111) va certamente attribuito a Iuturna. Esso fu dedicato dal vincitore delle Egadi (l’ultima battaglia navale della prima guerra punica, combattuta nel 241 a.C.), C. Lutazio Catulo. Si tratta, nella sua fase originaria, di un
A fronte: 113. Statue di terracotta da un tempio di Tivoli (Roma, Musei Vaticani). 114. Teste di terracotta, dal frontone del Tempio della Vittoria sul Palatino (Roma, Antiquarium del Palatino).
127
0 1 2 3 4 5m
115-116. Tempio di Villa S. Silvestro (Cascia): ricostruzione; pianta ricostruttiva. A fronte: 117. Dettaglio del podio.
piccolo edificio di tufo (16 × 9,50 m, pari circa a 55 × 32 piedi), preceduto da un’ampia scalinata di 18 gradini. Il podio, di cui resta solo la parte inferiore, era analogo a quello del Tempio C. Il tempietto doveva essere prostilo tetrastilo, con intercolumnio centrale più ampio. La decorazione plastica di questi edifici prolunga senza grandi variazioni quella canonica per l’architettura sacra del periodo precedente, a partire dal tardo arcaismo. Spiccano comunque alcune realizzazioni eccezionali, come i frammenti di due statue frontonali (non sappiamo se pertinenti a frontoni chiusi, alla greca, o a mutuli di rivestimento delle travi, come nella precedente tradizione italica) scoperte sul Palatino (fig. 114), appartenute al Tempio della Vittoria, dedicato nel 294 da L. Postumio Megello. Le due teste, realizzate a stecca, sono vicine alle terrecotte templari tardo-classiche di Falerii (Tempio dello Scasato), anteriori alla distruzione della città (241 a.C.), e conservano ancora l’intensa policromia originaria. Si tratta di una testa barbata, forse di Giove, e di una giovanile (Liber-Bacco?), che dovevano far parte di una scena mitica. Il confronto
128
con l’eccezionale gruppo di statue templari provenienti da Tivoli (ai Musei Vaticani) (fig. 113), certamente pertinenti a un frontone, rende probabile una simile collocazione anche nel caso dei frammenti dal Palatino: si tratterebbe del più antico esempio a Roma di frontone chiuso decorato, ispirato senza mediazioni all’architettura templare greca: una consuetudine che si diffonderà nella città solo un secolo più tardi. A queste sculture si possono accostare, per qualità e cronologia, una testa giovanile (Apollo?) da Antemnae (sulla via Salaria, alle porte di Roma) (fig. 61), di una plastica più mossa e libera, specialmente nella resa dei capelli, che fa pensare al ritratto di Alessandro. Potrebbe trattarsi anche in questo caso di parte di una scultura frontonale. Forse la stessa funzione (piuttosto che quella funeraria, che sarebbe del tutto isolata in questo periodo) si può attribuire alla straordinaria «Testa Fortnum», proveniente dall’Esquilino (conservata a Oxford), caratterizzata da un intenso patetismo, che rimanda all’opera di Skopas (ad esempio, il Meleagro): si tratta di uno dei rari casi in cui si può riconoscere una precisa derivazione da uno scultore del mondo classico per
un’opera realizzata a Roma, forse da attribuire all’attività di artisti provenienti da Taranto. Altre informazioni sull’architettura templare medio-repubblicana si possono ottenere solo dall’esame di edifici costruiti nelle colonie latine, certamente sul modello di quelli urbani. Particolarmente significativi sono quelli di Sora, Alba Fucens e Isernia (le prime due fondate nel 303, la terza nel 268 a.C.), ai quali si deve ora aggiungere quello di Villa S. Silvestro (Cascia). Il più grande di questi edifici è quello di Sora, scoperto nel 1974 sotto la cattedrale, al cui interno se ne conservano quasi interamente le strutture in alzato. Il podio, in opera quadrata di calcare, misura 24 metri per almeno 37 e presenta una grande modanatura a doppio cuscino contrapposto, con gola intermedia, visibile su tutto il lato occidentale. Doveva trattarsi di un edificio tuscanico, con cella e ali laterali, orientato a sud, in direzione del foro. A Isernia si conservano i resti di un tempio del tutto simile, di poco più piccolo (circa 32 × 21 m), anch’esso aperto a sud sul foro della colonia. Il podio, visibile per 13 metri, presenta anch’esso un’identica modanatura a doppio cuscino contrapposto.
Un aspetto analogo doveva presentare in origine anche un tempio di Alba Fucens, trasformato nella chiesa di S. Pietro: la modanatura del podio, ora asportata, aveva probabilmente in origine la stessa forma. Il meglio conservato di questi templi, anch’esso trasformato in chiesa, si trova nel villaggio di Villa S. Silvestro, presso Cascia (figg. 115-118) (in un’area che faceva parte in origine della prefettura sabina di Norcia). L’esplorazione ancora in corso ha accertato che esso sorgeva all’interno di una piazza, identificabile con il foro di una colonia romana viritana, cioè non urbana (conciliabulum), certamente fondata da Manio Curio Dentato nei decenni successivi alla conquista della Sabina. L’edificio (databile quindi subito dopo il 290 a.C.), già esplorato più volte in passato, e attualmente in corso di scavo, conserva l’intero podio, che misura 29 × 20,70 m ed è orientato a sud-est (figg. 117-118). Anche in questo caso, si nota la caratteristica modanatura a doppio cuscino con gola intermedia, che si ritrova anche negli edifici già menzionati. L’alzato, quasi interamente scomparso, presentava probabilmente l’aspetto di un tempio tuscanico ad ali, con doppio colonnato frontale tetrastilo.
129
La sistematica utilizzazione, in quattro fondazioni coloniarie romane, di uno stesso tipo edilizio, che conserva le forme dei templi arcaici tradizionali non solo nella pianta, ma anche nelle modanature del podio (che riprendono quelle degli altari di VI secolo a.C.) non è certamente casuale. Si tratta chiaramente del recupero di un tipo arcaico, del tutto diverso da quello utilizzato nell’architettura urbana contemporanea (almeno a giudicare dagli esempi conservati, come il Tempio C di Largo Argentina, per il quale si utilizzò il tipo più «moderno» del peripteros sine postico). Il fatto è tanto più notevole, in quanto quest’ultimo edificio si deve probabilmente allo stesso perso-
naggio, Curio Dentato, che sembra direttamente coinvolto nella deduzione viritana di Villa S. Silvestro. La scelta è dunque voluta, ed è volta ad enfatizzare le più antiche tradizioni della città, al momento in cui queste venivano presentate come modello culturale per le nuove aree di conquista. Ciò corrisponde perfettamente con quanto sappiamo della personalità di Curio, assertore in pubblico, ed egli stesso osservante nella pratica personale, dell’antico e sobrio costume «sabino». Così si spiega che un simile, arcaico prototipo sia stato sistematicamente applicato in quelle vere e proprie emanazioni della città imperiale che furono le colonie latine.
118. Tempio di Villa S. Silvestro (Cascia), foto dell’insieme.
130
5. I DEPOSITI VOTIVI
Il sistematico e capillare sciamare dei coloni romani a seguito degli eserciti che avevano conquistato l’Italia ebbe in primo luogo, ovviamente, scopi militari (le colonie, specialmente quelle latine, erano vere e proprie fortezze di frontiera) e sociali, miranti all’allontanamento degli individui appartenenti agli strati subalterni, in rapida espansione demografica, certamente rischiosa per gli equilibri interni della Repubblica. Un risultato a lungo termine decisivo, anche se non previsto, di tale emigrazione di massa fu la progressiva romanizzazione dell’Italia. Sappiamo come, nel caso dell’edilizia sacra, si assista alla definizione di tipi standardizzati, proiezione aggressiva del potere centrale, intesi a imporre i modelli urbani alle popolazioni soggette. Disponiamo tuttavia di pochi esempi conservati, in base ai quali il fenomeno può essere solo intravisto. Ben altra messe documentaria ci ha conservato la diffusione capillare di un tipo di materiali, strettamente legati alle pratiche cultuali minute e quotidiane, e per questo universalmente presenti nelle aree soggette alla conquista e alla colonizzazione romana. Si tratta delle cosiddette «stipi votive», cioè dei depositi, spesso immensi, di ex voto, per lo più costituiti da modesti oggetti di terracotta, che si diffondono, a partire da Roma e dal Lazio, in tutte le aree della penisola nel corso del IV e del III secolo a.C. Nella stessa Roma si conoscono alcuni grandi depositi del genere, in particolare quelli provenienti dal Tevere e dal Santuario Esquilino, forse di Minerva Medica (fig. 120). Accanto a questi, esistono esempi di ex voto in terracotta di qualità e dimensioni talvolta eccezionali, espressione di una committenza «alta», che però
non si differenzia in modo radicale dalla produzione più modesta e più diffusa, dal momento che utilizza anch’essa gli stessi materiali «poveri» (la terracotta) e partecipa della stessa cultura genericamente ellenizzante. Ciò permette di apprezzare l’esistenza di un continuum sociale e culturale, caratteristico di questo momento storico. Tra questi prodotti qualitativamente superiori si distinguono le statue provenienti da un santuario di Ariccia (figg. 119, 121), certamente di Cerere-Demetra, in cui le statue votive della divinità si ricollegano direttamente alla produzione contemporanea (IV secolo a.C.) della Sicilia greca, da dove probabilmente provengono gli artisti che le realizzarono. Tipico, in questo senso, il grande busto femminile, la cui resa incisiva può far pensare a prototipi metallici. La forma del busto, tagliato all’altezza delle spalle, si ritrova soprattutto negli ex voto sicelioti che rappresentano Kore-Proserpina, rappresentata al momento in cui emerge dal mondo sotterraneo. Un motivo identico riappare in alcuni busti femminili di calcare della necropoli di Preneste (fig. 196), databili tra la fine del IV e il III secolo a.C., che derivano evidentemente dallo stesso modello, e identificano nell’assimilazione alla dea la speranza di rinascita a nuova vita della defunta. Il complesso più rilevante di terrecotte votive del Lazio è quello scoperto a Lavinio, una delle due «capitali» religiose del Lazio (accanto ad Alba Longa), dove erano ambientate la leggenda di Enea e la nascita del popolo latino. Tre luoghi di culto principali e uno secondario sono ricordati dalla tradizione antica, tutti collocati fuori delle mura della città (fig.
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119. Due statue votive di terracotta, dalla stipe di Ariccia.
122), mentre il Tempio dei Penati, fondato da Enea, doveva trovarsi sull’arx. Il geografo Strabone scrive (V, 3, 5): «A metà strada tra Ostia e Anzio si trova Lavinio, che possiede un Santuario di Afrodite, comune ai Latini»; e altrove, a proposito di Eraclea di Lucania, considerata anch’essa fondazione troiana (VI, 1, 14): Come prova dell’origine troiana della colonia indicano la statua lignea di Athena Iliaca che vi si trova […] È del tutto insensato pretendere che provengano da Troia questi simulacri, come fanno gli scrittori: e infatti anche a Roma, a Lavinio, a Lucera e nella Siritide Athena viene chiamata Iliàs, come se provenisse da Troia.
Il poeta ellenistico Licofrone (Alessandra, 12531262), nella narrazione dello sbarco di Enea a Lavinio, la cita come Athena Mindia. In Dionigi di Ali-
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carnasso (I, 64, 5), a proposito della morte di Enea in battaglia, si legge: «I Latini gli eressero un heroon dotato di questa iscrizione: “Al padre dio infero (Indiges), che regola le acque del fiume Numico”: si tratta di un tumulo non grande, con intorno alberi piantati regolarmente, degno di essere visto». Plinio (Storia Naturale, III, 56) ricorda il Santuario (lucus) di Sol Indiges. Gli scavi realizzati nel sito di Pratica di Mare a partire dagli anni Cinquanta hanno permesso di identificare in questa località il sito di Lavinio: questo si trovava a 24 stadi dal mare, che corrispondo-
A fronte: 120. Testa votiva di terracotta, dalla stipe detta di Minerva Medica (Roma, Musei Capitolini). Alle pagine seguenti: 121. Dettagli di statue votive di terracotta, dalla stipe di Ariccia.
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quella, più abbondante, di IV e III secolo a.C., poche statuette arcaiche di bronzo. La grande maggioranza dei reperti è costituita da terrecotte: statuette, donne che allattano, bambini in fasce, gruppi familiari di tre-sette personaggi, mammelle, uteri, conigli, melograni, trottole, palle; ma soprattutto statue a due terzi o tre quarti del naturale (solo poche a grandezza naturale o anche superiore): nel complesso, circa 100 esemplari, dei quali 70 ricomposti. Finora, solo una parte molto ridotta di questo enorme materiale è stato pubblicato. Spiccano tra tutte tre statue di Minerva, una delle quali conservata solo per la parte inferiore e un’altra a metà circa del naturale (fig. 126): insieme ad altre immagini più tarde della dea, esse permettono di identificare con sicurezza il santuario con quello, noto dalle fonti, di Athena Iliàs. La statua più notevole della dea misura 1,96 metri con la base. Essa è databile negli ultimi decenni del V secolo e presenta un aspetto del tutto particolare rispetto all’iconografia corrente: tiene con la destra una spada invece dalla solita lancia, con la sinistra lo scudo ovale, inoltre è letteralmente ricoperta di serpenti, a partire da quello a tre teste che si avvolge intorno al corpo e a un braccio, a quelli che appaiono sullo strano corpetto a squame che riveste la parte superiore del corpo, a quelli infine fissati sull’orlo dello scudo. Insolita è anche la figura del tritone con duplice coda di pesce appoggiato al lato sinistro della figura. Anche lo stile è del tutto particolare: le
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A breve distanza da qui è stato esplorato un piccolo tumulo, certamente quello visto da Dionigi di Alicarnasso, che lo attribuisce ad Enea (fig. 124). L’iscrizione riportata dall’autore afferma che si trattava dell’heroon del Pater Indiges, cioè del fondatore mitico dei Latini, identificato con Latino. Solo successivamente a quest’ultimo si sovrappose l’eroe troiano. Il tumulo fu eretto nella seconda metà del IV secolo a.C. sopra una tomba risalente al VII, che sembra esser stata esplorata e consacrata tramite un sacrificio nel VI. Esso presentava un falso ingresso, costituito da una porta monumentale di pietra. Nel personaggio sepolto si riconobbe il mitico fondatore del popolo latino, Enea: il mito, nato forse già nel VI secolo, trovò la sua definitiva ufficializzazione, segnalata dalla costruzione del tumulo, nel IV, probabilmente con lo scioglimento della Lega Latina (338 a.C.), quando Roma ebbe bisogno di riaffermare la sua egemonia sul Lazio, rivendicando le origini troiane. Il «santuario orientale» ha restituito il complesso votivo più rilevante del Lazio: gli oggetti erano stati deposti in una fossa, scavata verso la fine del III secolo a.C, quando Lavinio venne quasi interamente abbandonata. Non si conosce ancora l’edificio di culto, anche se la scoperta, insieme agli oggetti votivi, di terrecotte architettoniche di V secolo a.C. ne rendono certa l’esistenza. Del ritrovamento fanno parte, oltre alla ceramica arcaica greca ed etrusca (in quantità limitata) e a
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no ai 4 chilometri attuali. La città occupa un’area di circa 30 ettari, circondata da mura, intorno alla quale sono state messi in luce i resti di tre santuari principali: quello detto della Madonnella (da una piccola chiesa paleocristiana), a poco più di 300 metri a sud delle mura; il «santuario orientale», a 100 metri a est delle mura; il santuario alle foci del Numico. Il primo di questi, quello della Madonnella, è il più monumentale e il più estesamente esplorato (figg. 123, 125): sembra che non fosse dotato di un tempio, ma solo di un edificio rettangolare con due ingressi e un portico su due lati, realizzato intorno alla metà del VI secolo e abbandonato intorno al 450 a.C. Il complesso di culto era costituito da tredici altari in tufo (fig. 123), che però non sono contemporanei, ma vennero eretti successivamente tra la metà del VI e la fine del IV secolo a.C., raggiungendo in quest’ultimo periodo il numero di dodici, a seguito dell’abbandono e dell’interramento del tredicesimo, il più antico. I culti qui praticati con certezza, in quanto testimoniati da iscrizioni su lamine di bronzo, originariamente affisse a due altari, sono quello dei Dioscuri (VI secolo a.C.) e quello di Cerere (IV secolo a.C.). Una notevole quantità di materiali votivi di VI secolo a.C. proviene da questa zona: oltre a ceramica arcaica di importazione greca e a buccheri etruschi, due statuette femminili in bronzo provenienti dalla Magna Grecia e diciotto bronzetti maschili, tipici della cultura laziale (analoghi a quelli scoperti a Roma, nel Comizio). Al periodo più rappresentato, il IV-III secolo, appartiene una serie cospicua di ex voto di terracotta: circa 40 statue molto frammentarie, 210 statuette, 40 animali e un grande numero di votivi anatomici: l’insieme dimostra che si tratta di un santuario connotato in senso «salutare». Si è proposto di riconoscervi quello di Venere.
122. Lavinio: pianta della città con i santuari; 123. Lavinio: Disegno prospettico delle are del Santuario della Madonnella; 124. Lavinio: Disegno ricostruttivo della «Tomba di Enea».
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125. Lavinio, foto di un’ara del Santuario della Madonnella (Lavinio, Museo).
Alle pagine seguenti: 126-128. Lavinio, Santuario di Minerva: statue di Minerva e testa votiva di terracotta. 129-130. Lavinio, Santuario di Minerva: statue di offerenti in terracotta.
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inevitabili citazioni greche, ridotte a pochi elementi rigidi e schematici – il chitone a fitte pieghe verticali, la testa dipendente da moduli «severi» – mediati comunque dalla statuaria etrusca, si risolvono in una forma complessiva di rozza e quasi barbarica efficacia: gli occhi, grandissimi e sbarrati e le grosse labbra piegate in basso mirano ad esprimere violenza e terrore, caratteristiche certamente accentuate dall’originaria policromia. L’insieme risulta del tutto divergente dai prodotti contemporanei della plastica greca. Si tratta certamente di una riproduzione della statua di culto che, se dobbiamo credere a Strabone, poteva essere uno xoanon ligneo, analogo a quelli di Athena Iliàs da lui menzionati. In un’altra delle statue, di cui si conserva solo la parte inferiore, il tritone è sostituito da un’oca: attributo comune per divinità come Giunone o Venere, ma del tutto inedito per Minerva. Emerge da dettagli come questo la connotazione del tutto eterodossa di questa particolare divinità. Una terza statua, di dimensioni ridotte, è ancora più originale (fig. 126): la dea vi appare totalmente chiusa in una sorta di lungo camicione, aperto davanti, che la ricopre fino ai piedi, percorso da cordoni, che potrebbero essere la riproduzione schematica di serpenti. Solo l’elmo e la testa di Medusa sul petto ci riportano all’immagine tradizionale di Minerva. La tipologia degli altri ex voto permette di arricchire e precisare le caratteristiche del culto: la presenza di madri che allattano, di bambini in fasce, di gruppi familiari rinviano a funzioni legate alla riproduzione, mentre l’assenza di votivi anatomici e di animali, eccezionale nel panorama complessivo dei depositi votivi laziali, esclude le funzioni «guaritrici» (di sanatio). Tali connotazioni sono precisate dalla frequenza di immagini di giovani dei due sessi, rappresentati con abbigliamenti particolari (toga e bulla per i maschi, tunica recta e acconciature particolari per le femmine) (fig. 130) che rimandano ai riti di passaggio dall’infanzia alla maturità: ciò spiega l’insistenza sul matrimonio e sulla riproduzione, che costituisce il motivo dominante nel complesso degli ex voto. Un altro aspetto, che si riscontra soprattutto nelle immagini di IV-III secolo, è costituito dalla particola-
131. Lavinio, Santuario di Minerva: statua di offerente in terracotta.
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re ricchezza dei gioielli (fig. 131): diademi, orecchini e soprattutto serie di collane con pendenti, spesso decorati con scene mitiche e divinità, certamente tratte da calchi di oggetti in metalli preziosi: è stato osservato che tale caratteristica va collegata al senatoconsulto che, nel 396 a.C., permise alle donne di esibire gioielli d’oro: annullando così le severe disposizioni contro il lusso, introdotte alla metà del secolo precedente dalla Legge delle XII tavole. I due complessi di Ardea e di Lavinio costituiscono un’eccezione nel panorama dei depositi votivi, diffusi in tutta l’Italia centrale tra il IV e il III secolo a.C. Questi comprendono in genere, moltiplicati in migliaia di esemplari, modesti oggetti di terracotta – realizzati meccanicamente e in serie, con uso di matrici – destinati a ringraziare la divinità della «grazia» ottenuta (guarigione da una malattia, nascita di un figlio, buon risultato del raccolto ecc.) e presentano in genere un aspetto connesso (magicamente o simbolicamente) con l’occasione particolare: si trat-
133. Matrice di arula in terracotta con combattimento tra un grifone e un Arimaspo (Roma, Antiquarium Comunale).
132. Arula di terracotta con nereide su delfino, dall’Esquilino (Roma, Antiquarium Comunale).
134. Doppia arula in terracotta con due teste di Gorgone (Roma, Antiquarium del Museo delle Terme).
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ta di parti del corpo (teste, braccia, mani, piedi, falli, uteri ecc.), di bambini in fasce, di animali, ricchezza fondamentale in una società di contadini. Un tipo particolare è costituito dalle arule (figg. 132-133). Si tratta di piccoli oggetti a forma di parallelepipedo, ottenute a stampo da matrici, con rappresentazioni a rilievo limitate alla faccia anteriore, che riproducono degli altari in miniatura: sia quelli più antichi, con modanature a doppio cuscino contrapposto (detti «a clessidra»), sia quelli più recenti, a pareti rettilinee. La produzione di questi oggetti, che inizia già nel VI secolo a.C., si diffonde soprattutto nel periodo classico di massima diffusione degli ex voto, il IV e il III secolo a.C. È accertato, in seguito alla scoperta di matrici (fig. 133), che la produzione avveniva anche a Roma. Per stabilire la loro funzione, va ricordato che i luoghi di provenienza non sono solo i santuari, ma più spesso le necropoli (in particolare, quella dell’Esquilino a Roma). Si tratta comunque di oggetti collegati alla sfera religiosa, modelli miniaturizzati dell’elemento sacro per eccellenza, l’altare. La loro offerta in veri e propri luoghi di culto appare così del tutto comprensibile, mentre la deposizione in tombe può essere collegata con forme di libazione ai Mani del defunto, espressa attraverso un oggetto simbolico connotato come sacro. È interessante, a questo proposito, la scelta delle immagini che appaiono su questi oggetti: sirene, sfingi, grifi, delfini, tutti animali mitici collegati con la morte. Tale interpretazione è confermata dalle scene più complesse, dove appaiono geni alati con torce e menadi su pantere, nereidi su delfini e tori marini, lotte tra grifoni e Arimaspi (fig. 134): scene in relazione con l’aldilà,
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in particolare nelle forme del viaggio verso le Isole dei Beati. Lo stesso significato hanno esemplari più grandi, con scene mitiche come il corteo dionisiaco, interpretabile nello stesso senso, come «trionfo sulla morte». Nel complesso, l’estesissima casistica di questi oggetti illustra una tipologia di ex voto diffusa soprattutto nel Lazio, che non trova spesso corrispondenza in altre zone dell’Italia peninsulare. La loro presenza – che spesso si sovrappone, sostituendoli, a quella di oggetti votivi di altro tipo – segue puntualmente la diffusione dei coloni romani, costituendo un prezioso fossile-guida per la loro presenza. Tale enorme, e cronologicamente concentrata produzione di massa si spiega con lo sviluppo di una diffusa religiosità popolare, che a sua volta è il riflesso dell’esplosione demografica del IV secolo e del grande processo della colonizzazione romana che ne è una delle conseguenze. Sul piano formale, si tratta di prodotti modesti, ma che allo stesso tempo attestano la sedimentazione di una cultura media, la cui radice ultima è la stessa dei prodotti più raffinati dell’arte ufficiale: un’ellenizzazione diffusa, di matrice tardoclassica ed ellenistica, che impronta di sé l’intera società romano-italica nel periodo considerato. Prova evidente dello strettissimo collegamento tra queste manifestazioni onnipresenti della cultura popolare e la società romano-italica contemporanea, costituita essenzialmente da un ceto di piccoli proprietari contadini – nerbo della cittadinanza e dell’esercito – è la repentina scomparsa di questa produzione a partire dall’inizio del II secolo a.C., e cioè in perfetta coincidenza con la crisi di questa società che si manifesta dopo le guerre puniche.
6. L’ARCHITETTURA DOMESTICA
Il tipo dell’abitazione privata etrusco-italica (domus) si stabilizza nel corso del IV secolo a.C.: dalla casa arcaica, con i suoi tre ambienti paralleli, aperti su un cortile (rappresentata a Roma dalla Regia) si passa alla casa ad atrio (fig. 137), che si ritrova un po’ ovunque nell’Italia peninsulare, e che è riprodotta anche in tombe etrusche contemporanee (Tomba François a Vulci, Tomba dei Volumni a Perugia) (figg. 145-146, 135-136). La tipologia che troviamo nel trattato di architettura di Vitruvio, per quanto schematica e normalizzata, corrisponde a realtà architettoniche verificabili archeologicamente, e può essere intesa, almeno in parte, in successione cronologica. Il tipo più antico sembra quello con atrio «testudinato», coperto cioè da un tetto a due pendenze senza apertura che, nella sua forma canonica, sembra sparire dopo il IV secolo: è significativo, per questo, che un solo esempio ne sia stato scoperto nella colonia latina di Fregellae, nel Lazio meridionale, fondata nel 328 a.C. Un’idea perfetta di tale tipologia si può ricavare dalla Tomba dei Volumnii a Perugia, della fine del IV secolo (figg. 135-136). Il modello universalmente diffuso nel periodo medio repubblicano è la casa ad atrio displuviato, con apertura centrale del tetto (compluvium), cui corrisponde, nel pavimento, una vasca (impluvium) destinata a riempire la cisterna sottostante. Il tipo canonico, che può presentare limitate varianti, si stabilizza in un modello standard (fig. 137): il corridoio d’entrata (fauces) – che nelle case aristocratiche è preceduto da un piccolo ambiente esterno, destinato ai clientes (vestibulum) – dà accesso all’atrio,
l’ambiente più grande e importante, sul quale si affacciano alcune piccole camere (i cubicula, stanze da letto) e due stanze più grandi ai lati, prive di porte (alae); al centro della parete di fondo si apre un’ampia sala (tablinum), luogo delle memorie familiari, che ospita gli archivi della casa (tabulae) e i ritratti di cera degli antenati (imagines maiorum), conservati in armadietti collegati tra loro da linee dipinte (stemmata), che ricostruiscono l’albero genealogico della gens. Alle spalle dell’edificio si trova uno spazio aperto (hortus), sfruttato in origine per le necessità alimentari della famiglia. La casa repubblicana è connotata dunque come una struttura centripeta, rigorosamente chiusa all’esterno e ripiegata su se stessa, separata dalle abitazioni vicine da uno spazio ristretto (ambitus), menzionato già, alla metà del V secolo a.C., nella Legge delle XII tavole. Essa costituisce la proiezione perfetta della struttura sociale romana, centrata sulla famiglia agnatizia, nucleo autonomo soggetto all’autorità assoluta del pater familias. La religione arcaica degli antenati, che corrisponde al culto dei Lari, ne costituisce la base religiosa. Questo modello, sostanzialmente ancora arcaico, si conserverà fino alla fine della Repubblica, nonostante l’introduzione precoce di una ricca decorazione di origine ellenica, come i mosaici e gli intonaci dipinti di «primo stile», che appaiono già alla fine del IV secolo a.C. (come hanno dimostrato gli scavi di Fregellae). Tale apporto greco non modificherà nella sostanza la struttura essenziale della domus, che si conserverà a lungo, come riflesso diretto delle esigenze ideologiche della società romana: anche
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quando, dopo la guerra annibalica, verrà introdotto il tipo greco della casa a peristilio, questo non sostituirà l’atrio originario, ma verrà a giustapporsi ad esso, come una sorta di appendice ellenizzante, lasciando intatto il nucleo primitivo. Questo aspetto tradizionale, arcaico dell’ideologia gentilizia romana apparirà ancora intatto a un osservatore interessato, come il greco Polibio, durante il suo lungo soggiorno a Roma alla metà del II secolo a.C.: egli ce ne lascerà un quadro impressionante nella descrizione del funerale aristocratico romano (si veda più avanti). Plinio (Storia Naturale, XXXIV, 17), dopo aver ricordato l’uso sempre più esteso delle statue onorarie nei fori dei municipi, aggiunge: «Subito dopo le stesse case private si trasformarono in fori, e l’omaggio dei clienti ai patroni si tradusse nella dedica di statue negli atrii delle case». In realtà, l’aspetto pubblico delle case risaliva ad epoca notevolmente antica: così si spiegano le stesse immagini in cera degli antenati, collocate nel tablino e nelle ali dell’atrio, e l’uso di collocare nello stesso luogo gli archivi di famiglia e i trofei di vittoria, le armi catturate al nemico. Per un periodo più recente, ricordiamo il caso di Pompeo, che ornò l’atrio della sua casa sulle Carinae con i rostri delle navi catturate ai pirati: la domus rostrata assumeva così l’aspetto e il ruolo di un vero e proprio monumento pubblico, assimilabile ai Rostra.
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Gli aspetti decorativi della più antica casa romana, del tutto ignoti fino a poco tempo fa, hanno potuto essere indagati solo di recente, soprattutto in seguito all’esplorazione di colonie romane: importante soprattutto, da questo punto di vista, lo scavo di Fregellae, colonia latina fondata nel 328, distrutta e abbandonata nel 125, che per la prima volta ha permesso di identificare pavimenti e pitture parietali databili tra la fine del IV e il III secolo a.C. (per questo, si veda sopra). Anche nella stessa Roma non mancano, per quanto isolati, esempi del genere. Il più antico pavimento di cocciopesto si trova in uno dei templi di S. Omobono (probabilmente quello di Fortuna) e si data, su base storica e stratigrafica, al 264 a.C.: questo permette di rialzare notevolmente la cronologia di questi pavimenti, tradizionalmente attribuiti in genere al II-I secolo a.C. Conosciamo a Roma anche alcuni, rari esempi di pittura di «primo stile», strutturale o solo dipinto: ad esempio nel Comizio e nelle case repubblicane distrutte per la costruzione della Domus Aurea. In mancanza di dati stratigrafici, non è possibile precisare la data di queste decorazioni, che possono essere anche di III, o forse piuttosto di II secolo a.C. Ciò è sufficiente comunque a mettere in dubbio l’opinione tradizionale, che nega l’esistenza a Roma di manifestazioni del lusso privato ellenistico prima della Tarda Repubblica.
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135-136. Perugia, sepolcro dei Volumni: ricostruzione di U. Tarchi; sezione longitudinale e pianta.
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137. Pianta-tipo di una domus ad atrio. 1. vestibulum; 2. fauces; 3. stanze (o tabernae); 4. impluvium; 5. cubicula; 6. alae; 7. oecus (triclinium?); 8. tablinum; 9. ambulacrum; 10. oecus; 11. hortus; 12. atrium.
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7. LA PITTURA UFFICIALE
Cicerone, Tusculanae I, 2, 4: Pensiamo davvero che se Fabio, uomo della più antica aristocrazia, avesse trovato gloria nella pittura, non ci sarebbero stati fra noi molti Policleti e Parrasii?
Dionigi di Alicarnasso XVI, 3, 6: Le pitture parietali [del tempio della Salute] erano di assoluta precisione nelle linee di contorno, gradevoli per la mescolanza dei colori e caratterizzate da «lumi», ed apparivano del tutto diverse dalla pittura «di genere».
7.1. Fabio Pittore Il grande naufragio della pittura antica ha coinvolto anche le testimonianze della pittura romana, una migliore conoscenza della quale sarebbe indispensabile per ricostruire le radici di un fenomeno, come quello dell’arte ufficiale romana, che conosciamo bene dai grandi monumenti di età imperiale. Nonostante ciò, possiamo farci un’idea di essa attraverso le testimonianze letterarie e alcuni documenti epigrafici e archeologici, che permettono di ricostruirne almeno le linee di tendenza generali. Come abbiamo visto in precedenza, le più antiche menzioni di artisti presenti a Roma riguardano stranieri: Etruschi (Vulca) e Greci (Damophilos e Gorgasos). Almeno in quest’ultimo caso, si tratta di un dato reale, che Varrone ha ricavato da iscrizioni con le firme degli artisti, ancora leggibili alla sua epoca nel Tempio di Cerere, Libero e Libera. Veniamo così a conoscere un esempio dell’uso tipicamente greco di apporre la firma sulle opere d’arte: questa stessa pratica si riscontra più tardi, alla metà del IV secolo, in un caso eccezionale: la Cista Ficoroni, realizzata a Roma da un artista di probabile origine campana, dal nome di Novios Plautios. Un esempio analogo, di poco più tardo, è quello di Fabio Pittore, artista di nobili origini, attivo a Roma alla fine del IV secolo a.C. Si tratta di un caso del tutto isolato nella storia delle arti figurative di Roma repubblicana: eccezionalità che giustifica le relativamente numerose informazioni antiche a riguardo, ma al tempo stesso spiega le ragioni che hanno spinto la critica moderna a contestare la storicità di queste ul-
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time. Tuttavia, il fatto è accertato, come conferma lo stesso imbarazzo degli autori antichi che ce ne danno notizia, e che quindi ben difficilmente possono averlo inventato. Per questo, è opportuno in primo luogo riportare qui il testo di tali testimonianze. Plinio il Vecchio, Storia Naturale, XXXV, 19: Anche tra i Romani quest’arte [la pittura] fu apprezzata precocemente, dal momento che la celeberrima gens dei Fabii derivò da essa il cognomen di Pittori. Il primo che lo assunse è colui che dipinse personalmente il tempio della Salute, 450 anni dopo la fondazione di Roma [nel 304-303 a.C.]; questa pittura si conservò fino a noi, e scomparve in un incendio all’epoca di Claudio.
Valerio Massimo VIII, 14, 6: Questa gloria venne ricercata da uomini famosi, talvolta anche con pratiche di bassissimo livello. Infatti, perché mai Gaio Fabio, cittadino nobilissimo, dopo aver dipinto le pareti del tempio della Salute, dedicato da Gaio Giunio Bubulco, vi appose la sua firma? Sentiva forse la mancanza anche di questa gloria una famiglia famosissima per consolati, sacerdozi, trionfi? Comunque, resta il fatto che egli non solo si applicò a un’arte infamante, ma addirittura volle evitare che la sua opera, per quanto irrilevante, fosse dimenticata, seguendo senza dubbio l’esempio di Fidia, che inserì nello scudo dell’Athena Parthenos il suo ritratto, in modo che non potesse essere eliminato senza distruggere l’intera opera.
L’insieme di queste notizie permette di ricostruire l’aspetto e la natura di questi dipinti: si trattava di un ciclo di una certa ampiezza, che doveva coprire gran parte delle pareti del tempio, datato con precisione al 304-303 a.C., la cui attribuzione a C. Fabio Pittore era assicurata dalla firma, apposta direttamente sull’opera. Tutti gli autori che ne parlano furono in grado di vedere gli affreschi, che scomparvero solo alla metà del I secolo d.C.: si tratta dunque di testimonianze dirette e non di seconda mano, come è evidente almeno nel caso di Plinio e di Dionigi di Alicarnasso. Nessuno ricorda il soggetto rappresentato: è certo tuttavia, tenuto conto del fatto che il tempio era stato eretto in seguito a una vittoria sui Sanniti, che si trattava di un ciclo di carattere «storico», in cui dovevano essere rappresentate scene di battaglia e lo stesso trionfo di Bubulco. La presenza della firma rimanda a una pratica diffusa in Grecia, come sottolinea Valerio Massimo, l’unico a menzionare questo dettaglio, forse da lui osservato di persona. La cultura ellenizzante del ramo della gens Fabia cui apparteneva Fabio Pittore è confermato da quanto sappiamo per il suo omonimo discendente, che anche per questo fu scelto, nel corso della guerra annibalica, come rappresentante dello Stato romano nella missione inviata al Santuario di Apollo a Delfi. Si tratta dello stesso personaggio che darà inizio alla letteratura storica romana, scrivendo (in greco!) i primi annali. L’uso della firma in prima persona a partire dalla metà del IV secolo a.C. è confermato dalla cosiddetta Cista Ficoroni, che esamineremo più avanti: è dunque in questi anni che a Roma si va affermando una pratica, la cui introduzione è certamente mutuata dalla cultura greca. Di grande interesse, a questo
proposito, è la descrizione di Dionigi di Alicarnasso, basata, come si è detto, su una visione diretta dell’opera: l’autore utilizza una terminologia caratteristica del linguaggio critico ellenistico, che ci permette di intuire l’alto livello della pittura di Fabio, apprezzabile quindi anche da Greci. In particolare, si deduce che lo stile impiegato era ancora quello classico, con una scelta di colori e di soluzioni pittoriche non ancora penetrate dalla forma «impressionistica», tipica dell’ellenismo, che contemporaneamente cominciava a svilupparsi nell’arte greca. È caratteristico, a questo proposito, l’uso del termine tecnico rhopographia (letteralmente «minutaglia», «tritume»), che definisce forma e contenuto della pittura «di genere», affermatasi a partire dalla fine del IV secolo a.C. con Antiphilos, un artista contemporaneo di Fabio Pittore. L’accurata descrizione di Dionigi di Alicarnasso ci permette di spiegare il suo apprezzamento di Fabio, in chiara polemica con l’arte ellenistica: si trattava dunque di un’opera dipendente direttamente dall’arte greca del pieno IV secolo, quindi vicina al tipico gusto classicistico di Dionigi. Di tono diverso, e altrettanto interessanti sono le implicazioni di carattere sociale che emergono dalle critiche moralistiche delle fonti romane, tra l’altro assai omogenee anche sul piano cronologico, databili come sono in circa un secolo, tra la Tarda Repubblica e i primi decenni dell’Impero: da tutte emerge un giudizio pesantemente negativo dell’attività di Fabio. Il più radicale è Valerio Massimo, anche per le finalità moralizzanti della sua opera: l’esercizio della pittura è definito, senza mezzi termini, sordidum studium (attività infamante). Altrettanto evidente è lo stupore per una simile scelta da parte di un membro dell’aristocrazia senatoria. Il caso di Fabio Pittore è ripetutamente menzionato dagli autori antichi in quanto esempio negativo e inaccettabile: la sua stessa collocazione nel testo pliniano (una breve storia dei pittori romani) ne dimostra l’isolamento e l’eccezionalità: dopo Fabio e, a un livello sociale nettamente più basso, Pacuvio, la pittura non est spectata honestis manibus («non fu praticata da persone della buona società»). Si tratta, in definitiva, di una tradizione univoca e affidabile: nonostante ciò, non sono mancati tentativi di negarne l’attendibilità, identificando nel pittore un greco, cliente dei Fabii (Pfuhl), contraddicendo così a tutte le informazioni antiche, che riconoscono in lui addirittura il fondatore di un ramo della gens. Questi tentativi si spiegano con l’imbarazzo di tutta una tradizione di studi, che si rifiuta di rico-
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noscere alla società romana della Media Repubblica uno statuto culturale relativamente evoluto, in grado di apprezzare e di adottare quanto nella cultura greca contemporanea appariva compatibile con le sue esigenze. Un tale giudizio si basa principalmente su un’apparente coincidenza con la tradizione antica: ma in realtà, quest’ultima è solo un’elaborazione della Tarda Repubblica, che riflette l’ideologia dominante della classe dirigente romana al momento della sua crisi. Per di più, la razionalizzazione moderna finisce per obliterare anche quei pochi dati, non omogenei con il canone moralistico tardo-repubblicano, che la letteratura romana trovava nelle sue fonti più antiche, e che non aveva potuto evitare di trasmettere: la rimozione di tali informazioni corrisponde a una tendenza degli studi moderni, che spiega la storia romana in senso evoluzionistico, e per questo prende per buona la ricostruzione tutta ideologica che l’aristocrazia romana dava del proprio passato. Nel nostro caso, tale impostazione va rovesciata: dobbiamo cioè esaminare le ragioni che nel corso della Media Repubblica resero possibili scelte e atteggiamenti, ritenuti inaccettabili e addirittura incomprensibili nel clima culturale della Tarda Repubblica. Si tratta, in altri termini, di storicizzare le informazioni di cui disponiamo, inserendole nel loro contesto reale. Ci accorgiamo così che il giudizio più radicalmente negativo sulle «arti banausiche» (cioè quelle in cui la manualità sembra prevalere sulla progettazione intellettuale) si raggiunge a Roma nel periodo compreso tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero: momento che coincide, sul piano economico-sociale, con la massima espansione del modo di produzione schiavistico e di conseguenza, sul piano ideologico, con la massima svalutazione del lavoro manuale. Non si tratta affatto, come si è pensato, di un’espressione tipica della società romana, conflittuale con quella greca, e quindi avversa alle arti figurative. A parte l’improponibilità di posizioni del genere in un momento in cui le due culture tendono a unificarsi, resta il fatto innegabile che gli scrittori greci contemporanei non esprimono in sostanza concetti diversi dagli scrittori romani. La svalutazione radicale delle arti figurative, in quanto tecniche manuali, è quindi un fatto epocale e culturale, non etnico. Ora, il momento storico in cui, nel mondo greco, si raggiunge il livello massimo di apprezzamento delle arti figurative – e parallelamente la più alta considerazione sociale dell’artista – è il periodo
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classico, e cioè i secoli V e IV a.C. La figura di Fabio Pittore si inserisce perfettamente in tale contesto culturale, anche se come episodio marginale: cioè come esempio di mimetismo ellenizzante, in un momento in cui Roma stabilisce contatti intensi e diretti con il mondo ellenico. In effetti, come abbiamo visto, le notazioni di Dionigi di Alicarnasso permettono di inserire l’opera di Fabio entro la discussione critica sull’arte greca: vedremo in seguito che i prodotti della cultura figurativa romana contemporanea – dalla moneta, alla coroplastica, alla ceramica decorata – permettono di confermare e di ribadire tale giudizio. La stessa possibilità di un tale mimetismo culturale – che si riscontra anche nella redazione in greco dei più antichi annali ad opera di un discendente di Fabio Pittore – rinvia a una situazione sociale notevolmente diversa da quella dell’età tardo-repubblicana. La figura sconcertante di un aristocratico romano che pratica la pittura, addirittura firmando la sua opera, rinvia a una società in cui la presenza dello schiavo, e quindi la radicale svalutazione del lavoro manuale, era assai meno diffusa e determinante rispetto a periodi successivi: quindi, con paradosso solo apparente, a una società economicamente meno sviluppata, più arcaica, in cui l’attività culturale era meno specializzata, meno professionale, e quindi consentita ai ceti più alti della popolazione. Qualcosa di analogo si può riconoscere nell’ambito della letteratura, soprattutto per quanto riguarda la nascita del teatro professionistico a Roma. Intorno alla metà del III secolo si verifica il passaggio dalla performance «non letteraria», praticata dai giovani aristocratici, a una pratica «letteraria», riservata ormai ad autori e attori «professionisti», di rango sociale inferiore. Questo passaggio corrisponde alla dissoluzione finale della società romana arcaica e coincide con l’inizio del modo di produzione schiavistico. L’attività, evidentemente «non professionale», di Fabio Pittore si inserisce dunque all’interno di una dinamica sociale ben attestata e riconoscibile. Se ne può dedurre che l’introduzione di modelli greci nella cultura romana non si presenta sotto il segno univoco dello sviluppo. Essa risponde a logiche e funzioni diverse e talora opposte, determinate in modo prioritario dalla situazione interna, cioè dalla struttura della società romana, che accoglie, sceglie e rielabora gli impulsi provenienti dal mondo ellenico, sempre in funzione della propria natura e delle proprie esigenze.
7.2. La pittura trionfale La tradizione relativa a Fabio Pittore deve essere inserita nell’ambito di un settore fondamentale della pittura romana «celebrativa», che va sotto il nome di «pittura trionfale»: si tratta sostanzialmente dei quadri dipinti (tabulae triumphales) con rappresentazioni di carattere militare (combattimenti, assedi ecc.) che sfilavano nel corso del trionfo, e avevano lo scopo di illustrare al pubblico le imprese che giustificavano la concessione ai generali vittoriosi del diritto a celebrare la cerimonia. Di tali quadri, dipinti su tavole o su tele, nulla ovviamente ci è pervenuto: ci restano da una parte varie descrizioni, relative a cerimonie svoltesi in un lunghissimo periodo, fino alla tarda età imperiale; inoltre, la notizia di «repliche» più durature, affrescate sulle pareti di templi votivi, dedicati cioè a seguito di vittorie, e utilizzando il bottino di guerra (manubiae): è questo probabilmente il caso, come abbiamo visto, anche del Tempio di Salus, decorato da Fabio Pittore. Si tratta dei prototipi di quell’arte «storica» e celebrativa, le cui realizzazioni – soprattutto di età imperiale – sono pervenute fino a noi. A proposito del trionfo di Scipione Africano, Appiano (Punica, 66) si esprime in questi termini: Tutti avanzano coronati: precedono i suonatori di trombe e le portantine cariche delle prede: vengono trasportate torri, rappresentazioni delle città conquistate, quadri dipinti che raffigurano le imprese compiute. In seguito, oro e argento, sia in lingotti sia in monete e le altre cose di questo genere. Poi corone, concesse al comandante come premio del valore dalle città, dagli alleati o dallo stesso esercito; candidi buoi, elefanti e i comandanti cartaginesi e numidi prigionieri. Il generale vincitore è preceduto da littori che vestono tuniche rosse, dall’orchestra dei citaristi e dai satiri, alla maniera delle processioni etrusche, ornati di corone d’oro […] Segue il comandante, su un carro decorato di pitture, la testa coperta da una corona d’oro gemmata, vestito secondo il costume patrio di una toga purpurea, trapunta di stelle d’oro, con lo scettro d’avorio in mano, che per i Romani è sempre simbolo di vittoria […] Seguono i soldati, distinti in turme e coorti, tutti coronati, con rami d’alloro in mano, i più valorosi anche con le loro decorazioni militari.
L’illustrazione delle imprese vittoriose attraverso quadri dipinti si prolungherà senza sostanziali cam-
biamenti fino alla fine dell’Impero: ancora a proposito di Settimio Severo, Erodiano (III, 9, 12) ricorda che l’imperatore «scrisse al Senato e al popolo, magnificando i suoi successi e fece esporre quadri che riproducevano le battaglie e le vittorie». Tali quadri sono probabilmente all’origine dei grandi pannelli che, su più registri sovrapposti, raffigurano scene di assedio e di battaglia nell’arco trionfale che Severo fece innalzare nel Foro Romano nel 203 (fig. 138): riprendendo ancora una volta, a cinque secoli di distanza, il tipo di rappresentazione su più registri, che appare nelle pitture del sepolcro di Fabio sull’Esquilino. Silio Italico nel suo poema (La guerra punica, VI, 653 ss.) mette in scena un episodio fittizio, e cioè la visita di Annibale a Literno, in Campania: la scelta non è casuale, perché in questa località (colonia marittima fondata solo nel 194 a.C.) Scipione Africano farà costruire una villa, dove morì e venne sepolto. Il poeta immagina che qui, in un grande portico, fossero rappresentate per intero le vicende dell’interminabile prima guerra punica: Lì, mentre il comandante osserva il tempio e le case della paludosa Literno, scorge pitture dagli splendidi colori, testimonianza della guerra precedente, sostenuta dai padri – infatti si conservavano intatte nei portici – di cui si poteva ammirare lo sviluppo esteso per lungo tratto. All’inizio era rappresentato Attilio Regolo che, con volto severo, incitava alla guerra, guerra che avrebbe piuttosto rifiutato se avesse potuto prevederne l’esito. E colui che per primo l’aveva dichiarata ai Cartaginesi secondo il rito ancestrale, Appio, al suo fianco, coronato di alloro, conduceva un trionfo meritato per la strage dei Sarrani. Successivamente, onore del mare e trofeo navale, sorgeva la massa bianchissima di una colonna ornata di rostri e Duilio, che primo di tutti aveva affondato una flotta punica in alto mare, dedicava la preda a Marte. Accanto a lui, di ritorno dalla cena, onore notturno, appaiono torce accese e un tibicine sacro: così egli rientrava ai suoi casti penati, festeggiato da una musica allegra. [Annibale] vede anche gli estremi onori resi a un concittadino defunto: Scipione celebra il funerale di un comandante cartaginese, dopo averlo vinto nella terra sarda. Vede più avanti giovani guerrieri di schiere sbandate, in fuga sulle rive africane: li insegue, con la testa coperta da un fulgido elmo, e li incalza alle spalle Regolo; Autololi e Nomadi, Mauri e Garamanti, deposte le armi, gli consegnano le cit-
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tà. Il fiume Bagrada, solcando un terreno sabbioso, spuma veleno di vipere, e contro le schiere minacciose combatte un serpente e attacca il comandante romano. Gettato giù da una nave e invocando invano gli dei il guerriero spartano viene immerso nel mare da una mano traditrice: così Santippo paga nei flutti il fio della tua dignitosa morte, o Regolo. Il pittore aveva aggiunto le due isole Egadi che si alzano in mezzo al mare; tutt’intorno avresti visto i resti delle navi fracassate e i Cartaginesi galleggiare qua e là sui flutti. Signore del mare, Lutazio, con vento favorevole, spinge vincitore verso la riva le navi catturate. Tra tutte queste immagini, Amilcare, padre di Annibale, incatenato in mezzo a una lunga fila di prigionieri, attira su di sé, più di tutte le altre immagini, gli sguardi di tutti i presenti. Ma si poteva vedere anche il volto della Pace e gli altari dell’alleanza violati, e Giove tradito e i Latini che dettano le condizioni. Gli Africani tremano davanti alle scuri che stanno per colpire le loro nuche, e alzando le mani tutti insieme implorano pietà, promettendo inutilmente di rispettare i patti. E Venere, dall’alto del monte Erice, osserva lieta la scena.
Si tratta ovviamente di un’invenzione: la colonia di Literno sarà infatti fondata solo dopo la fine della seconda guerra punica, nel 194. Del resto, secondo il poeta, le pitture verranno poi distrutte da Annibale. La scelta di questa località si spiega con la presenza qui della villa e della Tomba di Scipione, meta di visite ancora nel I secolo d.C.: Seneca ad esempio ce ne ha lasciato una descrizione. Anche Silio Italico, che al momento della composizione dei Punica (alla fine del I secolo d.C.) viveva in Campania, e che praticava un vero e proprio culto per i grandi personaggi del passato (come Cicerone e Virgilio), certamente l’avrà visitata, e non avrà resistito alla tentazione di collocarvi un episodio della guerra, evidentemente inventato di sana pianta. Allo stesso tempo, è evidente che la descrizione delle pitture è costruita sulla base di monumenti reali, ancora esistenti a Roma. Il necrologio del poeta, scritto da Plinio il Giovane (Lettere, III, 7), lo ricorda come 138. Roma, Arco di Settimio Severo: disegno di un pannello scolpito (dall’incisione di G.P. Bellori, Veteres arcus Augustorum, Roma 1690).
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Philocalos [amante del bello, collezionista] al punto da meritare il rimprovero per la mania di comprare opere d’arte. Possedeva molte ville negli stessi luoghi, e quando si invaghiva delle nuove trascurava le vecchie. Ovunque molti libri, molte statue, molti ritratti, dei quali non solo era proprietario, ma
che venerava: soprattutto Virgilio, di cui celebrava il compleanno con maggiore devozione del suo, in particolare a Napoli, dove era solito visitare la tomba del poeta come se si trattasse di un tempio.
Nato sotto Tiberio, intorno al 26 d.C., Silio aveva ancora potuto ammirare, ad esempio, le pitture di Fabio Pittore nel Tempio di Salus, distrutte da un incendio solo sotto Claudio, quindi tra il 41 e il 54, e certamente anche altre opere del genere, ancora conservate in città. Alcuni dettagli non sono certamente inventati, ma rivelano la conoscenza diretta di monumenti reali: in particolare, la Colonna di Duilio, descritta come bianchissima, e quindi di marmo, come essa appariva effettivamente dopo il rifacimento augusteo. Anche il ricordo degli onori particolari tributati al vincitore di Milazzo dimostrano l’accuratezza «filologica» del poeta, che qui dipende da documenti attendibili: si tratta delle stesse notizie riportate da Cicerone e da Floro, e soprattutto dall’elogio che corredava la statua del console, esposta nel Foro di Augusto. L’edificio che ospitava le pitture, descritte realisticamente come una serie di scene disposte in una lunga serie, viene indicato come un portico, sede normale delle pinacoteche sia pubbliche sia private. Basti ricordare, a questo proposito, la galleria di pittura menzionata nel Satiricon di Petronio (88-90), dove il poetastro Eumolpo descrive in versi, non troppo diversi da quelli di Silio, le pitture che rappresentavano la Presa di Troia, ospitata in un portico che faceva parte di un tempio. Anche nel nostro caso si potrebbe pensare che l’ispirazione di Silio Italico dipenda da pitture esistenti in un tempio, costruito come ex voto per la vittoria romana nella prima guerra punica, ad esempio quello di Giano nel Foro Olitorio, dedicato da Duilio, o quello di Giuturna nel Campo Marzio (Tempio A di Largo Argentina), dedicato da C. Lutazio Catulo, vincitore della battaglia delle Egadi, che pose fine alla guerra, descritta alla fine del lungo excursus di Silio. Gli unici documenti che ci possono restituire un’idea reale di queste opere sono gli scarsi frammenti superstiti di pitture destinate a decorare monumenti funebri di grandi personaggi dell’aristocrazia romana, che avevano ottenuto gli onori trionfali: si tratta di due tombe dell’Esquilino e del sepolcro gentilizio degli Scipioni, che esamineremo più avanti. Sembra comunque opportuno, in primo luogo, citare e commentare in breve le testimonianze più antiche relative a questa classe di documenti.
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139. Heroon di Trysa (Turchia), scene di combattimento e di assedio (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Si ritiene comunemente che l’esempio più antico sia la cosiddetta tabula Valeria, un quadro che rappresentava la vittoria di Manio Valerio Massimo su Ierone e i Cartaginesi all’inizio della prima guerra punica, esposto nel corso del trionfo del 263 e poi collocato sul lato sinistro della Curia Hostilia, nel Comizio, dove rimase a lungo. Tale opinione è basata su un testo di Plinio (Storia Naturale, XXXV, 22): «La dignità della pittura si accrebbe a Roma, ritengo, a partire da Manio Valerio Massimo Messala, che per primo, nell’anno 490 di Roma, espose sul lato della Curia Hostilia un quadro con la battaglia in cui aveva vinto i Cartaginesi e Ierone in Sicilia». In realtà, qui non si afferma affatto che questo fosse il primo esempio di «pittura trionfale», ma solo il primo esposto in un monumento pubblico. Si tratta del resto di un’opinione di Plinio (ut existimo). Sembra certo che si trattasse in realtà di un uso notevolmente più antico, come dimostra il caso di Fabio Pittore e della sua opera nel Tempio di Salus, quasi certamente derivata da «pitture trionfali», che si data quarant’anni prima. Conosciamo anche altre
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pitture, di soggetto chiaramente «trionfale», più antiche della tabula Valeria: Si può citare la scena bellica con cavalieri di un tipo particolare (ferentarii) dipinta nel Tempio di Esculapio nell’Isola Tiberina (del 292 a.C.): Varrone ricorda in proposito che le figure erano illustrate da didascalie, analogamente al contemporaneo affresco della «Tomba di Fabio», che discuteremo più avanti (Varrone, La lingua latina, VII, 57). Inoltre, le rappresentazioni di T. Papirio Cursore e di M. Fulvio Flacco in abiti trionfali (quindi all’interno di una più ampia scena di trionfo) nei templi da loro costruiti di Consus (272 a.C.) e di Vertumnus (264 a.C.), ambedue alle pendici dell’Aventino (Festo, p. 228 L.). Per un’epoca un po’ più tarda, possiamo aggiungere la pittura con il banchetto degli schiavi volontari (volones) nel Tempio di Libertas sull’Aventino, realizzato da Ti. Sempronio Gracco nel 214 a.C. (Livio, XXIV, 16, 16-19). Si tratta, come si vede, di una serie abbastanza nutrita, che copre tutto il periodo compreso tra la fine del IV e la fine del III secolo a.C., anche se la do-
140. Heroon di Trysa (Turchia), scene di combattimento e di assedio (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
cumentazione è molto lacunosa, se consideriamo l’eterogeneità e il carattere fortuito dei testi che ce ne hanno tramandato il ricordo. Da tutto ciò si possono trarre alcune plausibili conclusioni. In primo luogo, l’uso delle tabulae triumphales è anteriore alla fine del IV secolo a.C., anche se non possiamo precisare di quanto. In secondo luogo, sembra che l’uso di dipingere le pareti interne dei templi con soggetti analoghi fosse comune. Anzi, alcune attestazioni letterarie permettono di far risalire questa pratica, largamente diffusa in Grecia e in Etruria, fino ad età arcaica: ma i soggetti in questo caso sono piuttosto di carattere mitologico. A partire dal IV secolo a.C. prevalgono invece i soggetti «storici» e celebrativi, collegati con le imprese dei viri triumphales, che dedicarono in questo periodo, come sappiamo, numerosi templi votivi. Sembra dunque che la diffusione di questa consuetudine si colleghi con l’inizio e il pieno corso dell’espansione romana in Italia: con una funzione perfettamente analoga a quella che avrà anche in seguito l’«arte storica» romana.
L’impiego degli stessi modelli anche nei sepolcri (in particolare in quelli di carattere pubblico) costituisce un prolungamento comprensibile del fenomeno: proprio come il funerale pubblico costituisce il prolungamento del trionfo, nel senso di un’eroizzazione del defunto. Questa prevalenza, nell’arte pubblica e celebrativa, di contenuti «storici» è importante per individuare il rapporto tra cultura greca e cultura romana. Sarebbe errato, come avveniva un tempo, attribuire alla seconda l’esclusività delle rappresentazioni storiche, che utilizzano schemi particolari, come la «rappresentazione continua», entro uno spazio cioè (e quindi un tempo) non suddiviso in «quadri» successivi. Sappiamo ormai con sicurezza che anche nella Grecia classica questi modi figurativi erano conosciuti e utilizzati. Ancora una volta, non si tratta di soluzioni formali rispondenti a particolari «strutture» etniche, ma di soluzioni determinate da specifiche situazioni socio-culturali: la diffusione della rappresentazione «storica» fuori dalla Grecia non è infatti esclusiva dell’Italia. Basterà a proposito ricordare l’esempio
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parallelo della Caria e della Licia in età classica, dove sono diffusi i grandi monumenti funerari edificati da notabili indigeni, realizzati da maestranze greche e decorati, oltre che con scene mitiche (Mausoleo di Alicarnasso), con scene di carattere storico (heroon di Gjolbaschi-Trysa) (figg. 139-140): dove è evidente che la veste greca è qui posta al servizio della committenza locale, con esiti del tutto assenti nella Grecia propria. Situazioni storiche analoghe, verificatesi con la fondazione dei regni ellenistici, determineranno più tardi soluzioni figurative analoghe: ciò può contribuire a spiegare il fatto che il grandioso sepolcro di un re di Caria, Mausolo, darà il nome (ieri come oggi) alla categoria dei sepolcri dinastici monumentali, da quello di Alessandro a quello di Augusto. 7.3. La pittura funeraria a carattere storico La tradizione su Fabio Pittore e l’importanza preponderante della pittura rispetto alle altre arti figurative, attestata dalla tradizione antica nel caso tanto della Grecia che di Roma, ci portano ad esaminare in primo luogo i pochi resti di dipinti «storici» che ci sono rimasti. Si tratta sostanzialmente di tre sole attestazioni: il frammento appartenente al «Sepolcro di Fabio», quelli del cosiddetto «Sepolcro Arieti» (ambedue provenienti dalla necropoli dell’Esquilino) e infine resti su più strati sulla facciata del sepolcro degli Scipioni (fig. 154). Si tratta di documenti ben noti, ma controversi, la cui piena comprensione richiede una preliminare contestualizzazione topografica, oltre che un corretto inquadramento cronologico, entrambi spesso carenti. I due sepolcri dell’Esquilino appartengono a un gruppo di sette tombe, scoperte a partire dal 1871 fuori della Porta Esquilina («Arco di Gallieno»), definiti da Rodolfo Lanciani «sepolcri singolari». Si tratta di piccoli edifici costruiti sopra terra in opera quadrata di tufo. Solo i due menzionati hanno conservato resti di pitture, ma è probabile che anche gli altri comportassero in origine un’analoga decorazione, in seguito scomparsa. La natura omogenea di questo complesso, del tutto isolato a Roma, appare evidente, e anche tale isolamento costituisce un dato interessante, che richiede una spiegazione. Dal «Sepolcro di Fabio» proviene un resto di pittura parietale (fig. 141) in cui sono rappresentate, su più registri (quattro riconoscibili) e in modo continuo, scene di chiaro carattere «storico»: combattimenti, assedi e cerimonie militari.
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Le scene, dall’alto in basso, si possono interpretare come segue: Primo registro: ne resta solo un frammento della parte inferiore sinistra. Si scorgono pochi resti di una o più figure umane, non altrimenti identificabili. Secondo registro: a sinistra si riconosce una città fortificata, resa come un blocco rettangolare di colore bruno, con una fascia verticale a sinistra di colore seppia. Due merli, conclusi in alto da una sorta di abaco, completano la rappresentazione, in cui si riconoscono le mura di un centro fortificato. Tra di essi compaiono due figure, rese sommariamente con tocchi di bianco (le vesti), rosso e rosso-bruno, in varie sfumature. Si tratta quindi, apparentemente, di individui in abiti civili, non militari: si è voluto così mostrare che non si tratta di una scena di battaglia. L’atteggiamento dei due personaggi sulla destra, di dimensioni molto maggiori, conferma questa interpretazione. Uno di essi è un guerriero armato, con una corazza anatomica, schinieri dorati, grande scudo con umbone rosso-bruno al braccio sinistro e un elmo a calotta emisferica conclusa da un bottone, con guanciere e un cimiero di lunghe penne rosso-brune. Il breve gonnellino è reso in bianco grigiastro, con pieghe indicate in rosso-bruno. Dalle spalle ricade all’indietro un grande mantello azzurrino, il cui colore è quasi svanito. Le carni sono rese, convenzionalmente, in un rosso scuro piuttosto caldo. Questo personaggio tende la mano aperta verso un altro, che avanza di fronte a lui: di questo restano solo il braccio destro che regge una lunga lancia, resa in nero, poggiata a terra, e parte della toga color bianco giallino, assai breve, che lascia scoperta gran parte della gamba destra. Al personaggio di sinistra si riferisce un nome indicato a lettere nere, tracciato in alto, nello spazio libero tra le due figure, di cui sopravvivono solo alcune lettere: ANIO.ST.F, da integrare […]anio St(ai) f(ilio), un nome di persona al nominativo di forma arcaica in -o. Terzo registro: a sinistra, una figura di combattente, vista di spalle, avanza verso sinistra (il suo avversario doveva essere rappresentato sulla parete adiacente, dopo l’angolo, senza soluzione di continuità). Egli veste una corazza anatomica dorata, aperta in basso, che lascia intravedere la parte inferiore della
A fronte: 141. Roma, Esquilino, «Sepolcro di Fabio»: frammento di affresco con scena storica (Collezioni Capitoline, Centrale Montemartini).
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schiena. Uno scudo dorato ovale protegge il braccio sinistro e un elmo a calotta con bottone terminale, privo di cimiero, la testa. La mano destra alzata impugna un’arma, probabilmente una spada. Il gonnellino è azzurro, le gambe sembrano prive di schinieri. La figura poggia su un rialzo del terreno nettamente superiore alla linea che segna il limite inferiore del registro. Il personaggio successivo, di dimensioni nettamente maggiori, occupa tutta l’altezza del registro e volge le spalle al precedente, con un accorgimento usuale nei fregi continui per indicare il cambiamento di scena. Indossa forse una corazza anatomica (completamente scomparsa), un gonnellino giallo e un mantello grigio-azzurro, che passa sulla spalla ricadendo davanti e dietro. La testa è scoperta, le gambe coperte da schinieri dorati. Tende la mano destra verso un altro personaggio reso nelle stesse dimensioni, vestito di una breve toga bianco-giallastra, sotto la quale appare la tunica. Questi avanza verso il primo reggendo nella mano destra, portata avanti, una lunga lancia: si tratta di uno schema praticamente identico a quello sovrastante. Seguono quattro figure, la prima delle quali è nettamente più piccola della seconda che, pur poggiando sullo stesso livello, la sovrasta di tutte le spalle. Della terza figura, posta più in alto, non si vede la parte inferiore: essa è probabilmente immaginata come posta sopra un rialzo: mentre le due precedenti sono di profilo, quest’ultima è di prospetto. Tutte e tre sembrano vestire una breve tunica. I personaggi principali sono anche in questo caso designati da iscrizioni: al primo a sinistra si riferisce la scritta posta tra i due, in alto si legge solo: M.FAN[…]. Molto più leggibile fortunatamente è il nome del secondo personaggio, in toga, che segue a destra: Q. FABIO (fig. 142). Quarto registro: sullo sfondo si intravedono, molto svanite, le mura di un centro fortificato, rappresentate in modo simile a quelle del primo registro: tra i due merli spunta a mezzo busto una figura con lo scudo che sta lanciando un giavellotto, e oltrepassa con la testa, coperta da un elmo a bottone, la linea di separazione con il registro superiore. A sinistra in basso, davanti alle mura, una figura analoga, vestita di una tunica bianca serrata alla vita, che si protegge con lo scudo, lancia un giavellotto o impugna una spada. Segue sulla destra, in alto, una figura più grande, con corazza anatomica, sulla quale ricade un grande mantello bianco, elmo dorato munito di guanciere dal quale si alzano due lunghe penne. Si protegge con un grande scudo ovale dorato e il braccio destro si spinge avanti a colpire un nemico,
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scomparso nella lacuna. Anche la sua testa oltrepassa in alto i limiti del registro. Le armi, in particolare gli elmi a bottone (fig. 142), appartengono a un tipo databile intorno al 300 a.C., mentre le toghe, che caratterizzano evidentemente dei Romani, sono del tipo «esiguo», portate sopra la tunica (ciò che conferma la stessa cronologia). La datazione è suggerita dalla morfologia e dalla paleografia delle iscrizioni, che non possono scendere oltre gli ultimi decenni del III secolo a.C. Una datazione alla prima metà del III secolo si ricava anche dallo stile: rispetto agli esempi di IV secolo, in cui la linea di contorno è ancora predominante, si nota qui la novità di una pittura «a macchia», molto vivace e usata con abilità: basti notare il modo con cui sono resi, con densi impasti cromatici, le teste del piccolo gruppo di tunicati del terzo registro. Appare già l’uso dei «lumi», particolarmente evidente nel gruppo di guerrieri del quarto registro. Se lo splen-
143. Esquilino, «Sepolcro Arieti»: frammento di affresco con littori (Collezioni Capitoline, Centrale Montemartini).
142. Iscrizioni e armi del «Sepolcro di Fabio».
dor di cui parla Plinio, che sarebbe l’ultima invenzione della pittura greca, è proprio l’uso dei «lumi» (ciò che mi sembra innegabile), siamo in presenza di un’innovazione introdotta in Grecia verso la metà del IV secolo a.C. Il livello di questa pittura appare piuttosto alto, e trova un parallelo evidente nei pocola deorum, e in particolare nel piatto di Capena con l’elefantessa, dove la pittura «a macchia» e l’uso dei «lumi» sono ormai conquiste pienamente assorbite, come nella contemporanea pittura vascolare apula. Il periodo storico in cui Roma partecipa pienamente della pittura della Magna Grecia viene a concludersi con la metà del III secolo a.C. A partire da questo momento assistiamo a un rapido scadimento dei valori formali di origine greca, riscontrabile un po’ ovunque, dalle monete alla ceramica, fino al tracollo definitivo di questo ambiente culturale che si determina nel corso della seconda guerra punica. Basti confrontare con il nostro frammento le grossolane pitture della Tomba Arieti (figg. 143-144), appartenenti a un sepolcro dello stesso livello sociale e collocato nella stessa zona, ma più tarde (probabilmente databili intorno al 240 a.C., come vedremo).
Il frammento di pittura dall’Esquilino, realizzato nei primi decenni del III secolo, celebra, secondo moduli tipici della pittura trionfale (narrazione continua, proporzioni gerarchiche), ma in uno stile di segno evidentemente ellenizzante, le imprese di un personaggio di nome Quinto Fabio. Tutto indica che si tratta del titolare della tomba, che dovrebbe quindi identificarsi con un membro rilevante della gens Fabia. Accanto a Q. Fabio si riconosce una figura di guerriero, certamente un romano, a giudicare dalle armi, designato come M. Fannius, al quale sembra che il primo porga una lancia: potrebbe trattarsi di una decorazione militare (hasta pura). Nei registri superiore e inferiore si distinguono le mura di una città (assediata?) e in quello inferiore dei combattimenti. Le scene dovrebbero rappresentare avvenimenti della seconda guerra sannitica. Oltre al livello qualitativo di questo incunabolo della pittura storica romana, interessano qui il contenuto narrativo e il modo di rappresentarlo. La disposizione su più registri rimanda alle tabulae triumphales, i grandi quadri che venivano trasportati nelle processioni trionfali, e che illustravano alla
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popolazione le imprese del personaggio celebrato. Questo tipo di composizione è all’origine dell’arte celebrativa romana e avrà in seguito, come è noto, una lunghissima storia. Ciò conferma il rango del personaggio sepolto, certamente un vir triumphalis, come è accertato anche nel caso della seconda tomba dipinta, il «Sepolcro Arieti»: l’ipotesi più attendibile, come vedremo, è che si tratti di Q. Fabio Rulliano, l’eroe della seconda guerra sannitica. Tale identificazione richiede però altri elementi di prova, che confortino la datazione ai primi decenni del III secolo a.C., data di morte di Rulliano. Questa emerge con chiarezza dalla paleografia e dalla morfologia dell’iscrizione: la forma delle lettere, ancora arcaica, e il nominativo della seconda declinazione in -o (Fabio per Fabius) escludono ogni datazione posteriore agli ultimi decenni del III secolo a.C., e suggeriscono piuttosto la prima metà del secolo; in secondo luogo, i dati antiquari, come la forma delle armi, in particolare dell’elmo, è caratteristica degli anni intorno al 300. In conclusione, si tratta della tomba di un personaggio rilevantissimo, che celebrò un trionfo per vittorie conseguite nel corso di una guerra sannitica, morto nei primi decenni del III secolo a.C., dal nome di Q. Fabius. Tutto ciò restringe in modo decisivo il campo delle possibilità, e conferma l’identificazione proposta. Anche nel caso del «Sepolcro Arieti», che si può ricostruire nella forma di un recinto, preceduto da un’esedra dipinta, vanno riesaminati l’apparato decorativo e la cronologia. Per quanto riguarda il primo, si deve considerare lo stretto rapporto narrativo tra le scene di combattimento e la scena rappresentata sulla parete di fondo, che va identificata con un trionfo (perduta, ma di cui si conserva una copia ad acquerello) (figg. 143-144). Vi si riconosce infatti una quadriga, preceduta da un gruppo di littori (forse sei). Di particolare interesse è il personaggio con le braccia alzate, collocato sulla testata sinistra dell’esedra: dovrebbe trattarsi non già di una figura meramente decorativa, un telamone, come è stato proposto, ma di un personaggio reale, parte essenziale dell’evento rappresentato. L’ipotesi proposta di recente che si tratti del supplizio di M. Attilio Regolo, avvenuto nel corso della prima guerra punica, e di conseguenza che il sepolcro sia da attribuire a un membro della stessa gens, A. Atilius Calatinus, non è sostenibile: in primo luogo, non risulta che Attilio Regolo sia stato crocefisso, e poi si tratta di una figura barbata, ciò che in
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questo periodo esclude l’identificazione con un romano. Ma soprattutto, è inconcepibile che un supplizio del genere, per il suo aspetto umiliante, possa essere rappresentato nel sepolcro di un trionfatore. Infine, sappiamo da Cicerone che la tomba di Atilio Calatino si trovava sulla via Appia (Tusc., I, 3). Si deve pensare, di conseguenza, che si tratti piuttosto di un nemico di rango eminente. La soluzione può venire da un dettaglio della scena di trionfo, dove appaiono solo sei littori: dovrebbe trattarsi quindi di un pretore, il che limita notevolmente la lista dei personaggi possibili. Tra questi, emerge il pretore Q. Valerio Faltone, il vero protagonista della vittoria navale delle Egadi, che pose fine alla prima guerra punica, nel 241 (il console C. Lutazio Catulo, ferito, non poté partecipare alla battaglia). Per questo Faltone meritò l’onore del trionfo, eccezionale per un pretore. Sappiamo che il comandante cartaginese sconfitto in quello scontro venne crocefisso appena ritornato in patria: si potrebbe trattare quindi del personaggio rappresentato nella tomba. Tutti gli indizi sembrano confermare l’identificazione proposta: in tal caso, la tomba sarebbe databile intorno al 239, data approssimativa della morte di Faltone. La qualità modestissima delle pitture, che contrasta con quella della Tomba di Q. Fabio, fa pensare al frammento, conservato da Festo (p. 260 L.), di una commedia di Nevio (la Tunicularia, scritta negli ultimi decenni del III secolo, e quindi contemporanea al nostro monumento), in cui si deride l’opera di un pittorucolo, di nome Teodoto, il quale «sedendo in una cella, circondato da stuoie, dipingeva con una coda di bue i Lari danzanti»: nonostante l’altisonante nome
greco dell’autore, l’opera è una tipica «pittura popolare», di quelle che ancora possiamo vedere dipinte sui muri esterni delle case di Delo e di Pompei: in queste appaiono spesso i due Lari contrapposti, in atteggiamento di danza, dipinti all’ingrosso, con sommarie pennellate, che possono in effetti sembrare realizzate con code di bue: precisamente l’impressione che danno le grossolane figure della Tomba Arieti. L’indubbio scadimento qualitativo di queste rappresentazioni si spiega non solo con la loro derivazione dalle tabulae triumphales, opere effimere, destinate a un uso immediato, per le quali, più che la qualità, era essenziale la leggibilità: non si capirebbe altrimenti il livello ben più elevato della «Tomba di Fabio», le cui pitture appartengono alla stessa categoria di documenti. In realtà, un declino analogo si può notare in tutti i prodotti dell’arte e dell’artigianato romano-italico, a partire dai decenni centrali del III secolo a.C. Il fenomeno si verifica nei più vari settori, e specialmente in quelli, assai meglio documentati rispetto alla pittura, della ceramica, della moneta e degli ex voto di terracotta. Esso è stato spiegato con la crisi che colpisce la Magna Grecia, e soprattutto il suo più importante centro culturale, Taranto, a partire dalla guerra di Pirro e dalla conquista romana della città (272 a.C.): verrebbe così a scomparire la principale fonte di ispirazione «ellenizzante», che sarà rimpiazzata da modelli provenienti dalla Grecia propria e dal mondo ellenistico solo dopo la fine della seconda guerra punica, contemporaneamente alla conquista romana di quest’area. Tale spiegazione tuttavia, anche se attendibile, appare insufficiente, poiché trascura la profondità dell’ellenizzazione dell’I-
talia tirrenica, di tradizione secolare, e ormai parte integrante delle culture locali, in particolare di quella romana. La dissoluzione progressiva di tale contesto ideale dipende, più che dalla carenza di modelli, dal declino della committenza tipica della società mediorepubblicana: quella delle classi intermedie, che di tale società costituivano il nerbo. Per chiarire la natura di questo complesso di piccoli sepolcri è necessario prendere in esame il contesto topografico di cui fanno parte. L’area immediatamente all’esterno della Porta Esquilina viene occupata, dalla metà dell’VIII secolo, dalla grande necropoli unitaria della città. Tale funzione si prolunga fino alla fine dell’età repubblicana, quando essa si esaurisce, contemporaneamente alla diffusione dell’uso di seppellire lungo le vie extraurbane, impostosi a partire dalla fine del II secolo a.C. L’abbandono definitivo della necropoli è dimostrato, oltre che dai dati archeologici, dall’utilizzazione dell’area da parte di Mecenate, che vi realizzò la sua villa suburbana. Ciò significa che il luogo, in origine di proprietà pubblica, era passato in mani private: in precedenza esso era utilizzato per seppellirvi i poveri, non in grado di acquistare un terreno. Tale uso, che costituisce un prolungamento «decaduto» della necropoli arcaica, riguarda certamente l’area poi occupata dagli horti di Mecenate, e cioè quella più meridionale, a sud delle vie Labicana e Prenestina. Del tutto diversa è la natura dell’area settentrionale, a nord delle stesse vie, il cui nome è campus Esquilinus. In questo campus si deve collocare il culto antichissimo di Libitina, la dea dei morti e dei funerali. La presenza di un santuario in questa zona è attestata
Sopra e a fronte: 144. Roma, Esquilino, «Sepolcro Arieti»: scene di combattimento e di trionfo (acquerello).
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dai ritrovamenti di terrecotte architettoniche arcaiche (tra le quali quella con combattimento tra un greco e un’amazzone, illustrata in precedenza) (fig. 58) e da un cippo iscritto, trovato in situ a circa 20 metri fuori della porta, che segnala l’esistenza di un culto. Non può sfuggire, a questo punto, la posizione particolare dei «sepolcri singolari», tutti disposti nell’area antistante al santuario, in chiara relazione con esso: si tratta dunque di tombe a carattere pubblico, un onore eccezionale riservato agli eroi della Repubblica, per i quali sappiamo (da Cicerone, Filippiche 9, 7, 17) che si utilizzava, oltre al Campo Marzio, anche il campus Esquilinus. Queste tombe erano dunque destinate a individui eccezionali, vincitori di battaglie importanti e trionfatori: ciò che costituisce una definitiva conferma dell’attribuzione proposta a personaggi come Q. Fabio Rulliano e Q. Valerio Faltone. 7.4. La Tomba François
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145. Vulci, Tomba François: sezione longitudinale e pianta.
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La documentazione disponibile sulla «pittura trionfale» a Roma è interamente di carattere letterario, anche se un riflesso diretto se ne può riconoscere in alcuni scarsi frustuli di pittura funeraria: questi, destinati a illustrare le imprese dei sepolti (sia che si
tratti di tombe gentilizie, come quella degli Scipioni, sia che si tratti di «sepolcri pubblici», come nel caso della «Tomba di Fabio»), dipendono direttamente dai quadri – per loro natura effimeri – trasportati nella pompa trionfale, dei quali ci forniscono, di conseguenza, un’idea precisa. Siamo così in grado di ricostruire in modo sicuro le caratteristiche di queste pitture, che illustravano in modo sostanzialmente realistico gli avvenimenti che avevano determinato la concessione del trionfo: in esse si deve identificare l’origine di quell’«arte storica» che costituisce la caratteristica essenziale di tutto un filone dell’arte ufficiale romana, che si perpetuerà fino alla fine dell’Impero. Definire questo modo di rappresentare come «storico» e «realistico» non significa, naturalmente, ignorare quanto di schematico e di tipizzato ne caratterizza la pratica reale, basata su pochi temi ricorrenti che, come le figure retoriche dell’oratoria, costituiscono la trama reale della narrazione. Tuttavia, resta il fatto che, tranne rare eccezioni, il racconto vuole rifarsi ad episodi «veri», o ritenuti tali, non a una loro trascrizione simbolica o mitica, quale si riscontra in molte delle scene narrative dell’arte greca e anche, come vedremo, dell’arte etrusca. Per far emergere fino in fondo questa tendenza di fondo dell’arte ufficiale romana, nulla di meglio che
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146. Vulci, Tomba François: ricostruzione prospettica dell’interno.
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un confronto con il monumento più importante della pittura funeraria etrusca di carattere «storico»: la Tomba François (figg. 145-151), che, per la sua datazione, più o meno contemporanea al primo apparire a Roma della «pittura trionfale», e per i soggetti rappresentati, che illustrano episodi in relazione con la storia arcaica di Roma, si presta in modo perfetto a un tale confronto. La tomba venne scoperta a Vulci nel 1857, e prende nome dal suo scavatore, l’archeologo Alessandro François. Le pitture furono in gran parte staccate e finirono, in seguito a varie vicissitudini, nella collezione Torlonia: ora giacciono, praticamente invisibili, nella Villa Albani, proprietà della stessa famiglia. Le difficoltà provocate dalla decontestualizzazione degli affreschi, strappati dalla loro sede originaria, hanno impedito, fino ad epoca relativamente recente, di indagarne fino in fondo il significato, che richiede in via prioritaria di ricostruirne la posizione all’interno del sepolcro. Quest’ultimo presenta caratteristiche abbastanza eccezionali anche dal punto di vista architettonico: si tratta in sostanza della riproduzione di una casa ad atrio (fig. 145): l’impressionante corridoio (dromos), profondamente scavato nella roccia, conduce a un ingresso, e da qui a una sala trasversale, sulla quale si apre, sull’asse, un ambiente quadrato: l’insieme riproduce le parti ideologicamente più importanti di un atrio, le «ali» e il «tablino», destinati nella casa aristocratica all’esposizione delle immagini degli antenati e alla conservazione dell’archivio domestico. Su questi ambienti si aprono, tramite porte con cornici in stucco, i sette «cubicoli», utilizzati come celle sepolcrali. Già da questa descrizione si comprenderà come la scelta di questo modello presupponga, negli affreschi, l’esaltazione delle glorie della famiglia dei Saties, identificata come proprietaria della tomba dalle iscrizioni conservate. La cella principale, posta in asse con l’ingresso, appare naturalmente come la più importante: essa è infatti la sola decorata, con pannelli dipinti che imitano una parete di «primo stile». Le scene principali, dipinte sulle pareti laterali del «tablino», sono, a sinistra, l’episodio omerico di Achille che sacrifica i prigionieri troiani (fig. 149), a destra un episodio della saga vulcente (fig. 148), su cui torneremo più avanti. Nei dettagli, lo stile di queste scene, come delle altre minori, è sostanzialmente lo stesso: un modo di rappresentare ancora tardo-classico, con uso disinvolto della prospettiva e
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di un chiaroscuro ottenuto con un impiego sapiente del tratteggio, ma ancora totalmente sostenuto dalla linea di contorno: ciò indica una data non di molto posteriore alla metà del IV secolo a.C. Passando alla composizione, noteremo subito la diversità sostanziale tra le due scene: il sacrificio dei prigionieri troiani, nonostante l’inserzione di due figure di carattere etrusco (Charu e Vanth) ha conservato l’aspetto e le qualità del modello greco da cui dipende (e a cui attingono molte altre repliche della stessa scena in monumenti etruschi): una composizione complessa, ruotante intorno al gruppo centrale di Achille che sgozza un prigioniero (fig. 150). La disposizione dell’eroe assume un netto rilievo tridimensionale, accentuato dal potente scorcio della gamba destra del troiano, la cui testa costituisce il vero centro geometrico della composizione. Verso di essa confluiscono tutte le linee portanti sulle quali la scena è costruita: le braccia di Achille, il braccio destro di Aiace e gli sguardi di quasi tutti gli altri attori dell’evento. Il ruotare all’indietro della testa del prigioniero serve ad accentuare ulteriormente questa centralità e a fondare il moto rotatorio di tutta la composizione intorno a questo asse: moto che si sviluppa dal Troiano posto più all’esterno, rappresentato di tre quarti, a quello condotto da Aiace Telamonio, collocato di pieno profilo, in modo da suggerire anche una dimensione spaziale in profondità, ulteriormente sottolineata dalla posizione del prigioniero sacrificato da Achille e dallo scudo posto di scorcio tra quest’ultimo e Patroclo (allo stesso modo, ad esempio, del cavallo visto da dietro nel mosaico pompeiano della Battaglia di Alessandro, che ha la stessa funzione compositiva). Siamo quindi in presenza di una raffinata espressione della pittura greca del IV secolo, la cui traduzione, nonostante gli adattamenti, ha perduto solo in parte le sue qualità originarie. Un confronto assolutamente pertinente, e contemporaneo, è quello che si può istituire con la scena della Cista Ficoroni (figg. 203-208, 210-211), che deriva da un’iconografia greca del tutto simile e contemporanea. Radicalmente diverso, invece, è l’aspetto della scena etrusca posta di fronte: una serie di gruppi a due personaggi, accostati meccanicamente, la cui ripetitività non è riscattata, ma semmai accentuata dal tentativo ingenuo di variare gli schemi e i modi dell’azione. Alcuni di questi schemi tradiscono la loro derivazione da modelli greci, almeno in un’altra occasione utilizzati nella stessa tomba: è il caso del secondo gruppo da sinistra, quello che vede Larth
147. Vulci, Tomba François: Marce Camitlnas uccide Cneve Tarchunies Rumach (Roma, Villa Albani).
Ulthes uccidere Laris Papathnas (fig. 148) derivato evidentemente, con minime varianti, dal gruppo di Aiace Oileo e Cassandra, rappresentato sulla parete alla sinistra dell’ingresso: quest’ultimo ovviamente tratto da un modello greco. Altri casi simili si ritrovano in altre parti del monumento: ad esempio, nei due gruppi simmetrici di Eteocle e Polinice da una parte, di Marce Camitlnas e Cneve Tarchunies Rumach (fig. 147) dall’altra, dove il secondo appare come un semplice calco rovesciato del primo; oppure nella rappresentazione di Fenice, silhouette pedissequa dell’Agamennone rappresentato nel sacrificio dei prigionieri troiani. Questi procedimenti sono piuttosto comuni, tuttavia il fatto che i motivi siano tratti a volte dalle ico-
nografie greche utilizzate nella stessa tomba rende praticamente certo che essi vennero inventati proprio per quest’ultima: in altri termini, non esisteva un repertorio iconografico relativo alle saghe locali, al quale attingere in questo caso particolare, e le scene della Tomba François furono realizzate appositamente, e probabilmente non più utilizzate in seguito. Ciò ne accresce naturalmente il valore documentario. Per quanto riguarda l’organizzazione complessiva, contrariamente a ciò che ci dovremmo aspettare, la decorazione figurata non procede dall’ingresso verso il fondo, sottolineando così il percorso principale, ma, al contrario, dal fondo verso l’ingresso, concludendosi in corrispondenza del cubicolo di destra del tablino: di conseguenza, quest’ultimo viene a costituire un secondo polo, che è anche quello determinante per la costruzione complessiva del dipinto. Tale anomalia può spiegarsi partendo dalla considerazione che al corredo della tomba apparteneva un’anfora attica a figure rosse, databile alla metà del V secolo, e cioè molto anteriore alla realizzazione del sepolcro stesso che è di circa un secolo più tarda. Inoltre, questo è sormontato da una tomba più piccola e più antica, che venne messa fuori uso al momento in cui esso fu scavato (fig. 145). La conclusione è evidente: nel sepolcro più antico venne deposto un membro della famiglia, vissuto nel V secolo, che in seguito fu traslato nella nuova tomba, andando ad occupare, in quanto antenato di prestigio, la cella più importante, quella collocata a conclusione dell’asse principale. Il personaggio cui si deve il secondo sepolcro, al quale si riferiscono le scene dipinte, venne collocato nella cella a destra dell’ingresso: questo sembra il motivo dell’andamento anomalo delle pitture, che confluiscono verso l’ingresso. Il fondatore della tomba è dunque il Vel Saties, rappresentato proprio a sinistra della porta di accesso alla cella, dove era sepolto (fig. 151). Se torniamo alle scene principali, ci accorgiamo immediatamente della disposizione simmetrica che esse assumono, intuibile fin dall’ingresso: questa corrispondenza speculare dei due lati, destro e sinistro, si percepisce subito per la presenza, ai due lati della porta centrale della cella di fondo, di due figure legate, che vengono trascinate in direzioni opposte, con andamento divergente. Anche le figure
Alle pagine seguenti: 148. Vulci, Tomba François: scena di massacro a opera degli eroi vulcenti (Roma, Villa Albani).
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na, quest’ultimo mentre viene liberato dai legami da Mastarna. L’uccisione di «Gneo Tarquinio il Romano», che si trova nell’ala destra, costituisce certamente la conclusione di questa scena. Si tratta di un episodio della storia arcaica di Vulci, che resterebbe inspiegabile, se non possedessimo la versione che ce ne ha lasciato l’imperatore Claudio. Questi, nel suo discorso in senato per la concessione della cittadinanza romana ai Galli della Gallia Comata, che possiamo leggere nella copia trascritta sulla tavola bronzea di Lione, narra quanto segue (CIL, XIII, 1668): Ad Anco Marcio successe Tarquinio Prisco […] che emigrò a Roma e ne ottenne il regno. Anche tra lui e il figlio o nipote (perché anche su questo gli storici non si accordano) si inserisce uno straniero, Servio Tullio che, secondo le nostre fonti, era figlio di Ocresia, una prigioniera di guerra, mentre secondo le fonti etrusche era stato all’inizio amico fedelissimo di Celio Vibenna e lo aveva seguito in ogni avventura; in seguito, sospinto dai casi della Fortuna, era partito dall’Etruria con i resti dell’esercito di Celio e aveva occupato il monte Celio, così chiamato dal nome del suo capo di una volta. Cambiato allora il suo nome, che in etrusco era Mastarna, fu chiamato come ho detto [Servio Tullio] e ottenne il regno con grande vantaggio dello Stato.
149-150. Vulci, Tomba François: Achille sacrifica i prigionieri troiani (Roma, Villa Albani); schema compositivo della scena precedente.
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disposte più avanti, ai due lati delle «ali», presentano un’analoga corrispondenza: a sinistra vediamo una scena del mito tebano, l’uccisione reciproca di Eteocle e Polinice, a destra, l’uccisione di un «Gneo Tarquinio il Romano» da parte di un personaggio dal nome di Marce Camitlnas. Ciò permette immediatamente di afferrare il senso di tale corrispondenza: il «mito» (a sinistra) corrisponde all’avvenimento «storico», a destra. È questa la chiave che permette di interpretare le due scene principali, collocate sulle pareti del «tablino»: a sinistra, il sacrificio dei prigionieri troiani sulla tomba di Patroclo da parte di Achille (scena finale dell’Iliade); a destra, il massacro di una serie di persone, ognuna indicata con il nome, tra le quali ne emergono tre: i fratelli vulcenti Aulo e Celio Viben-
Come è facile capire, l’imperatore Claudio, sposato con una donna di origini etrusche e autore di una storia dell’Etruria, sta menzionando la versione etrusca della vicenda di Servio Tullio: proprio quella illustrata nella Tomba François, in una redazione più ampia, che vede l’uccisione di Tarquinio il Romano (probabilmente Tarquinio Prisco) da parte di una coalizione che comprende anche Aulo e Celio Vibenna. Si tratta, in definitiva, dell’illustrazione di una vittoria dei Vulcenti sui Romani, avvenuta in età arcaica. A questo punto, non è difficile comprendere il significato della scena mitica, l’uccisione dei prigionieri troiani, in cui si rispecchia l’episodio storico: dal momento che i Romani sono Troiani e i Vulcenti si identificano evidentemente con i Greci, troviamo qui una ripetizione, ambientata nel tempo mitistorico, della vittoria dei Vulcenti sui Romani. Infine, la rappresentazione di Vel Saties (fig. 151), il committente dell’opera, permette di comprendere il motivo iniziale cui dobbiamo la rea-
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In conclusione, nella tomba è rappresentato per tre volte, in un certo senso, lo stesso evento: tre fatti di epoche diverse (la guerra di Troia, gli scontri tra gli eroi vulcenti e i Tarquinii di Roma, infine la vittoria sui Romani da parte di un esercito guidato da un generale vulcente) sono posti in parallelo, a significare il ripetersi puntuale e inesorabile dello stesso avvenimento. È da notare inoltre che, caratteristicamente, l’episodio contemporaneo che si voleva commemorare, che è all’origine di tutta l’operazione, è rappresentato non in modo esplicito, narrativo, ma solo allusivamente, compendiando in un unico quadro l’antefatto e la conclusione dell’avvenimento: Vel Saties, capo dell’esercito vulcente, prende gli auspici prima della battaglia, ma allo stesso tempo è già vittorioso, come dimostra il suo abbigliamento. Anche in questo, che costituisce l’unico esempio conservato di narrazione «storica» nella pittura etrusca, ci troviamo davanti a una concezione del tempo non lineare, opposta a quella che caratterizza l’arte romana contemporanea. Questa visione ciclica della storia (nota anche in Grecia) si presenta però qui nella forma più completa e coerente: sarebbe difficile non riconoscervi quella che, per gli autori antichi, era la tipica visione che gli stessi Etruschi avevano della loro storia, cioè lo svolgersi successivo di una serie di saecula, in cui tornavano a ripetersi, circolarmente, gli stessi eventi. L’ultimo di questi saecula avrebbe segnato la fine definitiva della stirpe etrusca. 151. Vulci, Tomba François: Vel Saties, capo dell’esercito vulcente.
lizzazione dell’insieme: egli infatti è rappresentato in un abito dipinto con scene di combattimento (l’equivalente della toga picta romana, l’abito del trionfatore) e coronato di alloro, mentre osserva un uomo accovacciato, con un uccello legato a uno spago, che sta per essere liberato: probabile rappresentazione di una consultazione augurale, analoga a quella celebrata dai generali romani, che prima della battaglia prendevano gli auspici utilizzando dei polli in gabbia. In altri termini, Vel Saties ha celebrato un trionfo in seguito a una vittoria sui Romani: Vulci dovette infatti partecipare alle guerre, spesso vittoriose, che opposero gli Etruschi ai Romani negli anni centrali del IV secolo.
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8. LE TOMBE GENTILIZIE
8.1. Il sepolcro degli Scipioni L’unico monumento sepolcrale di una grande famiglia senatoria dell’età repubblicana pervenuto fino a noi è il sepolcro degli Scipioni. Tre autori antichi ce ne hanno lasciato notizia: Cicerone, Tusculane, I, 7, 13: «Se, uscendo dalla Porta Capena, vedi i sepolcri di Calatino, degli Scipioni, dei Servilii, dei Metelli, forse tu li ritieni infelici?». Livio, XXXVIII, 56: «Nel sepolcro degli Scipioni a Roma, fuori di Porta Capena, vi sono tre statue, due delle quali si dice che siano di P. Scipione [Africano] e di L. Scipione [Asiageno], mentre la terza è del poeta Ennio». Svetonio, in Gerolamo, Cronaca, p. 25 Reiff.: «Il poeta Ennio morì di gotta a più di settant’anni ed è sepolto nella tomba degli Scipioni, che si trova a meno di un miglio da Roma». La tomba non viene localizzata lungo una via pubblica: si dice solo che era fuori della Porta Capena, prima del primo miglio. In effetti, essa si trova tra la via Appia e la via Latina, su un diverticolo trasversale, poco prima della Porta S. Sebastiano. La prima scoperta risale al 1614: fu allora recuperata l’iscrizione del figlio di Scipione Barbato e due ritratti ellenistici (rimasti a lungo nelle collezioni Barberini e ora rispettivamente a Monaco e a Copenaghen) nei quali recentemente sono stati identificati i ritratti di Scipione Africano e di Scipione Asiageno, menzionati da Livio. Dopo questa prima scoperta, presto dimenticata, la tomba riapparve nel 1780, nella vigna dei fratelli
Sassi, e suscitò grande scalpore, ispirando tra l’altro un’opera romanzesca del milanese Alessandro Verri (Le notti romane al sepolcro de’ Scipioni): Suonò per la città una voce mirabile che si fossero allora scoperte le tombe de’ Scipioni […] Un villereccio abituro sorge sulle tombe Scipioniche, alle quali conduce uno speco sotterraneo simile a covile di fiere. Per quella scoscesa alquanto ed angusta via giunsi agli avelli della stirpe valorosa […] Vidi confuse con le zolle e con le pietre biancheggiare le ossa illustri al lume della face […].
Le iscrizioni e il sarcofago di Scipione Barbato furono trasportate nei Musei Vaticani, dove si trovano tuttora. Nel 1926 fu completato lo scavo e restaurato il monumento, eliminando i setti in muratura costruiti dai primi scopritori per rinforzare le volte crollanti. Furono inoltre collocate nei luoghi originari le copie del sarcofago e delle iscrizioni. A seguito di questi interventi il luogo appare oggi in una forma assai più vicina a quella originaria. Il sepolcro (fig. 152) si trova in prossimità della via Appia, con la fronte rivolta a nord-ovest: la facciata, di cui è conservato solo un piccolo tratto sulla destra, era costituita da un grande ordine di semicolonne, poggiante su un podio, su cui restano ancora resti di pitture sovrapposte su vari strati. Si tratta di un intervento realizzato più di un secolo dopo l’apertura della tomba, intorno al 150 a.C., probabilmente dovuto a Scipione Emiliano: le statue di Scipione Africano, Scipione Asiageno ed Ennio,
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di cui si è detto, vennero allora inserite in tre nicchie che si aprivano nella fronte monumentale. Delle pitture che ricoprivano il lungo zoccolo della facciata (fig. 154) si conservano solo scarsi frustuli. È possibile riconoscere che si tratta di numerosi strati sovrapposti, di qualità molto diversa, che in un caso almeno appare molto modesta, vicina a quella del «Sepolcro Arieti». Le pitture, secondo una ragionevole ipotesi, dovevano essere rinnovate ogni volta che nella tomba veniva deposto un vir triumphalis, un personaggio che in vita aveva ottenuto il trionfo: esse dovevano riprodurre i quadri con le imprese del defunto, esposti durante la processione trionfale. Tutto ciò contribuisce a spiegarne il carattere «corsivo» e qualitativamente modesto: si trattava infatti di opere effimere, destinate a durare per un breve lasso di tempo. Il sepolcro vero e proprio è scavato in un banco di tufo tenero (cappellaccio). La pianta è di forma all’incirca quadrata, con quattro grandi pilastri che delimitano altrettante gallerie, nelle quali furono sistemati i sarcofagi. Un secondo, più tardo ipogeo venne aggiunto in seguito, aprendo un’altra galleria sulla destra del nucleo primitivo. L’uso esclusivo dell’inumazione conferma la notizia secondo la quale la gens Cornelia avrebbe conservato fino a Silla questo rituale primitivo, in un periodo caratterizzato quasi esclusivamente dall’incinerazione. La deposizione più antica, forse quella del fondatore stesso del sepolcro, si trovava in posizione enfatica, sul fondo del corridoio centrale, di fronte all’ingresso. Si tratta di un grande sarcofago di peperino a forma di altare (fig. 153), decorato con un ricco fregio dorico a rosette, sormontato da una fascia a dentelli e da un coperchio con grandi volute laterali. Due iscrizioni indicano il nome del sepolto (come negli altri casi): la prima, più antica, è dipinta in grandi lettere rosse sul coperchio, e attesta che si trattava di un Lucio Cornelio Scipione, figlio di Gneo. L’iscrizione attualmente visibile sulla cassa è stata chiaramente aggiunta in un secondo tempo, sostituendone una più antica, volutamente erasa. Si tratta di quattro versi saturni, che ricordano le imprese del personaggio: «Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, la cui bellezza fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi (Romani). Conquistò Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne trasse ostaggi».
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Si tratta quindi di Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298, impegnato con alterne vicende nella terza guerra sannitica. La tomba dovette essere realizzata per questo personaggio nei primi decenni del III secolo a.C. e ospitò in seguito una trentina di sarcofagi destinati ai suoi discendenti (a questi si devono aggiungere le cinque o sei deposizioni della tomba più recente). Di questi sarcofagi, sono conservati i resti di dieci, muniti di iscrizioni, ma non decorati, appartenenti a membri della famiglia vissuti tra la metà del III e gli ultimi decenni del II secolo a.C.
153. Sarcofago di Scipione Barbato, dal sepolcro degli Scipioni (Roma, Musei Vaticani).
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5 metri
muri moderni
opera laterizia
opera listata
roccia
152. Roma, sepolcro degli Scipioni: in basso, pianta; in alto, ricostruzione grafica della facciata.
Il sarcofago di Scipione Barbato deriva da un tipo di altare, diffuso in Magna Grecia e in Sicilia nel IV secolo a.C.: il fondatore della tomba venne quindi sepolto con particolare solennità, in un contenitore a forma di ara, ciò che implica una sua «eroizzazione», anche se di carattere privato: è probabile quindi che su di esso si celebrassero solennemente i sacrifici anniversari (parentationes). Si tratta di un monumento eccezionale, nel quadro di una tomba caratterizzata da grande semplicità e rigore, sulla linea dell’austerità programmatica dei sepolcri diffusi a Roma e nel Lazio a partire dal periodo arcaico. L’importazione diretta di un modello di altare greco, che implica una connotazione eroica del sepolto, che riporta direttamente all’ideologia politico-religiosa dei successori di Alessandro, costituisce una novità nella Roma di questi anni, parallela all’apparizione di un culto della Vittoria, anch’esso di origine ellenistica e dinastica, che osserviamo in vari settori della produzione artistica romana, dai templi dedicati a divinità «vittoriose» alla prima monetazione d’argento. Nell’elogio di Barbato sono indicati valori etici, che non sono più solo quelli tradizionali: la bellezza fisica (forma) equiparata al valore (virtus) è precisamente la kalokagathia greca, per la prima volta attribuita a un personaggio dell’aristocrazia romana. La localizzazione presso la via Appia del monumento non sembra priva di significato: la strada era stata aperta solo da pochi anni, ad opera del celebre
censore del 312, Appio Claudio Cieco (la prima personalità di cultura greca che ci è possibile identificare con sicurezza nel periodo repubblicano): è nota la funzione ideologica della via, che mirava ad impegnare lo Stato in una politica di espansione verso la Magna Grecia. In questo senso, la scelta di questo luogo come sede del proprio sepolcro da parte di una famiglia come quella degli Scipioni, vicina ai modelli culturali e alle scelte politiche di Appio Claudio, difficilmente sarà stata casuale. L’evidente derivazione da modelli greci del sarcofago si spiega anch’essa con le tendenze ellenizzanti, tipiche anche in seguito della famiglia: basterà per questo ricordare il grande nipote di Scipione Barbato, l’Africano: la gloria di quest’ultimo viene infatti celebrata da Cicerone nella parte finale della Repubblica, il celebre Sogno di Scipione, dove egli appare a Scipione Emiliano, eroizzato in cielo tra le costellazioni. L’elogio, come si è detto, venne aggiunto in seguito, intorno al 200 a.C.: quindi quasi certamente dallo stesso Scipione Africano. Si tratta probabilmente di uno stralcio dell’elogio funebre di Barbato, conservato negli archivi di famiglia. La migliore illustrazione degli usi funerari dell’aristocrazia romana, ancora correnti alla metà del II secolo a.C., e delle loro profonde motivazioni ideologiche si trova nell’opera di uno storico greco strettamente legato agli Scipioni, Polibio (VI, 53-54):
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viene comunicata a tutti e trasmessa alle generazioni successive la fama di quelli che hanno ben meritato della patria. Ma la cosa più importante è che i giovani sono incitati a tutto sopportare nell’interesse della repubblica per raggiungere la gloria che si accompagna agli uomini migliori.
8.2. Il sepolcro dei Cornelii e le altre tombe della Media Repubblica
154. Roma, sepolcro degli Scipioni: resti di affreschi della facciata.
Ogni volta che muore uno dei loro uomini illustri, celebrandone le esequie, ne trasportano il corpo con alte cerimonie ai cosiddetti Rostri, nel Foro, talvolta in piedi, perché sia visibile, più raramente sdraiato. Qui, mentre il popolo assiste tutt’intorno, il figlio, se ne resta uno in età adulta e che si trovi ad essere presente, o altrimenti qualcun altro dei parenti, salito sui Rostri, ricorda le virtù del defunto e le imprese da lui compiute in vita. Avviene così che, come questi fatti vengono ricordati e quasi messi sotto gli occhi del popolo, e non solo di quelli che erano presenti, ma anche degli assenti, il tutto appare non un fatto privato di quelli che celebrano il funerale, ma un avvenimento pubblico. Dopo il seppellimento e le altre cerimonie connesse pongono l’immagine del defunto nella parte più visibile della casa, in un armadietto di legno. Il ritratto è una maschera somigliantissima, e per rilevo e per colore. In occasione delle feste pubbliche traggono fuori queste immagini e le ornano con ogni cura. E quando muore un personaggio importante della famiglia vengono portate al funerale, e indossate da individui ritenuti assai vicini per statura e per ogni
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altro riguardo ai defunti. Costoro vestono la toga pretesta, se il morto era stato console o pretore; la toga purpurea, se era stato censore; quella aurea se aveva celebrato il trionfo, o compiuto imprese di questo livello. Così parati avanzano su carri, e davanti a loro vengono portati fasci e scuri e le altre insegne, che sogliono accompagnare i magistrati, a seconda degli onori che ciascuno ottenne da vivo nello Stato. Giunti ai Rostri, siedono tutti in ordine su seggi di avorio. Difficilmente un giovane amante dell’onore e della virtù potrebbe assistere a uno spettacolo più bello. Chi infatti non sarebbe spinto all’emulazione nel vedere tutte insieme le immagini di uomini insigni per virtù, quasi vive e spiranti? Cosa vi potrebbe essere di più bello di un tale spettacolo? Colui che parla della persona che si sta per seppellire, quando arriva alla fine del discorso inizia a parlare degli altri, le cui immagini sono presenti, cominciando da quello vissuto per primo, ed espone gli atti e le imprese di ciascuno. E quindi, rinnovandosi continuamente la fama di virtù dei grandi uomini, viene resa eterna la gloria di quelli che hanno fatto qualcosa di importante, e
Un secondo ipogeo appartenente alla gens dei Cornelii è stato scoperto nel 1956, e solo parzialmente esplorato, all’inizio della via Ardeatina. Da esso provengono parti di due sarcofagi iscritti, che in base alle loro caratteristiche si possono datare a un’epoca alquanto anteriore a quelli degli Scipioni, compresa tra la metà e la fine del IV secolo a.C. Il reperto più antico è un grande coperchio di peperino a forma di tetto displuviato (fig. 160), munito di antefisse decorate e con testate costituite da acroteri circolari. Lo spazio dei frontoni è occupato da due ippocampi affrontati a un grande fiore. L’orlo del coperchio comporta due fasce, decorate con palmette, fiori di loto e boccioli pendenti. Piuttosto che l’imitazione di un’abitazione, quella di un tempio: espressione evidente di una «eroizzazione» privata del defunto, analoga a quella di Scipione Barbato. Le due iscrizioni incise sul monumento menzionano il titolare del sarcofago, un L. Cornelio, figlio di Gneo. È probabile che l’epigrafe principale, con l’indicazione delle cariche, si trovasse sulla cassa del sarcofago, perduta, come nel caso del sepolcro degli Scipioni. Un coperchio simile, anche se con motivi decorativi diversi, proviene dalla necropoli di Palestrina (figg. 197-198). La datazione di ambedue può essere fissata nella seconda metà del IV secolo. Dell’altro sarcofago si conserva la cassa di calcare bianco, liscia, con due paraste ioniche a rilievo ai lati della faccia principale. L’iscrizione incisa permette di identificare il sepolto con un P. Cornelius Scapola, pontefice massimo. La data, forse leggermente posteriore a quella dell’altro sarcofago, va fissata verso la fine del IV secolo a.C. Altre tombe di età medio-repubblicana con corredi di grande interesse, anche se purtroppo prive di iscrizioni, sono apparse in epoca recente in varie zone della città e del suburbio. Una di queste, un sepolcro a camera di forma rettangolare, scavato nel tufo, è apparso alcuni decenni
155. Tomba di via S. Stefano Rotondo: genio alato (Roma, Museo delle Terme). Alle pagine seguenti: 156-157. Tomba di via S. Stefano Rotondo: quadrighe di terracotta con Vittoria. 158-159. Tomba dalla Via Salaria: quadrighe di terracotta con eroti (Roma, Museo delle Terme).
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or sono, nell’area del nuovo Ospedale di S. Giovanni, in via S. Stefano Rotondo. Vi si rinvennero un grande sarcofago liscio e sei urne di peperino: nel primo, chiaramente appartenente al defunto più importante, si trovavano lo scheletro di un giovane e una serie di terrecotte figurate, oltre a ceramica di Genucilia e a vernice nera, che permette di datare la deposizione negli ultimi decenni del IV secolo a.C. Le terrecotte comprendevano: due piccole quadrighe (alte 13 cm) (figg. 156-157) guidate ciascuna da una Vittoria alata, con due coppie di cavalli divergenti, tra i quali si trova un tritone con doppia coda di serpente; due geni alati, probabili rivestimenti di recipienti di legno (fig. 155), analoghi ad altri, proveniente dalla necropoli di Palestrina; un erote alato coronato di edera; una testa femminile diademata uscente da un cespo di acanto. Si tratta di opere di assoluto valore artistico, dipendenti da modelli greci compresi tra la fine del periodo classico e l’inizio dell’ellenismo. In particolare, le quadrighe mostrano caratteristiche di stile (forte torsione delle figure, in movimento violento) che le collegano all’arte di Lisippo: anche per questo motivo, si può pensare a un atelier di Taranto, città in cui il grande scultore realizzò alcune delle sue opere più importanti. Di particolare interesse sono le figure di Vittoria, che rimandano alla presenza cruciale, nella Roma contemporanea, di una vera e propria «teologia
della Vittoria»: questi documenti sono anzi tra i più antichi tra quelli che illustrano questa divinità, insieme alle contemporanee monete «romano-campane». In questo caso specifico, si tratta di una chiara allusione al viaggio nell’aldilà, in forme «trionfali», del defunto: diretto alle Isole dei Beati, attraverso l’Oceano, come indica la presenza del tritone sotto la quadriga. Si tratta di motivi simbolici frequenti anche in età imperiale (ad esempio, nei sarcofagi). Da un’altra tomba di età medio-repubblicana, scoperta nel 1965 nel quartiere fuori di Porta Salaria, proviene un gruppo di terrecotte, tra le quali spiccano quattro piccole quadrighe, guidate da eroti (figg. 158-159). Lo stile, raffinatissimo, rimanda ancora una volta all’arte contemporanea della Magna Grecia: è probabile che anche qui si tratti dell’opera di una bottega di Taranto, in un periodo che si può fissare con sicurezza nella seconda metà del IV secolo a.C., in base alla ceramica scoperta nella tomba (vasi di Genucilia). La connotazione dei piccoli gruppi è chiaramente funeraria: si è proposto di riconoscervi la rappresentazione di un mito narrato nel Fedro di Platone, dove gli eroti su quadrighe alludono alle anime in corsa verso l’Empireo: in ogni caso, questo eccezionale ritrovamento dimostra ancora una volta la conoscenza, da parte dell’élite aristocratica romana, di raffinati motivi filosofici elaborati nella Grecia contemporanea.
9. LA SCULTURA E IL RITRATTO UFFICIALE
Altre attestazioni isolate, il cui contesto può essere ricostruito solo in base alle testimonianze letterarie, contribuiscono a completare e ad arricchire il quadro fin qui delineato. Particolare importanza riveste l’apparizione del ritratto pubblico, fenomeno che si manifesta nello stesso ambito cronologico e ideale. Molte informazioni si ricavano da quella sorta di «storia della scultura in bronzo» che Plinio il Vecchio ha delineato nella sua opera. Vi leggiamo, tra l’altro, questa preziosa informazione (Storia Naturale, XXXIV, 43): Anche in Italia furono realizzate sculture colossali […] Spurio Carvilio fece erigere il Giove, che si trova sul Campidoglio, con le corazze, gli schinieri e gli scudi dei Sanniti da lui vinti. La sua grandezza è tale, che si può vedere fin dal Tempio di Giove Laziale. Con le limature del metallo fece eseguire una statua con la sua immagine, che si trova ai piedi del colosso.
160. Coperchio di sarcofago di un L. Cornelio, figlio di Gneo.
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Un precedente si trova in Livio (IX, 44, 16), che per il 305 a.C. menziona una «grande statua di Ercole eretta e dedicata sul Campidoglio». Si tratta di un’altra immagine colossale, con la stessa collocazione, e quindi probabilmente anch’essa collegata con un trionfo: la notizia infatti segue immediatamente una frase, che dovrebbe fornire l’antefatto: «Lo stesso anno furono strappate ai Sanniti Sora, Arpino e Cesennia». Di conseguenza, la statua di Ercole sembra in rapporto con un trionfo sui Sanniti, che dovrebbe essere quello celebrato lo stesso anno da M. Fulvio Curvo Petino, in qualità di console suffetto, in luogo del console Tiberio Mucio, morto in batta-
glia. La scelta di Ercole, divinità sannita per eccellenza, si addice perfettamente a tale circostanza. La statua di Giove sul Campidoglio è da attribuire al secondo consolato di Spurio Carvilio (272 a.C.), piuttosto che al primo (293), dal momento che Livio, il cui testo relativo a quest’ultimo anno è conservato, non ne fa cenno. Appare chiara la connotazione «trionfale» della statua, come pure del ritratto del dedicante, che appare così investito di un’aura carismatica dalla vicina divinità, con la quale in un certo modo il trionfatore si identifica. Si tratta di un evento eccezionale, perché trasferisce in uno spazio pubblico una pratica già diffusa, ma solo in ambito privato, di «eroizzazione»: basti pensare al contemporaneo sarcofago di Scipione Barbato. Anche in questo caso, sarebbe difficile non riconoscere l’apporto determinante della cultura ellenistica. Del 304 a.C. è l’esecuzione della statua equestre di bronzo, dedicata nel Foro al vincitore degli Ernici, Q. Marcio Tremulo. Altre statue analoghe di magistrati romani, realizzate nei decenni successivi, sono menzionate dagli autori antichi. Di particolare rilevanza è la serie di sculture collocate nel Comizio, come le due statue di Pitagora e di Alcibiade, «il più sapiente e il più valoroso tra i Greci», realizzate nel corso di una guerra sannitica (certamente poco prima del 290) in seguito alla consultazione dell’oracolo di Apollo a Delfi (Plinio, Storia Naturale, XXXIV, 26). La scelta di questi due personaggi fa pensare all’intervento di una città della Magna Grecia, forse Napoli, dove Pitagora e Alcibiade erano popolari. Quanto all’esecuzione materiale delle statue, è inevitabile attribuirla a scultori greci.
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Ma già nel 338 a.C., in rapporto a una completa ristrutturazione del Comizio, erano stati affissi sulla tribuna oratoria i rostri delle navi di Anzio. Su questi Rostra, come si chiameranno da allora in poi, vennero subito collocate le statue equestri di C. Menio (autore del restauro) e di Camillo. Successivamente, intorno al 300, un’ulteriore serie di monumenti troverà posto nella stessa area: l’edicola della Concordia, dovuta all’edile Gneo Flavio, nel 304; le già citate statue di Pitagora e di Alcibiade; il Marsia e la Lupa con i gemelli, dovuta ai fratelli Ogulnii, nel 296. Queste ultime due, per il loro ruolo fondamentale, richiedono un’analisi più approfondita. L’immagine della statua di Marsia, restituitaci da un denario tardo-repubblicano, dai rilievi traianei con la rappresentazione del Foro e infine dalla copia della statua scoperta a Paestum (fig. 104) presenta alcune caratteristiche del tutto particolari: il diadema regale e i ceppi (compedes) ai piedi. Il momento in cui essa fu realizzata si può fissare intorno al 300 a.C., e l’autore si può riconoscere in C. Marcio Censorino, console nel 310 e censore per ben due volte: caso unico nella storia repubblicana, da cui deriva il cognomen. Ciò spiega la presenza di un’immagine del Marsia nel denario dell’82 a.C., coniato dal suo discendente L. Marcio Censorino. L’opera venne probabilmente eseguita nel corso della prima censura del personaggio, nel 294 a.C. La sua funzione originaria è di attestare la libertas plebeia, come indicano i ceppi spezzati: ottenuta con la liberazione dai debiti, piaga gravissima dei ceti subalterni, tramite una legge contro i feneratores (gli usurai) promulgata probabilmente dallo stesso Marcio Censorino come tribuno della plebe, nel 311 a.C. Tra l’altro, sappiamo che la statua – certo non a caso – si trovava presso la Columna Maenia, luogo dove si riunivano i feneratores e dove si svolgevano i processi ai debitori. Ciò permette di collegare l’azione di Censorino a quella degli Ogulnii, come vedremo in seguito: in ogni caso, egli fu il primo a profittare della legge Ogulnia del 300 a.C., che aveva abbattuto gli ultimi privilegi dei patrizi, ammettendo i plebei ai collegi dei pontefici e degli auguri: si tratta del solo che, in tale occasione, venne eletto in ambedue. Da questo momento in poi, Marsia diventerà il simbolo della libertà plebea, e per questo la sua statua sorgerà nei comizi delle colonie, a partire dalle più antiche, come Alba Fucens e Paestum, dove se ne sono scoperte repliche. L’altro monumento «plebeo» del Comizio è la Lupa con i gemelli. Sappiamo da Livio (X, 23, 11-12)
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che questa statua è dovuta agli edili curuli del 296, Cn. e Q. Ogulnius, due fratelli di origine etrusca. Il testo di Livio è estremamente significativo e va riportato per intero: Lo stesso anno Gneo e Quinto Ogulnio, edili curuli, citarono in giudizio un certo numero di usurai; con il denaro delle multe, che fu utilizzato per spese pubbliche, realizzarono le soglie di bronzo del Tempio di Giove Capitolino e sulla sommità del tempio la statua di Giove sulla quadriga; presso il Fico Ruminale posero sotto le mammelle della lupa le immagini dei due gemelli e fecero lastricare la via Appia dalla Porta Capena al Tempio di Marte.
L’occasione che aveva portato a realizzare queste opere, ancora una volta, è il perseguimento in giudizio degli usurai: siamo nello stesso ambito concettuale della statua di Marsia, realizzata solo due anni più tardi (se non addirittura nella stessa occasione) da un personaggio strettamente collegato con gli Ogulnii, Q. Marcio Censorino. È notevole anche il modo con cui viene descritta la lupa, insistendo più sulle immagini dei gemelli che sull’intero gruppo: si può pensare a un’allusione ai realizzatori della statua, certamente fratelli (e forse gemelli), ma è anche possibile che si tratti di una rappresentazione plastica della doppia natura dello Stato romano. Con tutta probabilità, Romolo e Remo sono qui introdotti per rappresentare i patrizi e i plebei, finalmente equiparati, dopo lunghe lotte, dalla concessione ai secondi degli ultimi incarichi che gli mancavano: il pontificato e l’augurato. Pochi anni più tardi, la lupa apparirà sulla terza serie delle monete «romano-campane» (figg. 181, 194), insieme all’immagine di Ercole. Come vedremo in seguito, è probabile che questa coniazione sia dovuta a un membro rilevantissimo della gens Fabia, Q. Fabio Gurgite, forse contemporaneamente alla costruzione del primo Tempio di Ercole: in effetti, i Fabii riconoscevano nel dio il loro antenato mitico, ed erano i protettori degli Ogulnii, che certo per loro intercessione avevano avuto accesso alle cariche curuli: in effetti, l’elezione all’edilità curule nel 296 si era svolta l’anno precedente, quando era console Q. Fabio Rulliano. Il successo della famiglia si concentra in un breve giro di anni, tra il 300 e il 269, quando Q. Ogulnio raggiunse il consolato, per poi esaurirsi rapidamente. Vale la pena di menzionare altri avvenimenti di cui questa gens – gli etruschi Uclina, probabilmente originari di Volsinii – fu protagonista. Oltre agli inter-
161. Denario di Cn. Piso con ritratto di Numa (Crawford RRC, n. 446).
162. Denario di Marcius Philippus con ritratto di Anco Marcio (Crawford RRC, n. 425).
venti nel Tempio di Giove e sulla via Appia, possiamo menzionare il ruolo avuto dallo stesso Q. Ogulnius nel 292, come leader della commissione di dieci membri inviata ad Epidauro, per importare a Roma il culto di Esculapio; o anche nell’ambasceria ad Alessandria del 273 – non a caso insieme a due Fabii (il figlio di Rulliano, Q. Fabio Gurgite e N. Fabio Pittore) – che stipulò un trattato di amicizia con Tolomeo Filadelfo. Tutto ciò implica, naturalmente, una profonda conoscenza del greco, e induce a collocare il personaggio nella cerchia dell’aristocrazia romana ellenizzante. All’attività degli Ogulnii si può forse collegare la realizzazione di almeno alcuni dei «ritratti» dei re di Roma e di Bruto, il primo console della Repubblica, certamente da attribuire al periodo compreso tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., collocati sul Campidoglio: sono menzionati Romolo, Tito Tazio, Numa, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Bruto. Copie di questi ritratti, identificati con il nome, si trovano in alcune monete della Tarda Repubblica (figg. 161-163). Sappiamo che queste statue erano collocate nell’area antistante al Tempio di Giove Capitolino, nel punto dove, secondo una tradizione, sarebbe stato ucciso Tiberio Gracco: questa notizia permette di datarle anteriormente al 133 a.C. Alcuni dettagli potrebbero far pensare che non fossero tutte contemporanee: ad esempio, il fatto che i due personaggi più antichi, Romolo e Tito Tazio, vestivano la toga senza la tunica, pratica diffusa solo fino al
163. Denario di M. Iunius Brutus con il ritratto di Bruto (Crawford RRC, n. 433).
IV secolo a.C. Si noti per inciso che anche la statua di Camillo sui Rostri – certamente di IV secolo – era priva di tunica. Solo per vezzo arcaizzante Catone il Censore aveva adottato la stessa moda. Romolo non portava l’anello, come il primo console della Repubblica, Lucio Bruto, la cui statua si trovava accanto a quelle dei re. Viceversa, gli altri sei avevano la tunica, Numa e Servio Tullio anche l’anello. Dal momento che non è pensabile che in quell’epoca la moda del vestiario fosse ricostruita con criterio archeologico, e che l’anacronismo era normale, dobbiamo pensare a due o tre gruppi di statue di epoca diversa: le più antiche sembrano quelle di Romolo e Tito Tazio, da attribuire al pieno IV secolo; seguono quelle di Tullo Ostilio, Anco Marcio, dei Tarquinii e di Bruto, tutte con tunica ma senza anello, da attribuire forse al tardo IV secolo, mentre quelle di Numa e di Servio Tullio, con la tunica e con l’anello, sembrano le più recenti. Ora, non sembra un caso che si tratti dei due re considerati patroni della plebe (in particolare Servio Tullio): l’anello d’oro infatti riveste a Roma un ruolo particolare come segno del rango. Plinio ricorda che, fino alla riforma di Gneo Flavio del 304, gli anelli erano una prerogativa dei patrizi: i quali li deposero al momento in cui Flavio, figlio di un liberto e scriba di mestiere, assunse la carica di tribuno della plebe. Di conseguenza, l’estensione del privilegio alla plebe deve essere successivo, e va collegata alle riforme filoplebee del 300 a.C., dovute agli Ogulnii.
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È possibile, di conseguenza, che le statue di Numa e di Servio Tullio siano opera proprio degli Ogulnii, al momento dei lavori da essi realizzati sul Campidoglio nel corso della loro edilità del 296. Esse erano probabilmente destinate a simboleggiare, come il Marsia e la Lupa del Comizio, la vittoria della plebe. Una probabile replica della statua di Numa (fig. 165), di età imperiale, proviene dalla Casa delle Vestali, nel Foro: la testa, barbata e con lunghi capelli che ricadono sulla fronte, cinta dal diadema regale, è accostabile alla moneta di un Gneo Calpurnio Pisone, del 49 a.C. (fig. 161), con un ritratto di Numa certamente ispirato alla statua capitolina. Sempre nel Comizio si trovava un altro celebre monumento, la colonna di Gaio Duilio. Polibio (I, 23) racconta in dettaglio la battaglia presso Milazzo, nel corso della prima guerra punica, vinta dal console del 260, Gaio Duilio, che a seguito di essa celebrò il primo trionfo navale che si sia svolto a Roma. Vari autori ricordano la colonna ornata di rostri (columna rostrata), sormontata dalla statua del console e ce ne indicano la posizione. Secondo Plinio (Storia naturale, XXXIV, 20), seguito da Quintiliano (I, 7, 12) il monumento ai suoi tempi si trovava ancora nel Foro. Il commentatore di Virgilio, Servio (Georgiche, III, 29), precisa che le colonne erano due: una collocata sui Rostra, l’altra davanti alle porte del Circo Massimo. Questa notizia è confermata dal documento più antico che ricorda il monumento, l’iscrizione con l’elogio di Duilio, collocata nel Foro di Augusto, secondo la quale la statua cum columna
era collocata prope aream Vulcani, e cioè ancora una volta nel Comizio, dove si trovavano i Rostra e l’ara di Vulcano (che si identifica con il lapis Niger). Ora, nel 1565 venne scoperta a Roma, presso l’Arco di Settimio Severo (e quindi praticamente in situ), una grande base di marmo lunense, su cui è incisa un’iscrizione che riporta l’elogio di Duilio (fig. 164), incisa evidentemente sulla base della colonna rostrata. Naturalmente, l’uso del marmo e la forma dei caratteri dimostrano che si tratta di una copia di età imperiale: dunque, la base della colonna originaria (che doveva essere in tufo), molto rovinata, venne sostituita da un’altra, probabilmente di età augustea. Il testo però conserva la forma originaria, in latino arcaico, che ripete sostanzialmente le notizie riportate da Polibio e da altri autori antichi, confermandone così la verità: si tratta della più importante iscrizione storica di età medio-repubblicana che ci sia pervenuta: [Il console C. Duilio] libera dall’assedio dei Cartaginesi i Segestani, alleati del popolo Romano; tutto l’esercito cartaginese e tutti i magistrati supremi dopo nove giorni fuggono negli accampamenti. Cattura la città di Macella combattendo. Nella stessa magistratura vince per la prima volta da console con le navi sul mare, e per primo arma soldati e flotte navali e con queste navi vince combattendo in alto mare tutta la flotta e l’esercito cartaginese in presenza di Annibale, loro generale, cattura con la forza, insieme con gli alleati, una nave a sette ordini di remi, trenta quinqueremi e triremi, e ne affonda tredici. L’oro catturato ammonta a 3700 aurei, l’argento catturato con la preda a centomila […]; tutta la moneta di bronzo catturata […]. La preda esposta nel trionfo navale la donò al popolo e condusse davanti al carro molti prigionieri cartaginesi liberi […]. Il momento preciso in cui la colonna venne rifatta si può forse stabilire in base al testo di Servio già citato: questi afferma che Augusto fece erigere quattro colonne rostrate in onore di se stesso e di Agrippa, in seguito alla vittoria di Azio. Tuttavia, una moneta che ne rappresenta una, con l’immagine di Ottaviano in nudità eroica, sembra da collegare piuttosto con la
164. Iscrizione della colonna di Gaio Duilio (Roma, Musei Capitolini).
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A fronte: 165. Statua-ritratto di Numa (Antiquarium del Foro).
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166. Tarquinia, Tomba degli Scudi: dettaglio.
167. Paestum, Tomba del Magistrato: dettaglio (Museo di Paestum).
vittoria di Nauloco su Sesto Pompeo, del 39 a.C., dovuta anch’essa ad Agrippa. Ora, questo scontro ebbe luogo proprio in prossimità di Milazzo: era dunque inevitabile che esso venisse collegato con la vittoria di Duilio. È probabile che anche la colonna di Ottaviano fosse collocata accanto ai Rostri, probabilmente in posizione simmetrica a quella più antica, che in tale occasione venne rifatta. È possibile farsi un’idea dei ritratti onorari di quest’epoca solo attraverso due sculture in bronzo, miracolosamente pervenute fino a noi. Si tratta del cosiddetto «Bruto Capitolino» e della testa proveniente da S. Giovanni Lipioni, nel Sannio (conservata a Parigi). Il «Bruto» è il più famoso di questi ritratti (fig. 168). Conservato da sempre nelle collezioni comunali, ne è ignota la provenienza precisa, anche se probabilmente questa è da identificare nella stessa Roma. Il suo isolamento ha determinato grandi difficoltà di inquadramento stilistico e cronologico, con scarti di datazione compresi tra il IV e il I secolo a.C. In realtà,
oggi possiamo contare sul confronto con un gruppo di opere, diffuse tra l’Etruria e la Magna Grecia, che autorizzano soluzioni meno drammaticamente divergenti: teste votive di terracotta (provenienti da Tarquinia e da Falerii), ritratti dipinti in tombe etrusche (Tomba degli scudi a Tarquinia) (fig. 166) e pestane (Tomba del Magistrato) (fig. 167) vengono a costituire, nel loro complesso, un quadro di riferimento che corrisponde agli anni finali del IV o al più tardi al III secolo a.C. Essi dimostrano che il ritratto fisionomico nell’Italia centro-meridionale è cosa fatta in questi anni, e attestano allo stesso tempo che i modelli di riferimento provengono dalla Grecia (tramite una mediazione magno-greca). Tale cronologia è confermata da dettagli antiquari, quali la presenza della barba, una moda che scompare a Roma intorno al 300 a.C., in seguito
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A fronte: 168. Bruto Capitolino (Roma, Museo dei Conservatori).
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all’arrivo nella città dei primi barbieri magno-greci. Il cognomen del console del 298, Scipione Barbato, non è casuale: esso non avrebbe senso se non per segnalare la conservazione da parte del personaggio di una moda ormai abbandonata alla sua epoca. Il Bruto Capitolino era considerato, in passato, espressione di un ambiente etnico-culturale tipicamente «italico», connotata da una struttura stereometrica e astratta, diametralmente opposta all’organicità naturalistica dell’arte greca: si tratterebbe, in altri termini, di un’opera con caratteristiche esclusivamente indigene. Tali aspetti, indubbiamente presenti nel «Bruto», vanno però interpretati in modo diametralmente opposto: abbandonato ormai da tutti il mito di una nascita e di uno svolgimento autonomi del ritratto «romano-italico», dobbiamo riconoscere che il presupposto imprescindibile di quest’ultimo è l’arte greca, senza la quale prodotti del genere sarebbero impensabili. Quello che rende diverso il «Bruto» dai contemporanei ritratti greci è la disposizione degli stessi elementi all’interno di una struttura geometrizzata e semplificata, interessata ad esprimere valori essenziali di durezza e severità intransigente, propri di una cultura con radici contadine e tradizionali valori civici e militari. In questo consiste, in ultima analisi, l’originalità di quest’arte: non nell’«invenzione» del ritratto realistico, già da tempo esistente in Grecia, ma nell’adattare gli elementi costituitivi di quest’ultimo in funzione dei suoi scopi particolari. In questo senso, il «Bruto» è il prodotto perfettamente realizzato di una cultura che, per quanto a conoscenza dei modelli ellenici, intende esprimere un ethos diverso: da questo punto di vista, non interessa sapere se autore materiale di quest’opera particolare sia un italico ellenizzato o un greco (come tutto compreso è più probabile), dal momento che il risultato esprime nel modo più compiuto le intenzioni del committente e del suo ambiente culturale.
A considerazioni del tutto analoghe induce l’altro, straordinario ritratto bronzeo, la testa da S. Giovanni Lipioni (fig. 169) (villaggio a 18 chilometri da Pietrabbondante, dove nel 1847 avvenne la scoperta). L’ipotesi più probabile è che esso provenga da un santuario della zona. Si trattava in origine, come nel caso del «Bruto», di una statua a grandezza naturale, forse equestre, di un personaggio di mezza età. Stile e tecnica sono molto simili a quelle dell’altro ritratto, mentre l’assenza della barba e il modo di trattare le superfici, meno risentito e rigido, suggeriscono una datazione leggermente più tarda, nei primi decenni del III secolo a.C. Alcuni dettagli, come il trattamento a punti incisi della barba tagliata, inducono al confronto con la plastica in terracotta, che in effetti costituisce la base della fusione in bronzo. Recentemente si è discusso sull’identità etnica del personaggio rappresentato. Per alcuni si tratta di un generale romano che, basandosi sulla probabile cronologia, dovrebbe aver partecipato alla terza guerra sannitica: in tal caso, saremmo in presenza del monumento commemorativo per una vittoria sui Sanniti, eretto probabilmente in un santuario. Altri invece hanno pensato a un generale sannita. L’isolamento totale della scultura nell’ambito della produzione artistica del Sannio fa nettamente propendere per la prima ipotesi (anche se si potrebbe pensare, come in altri casi, all’intervento di maestranze campane). Il bronzo di S. Giovanni Lipioni costituisce, insieme al «Bruto», una testimonianza preziosa della ritrattistica ufficiale medio-repubblicana, e permette di farsi un’idea precisa dell’aspetto e della qualità delle sculture contemporanee ricordate dalle fonti letterarie. Così dobbiamo immaginare opere come la statua di Marcio Tremulo o di Spurio Carvilio, prodotti caratteristici dell’«ideologia trionfale» romana, formatasi nel periodo che coincide con la conquista dell’Italia appenninica.
A fronte: 169. Ritratto in bronzo da S. Giovanni Lipioni, Molise (Parigi, Cabinet des médailles).
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10. LA MONETA
La documentazione più abbondante e completa della cultura figurativa di Roma, per un periodo altrimenti così povero di testimonianze è – o piuttosto potrebbe essere – la moneta. In effetti, nonostante tali potenzialità, è indubbio che questo settore è poco sfruttato dal punto di vista che qui interessa. Ciò è dovuto certamente alla situazione degli studi sulla più antica coniazione romana, rimasti sostanzialmente chiusi in un ghetto specialistico, lasciando irrisolti molti degli aspetti più rilevanti, come quello cronologico, che non possono essere chiariti se si resta prigionieri di una ricerca puramente tecnica.
I primi lingotti muniti di contrassegni (aes signatum) appaiono verso la metà del VI secolo a.C., come attesta un’importante scoperta avvenuta nel Santuario di Demetra a Bitalemi, in Sicilia: si tratta di pani di rame rettangolari, contrassegnati con un motivo a spina di pesce, definito «del ramo secco», che quasi sempre si rinvengono spezzati. Ciò ha fatto pensare a una possibile conferma dell’indicazione di Plinio il Vecchio (XXXIII, 43): «Il re Servio (Tullio) fu il primo a marcare il bronzo». Anche se in effetti esemplari del genere non sono stati rinvenuti a Roma, in ogni caso è confermato già dal VI secolo a.C. l’uso in Italia di contrassegnare i lingotti con un «segno», che non
può essere ancora segno di valore (dal momento che il peso ne è assai vario) ma forse piuttosto la garanzia della qualità del metallo, stabilita comunque da un’autorità «pubblica». Il tipo «del ramo secco» sembra durare per tutto il V secolo, e viene poi sostituito da lingotti di bronzo fusi, con figure in rilievo: questi comprendono undici serie successive, databili probabilmente a partire dalla metà del IV secolo a.C.: vi si riconoscono i seguenti tipi, con rappresentazioni sulle due facce: 1. aquila con il fulmine / Pegaso, con leggenda ROMANOM (fig. 172); 2. ramo con iscrizione ROM[…] (certamente da integrare nello stesso modo); 3. scudo ovale, visto dall’esterno e dall’interno; 4. spada / fodero; 5. anfora / punta di lancia; 6. spiga / tripode; 7. ancora / tripode (fig. 170); 8. tridente / caduceo; 9. due galline affrontate ai lati di due stelle / due rostri affrontati ai lati di due delfini (fig. 171); 10. toro verso destra / toro verso sinistra (fig. 173); 11. elefante verso destra / maiale verso sinistra (fig. 174). La datazione piuttosto tarda (fino alle soglie del III secolo a.C.) che in genere si attribuisce a questi esemplari di aes signatum è certamente errata, sulla base delle seguenti considerazioni: – essi precedono certamente l’inizio della vera e propria moneta bronzea, denominata aes grave,
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che si conclude con il tipo della prora: ora questo, come vedremo, va datato certamente intorno al 260; la forma del genitivo plurale ROMANOM precede certamente quella ROMANO dei didrammi d’argento romano-campani, il cui inizio è da fissare negli ultimi decenni del IV secolo; alcuni simboli presenti nei lingotti forniscono elementi di cronologia piuttosto alti: il tipo 2, con il ramo e leggenda ROM[ANOM] deriva direttamente da quello, certamente arcaico, del «ramo secco»; il tipo 9 con galline beccanti e rostri con delfini si collega con tutta probabilità a un successo navale (le galline alludono al tipo di auspicio utilizzato dai comandanti militari), ma il collegamento con la battaglia di Milazzo, la prima ottenuta da una flotta romana nel corso della prima guerra punica (260 a.C.), è ovviamente impossibile, perché l’episodio è troppo tardo. L’unica possibilità sembra il successo su Anzio del 338, seguito dalla collocazione dei rostri delle navi anziati sulla tribuna del Comizio; la presenza dell’ancora e del tripode sul tipo 7 dovrebbe alludere all’Apollo di Delfi: se l’ambasceria di Camillo del 398 a.C. è forse troppo antica, si potrebbe pensare alla ricostruzione del Tempio di Apollo del 353.
Qualche problema pone il tipo con elefante e maiale, che a prima vista va collegato con la guerra contro Pirro, prima occasione in cui i Romani avreb-
10.1. La prima coniazione del bronzo La diffusione di ripostigli di oggetti in bronzo tra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro in tutta l’Italia centrale, composti in gran parte da oggetti d’uso (asce, rasoi, fibule – interi o in frammenti) ha fatto pensare alla possibilità di una funzione «premonetale» di questi prodotti: si tratta comunque della tesaurizzazione di materiali che detenevano un valore riconosciuto per la comunità, anche se a volte si trattava semplicemente di riserve di metallo appartenenti ad artigiani-fonditori. Più tardi, tali depositi (scoperti anche all’interno di santuari) assumeranno la forma di frammenti di metallo grezzo, designati con il termine di aes rude: si tratta ormai di materiali utilizzati non solo per la tesaurizzazione, ma anche come mezzo di scambio, misurati a peso, secondo la formula tramandata dalle fonti romane, che suona: per aes et libram («con bronzo pesato sulla bilancia»).
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170-171. Aes signatum: con ancora e tripode; con polli e rostri.
172-174. Aes signatum: con aquila e Pegaso; con toro; con elefante e maiale
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bero conosciuto gli elefanti. In realtà (come nel caso dei piatti sovradipinti di Capena e di Aleria con elefantessa) non è escluso che si tratti di un motivo iconografico introdotto già in precedenza dal mondo ellenistico. A parte le immagini generiche – come le armi (spada, scudo di tipo gallico, punta di lancia), l’anfora, i tori – troviamo anche simboli chiaramente connessi con precise divinità: l’aquila con fulmine indica Giove, mentre il cavallo alato dello stesso esemplare non è necessariamente un Pegaso: la frequenza di tali rappresentazioni nell’imagerie arcaica romana (basti pensare alle terrecotte architettoniche di prima fase) farebbe pensare piuttosto a un’allusione al trionfo, perfettamente coerente con il simbolo di Giove Capitolino. Per quanto riguarda lo stile, che si apprezza soprattutto nelle rappresentazioni di animali, si coglie, nonostante l’inevitabile semplificazione, una resa naturalistica che rimanda a modelli indubbiamente greci. La vera e propria moneta appare con il cosiddetto aes grave, pezzi fusi di forma rotonda, del peso di una libbra, la cui apparizione, datata in genere al 289 a.C., va fatta risalire certamente a qualche decennio prima. È molto probabile infatti che si tratti
175-176. Aes grave: con Giano e Mercurio; con Roma e ruota.
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di emissioni più o meno contemporanee ai didrammi romano-campani, la cui coniazione ha inizio negli ultimi decenni del IV secolo a.C.: a questi rimanda almeno un’immagine, la testa di Roma con elmo frigio. In ogni caso, un termine cronologico anteriore è la serie librale della prora, che conclude l’emissione dell’aes grave, e che si data intorno al 260 a.C. Conosciamo otto serie di queste monete, due delle quali di peso inferiore («leggere»), che presentano una grande varietà di immagini, caratterizzanti le diverse frazioni (oltre all’asse, semis, triente, quadrante, sestante, oncia e semuncia). Nelle divisioni maggiori (asse e semis) appaiono soprattutto teste di divinità (Giano, Mercurio, Marte, Venere (?), Apollo, Dioscuro – o forse Vulcano –, Roma); nelle minori, simboli vari (testa di satiro, fulmine, delfino, toro, testa di cavallo, maiale, cane, tartaruga, caduceo, conchiglia ecc.). In un caso almeno, quello con testa di Giano giovane (o piuttosto Fons), conosciamo paralleli etruschi (monete di Volterra) (fig. 175). Gli elementi di datazione si ricavano da alcune immagini: – la presenza di Venere (se l’identificazione è esatta) implica una cronologia posteriore al 296, anno d’introduzione del culto a Roma; – la testa di leone con lancia nelle fauci rimanda certamente ad Alessandro; – il tipo con ruota (fig. 176) può essere inteso solo in rapporto con una via: si è pensato giustamente a un fatto epocale, come la fondazione della via Appia nel 312 a.C.; – significativa è anche la presenza dell’immagine bifronte giovanile (fig. 175), identica a quella che appare nel quadrigato: quest’ultimo, che costituisce in definitiva l’ultimo didramma d’argento, corrisponde all’introduzione definitiva della moneta d’argento, datata al 269 a.C. Lo stile appare in genere semplificato e sommario, certamente a causa del sistema utilizzato, la fusione. È evidente comunque la derivazione della forma del disco monetale dall’area magno-greca o siceliota, e anche le immagini rappresentate risalgono indubbiamente alla stessa fonte: basterebbe ricordare l’esemplare con testa di Minerva elmata (fig. 177) in posizione frontale, che dipende direttamente da immagini identiche, ad esempio nella monetazione di Velia. In conclusione, l’aes grave dovrebbe apparire intorno al 330 a.C. e terminare, nel 260, con il tipo dell’asse librale della prora (fig. 178).
177-178. Aes grave: con Minerva e toro; con Giano e prora.
Per quest’ultimo, la cui apparizione è collocata in genere in un periodo intorno al 235, possediamo ora un preciso termine cronologico, in seguito alla scoperta di un esemplare nella città punica di Kerkouane, distrutta nel corso della prima guerra punica, nel 256, e definitivamente abbandonata in seguito. L’introduzione, anteriore a questo anno, può essere fissata con precisione al 260, sulla base dei soggetti rappresentati nell’asse: testa di Giano barbato al dritto, prora di nave militare al rovescio. Come è stato osservato da tempo, la seconda è da porre in relazione con una vittoria navale, che si può identificare solo con quella di Milazzo, ottenuta sui Cartaginesi nel 260 a.C.; per quanto riguarda la prima, va ricordato che il vincitore, Gaio Duilio, dedicò dopo il trionfo un tempio a Giano, presso il porto militare di Roma, nel Foro Olitorio. Sarebbe difficile immaginare una coincidenza più precisa con i soggetti rappresentati nella moneta. Del resto, c’è un sostanziale accordo sul collegamento dell’asse della prora con la prima moneta d’argento, il quadrigato, che infatti, se è valida la nostra analisi, venne introdotto solo nove anni prima.
10.2. La coniazione dell’argento La discussione sulle prime fasi della monetazione romana dell’argento, talvolta anche aspra, si è concentrata soprattutto sulla datazione del denario che, introdotto nel corso del III secolo, è rimasto in seguito, per secoli, la moneta fondamentale dello Stato romano. Oggi la situazione sembra stabilizzata, nel senso che tutti gli studiosi, o quasi, accettano la datazione «bassa», fissata in genere intorno al 212-211 (o piuttosto al 215-214) a.C., soprattutto in base alla scoperta, nel centro siciliano di Morgantina (distrutto nel corso della seconda guerra punica) di un certo numero di denarii pertinenti alle più antiche coniazioni. È però curioso che, in tanta unanimità, non tutti si rendano conto del prezzo da pagare: l’eliminazione dell’unanime parere delle testimonianze antiche che, almeno a prima vista, sembrano contraddire la teoria dominante: in particolare, un testo di Plinio (Storia Naturale, XXXIII, 42-46), che costituisce l’unica testimonianza di una certa ampiezza disponibile sulla storia della moneta romana:
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Il successivo crimine fu compiuto da chi inventò per primo la moneta d’oro, di cui ignoriamo l’identità. Il popolo romano non introdusse neppure la coniazione dell’argento fino alla vittoria sul re Pirro. Si usava l’asse di bronzo del peso di una libbra […] il primo a coniare il bronzo fu il re Servio, mentre in precedenza si usava bronzo grezzo, come ricorda Timeo […] L’argento venne coniato per la prima volta a 485 anni dalla fondazione della città, sotto il consolato di Q. Ogulnio e di C. Fabio, a cinque anni dall’inizio della prima guerra punica: si decise di attribuire al denario il valore di 10 libbre di bronzo, al quinario di 5, al sesterzio di 2,5.
Come si vede, Plinio attribuisce, con ben tre indicazioni cronologiche, la prima coniazione dell’argento al 269 a.C., e questa data è confermata dal riassunto (periocha) del perduto libro XV di Livio («Allora per la prima volta il popolo Romano iniziò a utilizzare la moneta d’argento») e da un gruppo di scrittori più tardi, in parte dipendenti da fonti diverse, che fissano concordemente agli anni immediatamente successivi alla vittoria su Pirro e su Taranto, e cioè a dopo il 272, la data dell’evento, reso possibile proprio dalla disponibilità di una preda immensa. Su questi dati era stata costruita la teoria che identificava questa prima coniazione con il denario, datato di conseguenza al 269 a.C. Come sanare l’apparente contraddizione che risulta dalla nuova datazione al 212-211 (che può risalire almeno fino al 215)? Si presenta una duplice possibilità: o la difesa a oltranza della teoria tradizionale, o l’accantonamento di tutta la documentazione letteraria, da respingere come interamente falsa. Esiste una soluzione alternativa, che permetta di sfuggire a una scelta così drastica, senza mettere in dubbio da un lato la datazione archeologica del denario, dall’altro l’unanime testimonianza degli storici antichi? Se si considera la natura del testo di Plinio, che sappiamo costruito in modo meccanico, assemblando una serie di passi di varia origine, tale possibilità appare del tutto ovvia. Plinio (come anche Livio) non afferma in realtà che il denario venne coniato nel 269: egli parla solo di argentum signatum. La frase successiva, che si riferisce indubbiamente al denario, appare come una «scheda» diversa, meccanicamente giustapposta alla precedente. Di conseguenza, cade la necessità di riconoscere nel denario la prima moneta d’argento coniata a Roma.
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Alcuni studiosi, consci di questa possibilità, hanno tentato di identificare quest’ultima con un gruppo di monete d’argento, denominate «romano-campane», attribuite a un atelier non romano, probabilmente magno-greco o campano. Tuttavia, almeno il tipo più antico di questa serie, con Marte al dritto e testa di cavallo al rovescio, appartiene certamente a un periodo più antico, da fissare negli ultimi decenni del IV secolo: è esclusa di conseguenza la possibilità di riconoscervi la moneta del 269. Anche il tentativo disperato di ripiegare per quest’ultima sul terzo tipo, quello con Ercole e lupa, non ha alcun senso, dal momento che questo – inserito com’è in una serie omogenea – non rappresenta in alcun modo un inizio, ed è del resto anch’esso anteriore al 269. A ben vedere, la soluzione è a portata di mano, ed è stata già avanzata, anche se senza successo. Sappiamo che esiste a Roma una moneta d’argento dimostrabilmente più antica del denario, ed è il quadrigato, che però ci si ostina ad attribuire ad una data piuttosto tarda, variamente fissata tra il 245 e il 220: tuttavia, vari dettagli tecnici, che indicano una durata relativamente lunga di questa coniazione (fissata da alcuni studiosi tra 35 e 50 anni), e soprattutto le sue caratteristiche interne, anche ponderali, che permettono di riconoscervi un prolungamento delle serie «romano-campane», hanno indotto qualche studioso a rialzarne la cronologia, e a identificarvi la più antica moneta d’argento coniata a Roma, quella del 269. Ora, esistono almeno due dati archeologici che sembrano confermare definitivamente tale proposta. Il primo di questi, noto già dalla fine dell’Ottocento, è la scoperta di un ripostiglio di quadrigati e anche di un esemplare isolato nella città greca di Selinunte, nella Sicilia occidentale. Sappiamo che quest’ultima venne distrutta e definitivamente abbandonata nel 250 a.C., nel corso della prima guerra punica: fatto di cui gli scavi recenti hanno definitivamente dimostrato la storicità. Il secondo documento è costituito dalla scoperta di un quadrigato (e anche di una moneta bronzea del tipo della prora, dato altrettanto importante) nel centro punico di Kerkouane (presso Capo Bon). Anche in questo caso, gli estesi scavi realizzati nella città hanno mostrato che questa subì una radicale distruzione, seguita da un definitivo abbandono, intorno alla metà del III secolo a.C.: si è potuto dimostrare che la catastrofe è certamente da collegare con l’invasione del territorio di Cartagine, realizzata da Attilio Regolo nel 256 a.C.
In conclusione, disponiamo ormai per la datazione del quadrigato di due termini ante quem, il 250 e il 256: l’ovvia conclusione è che esso corrisponde alla prima moneta d’argento, coniata a Roma nel 269. Questa lunga e tediosa premessa cronologica era indispensabile, perché ci consente di disporre l’intero complesso della prima coniazione romana dell’argento in una serie cronologica abbastanza serrata e coerente, tra la fine del IV e la fine del III secolo a.C., e ci pone in grado di utilizzare tale tipologia per ricostruire tendenze e sviluppi della cultura artistica romana nello stesso periodo. 10.3. La moneta «romano-campana» La moneta d’argento come unità di conto e mezzo di scambio appare a Roma negli ultimi decenni del IV secolo a.C., quando vengono costruite nel Foro le botteghe dei cambiavalute, denominati per questo argentarii. Sappiamo da Varrone (citato da Nonio, p. 853 L.) che queste sostituirono a un certo punto le antiche macellerie del Foro (attribuite dalla tradizione a Tarquinio Prisco). La data di questo cambiamento si può fissare con una certa precisione, perché il passo citato si trovava nel secondo libro di un’opera perduta di Varrone (De vita populi Romani) che trattava il periodo tra la metà del IV e la metà del III secolo a.C.: grazie a Livio (IX, 40, 16), siamo in
grado di precisare: prima del 310 a.C., quando, nel corso del trionfo sui Sanniti di L. Papirio Cursore, «le armi [catturate] apparvero così splendide, che gli scudi dorati furono distribuiti ai proprietari delle taberne degli argentarii per decorare il Foro». Altri documenti ricordano l’esistenza di queste botteghe nel III secolo a.C. È possibile dunque attribuire la loro costruzione a C. Menio, console nel 338 e censore nel 318, che nel corso di quest’ultima magistratura realizzò grandi lavori nel Foro, introducendo l’uso dei balconi a sbalzo al di sopra delle tabernae, che da lui presero il nome di maeniana: le botteghe dei cambiavalute forono dunque introdotte in un lasso di tempo compreso tra il 318 e il 310 a.C. Ciò significa, indubbiamente, che la circolazione in quantità notevole della moneta d’argento era già iniziata, e quindi che in tale periodo doveva esistere una coniazione romana in quel metallo, anche se non si può escludere che si trattasse di emissioni di altre città, ad esempio di Napoli, la cui moneta era allora dominante nei mercati dell’Italia centrale e meridionale, e che era diventata da poco alleata di Roma (326 a.C.). La comparsa delle prime monete romano-campane (didrammi derivati da modelli greci) va fissata, come si è detto, negli ultimi decenni del IV secolo a.C. Si tratta di due serie, successive nel tempo, la prima con la leggenda ROMANO (da interpretare come un genitivo plurale, cioè Romanorum, dei Romani,
179-182. Didrammi romano-campani: con Marte e protome equina; con Apollo e cavallo; con Ercole e lupa; con Roma e Vittoria.
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in senso di appartenenza), la seconda con leggenda ROMA. All’interno della prima si distinguono quattro tipi, di peso via via minore, e quindi cronologicamente successivi. 1. Dritto: testa elmata di Marte; rovescio: testa di cavallo (fig. 179). Il tipo barbato permette l’identificazione con Mars Pater, il dio dell’Ara Martis, nel Campo Marzio. La presenza sul rovescio di una protome di cavallo con i finimenti ha fatto pensare a un rapporto con il rituale arcaico dell’equus October, una cerimonia che si svolgeva alle Idi di ottobre, e prevedeva una corsa di carri, conclusa con il sacrificio di un cavallo del tiro vincitore. Resta però difficile comprendere le ragioni di tale scelta, in questo particolare contesto. In alternativa, il cavallo potrebbe celebrare l’alleanza con l’aristocrazia di Capua (equites Campani), stipulata nel 338 a.C.: la presenza della spiga accanto alla protome equina potrebbe alludere alla proverbiale ricchezza agricola della Campania. D’altra parte, la scelta di Marte – divinità egualmente popolare a Roma e nell’area italica – può comprendersi nel quadro di un’alleanza squisitamente militare. Il peso, di 7,28 grammi circa, è chiaramente agganciato alla moneta di Napoli, cui rimanda anche lo stile della rappresentazione, puramente greco (la testa di cavallo al rovescio ha fatto pensare anche ad analoghe immagini nella monetazione cartaginese). La tesi tradizionale, che attribuisce la coniazione a zecca napoletana, sembra dunque probabile, e può fornire un ulteriore aggancio cronologico, il 326 a.C., data dell’alleanza (foedus) tra Roma e Napoli. La data della moneta potrebbe fissarsi in quello stesso anno, o poco dopo: una conferma si ricava dai ripostigli, dove questo tipo appare insieme a conii magno-greci della seconda metà del IV secolo. 2. Dritto: testa di Apollo; rovescio: cavallo in corsa (fig. 180). Il peso (7,21 grammi ca.) e la derivazione da monete della zecca di Napoli del tardo IV secolo giustifica l’attribuzione a un periodo di una generazione più tardo. La proposta di spiegare la presenza di Apollo con una vittoria sui Galli aveva fatto pensare alla grande vittoria di Sentinum (295) o con quella del Lago Vadimone (284?). La presenza del culto di Apollo nelle più antiche colonie romane non contraddice a una datazione entro il primo decennio del III secolo, che potrebbe spiegarsi con la consultazione dei libri Sibyllini in rapporto all’introduzione del culto di Esculapio (292 a.C.).
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3. Dritto: testa di Ercole; rovescio: lupa con i gemelli (figg. 181, 194). La differenza di peso rispetto agli altri due tipi (6,98 grammi ca.) non è comunque tale da giustificare una data di molto successiva. La presenza di Ercole suggerisce con forza un momento posteriore al trasferimento del culto dall’ambito gentilizio a quello pubblico, avvenuto nel 312 a.C., ad opera del censore Appio Claudio. Tale data è ulteriormente precisata dalla presenza della lupa, che dovrebbe essere quella collocata nel Comizio dai fratelli Ogulnii, nel corso della loro edilità nel 296. L’occasione precisa potrebbe riconoscersi nella fondazione del primo tempio dedicato a Hercules Invictus, aggiunto alla più antica Ara Maxima in un momento che si può fissare con sicurezza subito dopo il 292 (poiché Livio non ne parla nella parte conservata del suo testo, che si arresta a quell’anno). Sembra probabile che la costruzione coincida con la fine della seconda guerra sannitica, e sia da attribuire a uno dei generali che trionfarono tra il 292 e il 290: i migliori candidati sembrano Q. Fabio Massimo Rulliano e suo figlio, Q. Fabio Massimo Gurgite, soprattutto per lo stretto collegamento tra la gens Fabia e il culto di Ercole, che ne sarebbe stato il fondatore mitico. Nella testa del dio colpiscono l’assenza di barba e il diadema: si è visto che si tratta di un tipo derivante dalle monete di Alessandro e dei suoi primi successori (Diadochi). Sarebbe difficile non collegare queste caratteristiche agli epiteti allusivi alla vittoria, introdotti, come si è visto, negli anni intorno al 300: si tratta infatti del culto di Hercules Invictus. La splendida testa, resa con volumi ampi e semplificati, su cui spicca il movimento delle ciocche virgolate, è ancora pienamente classica. Altrettanto felici le figure della lupa e dei gemelli, caratterizzati da una tensione dinamica e da una mobile vivacità, tipici dell’arte lisippea e del primo ellenismo: l’attività di Lisippo a Taranto è senza dubbio alla radice di prodotti del genere, diffusi da qui al resto della Magna Grecia. Se si tratta, come sembra ovvio, della statua eretta nel Comizio di Roma dagli Ogulnii, nel 296, siamo certamente in presenza dell’opera di un artista greco, probabilmente tarentino, forse quello che più o meno negli stessi anni realizzò nello stesso Comizio le statue di Pitagora e di Alcibiade. La data del didramma con Ercole e la lupa può dunque fissarsi con grande probabilità intorno al 290 a.C., e costituisce anche un preciso termine ante quem per la precedente con Apollo / cavallo.
4. Dritto: testa femminile elmata (Roma); rovescio: Vittoria che fissa una corona al ramo di una palma (fig. 182). Il peso (6,6 grammi ca.) indica una datazione più tarda rispetto agli altri tipi. L’apparizione, per la prima volta, di una rappresentazione di Vittoria, mutuata direttamente dalla greca Nike, attesta in modo esplicito la nascita di una «teologia della vittoria» in questi anni (si ricordi la fondazione di un tempio della dea sul Palatino nel 294), data confermata dalla presenza della palma come simbolo di vittoria, attestata per la prima volta da Livio (X, 47, 3) per il 293: «Quello stesso anno per la prima volta gli spettatori assistettero ai giochi romani coronati e vennero offerte ai vincitori, introducendo un uso greco, dei rami di palma». La caratteristica più importante di questa moneta, per molti versi del tutto particolare, è la presenza sul dritto di una complessa serie di lettere greche, semplici o doppie, per indicare il numero del conio. Si tratta di un particolare che appare a Roma solo in questo caso, e che rimanda direttamente alle monete di Arsinoe II, sorella e moglie di Tolomeo Filadelfo. La dipendenza da queste è sicura, e può spiegarsi solo con la ratifica del trattato di amicizia tra Roma e l’Egitto, del 273 a.C. Questa data costituisce un sicuro termine cronologico per il didrammo romano, di cui è così confermata la datazione relativamente tarda. Contemporanea dovrebbe essere l’introduzione di un altro gruppo di didrammi, con leggenda ROMA: ne fanno parte tre tipi, che riprendono i modelli delle più antiche monete romano-campane: al tipo del
Marte barbato succede un Marte imberbe, rivolto a destra, mentre il rovescio conserva la testa di cavallo (fig. 183); segue una litra con Ercole barbato al dritto e Pegaso al rovescio (fig. 184); infine, un didramma con testa di Apollo e cavallo in corsa (fig. 185). La cronologia di questi esemplari è facilmente determinabile, perché la testa di Marte deriva direttamente dalla testa di Achille delle monete di Pirro (mentre Ercole dipende dalle monete di Alessandro): di conseguenza, siamo negli anni Settanta del III secolo a.C., immediatamente prima dell’inizio della coniazione centralizzata dell’argento, fissata dalle nostre fonti al 269 a.C. Questa si identifica certamente, come abbiamo visto, con il tipo del quadrigato (fig. 187). Alla stessa data va attribuita la fondazione della zecca sulla sommità settentrionale del Campidoglio, l’Arx, che per la vicinanza dell’antico Tempio di Giunone Moneta (da allora utilizzato come archivio) assunse per la prima volta il nome di Moneta. Ce lo conferma un deposito, costituito in gran parte da quadrigati di peso inferiore alla norma, scoperto sul Campidoglio, e chiaramente destinati ad essere rifusi nella vicina zecca. È probabile che allo stesso periodo risalga anche la creazione degli appositi magistrati, addetti al controllo delle operazioni di coniazione, i tresviri monetales. Il quadrigato, per il suo peso (6,6 grammi) è sostanzialmente un didrammo, come le monete romano-campane, di cui costituisce il prolungamento, come conferma l’inizio della sua coniazione nel 269. Esso costituisce la prima monetazione argentea di lunga durata e di grandi dimensioni quantitative,
183. Didrammi romanocampani (gruppo ROMA) con Marte e protome equina. 184. Litra romano-campana (gruppo ROMA) con Ercole e Pegaso. 185. Didrammo romanocampano (gruppo ROMA) con Apollo e cavallo.
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incomparabilmente superiori a quelle precedenti, e soprattutto conserva fino alla fine lo stesso tipo, con al dritto una doppia testa giovanile gianiforme e al rovescio una quadriga con Giove guidata dalla Vittoria, da cui il nome. Sono tutte caratteristiche che ne confermano il carattere di «prima coniazione ufficiale» dello Stato romano, come è confermato dalle imitazioni che ne vennero battute all’epoca di Traiano, traendo senza dubbio i modelli dall’archivio della Moneta, dove essi erano ancora conservati quattro secoli dopo la loro creazione. Grosso modo contemporanea, come sappiamo, deve considerarsi l’introduzione dell’asse librale di bronzo con la testa di Giano barbato al dritto e la prua di nave al rovescio. Di conseguenza, l’introduzione dell’aes grave della prora, destinato a durare per secoli, è solo di sei anni successiva a quella del quadrigato: la presenza delle teste gianiformi sul dritto, barbata nel primo caso, imberbe nel secondo, è un’evidente conferma di questo rapporto, anche se non è chiaro il significato di quest’ultima. Non è accettabile per essa l’identificazione con i Dioscuri, mentre qualche ragione in suo favore ha quella con Fons, il dio delle sorgenti: questi infatti era considerato figlio di Giano. Va considerato inoltre il possibile rapporto con le porte, accertato nel caso di Giano (il cui sacello, prossimo alla Cu-
ria, non era altro che una doppia porta): la forma bifronte alluderebbe al rapporto interno-esterno, che il dio simbolizza. D’altra parte, anche Fons è in stretto rapporto con una porta, presso la quale sorgeva il suo tempio: la porta Fontinalis, appunto, che si apriva a breve distanza dal sacello di Giano, e forse ne costituiva la replica fuori delle mura serviane. È da notare, a questo proposito, che questa porta si trovava precisamente ai piedi dell’Arx, e quindi della Moneta. Una conferma di tale interpretazione si ricava dalle terrecotte votive scoperte in due città etrusche,
Vulci e Tarquinia (fig. 186), in diretta connessione con una porta urbica. Nel primo caso, si tratta di rappresentazioni barbate, quindi di Giano, mentre nel secondo le due teste gemine sono imberbi, e vicinissime, per stile e cronologia (III secolo a.C.), a quelle dei quadrigati: sarebbe difficile escludere un preciso rapporto tra queste immagini, che trovano confronto anche in monete e in bronzi etruschi, come la statuetta di Setlans (il Giano etrusco?) da Cortona (fig. 188). Sembra confermata così l’identificazione dell’immagine sul dritto del quadrigato con Fons, e quindi con il dio della porta Fontinalis. 10.4. La monetazione aurea La coniazione dell’oro è sempre stata eccezionale a Roma, ed è rivelatrice, specialmente in età repubblicana, di gravi difficoltà finanziarie. Nel III secolo ne conosciamo solo due esempi, per di più cronologicamente molto vicini. Il primo è il cosiddetto «Oro del giuramento» (fig. 189), di cui ci è pervenuto un numero ridottissimo di esemplari. Metrologicamente e iconograficamente, questa moneta è strettamente collegata al quadrigato: presenta infatti sul dritto la stessa immagine giovanile bifronte. Non c’è alcun dubbio quindi sulla sua cronologia, che deve essere anteriore (anche se di poco, come vedremo) all’introduzione del denario. Per questo, possiamo rifarci ancora una volta al testo di Plinio, secondo il quale «la moneta d’oro
fu coniata 51 anni dopo quella d’argento». Non è del tutto chiaro a quale dei due aurei l’autore si riferisca, ma tutto compreso è probabile che si tratti del più antico, quello «del giuramento», che dovremmo datare di conseguenza 51 anni dopo il 269 e cioè, secondo l’uso romano, al 219, o al più tardi al 218. Il nome deriva dalla rappresentazione del rovescio, dove appare in effetti una scena da interpretare come cerimonia di giuramento: due personaggi – uno anziano, barbato e uno più giovane, ambedue armati di lancia – si fronteggiano, mentre tra di loro un terzo individuo, accovacciato, tiene un maialino da sacrificare. La precisa corrispondenza con descrizioni antiche permette di riconoscervi la stipulazione di un’alleanza (foedus). Non si tratta però di una scena reale, ma di una rappresentazione mitistorica: si è pensato al trattato stipulato tra Enea e il re Latino, ma è più probabile che si tratti del patto stipulato da Romolo e Tito Tazio, di cui presso il Comizio esisteva un gruppo scultoreo, certamente in bronzo (Servio, Commento all’Eneide, VIII, 635-641). La moneta quindi commemora l’istituzione o la riconferma di un foedus, che deve essere in rapporto cronologico con il momento in cui fu coniata. L’altro dato da prendere in considerazione è la riapparizione della stessa immagine in due tipi monetali tardo-repubblicani: quello, celeberrimo, coniato dai federati italici al momento della loro rivolta contro Roma (90-89 a.C.) e quello, di qualche decennio anteriore, dovuto al tresvir monetalis Ti. Veturius (fig. 190).
189. «Oro del giuramento».
186. Tarquinia, ex voto di terracotta con Fons (Tarquinia, Museo Archeologico).
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187. Quadrigato.
188. Statuetta bronzea di Setlans (Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della città).
190. Denario di Ti. Veturius. 191. Vittoriato.
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Se il primo conferma in pieno l’interpretazione dell’immagine come giuramento comune (coniuratio) in relazione a un’alleanza, il secondo costituisce certamente il tramite tra l’«Oro del giuramento» e le monete della guerra sociale. L’interesse per questo tipo monetale di un Ti. Veturius sembra da spiegare con una relazione di parentela tra il monetalis tardo-repubblicano e il responsabile della coniazione dell’«Oro del giuramento»: quindi, anche quest’ultimo è dovuto a un Veturius, vissuto intorno al 219 a.C. L’unico possibile è il console del 220, L. Veturius Philo. Secondo Zonara (VIII, 20) «Lucio Veturio e Gaio Lutazio si spinsero fino alle Alpi, e senza combattere si impadronirono di molte [popolazioni]». Per vari motivi, deve trattarsi della conquista del Piemonte, che venne a completare quella immediatamente precedente della zona gallica della Lombardia, completata nel 222. Ora, è dimostrato che in tale occasione venne occupata Victimulae (zona della Bessa, presso Biella), celebre per le sue miniere d’oro, che fu poco tempo dopo, alla fine del 218, presa da Annibale. Possiamo così constatare che in un preciso momento, compreso tra il 220 e il 218, si realizzano tutte le condizioni per la coniazione dell’«Oro del giuramento»: disponibilità eccezionale d’oro, conseguenza della vittoria di un Veturius. Inoltre, commemorazione di un giuramento, che può essere solo quello celebre, ricordato da Polibio, pronunciato solennemente da tutti i membri della confederazione romano-italica nel 225 a.C., al momento dell’invasione dell’Italia centrale da parte dei Galli Boi e Insubri, che terrorizzò tutte le popolazioni coinvolte. La conquista del Piemonte da parte di L. Veturio rappresenta infatti l’episodio finale di questa guerra, iniziata cinque anni prima: si comprende così l’enfasi della commemorazione, che si concretizzò nella prima coniazione dell’oro, che in effetti possiamo datare, sulla base di Plinio, precisamente al 219-218. Il secondo aureo è solo di pochi anni più tardo, e fa parte del sistema del denario, come si deduce dalle sue caratteristiche metrologiche. Sul dritto è rappresentata una testa di Marte, sul rovescio un’aquila con il fulmine (fig. 192). La presenza di un’esemplare negli strati di distruzione di Morgantina (insieme a denarii dei tipi più antichi) garantisce una datazione anteriore al 211, e più probabilmente al 213 a.C.: data confermata da una scoperta avvenuta ad Agrigento, dove è apparso un grande ripostiglio costituito esclusivamen-
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te da aurei di questo tipo, nascosto probabilmente al momento della conquista della città da parte dei Cartaginesi, nel 213. La frequente presenza di queste eccezionali monete nella Sicilia della seconda guerra punica permette di precisarne la funzione in rapporto alle necessità di finanziamento degli eserciti romani stanziati nell’isola. Si tratta di elementi che non solo permettono di datare la coniazione dell’aureo intorno al 214, ma confermano un’analoga datazione del denario, argomento cui ora dobbiamo rivolgerci. 10.5. Il denario L’episodio fondamentale nella storia della moneta repubblicana è l’introduzione del denario, che rimase in corso fino alla piena età imperiale. Si tratta di una moneta d’argento del peso di 10 assi di bronzo sestantali (ridotti cioè a un sesto di libbra), divisa nelle frazioni del quinario (mezzo denario) e del sesterzio (un quarto di denario). La sua introduzione venne a lungo identificata con l’inizio della coniazione dell’argento, e datata di conseguenza al 269 a.C., in base a un’errata interpretazione di un passo di Plinio, già esaminato. Tale data venne messa in dubbio per la prima volta da uno studioso inglese, Harold Mattingly, che
192. Aureo con Marte e aquila.
la spostò in basso di più di un secolo, fino al 187 a.C. In seguito, le scoperte di Morgantina hanno permesso di riportare indietro – almeno fino al 211, data della riconquista e parziale distruzione della città da parte dei Romani – tale cronologia. Questo termine da alcuni è stato riportato un po’ più indietro, al 213, data della conquista cartaginese della città: ciò rende probabile che l’introduzione della moneta si debba fissare intorno al 215-214 a.C. Come nel caso del quadrigato, il denario presenta fin dall’inizio le caratteristiche iconografiche che conserverà a lungo anche in seguito – segno di una precisa volontà da parte dello Stato di fornire uno strumento facilmente riconoscibile e affidabile (si pensi, in età moderna, al caso del dollaro). Sul dritto appare sistematicamente la testa di Roma elmata, rivolta a destra; sul rovescio i Dioscuri sormontati ognuno da una stella, armati di lancia, su cavalli al galoppo (con rare varianti successive, ad esempio il simulacro di Luna su biga). Al di sotto, la scritta ROMA (fig. 193). La testa femminile del dritto reca un elmo di tipo attico, alato e sormontato da una testa di grifo. Sembra accertato che si tratti di Roma. Le ali dovrebbero alludere alla vittoria. Il tipo dei Dioscuri del rovescio sembra derivare da una moneta dei Bruzii, databile all’inizio del III secolo, coniata forse a Locri, che presenta alcune diversità, come l’assenza della lancia e la mano destra alzata in segno di saluto. Il motivo della scelta sembra intuibile: l’introduzione del culto dei Dioscuri a Roma, dopo la vittoria del Lago Regillo sulla Lega Latina (499 o 496 a.C.), venne subito collegata alla vittoria dei Locresi sui Crotoniati alla Sagra (metà del VI secolo a.C.), avvenuta in circostanze analoghe: in ambedue i casi, i divini cavalieri serebbero intervenuti, determinando la vittoria di uno dei contendenti, in questo caso di Locri. L’alleanza tra le due città in epoca precedente all’introduzione del denario, nel corso della guerra contro Pirro, è illustrata dalla moneta di Locri che mostra Pistis (Fides) in atto di coronare Roma. Con la guerra annibalica in corso, Roma intendeva probabilmente sottolineare, utilizzando l’immagine
194. Didrammo romano-campano con Ercole e lupa.
della moneta dei Bruzii, l’antico legame con le città della Magna Grecia. Sappiamo che nel 215 Locri cadde nelle mani dei Cartaginesi: ciò potrebbe significare che il denario sia stato introdotto subito prima di questa data. La scelta dei Dioscuri va spiegata comunque in rapporto con la vittoria sui Latini del 499/496, illustrata dall’atteggiamento dei divini gemelli che, nella moneta romana, sono rappresentati in combattimento. Questa vittoria aprì la strada a una nuova alleanza, il foedus Cassianum, modello della confederazione romano-italica. La celebrazione di quest’ultima, come abbiamo visto, è presente in una moneta di poco più antica, l’«Oro del giuramento», coniato dopo l’eliminazione del pericolo gallico; analogamente, l’immagine del denario illustra l’episodio – la sconfitta della Lega Latina – che aveva dato origine alla potenza di Roma repubblicana, e l’intervento risolutivo dei Dioscuri, in un momento in cui la confederazione subiva l’attacco devastante di Annibale. Tale elemento di propaganda riappare in un’altra moneta coniata negli stessi anni, il vittoriato (fig. 191), in rapporto con il quadrigato, probabilmente destinato a circolare fuori di Roma, e inizialmente in Italia meridionale. Troviamo qui, al dritto, l’immagine di Giove (certamente Capitolino) e al rovescio la Vittoria che corona un trofeo: sarebbe difficile immaginare illustrazione più esplicita dell’auspicio di un futuro trionfo, esibita proprio nel momento in cui gli eserciti romani subivano le loro più gravi sconfitte.
193. Denario anonimo.
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11. L’ARTIGIANATO ARTISTICO
11.1. Roma e Preneste L’immagine di Roma come città parassitaria è uno di quegli stereotipi radicati nell’immaginario comune, tanto più difficili da eliminare, quanto più privi di motivazioni razionali e documentate. Che la città sia stata sempre un importante centro di produzione è dimostrato, tra l’altro, da un numero impressionante di testimonianze epigrafiche relativo a corporazioni artigiane, che vanno dal periodo repubblicano alla tarda antichità. In ogni caso, per il periodo che qui interessa, i dati archeologici sembrano confermare la centralità di Roma, almeno per certi prodotti di grande diffusione, come la ceramica. L’oggetto più significativo che possiamo assegnare all’artigianato romano del IV secolo a.C. è la cosiddetta Cista Ficoroni (figg. 203-208, 210211), scoperta nella necropoli di Preneste, da dove provengono numerosi altri oggetti di questo tipo. Comunque, la ricchissima produzione artigianale di Preneste in età medio-repubblicana comprende non solo le ciste di bronzo, ma anche una numerosa serie di altri manufatti, dagli specchi agli strigili, dagli elmi decorati agli oggetti in osso scolpito: si tratta di un repertorio prezioso per la conoscenza della produzione artistica del Lazio e – indirettamente – della stessa Roma. La ragione dell’assenza praticamente totale di testimonianze analoghe provenienti da Roma non è difficile da spiegare: in primo luogo, ciò può dipendere dalla distruzione e dal saccheggio sistematico delle necropoli più antiche della città, conseguenza della sua storia urbanistica. Una situazione del ge-
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nere è attestata nel caso di due grandi centri antichi, come Capua e Corinto, le cui necropoli furono sistematicamente depredate dai coloni cesariani inviati a ripopolarli. È anche possibile che l’esiguità dei reperti provenienti dalle necropoli romane sia dovuta alla diversa natura dei rituali, fin da età arcaica regolati da apposite leggi suntuarie che imponevano la limitazione del lusso funerario. In ogni caso, questo silenzio dell’archeologia non dice nulla sulla reale dimensione dell’attività artigianale di Roma medio-repubblicana, che è confermata da altre testimonianze. Per colmare questo vuoto documentario, i dati di Preneste (città latina di grande importanza, geograficamente e culturalmente vicinissima a Roma) appaiono preziosi, e vanno quindi esaminati con una certa ampiezza. Abbiamo già considerato in precedenza le ricchissime tombe orientalizzanti della città, che ne riflettono l’alto livello economico e culturale in un periodo coincidente con gran parte del periodo regio di Roma. Dobbiamo ora rivolgerci all’altrettanto rilevante, e quantitativamente molto più ampia, documentazione di età medio-repubblicana, che attesta, dopo uno iato di circa due secoli, una straordinaria fioritura della città. Lo scavo della necropoli di Palestrina è stato realizzato in gran parte nel corso dell’Ottocento, ed è opera più di saccheggiatori che di archeologi: ciò ha provocato la perdita quasi completa dei materiali «minori» dei corredi, come in particolare la ceramica – fondamentale per stabilire la cronologia – e soprattutto la decontestualizzazione e la dispersione di
195. Preneste, necropoli della Colombella: cippi funerari in calcare a forma di pigna (Palestrina, Museo Archeologico).
quelli conservati: tale disastrosa situazione rende quasi impossibile uno studio moderno dei ritrovamenti. La prima scoperta, del tutto casuale, è anche la più rilevante: si tratta della Cista Ficoroni, apparsa nel 1738, in circostanze poco chiare. Seguirono altre scoperte nel 1828, ma il grosso dei ritrovamenti ebbe luogo tra il 1855 e il 1907, quando, con una serie di interventi successivi, fu esplorata gran parte della necropoli della Colombella, situata a sud della città antica. Le tombe erano segnalate in superficie da cippi di calcare a forma di pigna su capitello corinzio (fig. 195), talvolta dotati di iscrizione con il nome del defunto. I più antichi di questi, a giudicare dagli elementi morfologici e paleografici, appaiono verso la fine del IV secolo a.C., e l’uso si prolunga fino alla fine del II secolo a.C.: gli esemplari conservati ammontano a più di 350, mentre molto più numerosi sono quelli anepigrafi, che forse in origine prevedevano un’iscrizione dipinta.
Talvolta i segnali erano costituiti da cippi a forma di busti femminili velati (fig. 196), incassati in una base quadrangolare, su cui è incisa l’iscrizione: si tratta di immagini generiche, di ritratti puramente «intenzionali», che esprimono una sorta di apoteosi delle defunte, equiparate a divinità quali Proserpina (o Fortuna), e per questo rappresentate solo per la metà superiore, mentre l’inferiore è immaginata immersa nel mondo sotterraneo: allusione trasparente a una sperata rinascita. Nella serie sufficientemente nutrita di queste rappresentazioni, all’inizio di evidente ispirazione ellenica, si può notare un progressivo scadimento verso forme via via più «espressionistiche» e anorganiche, secondo una tendenza universalmente diffusa in tutta l’attività artigianale
Alle pagine seguenti: 196. Preneste, necropoli della Colombella: busti funerari femminili in calcare (Palestrina, Museo Archeologico).
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197-198. Preneste, necropoli della Colombella: sarcofago in peperino, dettagli (Palestrina, Museo Archeologico).
dell’Italia peninsulare, dalle terrecotte votive alla ceramica decorata alla stessa moneta. Le deposizioni erano a inumazione, in sarcofagi – monolitici e a lastre – o a incinerazione, in urne. Tra i primi è notevole un coperchio a tetto displuviato, con ricca decorazione scolpita, databile negli ultimi decenni del IV secolo a.C. (figg. 197-198). Esso presenta evidenti analogie con quello della Tomba dei Cornelii a Roma (fig. 160). Le tombe maschili erano quasi prive di corredo, mentre quelle femminili contenevano una ricca serie di oggetti: oltre ai gioielli, la cista, che conteneva lo specchio e le scatole di legno per i belletti. Le ciste più antiche, databili tra il V e la prima metà del IV secolo a.C., erano costituite da un cilindro in cuoio entro una gabbia metallica, con coperchio in bronzo; quelle più recenti, interamente in bronzo, presenta-
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no un corpo cilindrico in lamina, spesso con figurazioni incise. I piedi e il manico del coperchio erano invece realizzati a fusione piena. Le scene incise sulle ciste e sugli specchi costituiscono un ampio repertorio di iconografie, per lo più mitiche, in cui si rispecchiano i valori della società prenestina contemporanea. Il recipiente, utilizzato come dono nuziale, è al centro di una complessa simbologia, che rappresenta i valori femminili della bellezza e della seduzione, ma anche quelli maschili della palestra e della guerra, convergenti, tramite un preciso percorso iniziatico, verso il matrimonio e quindi verso la riproduzione globale della società. Particolarmente rilevante è un piccolo cinerario di calcare a forma di tempietto (fig. 199) con semicolonne ioniche, deposto all’interno di un sarcofago di peperino. Un caso analogo, nella necropoli esquilina,
è notevolmente più antico: un’urna marmorea, certamente lavoro greco di VI secolo, collocato dentro un contenitore di peperino (fig. 12). Nel caso di Preneste il corredo, conservato, permette di ricostruire un esempio eccezionale di ideologia funeraria. Come è ovvio, l’urna cineraria a forma di tempio è una chiara allusione alla natura divina del defunto: qualcosa di analogo si può dire per i sarcofagi dei Cornelii a forma di tempio o di altare, descritti in precedenza. All’interno dell’urna erano deposti un bellissimo strigile (fig. 200) con impugnatura a forma di figura femminile nuda e soprattutto uno specchio graffito (fig. 201), con una scena mitica costituita da quattro figure. Un guerriero armato con corazza, schinieri e scudo sta cingendo la spada: egli è identificato con Aiace dall’iscrizione disposta accanto alla testa. Alla
sua destra, una figura femminile nuda, in cui l’apposita scritta permette di riconoscere Teti, sta aiutando il guerriero a indossare le armi. Alla sinistra di Aiace è un’altra donna, che suona la lira (Alcmena), e accanto a questa un sileno accovacciato che beve da una coppa. È anche significativa l’immagine di sirena posta in basso al centro, che regge con le due mani i capi di una corona di alloro che, girando intorno allo specchio, forma la cornice della scena. L’iconografia è quella utilizzata in genere per la vestizione di Achille con le armi donate da Efesto da parte di Teti: un noto episodio dell’Iliade. La sostituzione di Achille con Aiace e la presenza di Alcmena, la madre di Eracle, è stata spiegata come un tipico caso di incomprensione del mito greco da parte dell’artigiano prenestino. In realtà, appare evidente che l’iconografia tradizionale è stata volutamente
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199-202. Preneste, necropoli della Colombella: urna cineraria di calcare (Roma, Museo Barracco); strigile di bronzo figurato (disegno) (Londra, British Museum); specchio di bronzo inciso (disegno) (Londra, British Museum); strigile di bronzo figurato (Roma, Museo di Villa Giulia).
adattata a un altro significato. La spiegazione può venire dalla presenza, a prima vista sconcertante, di Alcmena: infatti la madre di Eracle appartiene ovviamente a un’altra generazione rispetto a quella di Aiace. Essa è qui presente in veste di sposa di Radamanto, il mitico giudice dell’Isola dei Beati (cui allude anche l’azione musicale della donna, che dimostra il carattere ultraterreno della scena). Si tratta dunque del supremo atto di giustizia per cui le armi di Achille, rifiutategli in vita per la perfidia di Ulisse, sono assegnate in morte ad Aiace. È la versione del mito cantata nei Sepolcri di Foscolo: «E la marea mugghiar portando / alle prode Retèe l’armi di Achille / sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte». Lo specchio, forse appositamente realizzato per la sepoltura, riflette dunque la cultura del committente: il morto eroizzato, come risulta dall’urna in forma di tempio, è assimilato ad Aiace: potremmo anzi pensare che si tratti dell’«antenato mitico» della famiglia, da considerare tra le più eminenti di Preneste alla fine del IV secolo. Il carattere attualizzante della figurazione, e quindi l’identificazione del defunto con l’eroe, risulta anche dalla presenza della sirena, essere per eccellenza funerario, e dalla corona d’alloro, simbolo trionfale, allusivo alle imprese del personaggio. 11.2. La Cista Ficoroni Il tipo di oggetto più rilevante tra quelli scoperti nella necropoli di Preneste è la cista: si tratta di un tipo di contenitore bronzeo di forma cilindrica, destinato a custodire il corredo femminile (una sorta di beauty case). Diffuso anche in Etruria, esso è conosciuto soprattutto dai numerosissimi esemplari provenienti dalla necropoli prenestina. Per questo la città, famosa per i suoi artigiani del bronzo, è considerata il centro esclusivo di questa produzione. Tuttavia, l’esemplare più notevole e famoso, la cista detta «Ficoroni» (figg. 203-208, 210-211) dal nome del suo primo proprietario, risulta prodotta a Roma, come si deduce dalla firma apposta sull’oggetto, unico caso del genere attestato: in assenza di questa, nessuno avrebbe mai dubitato della sua appartenenza a un atelier prenestino, poiché tanto la tipologia, quanto la provenienza dalla necropoli della città laziale indirizzano inevitabilmente verso questa soluzione. Del resto, l’imbarazzo provocato dalla non equivoca attestazione della provenienza romana si manifesta nella rimozione sistematica del
problema, così che la cista è ancora presentata come tipico esempio dell’artigianato prenestino (quando non addirittura etrusco). Per la restituzione di questo straordinario reperto al suo contesto culturale è necessario riprendere in dettaglio tutte le informazioni che esso è in grado di fornire: e in primo luogo insistere sul fatto che, nonostante il suo isolamento, dovuto solo a sfavorevoli circostanze storiche, si tratta di un documento in grado di capovolgere il pregiudizio diffuso sulle dimensioni e sulla qualità dell’artigianato artistico romano nell’epoca in questione. In primo luogo va sottolineato il carattere eccezionale dell’oggetto, uno dei più grandi e certamente il più alto, qualitativamente, tra la ricca messe di recipienti di questo tipo che ci sono pervenuti: si tratta infatti di quello che conserva più fedelmente le caratteristiche e i livelli dei modelli greci da cui dipende. Allo stesso tempo, non c’è dubbio sul suo carattere artigianale, evidente oltre che per la sua natura di oggetto «di serie», per l’utilizzazione di elementi a tutto tondo (i piedi e il manico figurato) appartenenti ad altra officina, certamente etrusca, come risulta non solo dalle caratteristiche di stile, ma soprattutto dall’iscrizione incisa su uno dei piedi, con il nome del proprietario cui l’oggetto era destinato (Maquovlna = Magulnia): si tratta dunque di un assemblaggio di elementi diversi, e di diversa provenienza. Comunque, anche questo dato conferma l’eccezionalità dell’oggetto, per la menzione del committente non solo nell’iscrizione principale del coperchio, ma anche in parti relativamente secondarie: queste furono infatti espressamente ordinate per l’occasione, ciò che dimostra il carattere unico del prodotto, pur entro una pratica artigianale di serie. L’iscrizione (fig. 203) conferma in pieno queste osservazioni: essa è incisa sulla base delle tre figure che costituiscono l’impugnatura del coperchio, su due righe parallele, disposte in senso inverso tra loro. Vi si legge: NOVIOS PLAUTIOS MED ROMAI FECID / DINDIA MACOLNIA FILEAI DEDIT («Novios Plautius mi fece a Roma, Dindia mi donò alla figlia Magulnia»). Si tratta dunque di una signora prenestina, appartenente alla nobile gens locale dei Dindii, che fece dono della cista alla figlia Magulnia (nome anch’esso di spicco): non si tratta dunque di una donna con due gentilizi, e Macolnia va interpretato come un dativo arcaico e corrisponde al nome del marito di Dindia, ovviamente lo stesso della figlia. Siamo in presenza di un dono per nozze, degno del livello so-
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ciale dei committenti, che la proprietaria avrà portato con sé nella tomba. Il nome dell’artista e quello del luogo di produzione è seguito dall’indicazione del committente (da cui si deduce il carattere di dono matrimoniale) e dal nome del destinatario. In altri termini, non si tratta dell’acquisto di un prodotto già fatto, ma di un’ordinazione, per di più in una località diversa da quella dove se ne prevedeva l’impiego: la prima era Roma, la seconda Preneste, come si deduce non solo dal luogo di ritrovamento, ma anche dai due gentilizi menzionati nell’iscrizione, Dindius e Magulnius. In conclusione, la committente preferì servirsi in un atelier romano, invece che in una più accessibile bottega prenestina. I motivi della scelta si spiegano con la circostanza eccezionale del dono, confermata dall’alto livello della committenza, dalla qualità dell’oggetto e dalla presenza della firma. L’indicazione del luogo di fabbricazione, in tale contesto, costituisce certamente garanzia di qualità: dunque, nel IV secolo a.C. una cista fabbricata a Roma era considerata di qualità superiore a una cista fabbricata a Preneste: Roma era quindi il centro di produzione più importante. Analogo significato ha la firma, che presenta caratteristiche del tutto particolari: in primo luogo, il suo aspetto arcaico, di «oggetto parlante», in cui è la stessa cista che si rivolge al lettore, rimanda a un’epoca piuttosto antica, confermata dall’analisi stilistica, che permette di datare l’opera alla metà del IV secolo a.C., e non alla fine, come in genere si ritiene. Il verbo utilizzato dall’artista, fecid, traduzione del greco epoiese, conferma la forte impronta ellenizzante che distingue questa bottega. L’espressione non sembra riferirsi all’incisore della scena figurata (altrimenti ci aspetteremo, come in uno specchio prenestino, il termine cailavit) ma deve appartenere al «fabbri-
cante», nel senso di responsabile dell’officina, come avviene nel caso della ceramica attica. La presenza della firma non costituisce quindi il segno della personalità artistica, ma una sorta di marchio di fabbrica attestante la qualità del prodotto, ciò che rafforza e conferma le deduzioni precedenti sulla diffusa rinomanza dell’ambiente artistico romano alla metà del IV secolo a.C. Altre indicazioni si possono ricavare dal nome dell’autore, Novios Plautius: il prenome è chiaramente italico, e sembra attestare una provenienza campana: è probabile che si tratti di un liberto della gens Plautia, di probabile origine tiburtina, la cui presenza nella nobiltà romana è attestata tra il 358 e il 312 a.C. Di conseguenza, è possibile che la bottega romana da cui è uscita la cista fosse collegata con questa nobile famiglia plebea. Come si è visto, le parti plastiche del recipiente (piedi e impugnatura del coperchio) sono fuse a parte e saldate: la presenza del nome di Magulnia, traslitterato sotto uno dei piedi, permette di attribuirle a un atelier etrusco, diverso da quello dove l’oggetto è stato in seguito assemblato e inciso. I piedi, ricavati dallo stesso stampo, sono costituiti da una zampa di felino a tutto tondo, poggiante su una rana, da cui si dipartono tre figure a rilievo: Eros alato al centro, tra Ercole (caratterizzato dalla pelle di leone e dalla clava) e un altro personaggio giovanile, con lungo mantello, che poggia il mento sulla mano, in atteggiamento pensoso: dovrebbe trattarsi di Iolao, nipote e compagno di Ercole. Uno dei tre piedi è una rozza imitazione, certamente un restauro antico. L’impugnatura del coperchio è composta da tre figure: Dioniso giovane al centro, in parte coperto da un mantello, con alti calzari. Al collo ha una bulla. Poggia ambedue le braccia sulle spalle di due satiri
203. Iscrizione della Cista Ficoroni. A fronte: 204. Preneste, necropoli della Colombella: Cista Ficoroni (Roma, Museo di Villa Giulia).
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205. Cista Ficoroni: disegno del coperchio.
itifallici – riconoscibili dalle orecchie caprine e dalla pelle di pantera – disposti ai suoi lati, che a loro volta appoggiano un braccio (rispettivamente il sinistro e il destro) sul dorso del dio. Lo stile di queste figure è quello, caratteristico, della piccola bronzistica etrusca di età tardo-classica. Il coperchio circolare (figg. 205-206) presenta una decorazione incisa: nel cerchio centrale, intorno a un motivo floreale schematico, due grifi affrontati a due leoni. Si tratta anche in questo caso di un restauro antico. La fascia circostante rappresenta una scena di caccia a cervi e a cinghiali. La scena più importante, incisa sul corpo della cista, compone un fregio continuo, inquadrato da fasce decorative: in alto teste di Medusa tra palmette diritte e rovesce; in basso, sfingi tra palmette. La rappresentazione figurata (figg. 207-208, 210211) illustra un raro mito, quello della sosta degli Argonauti nel paese dei Bebrici, in Bitinia, dove regnava Amico, un gigante selvaggio, figlio di Poseidone, che sfidava gli stranieri al pugilato e li uccideva. In questo caso, egli dovette soccombere alla superiore abilità di Polluce. Al centro è presentata la conclusione della lotta: il vincitore, Polluce, sta legando a un albero lo sconfitto Amico, mentre una piccola Vittoria vola da destra verso di lui per coronarlo. Si tratta di una versione del mito (quella scelta da Te-
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ocrito) in cui il re sconfitto non viene ucciso: l’altra variante appare invece nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Ai lati, due gruppi assistono alla scena: a destra, Athena, la dea tutelare degli Argonauti, riconoscibile dall’egida, con la lancia ma priva di elmo. Seguono due personaggi, uno seduto e l’altro in piedi, visti di dorso, ambedue armati di lancia: si tratta probabilmente di Argonauti: quello seduto è forse Castore. A sinistra, altri due uomini: il primo seduto su un’anfora, barbuto e di aspetto selvaggio, potrebbe identificarsi con il fratello di Amico, Mygdon; il secondo, in piedi, anch’esso barbuto e munito di grandi ali, poggia il gomito sinistro sulla gamba sollevata e sostiene con la mano il mento, nell’atteggiamento del «pensatore». Un personaggio molto simile, in uno specchio etrusco da Vulci (fig. 209), ai Musei Vaticani, raffigura Calcante (designato col nome) come aruspice. È chiaro quindi che nel nostro caso non può che trattarsi di un indovino, da identificare con Mopso, che in effetti partecipò all’impresa degli Argonauti: egli aveva dunque previsto il risultato dello scontro. Ancora più a sinistra, segue un’altra coppia di personaggi. Quello di destra, visto di spalle, con due lance, cinge il collo del secondo, anch’egli con due lance ed il capo coperto da un berretto (pilos), che alza la gamba sinistra piegata, poggiandola su una pietra: potrebbe trattarsi di Giasone, che talvolta, nella ceramica apula, porta il pilos (berretto che caratterizza i marinai), e che soprattutto è rappresentato armato di due lance (Pindaro, Pitiche, 4, 78). Il resto del fregio presenta un’altra scena, che forse precede: vediamo la poppa della nave Argo attraccata alla riva, su cui sono rimasti tre giovani: uno accovacciato, un altro supino, profondamente addormentato, mentre un terzo sta prendendo un otre. Da una scaletta sta scendendo un quarto personaggio, con un cesto nella sinistra e una botticella nella destra; un quinto, seduto davanti alla nave, ha un remo sulle ginocchia. Segue un altro giovane che si esercita con un sacco al pugilato (Polluce che si prepara allo scontro con Amico?), osservato da un sileno seduto a terra, coperto da una pelle di animale, che ne imita ridendo le mosse. Nei pressi è la fontana, con l’acqua che sgorga da una testa leonina entro un’anfora poggiata a terra, accanto alla quale
206. Cista Ficoroni: il coperchio e l’impugnatura figurata, con Dioniso e satiri.
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207. Cista Ficoroni, dettaglio con la nave degli Argonauti.
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A fronte: 208. dettaglio con scena di pugilato e sileno.
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209. Specchio di bronzo inciso con scena di aruspicina, da Vulci (Roma, Musei Vaticani).
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A fronte: 210. Cista Ficoroni, dettaglio con Amico e Athena.
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è appesa una coppa ansata (kylix), chiaramente dipinta. Da una coppa analoga sta bevendo un giovane in piedi, armato di lancia, mentre un altro tiene per l’ansa un’anfora appena riempita. Sopra di questo è sdraiato su una roccia un ragazzo, da identificare con il genio del luogo. Tutta la scena allude chiaramente al motivo dello sbarco, l’approvvigionamento d’acqua che, negato, provocherà lo scontro con Amico. La complessa scena, che si svolge entro un paesaggio impervio, indicato sommariamente con quinte di roccia, alberi e arbusti, deriva certamente da un modello della grande pittura greca. La composizione, costruita con grande perizia, è centrata sull’albero e sulla figura di Amico: intorno a questo nucleo, le figure del gruppo principale si dispongono in modo bilanciato, tre a sinistra e tre a destra, componendo un cerchio chiuso alle estremità da due personaggi barbuti, che si appoggiano su lance divergenti verso l’esterno. La profondità spaziale è accentuata da frequenti scorci, tanto delle figure umane, quanto degli oggetti (ad esempio, le anfore). Tutti rivolgono lo sguardo verso il centro della composizione, accentuando il senso di tensione sospesa che questa trasmette. La minore euritmia degli altri gruppi fa pensare che il modello pittorico di origine fosse più ampio e complesso, e che sia stato amputato per adattarlo al corpo della cista. Tale modello, per il libero atteggiarsi delle figure, rese con scorci potenti, con linee che non servono solo a segnare i
contorni, ma indicano il girare dello spazio, va collocato nei decenni finali del V secolo, nell’ambiente artistico rappresentato da grandi pittori come Zeusi e Parrasio. La relativa frequenza con cui il soggetto appare nella pittura vascolare apula (mentre è piuttosto raro in quella attica) e le indubbie affinità di stile con essa farebbero pensare a un modello proveniente da Taranto, analogamente a quanto avviene nella ceramica dipinta prodotta a Roma e nel Lazio a partire dalla fine del IV secolo a.C. Proprio a proposito di Parrasio, Plinio (Storia Naturale, XXXV, 68) ricorda che «restano di lui molti disegni su tavola e su pergamena, a cui si dice che gli artisti si ispirino»: alla circolazione di modelli del genere si deve la larghissima diffusione di temi iconografici, quali quello ripreso nella cista, dove se ne può valutare anche la notevole qualità stilistica. Singoli motivi di composizioni analoghe appaiono anche in altre ciste, e soprattutto negli specchi incisi, per lo più di livello molto inferiore, come quello con lo stesso soggetto – Polluce e Amico prima dello scontro – che, certo non casualmente, faceva parte del corredo della tomba da cui proviene la Cista Ficoroni. In un caso almeno, il già citato specchio con Calcante da Vulci (fig. 209), possiamo constatare anche una precisa analogia stilistica con la decorazione della cista, per la quale esso costituisce il confronto migliore. Queste osservazioni rendono difficile accettare la datazione corrente agli ultimi decenni del IV secolo:
lo specchio vulcente infatti appartiene all’inizio del secolo, ed è quindi cronologicamente abbastanza vicino ai modelli greci dai quali dipende. Del resto, anche le parti plastiche della cista sono molto simili per stile alla bronzistica etrusca della prima metà del IV secolo. Proporre, all’interno di un simile quadro, una datazione diversa per il fregio inciso non avrebbe senso, dal momento che esso dipende direttamente, come si è visto, dalla grande pittura greca degli ultimi decenni del V secolo, mentre non vi appare alcuna traccia di stilemi ellenistici. La cronologia della cista non può scendere, di conseguenza, oltre la metà del IV secolo, senza escludere neppure una data un po’ più alta. Restano da comprendere i motivi della scelta di un soggetto così raro e particolare: va escluso, infatti, che esso sia privo di un significato particolare, per almeno due motivi. In primo luogo, la predilezione per lo stesso tema mitico si deduce dalla sua ripetizione nello specchio deposto come parte del corredo nella stessa tomba, dove sono rappresentati Polluce e Amico in procinto di scontrarsi, alla presenza della dea Luna (Losna). È da notare il livello men che mediocre di questo oggetto e la sua data notevolmente più tarda rispetto alla cista: questa, di conseguenza, dovette essere deposta nel corredo sepolcrale molto tempo dopo la sua fabbricazione (un uso prolungato si deduce con certezza dalla presenza di restauri antichi). L’aggiunta dello specchio con un episodio IV
dello stesso mito non può essere casuale, e conferma la sua importanza per la persona sepolta. In ogni caso, è evidente che la cista non faceva parte dei prodotti già pronti, disponibili nella bottega dell’artigiano: come abbiamo visto, si tratta di un oggetto realizzato espressamente in seguito a una precisa ordinazione da parte di un committente di alto livello sociale, che dobbiamo immaginare esigente e dotato di notevole cultura. Che cosa poteva significare un soggetto mitico del genere in un beauty case realizzato come dono di pregio in occasione di un matrimonio? La scena, come sappiamo, rappresenta un episodio particolare del mito degli Argonauti, in cui il ruolo principale sembra appartenere non a Giasone, ma ai Dioscuri, e in particolare a Polluce. I gemelli divini riappaiono anche in altre ciste, con la funzione di referenti mitici del mondo giovanile della palestra. Sappiamo con certezza che la loro presenza nel Lazio è precocissima: tra l’altro, con la funzione di divinità tutelari di centri importanti come Tuscolo, da dove furono importati a Roma all’inizio del V secolo. La più antica attestazione proviene da Lavinio, in un’iscrizione votiva non posteriore alla fine del VI secolo a.C. Nel nostro caso, la particolare enfasi narrativa che caratterizza la scena mitica non può forse spiegarsi solo in rapporto alla funzione dell’oggetto su cui essa è rappresentata. Come sappiamo, esso faceva parte del corredo di nozze di una nobile
211. Cista Ficoroni, restituzione grafica della decorazione figurata.
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prenestina, Magulnia: va ricordato che il matrimonio aristocratico, a Roma e nel Lazio, si traduceva essenzialmente nel trasferimento nella nuova casa degli attributi ideologici fondamentali della gens di origine: per così dire, dei suoi penati. È possibile pensare, cioè, che in questo caso potesse trattarsi degli antenati del gruppo gentilizio della sposa: sappiamo che tali origini mitiche erano diffusissime in Italia, anche se ignoriamo tutto per quanto riguarda le gentes del Lazio (su Roma siamo un po’ meglio informati). In ogni caso, non è forse azzardato proporre, in via di ipotesi, che i Magulnii riconoscessero nei Dioscuri i loro antenati mitici. 11.3. Artigianato prenestino e artigianato romano Tra le ciste scoperte a Preneste emerge un esemplare diverso dagli altri, di forma parallelepipeda (figg. 212-214). Le parti fuse comprendono quattro piedini, a forma di zampa bovina, su cui posano due cigni affrontati. Ai quattro angoli del coperchio sono disposte protome di grifi. Il manico è costituito da una figura di uomo nudo, rovesciato all’indietro. Le quattro facce sono decorate, in alto, da un tralcio di alloro, in basso da un tralcio di edera. In una delle facce minori, inquadrato da due colonne tuscaniche, si riconosce Ercole nudo, disposto frontalmente, con le gambe incrociate e la testa di profilo a sinistra, coronata di alloro. Un mantello passa sul braccio sinistro e ricade dietro le spalle. Nella destra tiene una coppa e con la sinistra si appoggia alla clava, poggiata a terra. Nell’altro lato minore appare Mercurio nudo, inquadrato da due colonne simili. Il mantello, ripiegato sul braccio sinistro, ricade dietro il corpo. Il dio tiene il caduceo nella mano destra abbassata, mentre il copricapo alato (petaso) è rappresentato a destra in alto. Su uno dei lati maggiori (fig. 214) sono rappresentate tre figure: a sinistra un giovane imberbe (verosimilmente Apollo), coronato di alloro, con alti calzari e con la parte inferiore del corpo avvolta in un mantello: il dio siede su una roccia ed è rivolto verso destra. Verso di lui si rivolge, al centro della scena, una figura forse femminile (la Pizia?), avvolta in un manto da cui sporgono solo le dita della mano destra e la testa coronata di alloro. Sulla destra è un altro giovane imberbe, rivolto a destra, con la parte inferiore del corpo avvolta in un mantello, che tiene sollevato con la mano sinistra. In alto a sinistra, due uccelli affrontati si sfiorano con il becco.
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Sul lato opposto (fig. 212), due personaggi femminili alati sono rivolti verso il centro, occupato da una fontana con bacino circolare. La figura di sinistra è nuda, con una collana a tre bulle e alti calzari; nella sinistra tiene uno specchio nel quale si riflette il suo viso. Un sileno nudo, semisdraiato dietro la fontana, allunga la mano destra per toccarle il sesso. La figura di destra veste un mantello lungo fino ai piedi. Si tratta di una versione particolare della scena della «toletta femminile» che riappare in numerosi specchi e ciste prenestini, e che introduce il tema «prematrimoniale» della bellezza e del sesso (rappresentato esplicitamente dal gesto del sileno). Qui però le figure femminili sono alate, e rimandano quindi a un contesto «non reale», che si potrebbe forse collegare con il mito della fondazione di Preneste. La parte più interessante della cista è il coperchio (fig. 213), dove appare una scena più complessa. Il lato destro è occupato da un gruppo di tre persone: un giovane con corazza anatomica, il petaso sulle spalle e una lancia nella destra, avanza verso sinistra, tenendo un cavallo per le briglie. Segue un guerriero con elmo e corazza a lamine, che tiene una lancia nella destra e si volge indietro, verso il terzo personaggio: questi è un giovane vestito di clamide, che alza il braccio destro e sembra conversare con la persona che lo precede. Nella metà sinistra, un secondo gruppo di tre personaggi è occupato in un’operazione comune: due di essi sono identici, imberbi e con lunghi capelli, coperti da una toga senza tunica, che lascia scoperto parte del torso e il braccio destro. Il primo a destra si volge verso il gruppo di armati, mentre l’altro si china verso il terzo, portando la mano destra alla testa, pensieroso, e allungando la mano sinistra per prendere un oggetto di forma rettangolare che gli viene teso dall’ultimo personaggio. Questo, a giudicare dalle dimensioni, è un ragazzo, che sporge a mezzo busto da una cavità del terreno: una pianta, al di sopra, indica che la scena si svolge in un ambiente naturale. Si tratta certamente di una rappresentazione dell’oracolo della Fortuna di Preneste: il migliore commento alla scena è infatti il celebre passo del De divinatione di Cicerone (II, 41), in cui si descrive l’origine dell’oracolo e il suo funzionamento:
212. Preneste, necropoli della Colombella: cista quadrangolare con geni alati femminili e sileno alla fontana (Roma, Museo di Villa Giulia).
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I documenti pubblici di Preneste affermano che un certo Numerio Suffustio, uomo nobile e onesto, fu indotto da sogni frequenti, e in ultimo anche minacciosi, a scavare la roccia in un luogo preciso. Spaventato da queste visioni, tra i lazzi dei concittadini, cominciò a scavare: così dall’apertura della roccia apparvero le sorti, tagliate nella quercia con antiche lettere incise. Qui si trova il luogo, ancora oggi recinto da limiti sacri, accanto alla statua di Giove fanciullo, che siede in grembo alla Fortuna e viene allattato insieme a Giunone: il suo culto è celebrato con grande venerazione dalle madri. Si tramanda inoltre che contemporaneamente, nel luogo dove è ora il tempio della Fortuna, un olivo trasudasse miele, e gli aruspici affermarono che quelle sorti sarebbero state le più famose. Per loro consiglio, con quell’olivo fu costruita una cassetta in cui furono riposte le sorti, che ancora oggi vengono estratte su ispirazione della Fortuna. Ma cosa vi può essere di sicuro in queste, che per ispirazione della Fortuna vengono mescolate ed estratte dalla mano di un fanciullo?
Ora, nella cista vediamo precisamente un ragazzo che emerge da una cavità con una tavoletta (una sorte!) in mano: un sacerdote la riceve da lui, mentre un altro (o lo stesso, rappresentato una seconda volta?) si volge a comunicare le prescrizioni dell’oracolo al gruppo dei postulanti, che rappresentano le varie classi dell’esercito (cavalleria, fanteria, giovane appena arruolato). Sembra probabile, di conseguenza, che la forma della cista, del tutto anomala, possa essere spiegata come imitazione dell’arca di legno di olivo in cui si conservavano le sorti della Fortuna. Come è stato riconosciuto:
213-214. Preneste, necropoli della Colombella, cista quadrangolare con geni alati femminili e sileno alla fontana: coperchio con scena di oracolo; scena con tre personaggi. Alle pagine seguenti: 215-216. Preneste, necropoli della Colombella: specchio inciso con coppia in conversazione; specchio inciso con eroti che attaccano un leone (Roma, Museo di Villa Giulia).
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Sembra dunque di poter riconoscere in questa scena una rappresentazione [in cui] si costruiscono, tramite un omen o un oracolo, le tappe e il destino vittorioso delle nuove generazioni con particolare riferimento alla paideia maschile […] Le altre scene della cista, comprendenti Hermes, Eracle e Apollo, mi sembrano facilmente inquadrabili nella prospettiva suddetta […] Come si vede, si tratta delle stesse divinità per le quali si è già segnalata la stretta relazione col mondo efebico e giovanile, anche in relazione alla palestra. (Mauro Menichetti)
Le botteghe specializzate nella produzione delle ciste estendevano la loro attività anche ad una serie numerosa di prodotti di minore impegno, come
soprattutto gli specchi, la cui decorazione era incisa sulla faccia posteriore, non riflettente. La loro forma, circolare, assume, per la presenza di un prolungamento inferiore, un aspetto caratteristico, «a pera», che li differenzia dagli specchi etruschi, perfettamente circolari. I soggetti sono spesso analoghi a quelli delle ciste, ma ovviamente più sintetici: non mancano però, specialmente nei prodotti più tardi, scene «di genere», ispirate all’arte ellenistica contemporanea. Così, in un esemplare ora al Museo di Villa Giulia (fig. 215), un soggetto, forse mitologico, assume le parvenze del corteggiamento di un giovane nudo a una dama interamente vestita, seduta su un ricco trono, che si protegge dal sole con un leggiadro ombrellino. In un altro specchio (fig. 216) un gruppo di amorini che dà la caccia a un leone illustra un tema aneddotico, tante volte ripetuto nelle scene «di genere» che si ripetono, su pitture e mosaici, fino all’avanzata età imperiale. Si tratta, in entrambi i casi, di prodotti relativamente tardi, attribuibili alla seconda metà del III secolo a.C. Tra le appendici plastiche di oggetti d’uso, spiccano soggetti di lieve eleganza, come i due esseri alati, che servono da manico al coperchio di una cista, o le impugnature di alcuni strigili, costituite da agili figurette femminili (figg. 200, 202), che si ispirano alle realizzazioni del primo ellenismo. Sempre nell’ambito della plastica in bronzo, vanno ricordati alcuni oggetti eccezionali, teche di specchio o guanciere di elmi (figg. 217-219): una di queste ultime presenta una scena di lotta tra un greco e un’amazzone, di qualità tale da far pensare a un oggetto di importazione da un atelier della Magna Grecia (Taranto?). Il solido impianto plastico delle due figure, che divergono con movimento violento, accentuato dallo schema a V, contrasta con il grafismo ornamentale delle vesti: motivi stilistici questi che si affermano in un momento compreso tra la fine del V e la prima metà del IV secolo a.C., raggiungendo il loro culmine nell’arte di Timotheos. Questo prodotto di altissimo artigianato si colloca, di conseguenza, verso la metà del IV secolo. La ragionevole ipotesi che nel Lazio esistessero, anche fuori di Preneste, botteghe specializzate nella fabbricazione di oggetti di bronzo (in particolare di specchi, ma certamente anche di ciste, come abbiamo visto) può essere confermata da varie considerazioni. Particolarmente importante la scoperta, avvenuta nel 1957 a Tusculo, di una tomba che, in base alle iscrizioni incise sui cinerari in tufo, va attribuita alla gens locale dei Rabirii. Un cinerario in terracotta
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217-218. Preneste, necropoli della Colombella: paragnatide di elmo di bronzo con rappresentazione di Ercole (Palestrina, Museo Archeologico); paragnatide di elmo di bronzo con combattimento tra un guerriero e un’Amazzone.
grezza era chiuso da una teca di specchio in bronzo, decorata con cerchi concentrici a sbalzo. Due specchi di tipo «prenestino» facevano parte dei corredi (figg. 221-222): su uno di questi, che conserva resti di doratura, è rappresentato un personaggio maschile a cavallo, accanto al quale è una stella a otto punte. Una doppia linea serpeggiante in alto indica il cielo: si tratta certamente di uno dei Dioscuri. L’altro specchio, anch’esso con resti di doratura, presenta una decorazione incisa con tre figure: due di queste, rispettivamente maschile e femminile, sedute ai lati, si fronteggiano, mentre una terza, femminile, in piedi, occupa il centro della composizione. A destra è rappresentata una fontana, su cui poggia una colomba. È possibile che si tratti di un «giudizio di Paride», anche se in tal caso mancherebbe una figura. La ceramica presente nei corredi permette di datare la tomba agli anni compresi tra la fine del IV e i primi
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decenni del III secolo a.C. La relativa modestia degli oggetti fa pensare che non si tratti di prodotti importati, come sembra confermato dalla rappresentazione di uno dei Dioscuri, il cui culto, come è noto, era il più importante della città. In conclusione, questa scoperta sembra confermare la presenza di atelier di bronzisti a Tusculo, a cui questi oggetti vanno attribuiti. Non si capisce del resto perché dovremmo negare questa possibilità a un centro del Lazio di importanza equivalente a quella di Preneste. Lo stesso problema si pone per uno specchio (fig. 223), ritenuto proveniente da Bolsena, databile poco dopo la metà del IV secolo a.C., in cui è rappresenta-
A fronte: 219. Preneste, necropoli della Colombella: coperchio di specchio in bronzo con Athena ed Encelado.
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220. Bolsena, specchio bronzeo etrusco (disegno) con Cacu, Aulo e Celio Vibenna (Londra, British Museum).
to il mito della lupa e dei gemelli. Non è qui il caso di discutere i complessi problemi che pongono i personaggi disposti intorno alla scena principale: quello che interessa è proprio la presenza della lupa, che qui appare per la prima volta. I dubbi che sono stati avanzati sull’autenticità dell’oggetto non hanno ragione di esistere, davanti all’assoluta coerenza stilistica della rappresentazione. Altrettanto discutibile è la sua attribuzione a bottega prenestina: la forma allungata, «a pera», è certo quella degli specchi di Preneste. Ma l’esistenza di prodotti analoghi anche a Tuscolo rende probabile che si tratti in realtà di una caratteristica comune anche ad altri atelier del Lazio. Nel nostro caso, nulla obbliga ad accettare l’attribuzione corrente: né la provenienza, né tanto meno il soggetto. Non si comprende infatti la ragione per cui quest’ultimo, un mito ovviamente romano, avrebbe dovuto interessare una bottega prenestina. L’esistenza a Roma di botteghe di bronzisti di altissimo livello non richiede dimostrazione, in presenza
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della Cista Ficoroni, firmata da Novios Plautios. Non resta che identificare nello specchio con il Lupercale l’opera di un atelier romano contemporaneo. È interessante notare che dallo stesso territorio di Volsinii proviene uno specchio (fig. 220), questa volta etrusco, ma decorato con una scena che sembra di nuovo collegata a Roma, databile intorno al 300 a.C., dove i personaggi sono identificati da iscrizioni. Davanti a una grotta, inquadrata da alberi, è seduto Cacu, di sembianze apollinee, in atto di suonare la lira. Il carmen che egli sta cantando viene trascritto su tavolette da un giovane seduto accanto, Artile: Cacu è dunque un indovino, e la scena una cerimonia di divinazione. Ai due lati avanzano, non visti, due uomini armati (Aulo e Celio Vibenna), che si apprestano ad attaccare Cacu. Dietro una roccia fa capolino un satiro, che potrebbe essere Marsia o Fauno. La scena, che sembra ambientata a Roma, fa parte di un tipo diffuso di episodio mitico, che potremmo chiamare «ratto dell’indovino»: lo scopo dell’azione è quella di appropriarsi di un segreto, indispensabile per la conquista di una città. L’episodio più noto è il ratto di Eleno da parte di Ulisse e Diomede, per conoscere le condizioni necessarie per la conquista di Troia. Il motivo riappare anche in episodi della pseudostoria romana, come quello dell’aruspice di Veio, narrato da Livio (V, 15), che avrebbe spiegato ai Romani il motivo del subitaneo accrescimento del Lago di Albano e il modo di conquistare la città. La descrizione è incredibilmente simile a quella dello specchio: due romani rapiscono il vecchio, che sarà obbligato a rivelare l’arcano a Camillo. Emerge qui lo stretto rapporto tra l’assedio di Veio e l’assedio di Troia, su cui insistono le fonti antiche. Il soggetto appare così sufficientemente chiarito: i due eroi vulcenti stanno per strappare all’indovino Caco (evidentemente presentato come romano) il segreto che permetterà loro la conquista della città. Il modello greco viene così applicato alla situazione locale: Roma infatti è la nuova Troia, come è chiarito
A fronte: 221. Tusculum, Tomba dei Rabirii: specchio di bronzo inciso con cavaliere (Roma, Museo delle Terme). 222. Tusculum, Tomba dei Rabirii: specchio di bronzo inciso con tre figure (Roma, Museo delle Terme). 223. Bolsena, specchio di bronzo con il Lupercale (Roma, Antiquarium Capitolino).
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224. Preneste, necropoli della Colombella: lastrine di osso di un cofanetto con rappresentazione di due guerrieri (Roma, Museo di Villa Giulia).
dagli affreschi già esaminati della Tomba François, dove appare un altro episodio della saga dei fratelli Vibenna. Ancora una volta, cogliamo qui il particolare sistema di narrazione etrusco, che mescola epoche diverse, personaggi mitici con personaggi reali, nell’ambito di una visione storica di tipo ciclico, basata sulla teoria dei saecula. Tornando alla documentazione prenestina, tra gli oggetti che costituivano i corredi delle tombe vanno considerati anche quelli realizzati in osso, destinati in origine a rivestire cofanetti o altri oggetti di legno. Si tratta di un uso che a Palestrina inizia già in età arcaica, e si prolunga fino al periodo tardorepubblicano. In un gruppo di quattro lastrine (fig. 224), unite due a due, sono rapprsentati due guerrieri, muniti di corazza anatomica, mantello fissato da una fibula circolare, elmo con grande cimiero, schinieri e scudo
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rotondo. La lancia, impugnata verticalmente, serve per mascherare il punto di giunzione delle lastrine. Si tratta del tipico armamento oplitico, introdotto in Grecia già nel corso del VII secolo a.C., e che permane, quasi immutato, fino al IV. Di conseguenza, ogni datazione successiva al IV secolo può essere esclusa, anche se non sono mancati tentativi di abbassarla addirittura fino al I secolo: questo si deduce, ad esempio, dalla descrizione, dovuta a Polibio, dell’armamento dell’esercito romano tra il III e il II secolo, che risulta del tutto diverso. In effetti, poiché i Prenestini utilizzavano armi analoghe a quelle dell’esercito romano, il loro equipaggiamento non poteva differire sensibilmente da quello dei legionari. Gli elementi stilistici confermano questa cronologia: caratteristiche ancora di ascendenza «severa», come il mento rotondo e pesante, gli occhi grandi e sbarrati, si combinano con il modo ornamentale, grafico di
225. Preneste, necropoli della Colombella: lastrine in osso di un cofanetto con guerrieri e figure femminili (Roma, Museo di Villa Giulia).
rendere i particolari, come i capelli e il panneggio: si tratta di banalizzazioni di uno stile diffuso in Etruria in prodotti databili agli ultimi decenni del V secolo, come le statue e le urne di Chiusi, che si prolunga e diffonde nel mondo italico nel corso della prima metà del IV secolo a.C. La presenza di armati nella decorazione di oggetti quasi certamente femminili, come i cofanetti, destinati con tutta probabilità a contenere gioielli, non deve stupire: essa si ritrova anche nella decorazione incisa di ciste e specchi, ma posta accanto a motivi di «iniziazione» femminile, come le scene di toletta alla fontana. Nel caso presente, la conservazione solo di una parte ridotta dell’oggetto non permette di sapere se si tratta di un caso analogo. Il dubbio scompare nel caso di un secondo gruppo di sei lastrine d’osso (fig. 225) che, anche se costituiscono solo una parte dell’insieme originario (come
si deduce dalla sicura mancanza di alcuni elementi) ci documentano una situazione più complessa. Riappaiono anche in questo caso tre guerrieri, con armamento del tutto simile a quello esaminato prima, ma accanto a questi tre figure femminili, in due casi vestite di tunica e mantello, in un caso di sola tunica. Le prime due hanno un diadema e reggono in una mano un oggetto circolare, la terza ha una collana di bulle e tiene nella sinistra un fiore di loto. Si trattava in origine di un insieme più complesso, che comprendeva un numero maggiore di personaggi, ora impossibile da ricostruire. In ogni caso, dobbiamo pensare a una scena cerimoniale, probabilmente di carattere religioso. Il livello è più scadente rispetto al gruppo di lastrine esaminato in precedenza, e dimostra l’esistenza a Palestrina di botteghe più modeste, che operavano probabilmente per una committenza «media».
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226. Pocolom con il nome di Cerere (Keri) (Roma, Musei Vaticani).
227. Pocolom con il nome di Laverna (Roma, Musei Vaticani).
In ogni caso, gli elementi antiquari sono del tutto simili, e quindi anche la datazione, che va fissata nella prima metà del IV secolo a.C.
dotto che, a partire dagli anni finali del IV secolo e per i primi decenni del III, si diffonde largamente in tutto il Mediterraneo occidentale. È importante sottolineare che tale area di diffusione (oltre all’Italia centrale intorno a Roma, costa orientale della Corsica, coste del Golfo del Leone fino alla Catalogna, Sicilia occidentale sotto il dominio cartaginese, territorio africano di Cartagine, da Utica a Leptis Magna) corrisponde precisamente alle zone concesse al commercio romano dal trattato romano-cartaginese del 279 a.C. Dal momento che la ceramica non costituisce in sé un prodotto di importanza strategica, ma solo il carico di accompagnamento di merci ben più rilevanti, ne risulta che il commercio romano di esportazione aveva raggiunto livelli e diffusione significativi già a partire dalla fine del IV secolo a.C. Non si può non vedere il rapporto tra questo e altri fenomeni paralleli, come ad esempio la prima coniazione romana dell’argento. Anche dal punto di vista della cultura figurativa tali dati sono rilevanti: si può dimostrare, attraverso di essi, la pertinenza dei cosiddetti pocola deorum
11.4. La produzione ceramica a Roma e nelle colonie romane Alcuni tipi di ceramica di grande diffusione a partire dal IV secolo, come i piattelli su piede detti «di Genucilia» (decorati al centro con teste femminili, o con semplici elementi stellari), ritenuti prodotto esclusivo dell’Etruria meridionale, sono stati fabbricati anche a Roma: del resto, è latina la denominazione del piattello eponimo, che deriva da un esemplare con dipinto il nome di una donna, Genucilia appunto. Lo stesso si può dire nel caso della ceramica tarda a figure rosse o sovradipinta, il cui centro di produzione principale si colloca comunque in una città vicinissima a Roma come Falerii (Civitacastellana). Ma è soprattutto notevole che il primo caso di produzione di ceramica a vernice nera a carattere «industriale», che precede le grandi fabbriche di Napoli, dell’Etruria e della Sicilia (dominanti a partire dall’inizio del II secolo a.C.) è proprio una classe prodotta a Roma o negli immediati dintorni, denominata «atelier dei piccoli bolli»: si tratta di un pro-
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A fronte: 228. Piatto a vernice nera da Capena, con elefantessa da guerra con il piccolo (Roma, Museo di Villa Giulia).
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(figg. 226-227) ad ambiente romano, dal momento che si tratta semplicemente di vasi dell’«atelier dei piccoli bolli» sovradipinti e con iscrizioni in latino. Lo stile delle decorazioni (che vanno dalle semplici figurette umane agli elefanti) si inserisce in una temperie tardo-classica ed ellenistica, coerente con quanto sappiamo della pittura a Roma all’epoca di Fabio Pittore. Questi vasi – per lo più ciotole, ma anche brocchette e più raramente piatti – sono caratterizzati da un’iscrizione dipinta, con la dedica a una divinità, seguita dalla parola pocolom («vaso») e da una decorazione dipinta sulla vernice nera. Le ciotole appartengono chiaramente all’«atelier dei piccoli bolli». Per identificare il luogo di fabbricazione soccorrono i nomi delle divinità, che appaiono sui vasi: a parte il nome di due che si riferiscono a culti incerti, troviamo alcuni nomi di divinità arcaiche: Laverna, Vesta, Vulcano, Fortuna, Cerere, Saturno, Giunone, Minerva; altri appartengono invece a divinità importanti a Roma tra il IV e i primi anni del III secolo a.C.: Concordia, Salus, Bellona, Venere, Esculapio. Particolarmente notevole è la presenza delle ultime quattro, alle quali sono stati dedicati templi a Roma in appena una dozzina d’anni, tra il 303 e il 291 a.C., e soprattutto quella di Esculapio, dio introdotto direttamente da Epidauro nel 292 a.C.: la datazione del pocolom, di pochissimo posteriore alla costruzione del tempio nell’Isola Tiberina, esclude la possibilità del riferimento a un culto diverso da quello di Roma. La circostanza che tutti gli esemplari, tranne due, provengano da località esterne a Roma, sia pure a non grande distanza da essa, e per di più facciano parte del corredo di tombe, esclude l’identificazione con oggetti votivi. È probabile che si tratti di semplici oggetti-ricordo, acquistati negli stessi santuari della città. La presenza di fori di sospensione sembra confermare questa possibilità. Alla stessa classe si possono attribuire alcuni piatti (finora due esemplari conosciuti: da Capena e da Aleria in Corsica) e un pocolom da Norchia, che presentano la stessa decorazione sovradipinta in bianco, rosso e giallo: un’elefantessa seguita dal suo piccolo e guidata da un cornac, che trasporta sul dorso una torre con due guerrieri (fig. 228). La presenza di elefanti da guerra su ceramica di produzione romana ha fatto naturalmente pensare a Pirro, il primo che introdusse in Italia questa particolare arma, che in un primo tempo terrorizzò l’esercito romano. È da notare che un elefante appare anche in lingotti monetali di bronzo (aes signatum)
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più o meno contemporanei. È possibile di conseguenza che la datazione di questi esemplari sia da fissare poco dopo l’inizio dell’impresa di Pirro (280 a.C.), anche se non si può escludere che si tratti di un semplice motivo iconografico, introdotto indipendentemente da ogni precisa circostanza storica. Ad officina romana si può attribuire anche un gruppo di ciotole a vernice nera, denominato «Heraklesschalen» per la presenza sul fondo di un bollo a rilievo con la rappresentazione di Ercole con la pelle di leone, la clava e un vaso a due anse (kantharos). Il tipo è databile alla seconda metà del III secolo ed è una chiara attestazione dell’importanza della divinità a Roma in questo periodo. Alla più antica colonia latina, Cales (fondata nel 334 a.C.), appartiene una notevole produzione di ceramica a rilievo, denominata per questo «ceramica calena». La sicura localizzazione delle fabbriche, attive per tutto il corso del III secolo, è dimostrata dal ritrovamento nella stessa località di matrici impiegate nella realizzazione di questo particolare prodotto. Inoltre, dalle firme (in latino) degli artigiani, che si definiscono Caleni e talvolta indicano il luogo stesso di fabbricazione: Calebus («a Cales»). Ad esempio: L. Canoleios L. f. fecit Calenos («Lucio Canuleio, figlio di Lucio, di Cales (mi) ha fatto»); Retus Gabinio(s) C. s. Calebus fec(it) te («Retus Gabinius, schiavo di Gaio (mi) ha fatto a Cales»); K(aeso) Serponio(s) Caleb(us) fece(t) veqo Esqelino C. s. («Kaeso Serponius schiavo di Gaio (mi) fece a Cales nel quartiere Esquilino»). È significativa, in quest’ultima iscrizione, l’indicazione (di cui ci siamo già occupati) di un quartiere della colonia, che prende nome dall’Esquilino: chiaro indice di imitatio Romae. Tuttavia, lo sviluppo della ceramica ellenistica a rilievo in Italia non coinvolge naturalmente questo unico centro: si tratta in realtà di una produzione diffusa anche in Etruria, e ciò ha fatto pensare che tra i coloni romani inviati a Cales vi fossero anche degli Etruschi. Ma è sicura anche la presenza dell’artigianato campano: prodotti analoghi provengono da Teano, centro vicinissimo a Cales. Le forme, prodotte dagli stessi atelier, sono sostanzialmente tre: le patere ombelicale con decorazione disposta circolarmente, le coppe con medaglione centrale figurato e le forme chiuse (gutti e askoi) (fig. 229). Si tratta in sostanza di repliche a buon mercato, destinate a un largo pubblico, di argenterie greche. Ciò è dimostrato nel caso delle coppe ombelicate
229. Guttus a vernice nera con testa di Helios (Roma, Antiquarium del Foro Romano).
con rappresentazione dell’apoteosi di Eracle, da due coppe d’argento (al Metropolitan Museum di New York), probabilmente di produzione siracusana della fine del V secolo a.C., e di due altre, provenienti dalla Francia meridionale (al British Museum) che presentano immagini identiche. È probabile che le coppe di New York provengano da una tomba di fine V secolo di Spina. Nella stessa necropoli ne è apparsa una copia fusa in stagno, databile, in base al corredo di cui fa parte, alla metà del IV secolo a.C. Tutto ciò potrebbe far pensare che la coppa in ceramica dello stesso soggetto, scoperta ad Adria, possa appartenere a un atelier locale, che utilizzava modelli greci importati. Altre patere, con decorazione vegetale a fiori di loto e palmette, derivano anch’esse da esemplari in argento, del tipo di quello, proveniente da Itaca, ora al British Museum. All’interno del tipo con apoteosi di Eracle, di cui esiste un numero notevole di esemplari (una cinquantina), si possono riconoscere due gruppi: un primo firmato da artigiani certamente di Cales, e un
secondo (dove si leggono le lettere EPOEI, certamente residuo della firma in greco sull’originale argenteo) pertinente a un atelier diverso, da localizzare a Volterra, che ha fornito una vasta area che si estende all’Etruria fino all’area adriatica. Ciò conferma la pluralità delle botteghe della ceramica cosiddetta «calena», e la necessità di procedere a nuove ricerche. In ogni caso, le immagini a rilievo che caratterizzano questa produzione costituiscono uno dei più ampi repertori iconografici disponibili per il periodo (altrimenti così poco conosciuto) compreso tra la fine del IV e l’inizio del II secolo a.C., e ci forniscono un’idea precisa della cultura e del gusto diffuso in un pubblico «medio» della società romano-italica. Nonostante l’evidente interesse di questi materiali, che nel loro insieme costituiscono una delle rarissime testimonianze seriali di quest’epoca cruciale, manca ancora uno studio complessivo di essi, dopo la meritoria, ma ormai invecchiata e insufficiente, monografia di R. Pagenstecher (pubblicata più di un secolo fa, nel 1909!).
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230. Coppa calena con prue di navi (Napoli, Museo Nazionale).
231. Coppa calena con il ratto di Proserpina (Napoli, Museo Nazionale).
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Per comprendere l’importanza dell’argomento, basterà qui sottolineareare, oltre alla qualità notevole delle figurazioni, l’ampiezza del loro repertorio. Si tratta di una ricchissima serie di immagini, ricavate in modo meccanico – a mezzo di calchi, come abbiamo visto – da oggetti di produzione greca (per lo più argenterie), ma anche di iconografie locali, come si deduce agevolmente dall’esame dei soggetti rappresentati. Nei medaglioni delle coppe appare ad esempio la «lupa con i gemelli», derivata certamente dal gruppo bronzeo, dedicato nel Comizio nel 296 dagli Ogulnii, che si ritrova anche nella terza serie delle monete romano-campane. È interessante che il motivo sia rovesciato, segno indubbio del procedimento meccanico, tramite calco, con cui fu eseguito. Si tratta di una delle più antiche attestazioni di questo soggetto, successiva solo allo specchio da Bolsena, esaminato in precedenza, e forse (ma non necessariamente) alla moneta. Un altro dato cronologico si ricava dalla rappresentazione di un elefante con guerrieri, che ripete il motivo del piatto sovradipinto da Capena, e che va forse collegato con la guerra contro Pirro: anche in questo caso si può pensare a una data intorno al 280-270. Un terzo, importante elemento di datazione è fornito da un gruppo di medaglioni, nei quali è rappresentato il saccheggio gallico di Delfi, avvenuto nel 279 a.C. (la data non cambia se si tratta del contemporaneo sacheggio del Didymaion di Mileto, come si è proposto): ancora un terminus post quem che conferma quelli precedenti. Importanti indicazioni ante quem si ricavano dalla scoperta, in tombe di Volsinii (Orvieto) e di Falerii (Civitacastellana), di coppe con la scena dell’arrivo di Eracle in Olimpo, pertinenti ad atelier etruschi, che vanno datate di conseguenza rispettivamente prima del 264 e del 241, date di distruzione delle due città. Molto comuni sono le scene dionisiache (satiri, menadi) ed erotiche, e le figure mitiche come le Nereidi su mostri marini, i centauri, i grifi, i pigmei. Appaiono anche figure divine come Apollo e Afrodite. Le scene di combattimento tra Amazzoni e Greci rinviano a un repertorio diffuso nella toreutica ellenistica, che si ritrova in coperchi di specchio o paragnatidi di elmo scoperti nella necropoli di Palestrina (fig. 218), ma almeno in parte provenienti dalla Magna Grecia, probabilmente da Taranto, che sembra il principale centro di produzione di questa particolare categoria di oggetti.
Composizioni più ricche si trovano nello spazio più ampio che offrivano le coppe ombelicate. Nelle fasce circolari disposte tutt’intorno troviamo: 1. l’accoglienza di Eracle in Olimpo, rappresentata con una serie di quattro quadrighe, sulle quali appaiono, oltre all’eroe, Athena, Ares e Dioniso; 2. il ratto di Proserpina, con quattro bighe simmetricamente disposte (fig. 231); 3. la quadriga di Helios, disposta frontalmente, riprodotta sei volte; 4. il corteo dionisiaco, con ben venti figure che si dirigono verso un tempio; 5. scene dionisiache, con quattro coppie sdraiate; 6. serie di eroti con corone tra girali di acanto; 7. eroti con maschere; 8. serie di piante e di animali acquatici, di tipo egiziano; 9. le avventure di Ulisse: la nave dell’eroe è ripetuta quattro volte, per l’episodio delle Sirene (due volte), di Scilla e dei Feaci. Di particolare interesse sono gli esemplari con prue di navi (fig. 230), derivate direttamente dall’asse con Giano e prora, da collegare – come abbiamo visto – con la vittoria di Duilio a Milazzo (260 a.C.): anche in questo caso, la rappresentazione ha senso se rimanda a un episodio recente: l’oggetto dovrebbe datarsi, di conseguenza, intorno alla metà del III secolo. La presenza a Roma di officine (figlinae) impegnate nella produzione di oggetti di argilla è dimostrata da brevi cenni delle fonti letterarie, ma anche da dati archeologici poco conosciuti, che dimostrano la stretta connessione di queste produzioni con personaggi di un certo livello, anche di rango senatorio. Non si deve dimenticare infatti che, oltre alla ceramica e alle anfore da trasporto, queste officine producevano da età molto antica (fine del VII secolo a.C.) tegole e embrici destinati alla copertura di edifici pubblici e dimore private. L’incremento dell’attività edilizia, intenso già a partire dal IV secolo, richiese senza dubbio un ampliamento e una ristrutturazione di queste officine, con risvolti economici certamente non trascurabili. Questa tendenza andrà accentuandosi in seguito, soprattutto a partire dal momento in cui i laterizi cotti iniziarono ad essere impiegati anche nei paramenti delle murature, e cioè almeno a partire dal I secolo a.C.: fornendoci così dati non solo utili allo studio dell’edilizia, ma anche, attraverso la presenza di bolli col nome dei proprietari e degli operai, uno dei pochi dati sicuri sugli interessi economici sena-
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232. Iscrizioni su oggetti di terracotta provenienti dall’Esquilino (da Delbrück).
toriali – e più tardi imperiali – in questa branca di attività. Un dato significativo sui proprietari di officine romane nel periodo che qui interessa si può ricavare combinando alcuni dati letterari con meteriali archeologici e con iscrizioni. Sappiamo ad esempio da Varrone (La lingua latina, V, 50, 3) che importanti figlinae esistevano sull’Esquilino fin da età notevolmente antica: si tratta di una menzione nel catalogo dei «sacrari degli Argei», la cui origine risale certamente ad età antichissima, ma che l’autore cita da una rielaborazione di IV-III secolo a.C. Una conferma si ricava da Festo (p. 468 L.), che, nel riferire un episodio forse leggendario, ricorda un «figulo della regione Esquilina». Ora, gli scavi realizzati alla fine
dell’Ottocento sul colle hanno rivelato, in corrispondenza dello sbocco di via dello Statuto sulla via Merulana, un grande scarico con resti di fornace, pertinenti a età repubblicana piuttosto antica. Tra gli oggetti rinvenuti si distingue un gruppo con iscrizioni incise prima della cottura, identificabili come strumenti destinati alla lavorazione dell’argilla (fig. 232). I nomi che vi appaiono sono quelli degli operai della figlina: per ben cinque volte vediamo riapparire (intero o frammentario) lo stesso nome, Sextius. Troviamo così un C. Sextius V(ibi) s(ervus) e un P. Sextius V(ibi) f(ilius). Le iscrizioni si datano tra la metà del IV e la metà del III secolo a.C., e ci permettono di identificare in un membro della plebea gens Sextia il proprietario dell’officina. Ora, uno dei primi personaggi della gens a noi noti è C. Sextius Sextinus Lateranus, tribuno della plebe tra il 376 e il 367, autore, insieme a C. Licinius Stolo, delle celebri leggi Licinie-Sestie, che equipararono politicamente i plebei ai patrizi. Nel 366 egli sarà il primo plebeo ad accedere al consolato. Un rapporto tra i Sextii proprietari di figlinae e il contemporaneo console plebeo è suggerito con forza dal cognomen Lateranus, che la gens conserverà fino all’età imperiale. Ma lateranus è aggettivo derivante da later, mattone: in epoca così antica, un nome del genere non può che essere legato a una precisa caratteristica del suo detentore, che quindi dovette essere proprietario di figlinae. Almeno per una volta, è forse possibile identificare una delle risorse economiche che permisero a un’oscura famiglia plebea di accedere precocemente e rapidamente ai più alti livelli dello Stato repubblicano.
CONCLUSIONI
Nella sua monumentale e documentatissima opera L’eredità di Annibale, che ripercorre l’intera storia repubblicana del III secolo, Arnold Toynbee sviluppa fino alle estreme conseguenze una tesi di fondo, espressa già nella prefazione in questi termini: Il tema dell’opera nel suo insieme è la vittoria postuma di Annibale su Roma, che egli non aveva potuto sconfiggere con le armi […] egli riuscì ad aprire nell’organismo sociale ed economico della Federazione ferite gravissime, tanto gravi da provocare, quando suppurarono, quella rivoluzione che fu accelerata da Tiberio Gracco e che non ebbe termine sino al momento in cui fu arrestata da Augusto, cento anni più tardi. A mio parere, quella rivoluzione rappresentò la nemesi del corso, in apparenza trionfale, delle conquiste militari di Roma.
Come spesso accade ai lavori «a tesi», anche se geniali, la compressione di processi storici di grande complessità, come questo, entro i limiti angusti di una formula non può che condurre in un vicolo cieco. Certo, le conseguenze di una guerra devastante, che seminò rovine gigantesche in tutta la penisola, non vanno sottovalutate: e tuttavia, un organismo vitale finisce sempre per ricostituirsi nella forma primitiva, se i presupposti su cui si basa e di cui si nutre continuano ad esistere. È forse questo il caso dell’Italia in quegli anni? In effetti, le radici dei profondi sommovimenti che misero in crisi la compagine sociale, economica e politica della confederazione romano-italica pre-
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esistevano alla guerra annibalica, che dunque non fece che accelerare e portare a una più rapida e traumatica conclusione un movimento già in atto. Già la guerra contro Pirro e Taranto, e poi la lunghissima e devastante prima guerra punica avevano provocato profonde ferite, soprattutto in Magna Grecia, dove le città elleniche perdono già da allora in gran parte la loro prosperità economica e la loro egemonia culturale. Ma gli indizi più rilevanti del cambiamento in atto si percepiscono soprattutto a Roma, e non sono di carattere contingente, ma strutturale. Nonostante la scomparsa di quasi tutta la documentazione storica antica relativa al periodo in questione (quello cioè compreso tra il 292 e il 218, che corrisponde alla seconda decade, perduta, di Livio), è possibile allineare una serie di fatti di grande rilievo, che attestano la profondità della crisi e l’ampiezza delle trasformazioni in atto. Immediatamente dopo la fine della prima guerra punica, nel 241, con la creazione delle due ultime tribù, la Quirina e la Velina, Roma rinuncerà definitivamente al sistema di integrazione che aveva accompagnato la conquista dell’Italia, con il conseguente ampliamento della cittadinanza, dando vita, con le prime province in Sicilia e in Sardegna, a un nuovo tipo di organizzazione, non più modificato in seguito. Allo stesso tempo, le nuove esigenze economiche e finanziarie determinano, nel 269 a.C., l’introduzione di una moneta d’argento (il quadrigato), sostituito dal denario nel corso della seconda guerra punica, con un successo straordinario per efficacia e per durata.
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La risposta istituzionale alle nuove esigenze è riconoscibile nella creazione di importanti magistrature, istituite nei decenni centrali del III secolo. La più significativa di queste è probabilmente il pretore peregrino, che appare tra il 244 e il 242 a.C., per provvedere alla gestione dei processi che coinvolgevano stranieri: segno evidente della progressiva «internazionalizzazione» della società romana. Uno dei segni rivelatori dell’egemonia culturale in atto, che fa di Roma la capitale anche culturale dell’Italia, è l’inizio, ancora una volta subito dopo la fine della prima guerra punica, della «letteratura» come fenomeno autonomo: data canonica, il 240, anno della prima messa in scena di un’opera teatrale, dovuta a Livio Andronico. Poco prima della fine del secolo apparirà anche la letteratura storica, con gli Annali di Fabio Pittore: il fatto che essi siano redatti in greco dimostra, in ogni caso, la loro destinazione a un pubblico non solo locale, ma internazionale. Parallelamente, la città si apre di nuovo, dopo un’interruzione di quasi un secolo, ai culti stranieri, con l’introduzione epocale dell’asiatica Cibele, nel 205 a.C., in conseguenza della crisi religiosa indotta dalla guerra annibalica. Da allora, il fenomeno non farà che accentuarsi, con l’adozione di una serie ininterrotta di nuovi culti, per lo più provenienti dal Mediterraneo orientale. Quello che più interessa qui è però la crisi strutturale, che corrisponde all’impoverimento e alla proletarizzazione – pervicacemente negata da alcuni storici contemporanei – dei piccoli e medi agricoltori italici, che raggiungerà nel secolo successivo il suo momento più acuto. La concentrazione del potere politico ed economico nelle mani di un’élite dirigente romana sempre più ristretta e la fine della mobilità sociale, che aveva facilitato in precedenza l’integrazione degli italici, fino ai più alti livelli, nella compagine romana, determina quella che può definirsi una vera e propria «provincializzazione» della penisola e la divaricazione radicale tra una cultura urbana, «alta», e una cultura municipale, «plebea». Segno evidente ne è il progressivo scadimento e infine la dissoluzione dell’artigianato locale, prima fiorente (ciste, specchi, scultura in pietra e in terracotta, ceramica, ma soprattutto gli ex voto fittili), espressione tipica della koiné italica: dissoluzione che conferma la crisi profonda della committenza locale, costituita appunto dai piccoli agricoltori liberi, sostituiti da personale servile. Un quadro analogo emerge dalla documentazione della necropoli medio-repubblicana di Palestrina, in
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particolare dai numerosi cippi iscritti a forma di pigna (più di 350), che segnalavano le tombe dei cittadini più importanti. Due terzi di questi appartengono al periodo medio-repubblicano (fine IV-III secolo a.C.) e siccome non è immaginabile per il II secolo un crollo demografico di tali dimensioni, se ne deve desumere una drastica riduzione del ceto dirigente. Ciò coincide perfettamente con i dati desumibili dai corredi delle tombe, che dimostrano lo scadimento e la progressiva scomparsa dei prodotti tipici dell’artigianato locale, come ciste e specchi, ma anche ossi e terrecotte. Altrettanto significativa è la presenza di un numero non trascurabile di liberti, 23 dei quali nel periodo più antico, 4 nel più recente. Da un lato, questa documentazione dimostra l’aumento rilevante della popolazione schiavile già a partire dal III secolo a.C., e conferma così il carattere sociale della crisi; dall’altro, la drastica diminuzione dei liberti al passaggio dal III al II secolo, che non si può spiegare, ovviamente, con una diminuzione della popolazione servile (che anzi dovette aumentare di molto), conferma la serrata della classe dirigente locale, che portò all’eliminazione dei limitati spazi di promozione sociale, cui certe frange subalterne della società potevano ancora aspirare nel periodo più antico. Il caso di Palestrina costituisce, per la ricchezza della documentazione disponibile, un esempio paradigmatico della situazione generale dell’Italia romana, in un momento chiave della sua storia, quello che precede la guerra annibalica. La società di piccoli e medi agricoltori, nerbo degli eserciti che avevano conquistato l’Italia, portatori di questa cultura, è ormai in via di estinzione. La nuova cultura emergente, manifestazione delle ristrette aristocrazie urbane, ha ormai bisogno di altri modelli, anch’essi di carattere «cosmopolita»: gli stessi modelli che erano stati elaborati per le corti ellenistiche.
Particolare della statua di sinistra della fig. 119.
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INDICE ANALITICO
Abruzzo 102 Acculturazione, 42, 48, 51 Achille 164, 169, 194, 195, 205, 207 Acquarossa 48, 61, 64 Acquedotti 91 Acquoria 43 Acroteri 61 Adone 66 Adria 233 Adriano 89, 93, 96 Adventus 68, 72 Aedes 51 Aes grave 189, 190, 191, 196 Aes rude 188 Aes signatum 188, 189, 232 Africani 154 Afrodite 30, 42, 66, 234 Agamennone 165 Agorá 13 Agostino 49 Agrigento 92, 198 Agrippa 183, 185 Agylla 38; v. anche Cerveteri Aiace Oileo 165 Aiace Telamonio 164, 205, 207 Alae 145, 147, 164 Alba Fucens 89, 92, 96, 98, 102, 118, 128, 180 Apollo 105, 106 Arx 102 Aventino 106 Colle Pettorino 102, 105, 106 Colle S. Pietro 105 Comizio 105 Curia 105 Diana 105, 106 Esquilino 106 Foro 105 Giunone Lucina 106 Magnenzio 105 Marsia 105 Piano di Civita 105 Via Valeria 105 Alba Longa 132 Alcibiade 180, 195 Alcmena 205 Aleria 190, 232 Alessandria 182 Alessandro 119, 128, 156, 173, 190, 194, 195 Alessandro François 164 Alessandro Verri 171 Alfabeto calcidese 43 Alpi, 199 Alsium 94, 106 Alta Semita 19 Amazzoni 73, 80, 234 Ambitus 145 Amico 208, 210, 215, 216, 217 Amilcare 153 Anchise 42 Anco Marcio 22, 169, 181 Anello d’oro 181 Aniketos 119
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Anio Vetus 91 Annali dei pontefici 44 Annibale 151, 153, 184, 198, 199, 236 Ansedonia 106 Antefisse 64, 107 Antemnae 86, 128 Antenati 145, 147 Antenati erotizzati 48, 61 Antenato divinizzato 30 Antiphilos 149 Anzio 117, 132, 180, 189 Apollo 44, 54, 76, 121, 128, 149, 180, 189, 190, 194, 195, 218, 221, 234 Apollo Medico 82 Apollonio Rodio 211 Apoteosi 64, 72, 201 Apoteosi di Eracle 232, 233 Appiano 152 Appio Claudio Cieco 91, 121, 151, 173, 194 Arca (sortes) 221 Archivio domestico 163 Ardea 26, 143 Areostilo 58, 126 Ares 234 Argentarii 193 Argentum signatum 192 Argonauti 208, 210, 212, 218 Argonautiche 211 Arianna 72 Ariccia 131 Arimaspi 144 Ariminum 94-98; v. anche Rimini Aristotele 48 Arpino 179 Arrunte 37 Arsinoe II 195 Arte storica 155, 163 Arti banausiche 150 Artile 226 Arule 145 Aruspice di Veio 226 Aruspici 54, 221 Askoi 232 Asse della prora 190, 191 Assiria 29 Astarte 66, 72 Atelier dei piccoli bolli 230, 232 Atene 19, 22, 74, 88 Athena 72, 210, 234 Athena Mindia 132 Athena Parthenos 149 Atilius Calatinus, A. 160 Atrio 101, 146, 165 Atrio displuviato 145 Atrio testudinato 145 Atrio tuscanico 101 Attilio Regolo, M. 121, 151, 153, 160, 193 Attis 66 Atto Navio 42, 90 Auguri 14, 42, 51, 92, 96, 106, 181
Augusto 77, 156, 184, 237 Aulo Gellio 89, 93 Aulo Vibenna 169, 224 Autololi 152 Autoromanizzazione 118 Avele Feluskes 36 Azio 184 Bacchiadi 37 Bacco 128 Bagrada 154 Banchetto 47, 48, 62, 64 Barbita 72 Battaglia di Alessandro 164 Bebrici 211 Bel Promontorio 117 Beneventum 94 Bessa 199 Biella 199 Biga 76 Biga con cavalli alati 69, 70 Bisenzio 42 Bitalemi 189 Bitinia 211 Bolsena 118, 225, 236 Brundisium 94 Bruto 181 Bruto Capitolino 88, 184, 186 Bruzii 200 Bulla 142 Cabum 19 Caco 227 Cacu 227 Caduceo 69, 72, 218 Calcante 210, 217 Cales 94-96, 233, 234 Vicus Esquilinus 96, 232 Vicus Palatinus 95 Calpurnio Pisone, Cn. 183 Cambiavalute 122 Camillo 52, 68, 181, 182, 190, 227 Campania 7, 29, 74, 118, 151, 153, 194 Canoleios Calenos 232 Capena 19, 160, 191, 233, 236 Capitolium 106 Capo Bon 117, 193 Capo Farina 117 Cappellaccio 17, 18, 58, 89, 172 Capua 91, 200 Caria 157 Carinae 147 Carseoli 94, 102 Cartagine 117, 193, 230 Cartaginesi 117, 151, 153, 154, 184, 191, 198, 199 Carvilio Massimo, Sp. 121 Casa delle Vestali 182 Cascia 129 Cassandra 165 Castore 210 Castore e Polluce 78 Castori 32, 80, 120
Castrum 117 Castrum di Ostia 111 Castrum Novum 94, 105 Catalogna 231 Catone il Censore 46-48, 181 Celio 52, 53, 170 Celio Vibenna 169, 226 Centauri 236 Ceramica a figure rosse 88 Ceramica calena 232 Cerere 131, 232 Cerere, Libero e Libera 77, 80, 148 Cerva cerinite 58 Cerveteri 22, 32, 38, 66 Cesennia 180 Charu 164 Chiusi 80, 85, 229 Cibele 66, 239 Cicerone 46, 54, 91, 149, 153, 160, 161, 163, 171, 173, 221 Ciclo Troiano 80 Cipriota 29, 72 Cipro 32 Circo Flaminio 82, 121 Circo Massimo 19, 52, 121, 183 Circoscrizioni elettorali 96, 98, 99 Cisauna 172 Cista 204, 207 Cista Ficoroni 88, 148, 149, 164, 200, 201, 205, 207-218, 226 Cisterna di Latina 74 Città coloniali, 117 Città palatina 14 Città romulea 94 Civitacastellana 80, 118, 231, 236 Claudii 121 Claudio (imperatore) 18, 148, 153, 169 Clientes 145 Clivus Suburanus 19 Cloache 8, 54, 90-91, 108 Cneve Tarchunies Rumach 166 Cocciopesto 101, 102, 147 Colli Albani 32 Colombella 202 Colonia viritana 93, 128 Colonie latine 92-94, 111, 118, 128, 130, 131 Colonie marittime 94, 117 Colonie romane 94, 117, 147 Colonizzazione 94, 144 Colonizzazione focea 76 Comitia 92 Compedes 180 Compluvium 145 Concordia 181, 233 Confederazione romano-italica 118, 198, 199, 237 Coniuratio 199 Consacrazione 51 Coppa di Nestore 30
Corcolle 43 Corinto 37, 38, 54, 74, 95, 200 Cornelii 176, 205, 206 Cornelio, figlio di Gneo 175 Cornelius Scapola 178 Corsica 105, 231, 233 Corteo trionfale 121 Cortona 196 Cosa 89, 92, 94, 97-99, 106, 118 Arx 106 Auguraculum 106 Capitolium 106 Comizio 107 Concordia 107 Curia 107 Ercole 106 Foro 106, 107 Giove 106 Minerva 107 Via Sacra 106 Cratere di Aristonoto 38 Crotoniati 200 Cubicula 145 Culto eroico 28 Cuma 29, 43, 82 Curio Dentato, Manio 96, 126, 128, 130 Decima 42 Delfi 150, 180, 190, 236 Delfini 144 Delo 161 Demarato 37, 38, 54 Demetra 80, 131, 188 Denario 192, 198, 238 Desultores 32 Diadema 180 Diadochi 119, 194 Diana 43, 52, 97, 105 Dindia 208 Dindii 208 Dio morente 66 Diomede 226 Dionigi di Alicarnasso 28, 37, 58, 59, 72, 119, 132, 149, 150 Dionigi il Vecchio 90 Dioniso 67, 72, 80, 208, 234 Diopos 38 Dioscuri 32, 78, 190, 196, 198, 218, 224, 226 Divinizzazione 62, 67 Dodici tavole 21 Domus 145, 147 Domus ad atrio 101, 145, 146, 164 Dono nuziale 205 Dromos 164 Duilio 153, 154, 182, 184, 191, 235 Duoviri sacris faciundis 44 Efesto 206 Effigies parvaque simulacra Romae 98 Egadi 126, 153, 154, 161
Egitto 29, 66, 195 Ekklesiasteria 92 Elefanti 189, 230, 232, 234 Eleno 227 Ellenizzazione 39, 43, 43, 88, 119, 144, 161 Empireo 178 Enea 30, 42, 132, 133, 138, 198 Ennio 44, 171, 172 Epidauro 99, 181, 232 Equi 102 Equites Campani 194 Equus October 194 Eracle 64, 67, 205, 221 Eracle in Olimpo 234 Eraclea di Lucania 132 Ercole 53, 54, 72, 76, 80, 179, 181, 192, 194, 195, 208, 218 Ercole barbato 194, 195 Erice 154 Ernici 180 Erodiano 151 Eroi 30 Eroizzazione 64, 67, 155, 173, 175, 179 Eros 209 Eroti 178 Esculapio 155, 182, 233 Età del Bronzo 58, 188 Età del Ferro 29, 37, 188 Eteocle e Polinice 165, 169 Ethos 187 Etruria 7, 29, 30, 36, 37, 38, 43, 54, 61, 64, 67, 73, 85, 155, 169, 186, 207, 229, 230, 232, 233 Etruria interna 80 Etruria marittima 85 Etruria meridionale 61, 76, 230 Etruria settentrionale 61 Etruschi 22, 37, 120, 149, 170, 233 Eucheir 38 Euelpis 46, 52 Eugrammos 38 Eumolpo 153 Evandro 121 Evocatio 52 Exauguratio 54 Exempla maiorum 77 Ex voto 88, 131, 161, 238 Fabii 36, 121, 148, 149, 181 Fabio, C. 192 Fabio Massimo Gurgite, Q. 181, 195 Fabio Massimo Rulliano, Q. 121, 160, 163, 180, 195 Fabio Pittore 148, 149-151, 153, 154, 156, 230 Fabio Pittore (annalista) 238 Fabio, Q. 158-160 Falerii 80, 85, 86, 88, 128, 230, 234 Falerii Novi 107, 117 Arx 118
Foro 118 Teatro 118 Falisci 85 Famiglia agnatizia 145 Fannius, M. 159 Fanum Voltumnae 122 Fasti numani 44, 65 Fatiche di Ercole 62 Fauces 145 Fauno 227 Federati italici 197 Fedro di Platone 179 Feneratores 180 Fenice 166 Fenici 29, 43 Ferento 64 Festo 54, 155, 160, 236 Fidia 85, 149 Flaminio, Gaio 96 Flavio, Cn. 180, 182 Floro 153 Flotta 117 Focolare 29 Foedus 198 Foedus Cassianum 43, 199 Foedus con Napoli 194 Forma 173 Foscolo 208 Francia meridionale 232 Fratelli Sassi 172 Fratelli Vibenna 228 Fregellae 89, 92, 94, 98, 101, 102, 107, 145, 147 Atrio tuscanico 101 Cardo 98 Circoscrizioni elettorali 98 Clientes 101 Cocciopesto 101 Comizio 99 Concordia 99 Curia 99 Decumanus 98, 101 Domus 101 Ellenizzazione 102 Esculapio 99 Ex voto 99 Foro 98, 99, 101 Fortuna 101 Guerra annibalica 101 Impluvio 101 Iuniores 99 Lana 101 Media repubblica 102 Peligni 101 Pozzetti 98 Primo stile 101, 102 Salus 101 Salutatio 101 Sanniti 101 Seniores 99 Telamoni 99 Vestibulum 101 Via Latina 98, 101 Fregenae 94, 105 Frontone 52, 61, 64
Frontone chiuso 128 Fulvio Curvo Petino 180 Fulvio Flacco, M. 122, 155 Funerale pubblico 156 Gabii 49 Galli 120, 170, 195 Galli Boi 199 Gallia Comata 169 Garamanti 152 Genio alato 176 Gens 145 Gens Cornelia 173 Gens Fabia 160, 181, 195 Gens Plautia 209 Gens Sextia 237 Gens Valeria 36 Genucilia 178, 230 Giacomo Boni 16 Giasone 211, 218 Gigantomachia 80 Giorgio Pasquali 16, 45, 73, 74, 76 Giove 59, 67, 121, 128, 153, 179, 181, 190, 196 Giove fanciullo 222 Giove Laziale 179 Giudizio di Paride 224 Giunio Bubulco, C. 121, 149 Giunone 59, 66, 80, 221, 232 Gladiatori sanniti 122 Golfo del Leone 230 Gorgone 80 Grande dea 65, 66 Grande Roma dei Tarquinii 16, 73 Greci 29, 43, 148 Grecia 155, 161 Grecia orientale 61, 76 Grifi 73, 145, 236 Gruppo gentilizio 30 Guancere di elmi 221 Guerra annibalica 149, 199, 238 Guerra di Troia 171 Guerra latina 94 Guerra sociale 90, 197 Guerre civili 90 Guerre gotiche 50 Guerre puniche 145 Guerre sannitiche 119, 180 Gutti 233 Hasta pura 160 Helios 236 Heraklesschalen 233 Hermes 69, 80, 222 Heroon di Gjolbaschi-Trysa 156 Hortus 146 Horus 66 Ideologia trionfale 187 Idrie ceretane 38 Ierogamia 66, 72 Ierone 154 Iliade 30, 170, 206
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Imagines maiorum 145, 163 Imitatio urbis 99, 232 Impluvium 146 Incendio gallico 16 Incinerazione 28, 28 India 66, 72 Insubri 198 Interamna Lirenas 94 Interpretatio greca 50 Inumazione 29, 173 Invasione gallica 90 Iolao 208 Ionia 59, 64 Ischia 30; v. anche Pitecusa Isernia 105, 128 Iside 65, 66 Isole dei Beati 144, 178, 205 Italia appenninica 186 Italia centrale 143, 184, 194, 199, 231 Italica 93 Iuniores 94 Iuppiter Latiaris 19 Kallinikos 119 Kalokagathia 174 Kantharos 232 Kerkouane 192, 193 Kernos 45 Koiné 239 Komos 64 Kourotrophos 42 Kylix 217 Lago di Albano 228 Lago di Bolsena 118 Lago Regillo 32, 120, 199 Lago Vadimone 194 Lanuvio 32, 36, 49 Lapis Satricanus 8, 36, 45 Lararium 73 Lari 146, 160, 161 Laris Papathnas 164 Larth Ulthes 164 Latini 16, 86, 132, 137, 153, 199 Latino 197 Latium vetus 19, 22 Lavinio 16, 30, 42, 132, 142 Afrodite 132 Arx 132 Athena Iliàs 132, 137, 142 Bulla 142 Cerere 136 Dioscuri 137 Ex voto 137, 142-144 Giunone 142 Heroon di Enea 132, 136, 137 Madonnella 136 Medusa 143 Minerva 137, 142 Numico 132, 136 Penati 132 Pratica di Mare 132 Sanatio 142 Sol Indiges 132
250
Tritone 142 Tunica recta 143 Venere 137, 142 Xoanon 142 Lazio 7, 16, 19, 30, 32, 37, 43, 61, 65, 69, 73, 76, 131, 137, 144, 200, 216, 218, 224, 226 Lazio meridionale 145 Lega latina 22, 32, 60, 80, 85, 94, 120, 137, 199 Leges regiae 45 Legge delle XII tavole 143, 146 Leggi Licinie-Sestie 86, 236 Leggi suntuarie 22, 201 Leone Nemeo 64 Leptis Magna 230 Libertas 155 Libertas plebeia 180 Libia 117 Licia 156 Licinius Stolo, C. 237 Licofrone 132 Lione, 170 Liri 94 Lisippo 179, 195 Literno 151 Litra 196 Littori 160 Livio 54, 88, 89, 90, 91, 101, 102, 119, 120, 122, 171, 179, 180, 192, 193, 194, 226, 237 Livio Andronico 44, 239 Locri 199 Lombardia 199 Losna 217 Lucania 133, 173 Lucera 132 Lucumone 37 Ludi Romani 72 «Lumi» 158 Luna 53, 217 Lupercale, 96 Lutazio, C. 198 Lutazio Catulo, C. 126, 153, 154, 161 Macella 183 Machaira 32 Maeniana 194 Magna Grecia 7, 43, 77, 80, 82, 85, 87, 88, 99, 136, 161, 173, 178, 180, 186, 194, 224, 234 Magulnia 207, 208 Magulnii 219 Manubiae 151 Marce Camitlnas 165, 169 Marchi di cava 90 Marcio Censorino, C. 181 Marcio Tremulo, Q. 180, 187 Marsi 102 Marsia 96, 180, 182, 226 Marte 32, 36, 53, 54, 64, 120, 153, 180, 190, 192, 193, 198 Marte barbato 195 Marte imberbe 196
Maschere 174 Massa d’Albe 102 Mastarna 170 Mastia dei Tartessi 117 Matrimonio sacro 67 Mauri 153 Mausoleo di Alicarnasso 157 Mausoleo 156 Mecenate 162 Media repubblica 88 Medio-repubblicano 87, 119, 126, 161, 178, 200, 201 Mediterraneo 65, 87 Mediterraneo occidentale 230 Mediterraneo orientale 29, 37, 42, 238 Medritinalia 46 Medusa 208 Meleagro 128 Menadi 73, 145, 236 Menio, C. 180, 193 Mercurio 69, 70, 72, 80, 190, 218 Metaponto 92 Milazzo 153, 182, 189, 191, 235 Minerva 54, 72, 80, 191, 232 Minturnae 94 Mirone 85 Moneta d’argento 88, 89 Moneta romano-campana 121, 178, 181, 190, 192, 193, 234 Monte Albano 19, 94 Monte Cavo 19 Mopso 210 Morgantina 192, 199, 200 Municipi 93, 94, 147 Murlo (Poggio Civitate) 48, 61, 64 Mygdon 211 Napoli 154, 180, 193, 194, 231 Nauloco 185 Negau (elmo tipo) 32 Nereidi 145, 236 Nevio 160 Nikator 119 Nike 119, 197 Nikephoros 119 Nomadi 153 Nonio 194 Norba 96, 97, 105, 106, 118 Arx 97 Aventino 97 Esquilino 97 Foro 96 Giunone Lucina 97 Via Sacra 97 Vicus Aventini 97 Vicus Capitoli 97 Vicus Esquilini 97 Norchia 233 Norcia 128 Novios Plautios 149, 208, 227 Numa 22, 39, 49, 182, 183 Numerio Suffustio 222 Numidi 152
Ocresia 170 Odissea 45 Oggetto parlante 209 Ogulnii 121, 180-183, 195, 236 Ogulnio, Q. 181, 193 Olimpo 72 Omero 30, 47 Orazio Pulvillo, M. 60 Orientalizzante 29, 37 Oro del giuramento 198-200 Orvieto 80, 85, 118, 122, 236 Osiride 66 Ostia 117, 132 Ottaviano 183 Pace 154 Pacuvio, 150 Paestum 89, 92, 96, 98, 105-107, 111, 181 Agorá 107 Comizio 96, 107 Curia 107 Foro 107 Fortuna Virilis 111 Marsia 96, 111 Mens Bona 111 Piscina 111 Porta Sirena 107 Tabernae 107 Palestrina 22, 37, 53, 76, 178, 201, 229, 230, 236, 238; v. anche Preneste Papirio Cursore, L. 121, 122, 155, 194 Parentationes 174 Parrasio 149, 217 Pater familias 145 Patrizi 77 Patroclo 165, 170 Penati 132 Peperino 28, 175, 204 Per aes et libram 189 Peripteros sine postico 51, 53, 59, 111, 126, 130 Peristilio 147 Persefone 80 Perugia 107, 145 Petaso 69, 190, 194, 195 Petronio 154 Philocalos 154 Pianura Pontina 65, 76 Piemonte 199 Pietrabbondante 185 Pigmei 235 Pilos 210 Pinacoteca 153 Pindaro 211 Pirro 117, 161, 189, 192, 195, 199, 232, 234, 237 Pistis 200 Pitagora 180, 195 Pitecusa 30 Pittura di genere 149 Pittura popolare 162 Pittura storica 87, 156
Pittura trionfale 151, 155, 160 Pizia 218 Platone 178 Plebei 77 Plinio il Vecchio 38, 54, 122, 132, 147-149, 154, 159, 179, 180, 182, 189, 192, 197, 198, 216 Plinio il Giovane 154 Plutarco 14, 39, 52 Pocola deorum 160, 230-232 Polibio 60, 117, 148, 174, 183, 199, 229 Policleto 85, 149 Policrate di Samo 21 Polifemo 38 Poliorcetica 90 Polluce 211, 217-218 Pometia 52, 53 Pompei 107, 117, 162 Pompeo 148 Pontefici 44, 180 Porsenna 80, 85 Portonaccio 72, 76 Poseidone 211 Poseidonia 107; v. anche Paestum Postumio Albino, A. 32 Postumio Megello, L. 121, 128 Pratica di Mare, v. Lavinio Premonetale 189 Preneste 22, 30, 132, 200, 201, 206, 208, 226 Prenestini 238 Presa di Troia 154 Pretore 160 Pretore peregrino 89, 92, 238 Pretore urbano 92 Prigionieri troiani 165 Prima guerra punica 93, 94, 117, 126, 151, 154,160, 192, 193, 237 Primo stile 146, 165 Principi 64 Principi eroi 29 Procopio 50 Prodigia 44 Profectio 72 Pronao 51 Proserpina 202, 236 Pyrgi 50, 51, 66, 94, 106 Quadrigato 121, 191, 193, 194, 195, 197, 198, 238 Quadrighe 72 Questori classici 117 Quinario 193, 199 Quintiliano 183 Rabirii 222 Radamanto 205 Ramo secco 189 Rappresentazione continua 155 Rappresentazione storica 156 Ratto dell’indovino 226 Re di Roma 182 Regge 64 Regina 64
Retus Gabinius 233 Rex 64 Rex sacrorum 64 Rhopographia 150 Rimini 95, 97; v. anche Ariminum Vicus Aventini 95, 96 Vicus Dianensis 95, 96 Vicus Fortunae (Forensis) 95, 96 Vicus Germali 95, 96 Vicus Velabri 95, 96 Ritratto 87 Ritratto fisionomico 186 Ritratto pubblico 180 Roma Ager 21 Agger 16-18 Apollinar 82 Aqua Appia 91 Ara Martis 194 Ara Maxima 53, 195 Aracoeli 73 Arco di Gallieno 17, 156 Arco di Settimio Severo 151, 182 Area Vulcani 182 Arx 13, 195 Auguraculum 97 Aventino 18, 43, 52, 53, 80, 96, 111, 155 Bellona 233 Bellona Victrix 119 Campidoglio 49, 53, 54, 60, 70, 73, 74, 111, 121, 182-183, 196 Campo Marzio 53, 126, 154, 164, 195 Campus Esquilinus 162, 164 Colonna di Duilio 1543 Columna Maenia 180 Columna rostrata 183 Comizio 14, 42, 73, 74, 91, 96, 107, 137, 147, 154, 180, 183, 190, 195, 198, 236 Consus 121, 155 Curia Hostilia 14, 74, 155, 196 Damophilos 80, 148 Domus Aurea 148 Domus rostrata 148 Elogio di Duilio 182 Elogio di Scipione Barbato 173, 174 Esquilino 22, 26, 28, 53, 73, 74, 80, 96, 128, 133, 144, 151, 154, 156, 159 Ferentarii 154 Feronia 126 Fico Ruminale 181 Fides 199 Figlinae 236 Fons 20, 190, 196 Foro 8, 13, 14, 21, 32, 50, 60, 72-74, 77, 91, 96, 122, 147, 151, 174, 182, 193
Foro Boario 52-54, 65, 68, 74,
80
Foro di Augusto 154, 183 Foro Olitorio 154, 191 Fors Fortuna 53, 121 Fortuna 52, 64-67, 72, 147, 201, 221, 232 Fortuna Brevis 52 Fortuna e Mater Matuta 8, 52, 65, 68, 70, 74, 76, 122 Fortuna Felix? 52 Fortuna Obsequens 52 Fortuna Primigenia 52 Fortuna Privata 52 Fortuna Redux 52, 68 Fortuna Respiciens 52 Fortuna Virgo 52 Fortuna Virilis 52, 53 Fortuna Viscatrix 52 Giano 154, 190, 191, 197 Giove Capitolino 17, 44, 49, 50, 53, 54, 67, 73, 76, 121, 180, 181, 190, 199 Giove Feretrio 49 Giunone Lucina 53 Giunone Moneta 120, 196 Giunone Regina 52, 120 Giuturna 154 Gorgasos 80, 148 Grotta Oscura 16-18, 90 Horti di Mecenate 161 Hercules Invictus 119, 195 Ippodromo 72; v. anche Circo Isola Sacra 73 Isola Tiberina 99, 154, 232 Iuppiter Invictus 120, 121 Iuppiter Stator 121 Iuppiter Victor 119-121 Iuturna 126 Iuventas 54 Lapis Niger 43, 45, 183 Largo Argentina 126 Laverna 232 Liber 128 Libitina 53, 74, 80, 162 Libri Sibyllini 82, 195 Lupa 180, 182, 194, 196, 227, 236 Lupa Capitolina 9 Mars Pater 195 Mater Matuta 36, 49, 50, 52, 53 Mens 111 Minerva Medica 132 Minotauro 64, 74 Moneta (zecca) 195-197 Mundus 14 Mura Aureliane 19 Mura Serviane 19, 21, 28, 58, 197 Necropoli del Foro 21 Oppio 28 Ops Consiva 64 Ospedale di S. Giovanni 179 Palatino 52, 53, 73, 74, 96, 117, 121, 128, 196
Palazzo Barberini 171 Pianta marmorea 28 Piazza dei Cinquecento 90 Piscina Publica 111 Pomerio 14, 21, 28, 94 Pompa trionfale 164, 172 Ponte Sublicio 19 Porta Caelimontana 19 Porta Capena 19, 172, 181 Porta Carmentalis 19 Porta Collina 19 Porta Esquilina 17, 19, 74, 157, 162 Porta Flumentana 19 Porta Fontinalis 19, 197, 198 Porta Lavernalis 19 Porta Naevia 19 Porta Querquetulana 19 Porta Quirinalis 19 Porta Raudusculana 19 Porta S. Sebastiano 172 Porta Salaria 179 Porta Salutaris 19 Porta Sanqualis 19 Porta Trigemina 19 Porta Trionfale 68 Porta Viminalis 19 Porticus Minucia Vetus 126 Quirinale 18, 53, 121 Quirino 121 Regia 44, 61, 64, 73, 74, 145 Roma Quadrata 117 Rostra 92, 148, 174, 180-184 S. Martino ai Monti 26 S. Omobono 8, 52, 53, 58, 65, 68, 72, 122, 148 S. Sabina 18 S. Vito 17 Sacrari degli Argei 237 Sarcofago di Scipione Barbato 172, 174, 180 Scalae Caci 73 Semo Sancus 53 Sepolcri pubblici 164 Sepolcri singolari 156, 163 Sepolcro Arieti 156, 159-161, 172 Sepolcro degli Scipioni 154, 156, 171, 172, 178 Sepolcro dei Cornelii 176 Sepolcro dei Metelli 171 Sepolcro dei Servili 171 Sepolcro di Calatino 171 Sepolcro di Fabio 151, 154, 156, 158, 161, 163 Sette colli 21, 95 Settimio Severo 152, 183 Stazione Termini 18 Suggrundaria 22 Summanus 54, 60 Tabula Valeria 155 Tempio A di Largo Argentina 126, 154 Tempio C di Largo Argentina 111, 126, 128, 130
251
Tevere 18, 73, 80, 85, 90, 91, 117, 132 Tomba dei Cornelii 204 Tomba degli Scipioni 163 Torlonia 165 Trionfo 67, 68, 70, 72, 119121, 160, 163, 170, 174, 179, 190 Trionfo navale 182 Tutela (Toitesia) 46 Umbilicus urbis 14 Urbs 21 Valle Murcia 53 Velia 21, 28, 191 Vertumnus 155 Vesta 233 Via Appia 19, 32, 94, 160, 171, 172, 174, 181, 182, 191 Via Ardeatina 176 Via Aurelia 91, 94 Via Campana 53, 121 Via Flaminia 91, 94 Via Labicana 19, 161 Via Latina 94, 171 Via Prenestina 19, 161 Via Salaria 19, 128 Via Tiberina 19 Via Tiburtina 19, 94 Via Valeria 91, 94, 102 Victoria 119, 120, 121 Vicus circa foros 19 Vicus Fortunae Respicientis 52 Vicus Iugarius 19 Vicus Longus 19 Vicus Patricius 19 Vicus Tuscus 19 Villa Publica 126 Volcanal 182 ROMA (moneta) 194, 195, 198 Romanizzazione 87, 117, 131 ROMANO (moneta) 189, 194 ROMANOM (moneta) 189 Romolo 14, 117, 119, 120, 121, 181, 182, 198 Romolo e Remo 181 Ruota 190 S. Gerolamo 171 S. Giovanni Lipioni 184 S. Maria di Falleri 118 Sabina 126, 128 Sabini 53 Sacco 94 Saecula 171, 229 Sagra 200 Salii 36 Salus 120, 121, 148, 149, 152, 154, 155, 233 Samii 76 Sanatio 143 Sannio 172, 184, 186 Sanniti, 122, 179, 186, 193 Santippe 153 Santuario orientale (Lavinio) 136, 137 Sardegna 106, 117, 238
252
Sarrani 153 Saties 164 Satiri 73, 209 Satricum 26, 36, 43, 45, 49, 50, 52, 53, 65 Saturno 233 Scasato 86, 128 Schiavismo 89 Scipione Asiageno, 171, 172 Scipione Barbato 88, 171, 175, 179 Scipione Emiliano 173 Scipione l’Africano 151, 153, 171-173, 174 Scrittura 29, 43 Seconda guerra punica 161, 192 Seconda guerra sannitica 159, 160, 194 Segestani 183 Segni 74 Selinunte 193 Sempronio Gracco, Ti. 155 Senatoconsulto del 396 a.C. 142 Seneca 154 Sentinum 194 Serponius (Kaeso) 96, 232 Servio 182, 184, 197 Servio Tullio 8, 14, 21, 22, 28, 52, 53, 64, 65, 66, 68, 74, 96, 97, 121, 169, 181, 182, 189, 192 Sestantale 198 Sesterzio 193, 199 Sesto Pompeo 184 Setlans 198 Sextii 236 Sextius Lateranus, C. 236 Sfingi 145, 211 Sicilia 59, 78, 80, 85, 87, 99, 117, 132, 155, 174, 189, 193, 199, 230, 238 Sicilia occidentale 193, 231 Signia 96; v. anche Segni Sileno 80, 205, 218 Silio Italico 151, 153, 154 Silla 7, 173 Sime 61 Simposio 47, 48 Sinuessa 94 Siracusa 90 Sirena 144, 206, 208 Siria 29 Siritide 132 Sistema onomastico 29 Skopas 128 Sodales martiales 36 Sogno di Scipione 174 Solone 21, 22 Sora 94, 128, 179 Spagna 93 Specchi 221 Spectio 97 Spina 232 Splendor 159 Spoletium 94
Spurinna 69 Spurio Carvilio 179, 186 Stemmata 145 Stile severo 80 Stipe votiva 131 Strabone 91, 133, 143 Strade 91 Suessa Aurunca 94 Suessa Pometia 53, 65 Sulmona 101 Svetonio 172 Tabernae 194 Tablinum 145, 147, 164, 169 Tabulae 145 Tabulae triumphales 151, 155, 159, 161 Talamonaccio 107 Taranto 88, 129, 161, 178, 192, 194, 216, 224, 234, 237 Tardo-repubblicano 126 Tarquinia 37, 69, 106, 185, 198 Tarquinii 8, 14, 16, 21, 22, 36, 52, 54, 58, 60, 67-69, 72, 73, 74, 77, 80, 82, 117, 119, 170 Tarquinio il Superbo 2, 8, 52, 53, 54, 65, 68 Tarquinio Prisco 8, 14, 37, 38, 44, 49, 53, 54, 65, 170, 182, 194 Taurasia 172 Teano 233 Teche di specchio 221 Tempio tuscanico 50, 52, 58, 59, 126, 128 Templi dimicatori 120 Templi votivi 119, 151, 155 Templum 14, 51 Teocrito 211 Teodoto 161 Teologia della Vittoria 119-121, 178, 195 Terminus 54 Terrecotte di seconda fase 80 Terza guerra sannitica 102, 172 Teseo 64, 74 Testa Fortnum 128 Teti 206 Thefarie Velianas 66 Thermos 60 Thriambos 67, 72 Tiberio 153 Tiberio Gracco 182, 238 Tiberio Mucio 179 Timeo 192 Timotheos 222 Tiranni 64 Tirii 117 Tito Tazio 182, 198 Tivoli 43, 94, 128 Toga aurea 174 Toga picta 170 Toga pretesta 174 Toga purpurea 174 Tolomeo Filadelfo 182, 196 Tomba Barberini 30
Tomba Bernardini 30, 32 Tomba Castellani 30, 32 Tomba degli Scudi 185 Tomba dei Volumni 145 Tomba del Magistrato 185 Tomba di Enea 30 Tomba François 146, 163-170, 229 Tomba Galeassi 30, 32 Tombe principesche 29 Tori marini 144 Toro Cretese 64 Traiano 196 Trattato romano-cartaginese 43, 60, 117, 231 Tresviri monetales 195, 197 Tribù 93 Tribù Quirina 237 Tribù Velina 237 Triga 69, 76 Tripedaneae (statue) 122 Tritone 142, 178 Troia 132, 154, 171, 227, 228 Troiani 165, 166, 170 Tufo dell’Aniene 90 Tufo di Fidene 111 Tuscania 64 Tuscolo 26, 32, 94, 218, 227 Tutulus 69
Vittoria 174, 179, 196, 199, 210 Vittoriato 199 Volones 155 Volsci 120 Volsinii 80, 85, 86, 117, 118, 122, 181, 227, 236 Volsinii Novi 117, 118 Volsinii Veteres 122 Volterra 191, 234 Vulca 49, 54, 73, 74, 76, 148 Vulcano 45, 191, 233 Vulcenti 169, 170 Vulci 146, 165, 169, 170, 1986, 211, 217 Zeus 42 Zeusi 217 Zonara 199
Uclina 181 Ulisse 208, 227, 236 Uni 66 Utica 231 Uticensi 117 Valerio Faltone, Q. 161, 164 Valerio Massimo 149, 150, 155 Valerio Publicola, P. 8, 28, 36, 45 Vanth 165 Varrone 14, 46, 47, 49, 52, 80, 149, 155, 194, 237 Vasi pontici 38 Vaso di Duenos 43, 45, 46 Veio 16, 22, 52, 54, 68, 69, 72, 76, 80, 85, 90, 93, 120 Veio-Roma-Velletri 74 Vel Saties 166, 170-171 Velletri 47, 49, 69, 74, 76 Venere 153, 191, 233 Vestibulum 146 Veturius Philo, L. 197, 198 Veturius, Ti. 197 Vici 95, 96 Vicino Oriente 29, 37, 64, 66 Victimulae 199 Villa S. Silvestro 105, 128, 130 Conciliabulum 128 Foro 128 Tempio tuscanico ad ali 128 Virgilio 154 Viri triumphales 155, 160, 172 Virtus 174 Viterbo 61, 64 Vitruvio 50, 51, 58, 59, 126, 145
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CREDITI FOTOGRAFICI
Il numero rinvia all’immagine. Foto The Art Archive/Gianni Dagli Orti: 7, 9, 14, 15, 56, 59, 168, 204, 207, 208 The Art Archive/Alfredo Dagli Orti: 18, 20, 21, 36, 37, 107, 130, 141, 215, 216, 228 Roberto Barbieri: 108 Giovanna Battaglini: 77, 79, 80, 81, 82 Bibliothèque Nationale de France, Département Monnaies Medailles et Antiques, Parigi: 169 Foto Bridgemann Art Library/Archivi Alinari: 210 Filippo Coarelli: 70, 87, 94, 110, 117, 118 Il Dagherrotipo, Roma: 54 Araldo De Luca: 16, 42, 148, 149 © Photoservice Electa/AKG_Images: 48, 153 Maria Fenelli: 125, 127 a destra Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: 121, 165 Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei: 230 Foto Museo Civico Archeologico di Pitecusae, Villa Arbusto, Lacco Ameno (NA): 13 Foto Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona: 188 Museo di Palestrina (Sandra Gatti): 196, 197, 198, 217, 218, 219 Foto Museo di Paestum (Marina Cipriani): 95, 98, 100, 102, 103, 104, 167 Foto Musei Vaticani: 113, 209, 226, 227 Numismatica Ars Classica NAC AG (http://www.arsclassicacoins.com/): 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 187, 189, 190, 191, 192, 193, 194 Foto Saporetti/Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano: 138 © 2011 Foto Scala, Firenze: 24, 41 © 2011 Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali: 8, 25, 26, 43, 206 © 2011 Foto Scala, Firenze/BPK Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlino: 24 © Foto Soprintendenza Beni Archeologici Etruria Meridionale, Roma: 186, 231 Alessandro Vasari, Roma: 147, 151 Le immagini 55, 128, 129, 131, 166 provengono dall’archivio Jaca Book La cartografia alle immagini 1, 2, 5, 30, 68 è stata realizzata da Daniela Blandino Le restanti immagini provengono dall’archivio dell’autore.