15 minute read

1.2. Le mura e lo spazio urbano

antica ci ha tramandato a proposito dei Tarquinii, e soprattutto di Servio Tullio: figure sostanzialmente analoghe a quelle dei tiranni greci.

L’estensione a tutto il Latium vetus di norme analoghe, documentate dalla scomparsa del lusso funerario, sembra alludere a un potere in grado di esprimersi oltre i limiti di un’unica città: ciò fa pensare all’esistenza di un coordinamento non solo religioso, ma politico, o forse meglio all’estensione del dominio della città più potente, Roma, sul resto del Lazio. È precisamente quello che afferma la tradizione antica, che ricorda un’egemonia dei Tarquinii sulla Lega Latina, forse troppo affrettatamente messa in dubbio. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che le dimensioni fisiche (e quindi anche demografiche e militari) della città di età arcaica appaiono incomparabili con quelle dei centri latini, anche dei più potenti: l’estensione di Ardea e Satricum non sorpassa i 40 ettari, e anche più ridotta è quella di Tuscolo. Si tratta di dimensioni inferiori a un decimo di quelle della Roma contemporanea.

Un ulteriore elemento va sottolineato: la sparizione dei corredi funerari è perfettamente contemporanea all’apparizione della grande architettura monumentale, particolarmente di quella templare, che ha inizio poco dopo il 600 a.C.: ciò può significare solo che le risorse in precedenza rivolte al lusso «privato», quindi intese a incrementare il prestigio e il potere delle aristocrazie gentilizie, vengono ora dirottate al settore dell’attività edilizia «pubblica». Sarebbe difficile vedere in questo un fenomeno spontaneo: esso rivela in realtà la presenza di una forte autorità centrale, in

10. Rilievo grafico della Pianta marmorea Severiana relativa all’Esquilino. Al n. 593 è indicato il recinto circolare arcaico.

11. Pianta del recinto circolare arcaico e dell’altare dell’Esquilino. 12. In alto, urna di peperino e cinerario marmoreo dalla necropoli dell’Esquilino (Musei Capitolini, Centrale Montemartini). In basso, restituzioni grafiche.

grado di indirizzare le scelte cruciali, a partire da quelle economiche, verso realizzazioni di carattere civico, «pubblico». Ancora una volta, un chiaro sintomo della nascita della città, e quindi della «politica».

Da un simile quadro di austerità emerge un’unica eccezione, che proprio per questa sua singolarità richiede un esame dettagliato.

Si tratta di un grande recinto circolare (figg. 1011), del diametro di circa 16 metri, scoperto alla

PalazzoBrancacciotracciato della via in figlinis area sacra

0 1 5 m via Terme di Traiano

B

canalette tufo opus spicatum cementizio

A edificio circolare

viale del monte oppio

fullonica

0 5 25 cm 0 5 25 cm

fine degli anni Ottanta del secolo scorso sull’Esquilino, quasi di fronte alla chiesa di S. Martino ai Monti. Il recinto è realizzato con tre filari di opera quadrata di cappellaccio, varie volte rialzati in seguito, per adeguarli ai successivi innalzamenti di livello.

Immediatamente ad est di esso si trova un’area sacra con un piccolo altare alla quale appartengono due depositi votivi, il più antico dei quali, situato quasi al centro del recinto, comprende, oltre a una serie di buccheri, una statuetta maschile di bronzo, databile alla metà del VI secolo a.C. I resti conservati del sacello sembrano appartenere al IV secolo a.C., ma vi sono tracce di una fase più antica. Sempre al VI secolo dovrebbe datarsi la struttura circolare, come si deduce dal materiale utilizzato per la sua costruzione, il cappellaccio.

In conclusione, tanto il sacello, quanto il recinto sembrano appartenere ancora al periodo arcaico, più precisamente, come si deduce dal più antico deposito votivo, alla metà del VI secolo a.C.

In tale epoca, una struttura del genere può essere solo una tomba, confrontabile con i sepolcri a recinto, diffusi nell’Italia centrale appenninica dall’VIII al VI secolo a.C. Niente esclude che in origine l’insieme comportasse un tumulo di terra.

La presenza del sacello e dei depositi votivi, oltre alle dimensioni eccezionali del recinto, indicano che si trattava della tomba di un personaggio eccezionale, destinatario di un culto «eroico», che sembra nascere al momento stesso della deposizione, e cioè negli anni centrali del VI secolo.

Sul piano topografico, è significativo il rapporto con le Mura Serviane, che corrono circa 260 metri più a est: quindi il sepolcro doveva trovarsi all’interno del pomerio, ciò che ne conferma il carattere di assoluta eccezionalità. Gli scrittori antichi ricordano alcuni casi analoghi, e li collegano con le tombe dei trionfatori: il caso più noto è quello di P. Valerio Publicola, il celebre console dell’inizio della Repubblica, che sarebbe stato sepolto ai piedi della Velia, dove era anche la sua casa.

Un dato rilevante, e davvero straordinario, si ricava da un altro documento, la pianta marmorea di Roma di età severiana: nei frammenti relativi al monte Oppio, in perfetta corrispondenza con il recinto funerario, è indicato un edificio (fig. 10), che ne riproduce senza possibilità di dubbio l’aspetto: posizione, dimensioni, forma circolare. Anche le caratteristiche grafiche, in particolare la doppia linea di contorno, sembrano sottolinearne l’importanza.

Ancora all’inizio del III secolo d.C., dunque, il monumento continuava ad esistere, ed era considerato importante. Il fatto che una struttura di tali dimensioni si sia conservata così a lungo, e sia stata restaurata per più di 700 anni, entro un’area così fittamente urbanizzata, non può non colpire: trattandosi di un sepolcro della metà del VI secolo, appartenente senza dubbio a un personaggio eccezionale, una sola possibilità sembra praticabile: che si tratti della tomba di un re, e più esattamente di Servio Tullio (o almeno, di quella che si riteneva essere la tomba del re).

Secondo Livio (I, 49, 1), Tarquinio il Superbo avrebbe impedito la sepoltura di Servio, ma secondo un’altra tradizione la proibizione avrebbe riguardato solo i funerali e il sepolcro pubblici (Dionigi di Alicarnasso IV, 40, 15). Per questo il re sarebbe stato sepolto di notte, e privatamente.

In realtà, l’esistenza di una tomba di Servio (o creduta tale) è attestata dalla consuetudine della plebe, durata almeno fino alla metà della Repubblica, di celebrare cerimonie funebri (parentationes) in onore del re: si trattava di un culto funerario, che prevedeva banchetti e libagioni direttamente sulla tomba del defunto.

L’identificazione è confermata dai reperti rinvenuti, che confermano la frequentazione prolungata della tomba. Il deposito votivo più recente appartiene infatti al periodo medio-repubblicano, e l’altare appare obliterato solo alla fine della Repubblica o all’inizio dell’Impero. Anche se il culto vero e proprio sembra allora cessare, la tomba continua ad essere conservata e restaurata, come dimostra l’ultimo intervento, di età giulio-claudia, e la cura con cui la sua presenza viene ancora indicata all’inizio del III secolo d.C. nella pianta marmorea severiana, a 750 anni dalla sua costruzione.

Carattere del tutto eccezionale presenta anche una piccola tomba a incinerazione, proveniente dalla necropoli dell’Esquilino (fig. 12). Si tratta di un pozzetto rivestito di blocchi di peperino, entro il quale era inserita un’urna, anch’essa in peperino, con incassi decorativi sulle pareti e un coperchio a doppio spiovente. All’interno era collocata una seconda urna di marmo greco, munita di peducci e di coperchio a doppio spiovente con acroteri centrali, senza alcuna decorazione (lunga 0,61 m, larga 0,38, alta 0,32). Come nelle altre tombe contemporanee, non vi era alcun corredo: si trattava comunque di un personaggio di rilievo, come si deduce dall’eccezionalità e dal costo del cinerario: forse il più antico esempio di importazione di un oggetto marmoreo greco a Roma, databile alla fine del VI secolo a.C.

2. I PRINCIPI DEL LAZIO

Un fenomeno straordinario coinvolge gran parte dell’Italia tirrenica tra la fine dell’VIII e la metà del VII secolo a.C., nel corso dell’avanzata Età del Ferro. Si tratta del cosiddetto «orientalizzante antico», un fenomeno le cui radici affondano nell’area del Vicino Oriente (Egitto, Assiria, Siria), e che si diffonde tramite intensi rapporti commerciali, che coinvolgono soprattutto Fenici, Ciprioti e Greci. Non si tratta solo di una superficiale moda culturale, limitata all’importazione e all’imitazione di prodotti di lusso: in realtà, questa «moda» è il risultato di profonde trasformazioni, che investono la società tirrenica sul piano economico e politico, oltre che culturale. Il fenomeno infatti costituisce un aspetto della incipiente urbanizzazione e si collega a fenomeni culturali rilevanti, come l’introduzione della scrittura e del sistema onomastico latino.

La documentazione relativa è soprattutto di carattere funerario: in un periodo ristretto, di non più di un cinquantennio, vediamo infatti apparire, in un’area che va dall’Etruria alla Campania meridionale, una serie di sepolcri eccezionali, caratterizzati da corredi di un lusso estremo, che comprendono quantità rilevanti di oggetti in oro, argento, ambra, di importazione o di produzione locale, che testimoniano l’esistenza di gruppi dominanti ristretti, in grado di concentrare nelle proprie mani una parte rilevante della proprietà terriera (che dovrebbe apparire proprio in questi anni) e di controllare i commerci con il Mediterraneo orientale. Questo fenomeno non sembra corrispondere a trasformazioni rilevanti nell’ambito dell’architettura abitativa (parlare di edilizia pubblica sarebbe anacronistico): i ricchissimi proprietari di queste tombe continuano ad abitare in capanne, anche se di dimensioni più ampie rispetto a quelle di epoca immediatamente precedente.

Queste «tombe principesche» rivelano così l’emergere, entro la società protostorica, di personalità dominanti, che sono state definite «Principi Eroi». Tali sepolcri, a parte la ricchezza dei corredi, assumono ovunque caratteristiche particolari, che sono state descritte come segue: 1. uso eccezionale dell’incinerazione, in un contesto dove è ormai dominante l’inumazione; 2. struttura bipartita della tomba, con una fossa (o recinto) più ampio, entro il quale se ne distingue uno più piccolo, riservato alle ceneri del defunto, insieme agli oggetti più emblematici del corredo; 3. presenza delle armi, ma in posizione marginale; 4. presenza di oggetti pertinenti alla dimora, e in particolare al luogo simbolicamente più significativo di essa, il focolare (alari, spiedi, scure ecc.); 5. presenza abituale di un carro, come simbolo di status.

L’uso dell’incinerazione, in particolare, sottolinea la connotazione del defunto come «eroe», come «antenato divinizzato», e quindi rappresentante del gruppo gentilizio e gestore della casa e delle sue ricchezze. È stato osservato che il modello di questa rappresentazione sociale sono i poemi di Omero, la cui conoscenza in Occidente si era già diffusa a partire dalla fondazione di Pitecussa (Ischia: intorno al 770) e di Cuma (intorno al 750). Proprio da Ischia proviene la cosiddetta «Coppa di Nestore» (fig. 13), scoperta in una tomba a cremazione databile intor-

no al 730, su cui sono iscritti tre versi (gli ultimi due sono esametri). «La coppa di Nestore era certo piacevole per bere, ma chi beve da questa coppa subito sarà preso dal desiderio di Afrodite dalla bella corona»: si allude qui alla coppa d’oro di Nestore, menzionata nell’Iliade (XI, 632-637). Di questa cultura fanno pienamente parte i fastosi sepolcri di Preneste e la «Tomba di Enea» a Lavinio (su quest’ultima torneremo più avanti). Come è stato detto (B. d’Agostino):

Nel mondo latino, verso la fine dell’VIII secolo, sembra giungere a conclusione il processo di gerarchizzazione che aveva portato, nel corso del secolo, all’emergere di una élite di guerrieri. Il nuovo ceto dominante è erede di questa élite, ed è costituito da principes delle diverse gentes. Questi hanno una cultura comune, fondata sul superamento della funzione guerriera, divenuta ormai un segno di status, sull’omologazione sociale della donna, sull’adozione della ideologia del convivio come supremo simbolo del prestigio raggiunto. In particolari situazioni ambientali, da questa élite emerge la figura del principe-eroe, che sembra denunciare una più marcata personalizzazione della funzione dominante ed una accentuata distanza dal resto della scena.

Un fenomeno parallelo è l’apparizione del nome gentilizio, che poi caratterizzerà per sempre la società romano-latina (mentre la Grecia non lo stabilizzerà mai). Esso appare insieme all’uso della scrittura, che in Etruria avviene intorno al 700 a.C., e nel Lazio forse un po’ più tardi. Il gentilizio assicura sostanzialmente la trasmissione ereditaria del nome, e con esso dei privilegi della gens, a partire dalla proprietà della terra, testimoniando così l’avvenuta rivoluzione aristocratica.

A Preneste ci sono pervenuti, in tutto o in parte, i corredi di quattro tombe (Barberini, Bernardini, Castellani e Galeassi), cui forse se ne possono aggiungere altre tre, di cui ci sono rimasti pochi oggetti. Questi sepolcri, per la loro ricchezza, appartenevano certamente a «re» o principi locali: è notevole comunque che almeno una di esse (la Castellani) appartenesse a una donna: ciò che conferma il ruolo rilevante in questi gruppi gentilizi della componente femminile, garante fondamentale della continuità del gruppo e in genere della complessiva riproduzione sociale.

Purtroppo, questa documentazione, per le condizioni del suo rinvenimento, non è in grado di fornire

13. «Coppa di Nestore», Ischia, Museo Archeologico.

tutte le informazioni che oggi possiamo aspettarci dallo studio delle necropoli per la ricostruzione globale della società antica. Gli scavi, tutti realizzati nell’Ottocento, miravano solo ad acquisire oggetti di pregio per il mercato antiquario, e furono quindi compiuti senza prendere alcuna documentazione e senza raccogliere i materiali considerati privi di interesse, come la ceramica (che sarebbe stata fondamentale per precisare la cronologia).

La Tomba Barberini fu la prima ad essere scoperta nel 1855: non sappiamo quasi nulla delle circostanze del ritrovamento, anche se si può dedurre quasi con certezza che si trattasse di una deposizione unica: come negli altri casi, entro una fossa, riempita in seguito di pietre. Il corredo, acquistato dallo stato, è conservato ora quasi integralmente nel Museo di Villa Giulia, a Roma.

Successiva è la scoperta delle tombe Castellani (1861-1862) e Galeassi (degli stessi anni). I corredi furono purtroppo smembrati, e finirono in diversi musei (British Museum, Villa Giulia, Musei Capitolini). Infine, nel 1876, apparve la Tomba Bernardini, di cui conosciamo un po’ meglio l’aspetto. Anche in questo caso, i materiali del corredo furono acquistati dallo Stato, e sono conservati nel Museo di Villa Giulia.

Si trattava di una fossa rettangolare, con le pareti rivestite di blocchi di tufo (5,45 × 3,90 m ca.), pro-

A fronte: 14. Preneste, Tomba Bernardini: piastra d’oro con decorazione plastica, (Roma, Museo di Villa Giulia).

fonda circa 1,70 m, orientata est-ovest. Presso il lato sud era scavata una fossa minore, lunga 2 m, dove furono trovati i resti del cadavere e alcuni oggetti preziosi. Il corredo comprendeva almeno 130 pezzi, dei quali molti importati, come tre patere con soggetti egittizzanti e almeno una brocca, tutte d’argento, probabilmente di produzione cipriota; inoltre, un calderone con protome di grifi (fig. 15), forse da Cipro, e alcuni avori figurati. Di produzione etrusca (probabilmente di Cerveteri) sono invece le oreficerie, come la straordinaria piastra d’oro a decorazione plastica con animali (fig. 14), gli affibiagli e i fermagli, sempre d’oro, oltre a numerosi oggetti di bronzo (figg. 7-9). Qui si rivela la straordinaria abilità tecnica degli orafi etruschi, formati alla scuola di artisti orientali, nell’impiego delle più varie tecniche, dalla granulazione alla filigrana.

Risale a un periodo molto più tardo una notevole tomba scoperta nel 1934 nei pressi di Lanuvio, al limite sud-orientale dei Colli Albani. Entro un grande sarcofago monolitico di peperino, lungo 2,12 m, con un coperchio a tetto displuviato, restava lo scheletro del sepolto e una straordinaria panoplia di armi e oggetti per la palestra (fig. 16): l’elmo (accanto alla testa); la corazza (collocata sulle tibie); il cinturone di cuoio; la spada (sul fianco destro); una punta di lancia e due puntali di ferro; un’ascia; un disco; tre unguentari in alabastro; la fiasca in bronzo e pelle per la sabbia; uno o due strigili in ferro.

L’elmo da parata, in bronzo, argento e paste vitree è uno dei più notevoli che si conoscano, confrontabile solo con un altro esemplare, conservato a Berlino (fig. 16, a destra). Deriva dal normale elmo etrusco del VI-V secolo (tipo Negau), ma con molte varianti. Gli occhi, realizzati con paste vitree colorate, e il complesso cimiero, che in origine comprendeva una coda centrale (probabilmente equina) e due lunghe penne laterali, dovevano costituire un insieme impressionante. La corazza anatomica, in bronzo, rivestita di cuoio, è il più antico esempio del genere noto in Italia, appena più tardo dei prototipi greci, che risalgono alla fine del VI secolo a.C.

La spada appartiene al tipo definito in greco machaira: una lunga e pesante lama a un solo taglio, che si allarga verso la punta. Queste caratteristiche si adattano al combattimento a cavallo: si tratta, in pratica, di una sorta di sciabola.

Ma la particolarità più notevole del corredo è forse la presenza del servizio per la palestra: disco, fiasca per la sabbia, strigile. Il disco presenta una decorazione incisa: su una faccia la rappresentazione di un cavaliere completamente armato (corazza, elmo, lancia), che scende in corsa dal cavallo: si tratta di un esercizio equestre simile a quello degli acrobati detti desultores (spesso rappresentato nei documenti figurati di questo periodo), utilizzato nell’allenamento dei cavalieri, ma probabilmente anche in battaglia. Secondo Livio (II, 20, 10) una tattica del genere fu messa in opera dai Romani nella battaglia contro i Latini presso il Lago Regillo: «Allora il dittatore (A. Postumio) si precipita verso i cavalieri, ordinando, poiché la fanteria era stanca, di scendere da cavallo e di riprendere lo scontro».

Sull’altra faccia del disco è rappresentato un discobolo nel momento del lancio.

Le due immagini confermano quanto si deduce dalla composizione del corredo: la duplice natura del titolare della tomba, allo stesso tempo atleta e cavaliere, non può che ispirarsi a un modello greco, quello dei Dioscuri. Questo culto, attestato nel Lazio fin dal VI secolo a.C., come dimostra un’iscrizione di Lavinio, è il più importante nella città che domina la Lega Latina in questi anni, Tuscolo. Proprio al momento dello scontro con Roma, secondo la tradizione, i divini gemelli cambieranno bandiera, passando dalla parte dei Romani. Come è noto, proprio in seguito alla vittoria del Lago Regillo sarà innalzato nel Foro il Tempio dei Castori, la cui costruzione risale in effetti, come hanno dimostrato gli scavi recenti, all’inizio del V secolo a.C. Da allora in poi, i Dioscuri saranno i protettori della cavalleria romana, che nel giorno anniversario del culto sfilerà solennemente dal Tempio di Marte (situato al primo miglio della via Appia) fino al tempio del Foro.

Il cavaliere di Lanuvio visse certamente in questi anni, come si deduce dalle sue armi (in particolare dall’elmo), databili all’inizio del V secolo a.C., che ci restituiscono un’idea precisa dei cavalieri latini che

A fronte: 15. Preneste, Tomba Bernardini: piccolo calderone fenicio-cipriota d’argento dorato con teoria di armati e protome di serpente (Roma, Museo di Villa Giulia). Alle pagine seguenti: 16. A sinistra: Rilievi delle due facce del disco ritrovato in una tomba di Lanuvio con raffigurazione di un cavaliere armato e di un discobolo. A destra: Panoplia di guerriero (Roma, Museo delle Terme) proveniente dalla stessa tomba ed elmo etrusco contemporaneo (Berlino, Antikenmuseum).

This article is from: