16 minute read
8. ALTRI CULTI, ALTRE IMMAGINI
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book
inevitabili citazioni greche, ridotte a pochi elementi rigidi e schematici – il chitone a fitte pieghe verticali, la testa dipendente da moduli «severi» – mediati comunque dalla statuaria etrusca, si risolvono in una forma complessiva di rozza e quasi barbarica efficacia: gli occhi, grandissimi e sbarrati e le grosse labbra piegate in basso mirano ad esprimere violenza e terrore, caratteristiche certamente accentuate dall’originaria policromia. L’insieme risulta del tutto divergente dai prodotti contemporanei della plastica greca.
Si tratta certamente di una riproduzione della statua di culto che, se dobbiamo credere a Strabone, poteva essere uno xoanon ligneo, analogo a quelli di Athena Iliàs da lui menzionati. In un’altra delle statue, di cui si conserva solo la parte inferiore, il tritone è sostituito da un’oca: attributo comune per divinità come Giunone o Venere, ma del tutto inedito per Minerva. Emerge da dettagli come questo la connotazione del tutto eterodossa di questa particolare divinità. Una terza statua, di dimensioni ridotte, è ancora più originale (fig. 126): la dea vi appare totalmente chiusa in una sorta di lungo camicione, aperto davanti, che la ricopre fino ai piedi, percorso da cordoni, che potrebbero essere la riproduzione schematica di serpenti. Solo l’elmo e la testa di Medusa sul petto ci riportano all’immagine tradizionale di Minerva.
La tipologia degli altri ex voto permette di arricchire e precisare le caratteristiche del culto: la presenza di madri che allattano, di bambini in fasce, di gruppi familiari rinviano a funzioni legate alla riproduzione, mentre l’assenza di votivi anatomici e di animali, eccezionale nel panorama complessivo dei depositi votivi laziali, esclude le funzioni «guaritrici» (di sanatio). Tali connotazioni sono precisate dalla frequenza di immagini di giovani dei due sessi, rappresentati con abbigliamenti particolari (toga e bulla per i maschi, tunica recta e acconciature particolari per le femmine) (fig. 130) che rimandano ai riti di passaggio dall’infanzia alla maturità: ciò spiega l’insistenza sul matrimonio e sulla riproduzione, che costituisce il motivo dominante nel complesso degli ex voto.
Un altro aspetto, che si riscontra soprattutto nelle immagini di IV-III secolo, è costituito dalla particolare ricchezza dei gioielli (fig. 131): diademi, orecchini e soprattutto serie di collane con pendenti, spesso decorati con scene mitiche e divinità, certamente tratte da calchi di oggetti in metalli preziosi: è stato osservato che tale caratteristica va collegata al senatoconsulto che, nel 396 a.C., permise alle donne di esibire gioielli d’oro: annullando così le severe disposizioni contro il lusso, introdotte alla metà del secolo precedente dalla Legge delle XII tavole.
I due complessi di Ardea e di Lavinio costituiscono un’eccezione nel panorama dei depositi votivi, diffusi in tutta l’Italia centrale tra il IV e il III secolo a.C. Questi comprendono in genere, moltiplicati in migliaia di esemplari, modesti oggetti di terracotta – realizzati meccanicamente e in serie, con uso di matrici – destinati a ringraziare la divinità della «grazia» ottenuta (guarigione da una malattia, nascita di un figlio, buon risultato del raccolto ecc.) e presentano in genere un aspetto connesso (magicamente o simbolicamente) con l’occasione particolare: si trat-
131. Lavinio, Santuario di Minerva: statua di offerente in terracotta. 133. Matrice di arula in terracotta con combattimento tra un grifone e un Arimaspo (Roma, Antiquarium Comunale).
132. Arula di terracotta con nereide su delfino, dall’Esquilino (Roma, Antiquarium Comunale).
134. Doppia arula in terracotta con due teste di Gorgone (Roma, Antiquarium del Museo delle Terme).
ta di parti del corpo (teste, braccia, mani, piedi, falli, uteri ecc.), di bambini in fasce, di animali, ricchezza fondamentale in una società di contadini.
Un tipo particolare è costituito dalle arule (figg. 132-133). Si tratta di piccoli oggetti a forma di parallelepipedo, ottenute a stampo da matrici, con rappresentazioni a rilievo limitate alla faccia anteriore, che riproducono degli altari in miniatura: sia quelli più antichi, con modanature a doppio cuscino contrapposto (detti «a clessidra»), sia quelli più recenti, a pareti rettilinee. La produzione di questi oggetti, che inizia già nel VI secolo a.C., si diffonde soprattutto nel periodo classico di massima diffusione degli ex voto, il IV e il III secolo a.C. È accertato, in seguito alla scoperta di matrici (fig. 133), che la produzione avveniva anche a Roma.
Per stabilire la loro funzione, va ricordato che i luoghi di provenienza non sono solo i santuari, ma più spesso le necropoli (in particolare, quella dell’Esquilino a Roma). Si tratta comunque di oggetti collegati alla sfera religiosa, modelli miniaturizzati dell’elemento sacro per eccellenza, l’altare. La loro offerta in veri e propri luoghi di culto appare così del tutto comprensibile, mentre la deposizione in tombe può essere collegata con forme di libazione ai Mani del defunto, espressa attraverso un oggetto simbolico connotato come sacro. È interessante, a questo proposito, la scelta delle immagini che appaiono su questi oggetti: sirene, sfingi, grifi, delfini, tutti animali mitici collegati con la morte. Tale interpretazione è confermata dalle scene più complesse, dove appaiono geni alati con torce e menadi su pantere, nereidi su delfini e tori marini, lotte tra grifoni e Arimaspi (fig. 134): scene in relazione con l’aldilà, in particolare nelle forme del viaggio verso le Isole dei Beati. Lo stesso significato hanno esemplari più grandi, con scene mitiche come il corteo dionisiaco, interpretabile nello stesso senso, come «trionfo sulla morte».
Nel complesso, l’estesissima casistica di questi oggetti illustra una tipologia di ex voto diffusa soprattutto nel Lazio, che non trova spesso corrispondenza in altre zone dell’Italia peninsulare. La loro presenza – che spesso si sovrappone, sostituendoli, a quella di oggetti votivi di altro tipo – segue puntualmente la diffusione dei coloni romani, costituendo un prezioso fossile-guida per la loro presenza. Tale enorme, e cronologicamente concentrata produzione di massa si spiega con lo sviluppo di una diffusa religiosità popolare, che a sua volta è il riflesso dell’esplosione demografica del IV secolo e del grande processo della colonizzazione romana che ne è una delle conseguenze. Sul piano formale, si tratta di prodotti modesti, ma che allo stesso tempo attestano la sedimentazione di una cultura media, la cui radice ultima è la stessa dei prodotti più raffinati dell’arte ufficiale: un’ellenizzazione diffusa, di matrice tardoclassica ed ellenistica, che impronta di sé l’intera società romano-italica nel periodo considerato.
Prova evidente dello strettissimo collegamento tra queste manifestazioni onnipresenti della cultura popolare e la società romano-italica contemporanea, costituita essenzialmente da un ceto di piccoli proprietari contadini – nerbo della cittadinanza e dell’esercito – è la repentina scomparsa di questa produzione a partire dall’inizio del II secolo a.C., e cioè in perfetta coincidenza con la crisi di questa società che si manifesta dopo le guerre puniche.
6. L’ARCHITETTURA DOMESTICA
Il tipo dell’abitazione privata etrusco-italica (domus) si stabilizza nel corso del IV secolo a.C.: dalla casa arcaica, con i suoi tre ambienti paralleli, aperti su un cortile (rappresentata a Roma dalla Regia) si passa alla casa ad atrio (fig. 137), che si ritrova un po’ ovunque nell’Italia peninsulare, e che è riprodotta anche in tombe etrusche contemporanee (Tomba François a Vulci, Tomba dei Volumni a Perugia) (figg. 145-146, 135-136).
La tipologia che troviamo nel trattato di architettura di Vitruvio, per quanto schematica e normalizzata, corrisponde a realtà architettoniche verificabili archeologicamente, e può essere intesa, almeno in parte, in successione cronologica.
Il tipo più antico sembra quello con atrio «testudinato», coperto cioè da un tetto a due pendenze senza apertura che, nella sua forma canonica, sembra sparire dopo il IV secolo: è significativo, per questo, che un solo esempio ne sia stato scoperto nella colonia latina di Fregellae, nel Lazio meridionale, fondata nel 328 a.C. Un’idea perfetta di tale tipologia si può ricavare dalla Tomba dei Volumnii a Perugia, della fine del IV secolo (figg. 135-136).
Il modello universalmente diffuso nel periodo medio repubblicano è la casa ad atrio displuviato, con apertura centrale del tetto (compluvium), cui corrisponde, nel pavimento, una vasca (impluvium) destinata a riempire la cisterna sottostante. Il tipo canonico, che può presentare limitate varianti, si stabilizza in un modello standard (fig. 137): il corridoio d’entrata (fauces) – che nelle case aristocratiche è preceduto da un piccolo ambiente esterno, destinato ai clientes (vestibulum) – dà accesso all’atrio, l’ambiente più grande e importante, sul quale si affacciano alcune piccole camere (i cubicula, stanze da letto) e due stanze più grandi ai lati, prive di porte (alae); al centro della parete di fondo si apre un’ampia sala (tablinum), luogo delle memorie familiari, che ospita gli archivi della casa (tabulae) e i ritratti di cera degli antenati (imagines maiorum), conservati in armadietti collegati tra loro da linee dipinte (stemmata), che ricostruiscono l’albero genealogico della gens. Alle spalle dell’edificio si trova uno spazio aperto (hortus), sfruttato in origine per le necessità alimentari della famiglia.
La casa repubblicana è connotata dunque come una struttura centripeta, rigorosamente chiusa all’esterno e ripiegata su se stessa, separata dalle abitazioni vicine da uno spazio ristretto (ambitus), menzionato già, alla metà del V secolo a.C., nella Legge delle XII tavole. Essa costituisce la proiezione perfetta della struttura sociale romana, centrata sulla famiglia agnatizia, nucleo autonomo soggetto all’autorità assoluta del pater familias. La religione arcaica degli antenati, che corrisponde al culto dei Lari, ne costituisce la base religiosa.
Questo modello, sostanzialmente ancora arcaico, si conserverà fino alla fine della Repubblica, nonostante l’introduzione precoce di una ricca decorazione di origine ellenica, come i mosaici e gli intonaci dipinti di «primo stile», che appaiono già alla fine del IV secolo a.C. (come hanno dimostrato gli scavi di Fregellae). Tale apporto greco non modificherà nella sostanza la struttura essenziale della domus, che si conserverà a lungo, come riflesso diretto delle esigenze ideologiche della società romana: anche
0 5 10 135-136. Perugia, sepolcro dei Volumni: ricostruzione di U. Tarchi; sezione longitudinale e pianta. quando, dopo la guerra annibalica, verrà introdotto il tipo greco della casa a peristilio, questo non sostituirà l’atrio originario, ma verrà a giustapporsi ad esso, come una sorta di appendice ellenizzante, lasciando intatto il nucleo primitivo.
Questo aspetto tradizionale, arcaico dell’ideologia gentilizia romana apparirà ancora intatto a un osservatore interessato, come il greco Polibio, durante il suo lungo soggiorno a Roma alla metà del II secolo a.C.: egli ce ne lascerà un quadro impressionante nella descrizione del funerale aristocratico romano (si veda più avanti).
Plinio (Storia Naturale, XXXIV, 17), dopo aver ricordato l’uso sempre più esteso delle statue onorarie nei fori dei municipi, aggiunge: «Subito dopo le stesse case private si trasformarono in fori, e l’omaggio dei clienti ai patroni si tradusse nella dedica di statue negli atrii delle case».
In realtà, l’aspetto pubblico delle case risaliva ad epoca notevolmente antica: così si spiegano le stesse immagini in cera degli antenati, collocate nel tablino e nelle ali dell’atrio, e l’uso di collocare nello stesso luogo gli archivi di famiglia e i trofei di vittoria, le armi catturate al nemico. Per un periodo più recente, ricordiamo il caso di Pompeo, che ornò l’atrio della sua casa sulle Carinae con i rostri delle navi catturate ai pirati: la domus rostrata assumeva così l’aspetto e il ruolo di un vero e proprio monumento pubblico, assimilabile ai Rostra.
Gli aspetti decorativi della più antica casa romana, del tutto ignoti fino a poco tempo fa, hanno potuto essere indagati solo di recente, soprattutto in seguito all’esplorazione di colonie romane: importante soprattutto, da questo punto di vista, lo scavo di Fregellae, colonia latina fondata nel 328, distrutta e abbandonata nel 125, che per la prima volta ha permesso di identificare pavimenti e pitture parietali databili tra la fine del IV e il III secolo a.C. (per questo, si veda sopra).
Anche nella stessa Roma non mancano, per quanto isolati, esempi del genere. Il più antico pavimento di cocciopesto si trova in uno dei templi di S. Omobono (probabilmente quello di Fortuna) e si data, su base storica e stratigrafica, al 264 a.C.: questo permette di rialzare notevolmente la cronologia di questi pavimenti, tradizionalmente attribuiti in genere al II-I secolo a.C.
Conosciamo a Roma anche alcuni, rari esempi di pittura di «primo stile», strutturale o solo dipinto: ad esempio nel Comizio e nelle case repubblicane distrutte per la costruzione della Domus Aurea. In mancanza di dati stratigrafici, non è possibile precisare la data di queste decorazioni, che possono essere anche di III, o forse piuttosto di II secolo a.C. Ciò è sufficiente comunque a mettere in dubbio l’opinione tradizionale, che nega l’esistenza a Roma di manifestazioni del lusso privato ellenistico prima della Tarda Repubblica.
11 10
9
8 6
12 5 5
4 5
3
2 1
7 6 5 5 5 3
137. Pianta-tipo di una domus ad atrio. 1. vestibulum; 2. fauces; 3. stanze (o tabernae); 4. impluvium; 5. cubicula; 6. alae; 7. oecus (triclinium?); 8. tablinum; 9. ambulacrum; 10. oecus; 11. hortus; 12. atrium.
7. LA PITTURA UFFICIALE
7.1. Fabio Pittore
Il grande naufragio della pittura antica ha coinvolto anche le testimonianze della pittura romana, una migliore conoscenza della quale sarebbe indispensabile per ricostruire le radici di un fenomeno, come quello dell’arte ufficiale romana, che conosciamo bene dai grandi monumenti di età imperiale. Nonostante ciò, possiamo farci un’idea di essa attraverso le testimonianze letterarie e alcuni documenti epigrafici e archeologici, che permettono di ricostruirne almeno le linee di tendenza generali.
Come abbiamo visto in precedenza, le più antiche menzioni di artisti presenti a Roma riguardano stranieri: Etruschi (Vulca) e Greci (Damophilos e Gorgasos). Almeno in quest’ultimo caso, si tratta di un dato reale, che Varrone ha ricavato da iscrizioni con le firme degli artisti, ancora leggibili alla sua epoca nel Tempio di Cerere, Libero e Libera.
Veniamo così a conoscere un esempio dell’uso tipicamente greco di apporre la firma sulle opere d’arte: questa stessa pratica si riscontra più tardi, alla metà del IV secolo, in un caso eccezionale: la Cista Ficoroni, realizzata a Roma da un artista di probabile origine campana, dal nome di Novios Plautios. Un esempio analogo, di poco più tardo, è quello di Fabio Pittore, artista di nobili origini, attivo a Roma alla fine del IV secolo a.C. Si tratta di un caso del tutto isolato nella storia delle arti figurative di Roma repubblicana: eccezionalità che giustifica le relativamente numerose informazioni antiche a riguardo, ma al tempo stesso spiega le ragioni che hanno spinto la critica moderna a contestare la storicità di queste ultime. Tuttavia, il fatto è accertato, come conferma lo stesso imbarazzo degli autori antichi che ce ne danno notizia, e che quindi ben difficilmente possono averlo inventato. Per questo, è opportuno in primo luogo riportare qui il testo di tali testimonianze.
Plinio il Vecchio, Storia Naturale, XXXV, 19:
Anche tra i Romani quest’arte [la pittura] fu apprezzata precocemente, dal momento che la celeberrima gens dei Fabii derivò da essa il cognomen di Pittori. Il primo che lo assunse è colui che dipinse personalmente il tempio della Salute, 450 anni dopo la fondazione di Roma [nel 304-303 a.C.]; questa pittura si conservò fino a noi, e scomparve in un incendio all’epoca di Claudio.
Valerio Massimo VIII, 14, 6:
Questa gloria venne ricercata da uomini famosi, talvolta anche con pratiche di bassissimo livello. Infatti, perché mai Gaio Fabio, cittadino nobilissimo, dopo aver dipinto le pareti del tempio della Salute, dedicato da Gaio Giunio Bubulco, vi appose la sua firma? Sentiva forse la mancanza anche di questa gloria una famiglia famosissima per consolati, sacerdozi, trionfi? Comunque, resta il fatto che egli non solo si applicò a un’arte infamante, ma addirittura volle evitare che la sua opera, per quanto irrilevante, fosse dimenticata, seguendo senza dubbio l’esempio di Fidia, che inserì nello scudo dell’Athena Parthenos il suo ritratto, in modo che non potesse essere eliminato senza distruggere l’intera opera. Cicerone, Tusculanae I, 2, 4:
Pensiamo davvero che se Fabio, uomo della più antica aristocrazia, avesse trovato gloria nella pittura, non ci sarebbero stati fra noi molti Policleti e Parrasii?
Dionigi di Alicarnasso XVI, 3, 6:
Le pitture parietali [del tempio della Salute] erano di assoluta precisione nelle linee di contorno, gradevoli per la mescolanza dei colori e caratterizzate da «lumi», ed apparivano del tutto diverse dalla pittura «di genere».
L’insieme di queste notizie permette di ricostruire l’aspetto e la natura di questi dipinti: si trattava di un ciclo di una certa ampiezza, che doveva coprire gran parte delle pareti del tempio, datato con precisione al 304-303 a.C., la cui attribuzione a C. Fabio Pittore era assicurata dalla firma, apposta direttamente sull’opera. Tutti gli autori che ne parlano furono in grado di vedere gli affreschi, che scomparvero solo alla metà del I secolo d.C.: si tratta dunque di testimonianze dirette e non di seconda mano, come è evidente almeno nel caso di Plinio e di Dionigi di Alicarnasso.
Nessuno ricorda il soggetto rappresentato: è certo tuttavia, tenuto conto del fatto che il tempio era stato eretto in seguito a una vittoria sui Sanniti, che si trattava di un ciclo di carattere «storico», in cui dovevano essere rappresentate scene di battaglia e lo stesso trionfo di Bubulco.
La presenza della firma rimanda a una pratica diffusa in Grecia, come sottolinea Valerio Massimo, l’unico a menzionare questo dettaglio, forse da lui osservato di persona. La cultura ellenizzante del ramo della gens Fabia cui apparteneva Fabio Pittore è confermato da quanto sappiamo per il suo omonimo discendente, che anche per questo fu scelto, nel corso della guerra annibalica, come rappresentante dello Stato romano nella missione inviata al Santuario di Apollo a Delfi. Si tratta dello stesso personaggio che darà inizio alla letteratura storica romana, scrivendo (in greco!) i primi annali.
L’uso della firma in prima persona a partire dalla metà del IV secolo a.C. è confermato dalla cosiddetta Cista Ficoroni, che esamineremo più avanti: è dunque in questi anni che a Roma si va affermando una pratica, la cui introduzione è certamente mutuata dalla cultura greca. Di grande interesse, a questo proposito, è la descrizione di Dionigi di Alicarnasso, basata, come si è detto, su una visione diretta dell’opera: l’autore utilizza una terminologia caratteristica del linguaggio critico ellenistico, che ci permette di intuire l’alto livello della pittura di Fabio, apprezzabile quindi anche da Greci. In particolare, si deduce che lo stile impiegato era ancora quello classico, con una scelta di colori e di soluzioni pittoriche non ancora penetrate dalla forma «impressionistica», tipica dell’ellenismo, che contemporaneamente cominciava a svilupparsi nell’arte greca. È caratteristico, a questo proposito, l’uso del termine tecnico rhopographia (letteralmente «minutaglia», «tritume»), che definisce forma e contenuto della pittura «di genere», affermatasi a partire dalla fine del IV secolo a.C. con Antiphilos, un artista contemporaneo di Fabio Pittore. L’accurata descrizione di Dionigi di Alicarnasso ci permette di spiegare il suo apprezzamento di Fabio, in chiara polemica con l’arte ellenistica: si trattava dunque di un’opera dipendente direttamente dall’arte greca del pieno IV secolo, quindi vicina al tipico gusto classicistico di Dionigi.
Di tono diverso, e altrettanto interessanti sono le implicazioni di carattere sociale che emergono dalle critiche moralistiche delle fonti romane, tra l’altro assai omogenee anche sul piano cronologico, databili come sono in circa un secolo, tra la Tarda Repubblica e i primi decenni dell’Impero: da tutte emerge un giudizio pesantemente negativo dell’attività di Fabio. Il più radicale è Valerio Massimo, anche per le finalità moralizzanti della sua opera: l’esercizio della pittura è definito, senza mezzi termini, sordidum studium (attività infamante). Altrettanto evidente è lo stupore per una simile scelta da parte di un membro dell’aristocrazia senatoria.
Il caso di Fabio Pittore è ripetutamente menzionato dagli autori antichi in quanto esempio negativo e inaccettabile: la sua stessa collocazione nel testo pliniano (una breve storia dei pittori romani) ne dimostra l’isolamento e l’eccezionalità: dopo Fabio e, a un livello sociale nettamente più basso, Pacuvio, la pittura non est spectata honestis manibus («non fu praticata da persone della buona società»).
Si tratta, in definitiva, di una tradizione univoca e affidabile: nonostante ciò, non sono mancati tentativi di negarne l’attendibilità, identificando nel pittore un greco, cliente dei Fabii (Pfuhl), contraddicendo così a tutte le informazioni antiche, che riconoscono in lui addirittura il fondatore di un ramo della gens.
Questi tentativi si spiegano con l’imbarazzo di tutta una tradizione di studi, che si rifiuta di rico-