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3. L’ELLENIZZAZIONE E I SUOI LIMITI
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book
mero complessivo delle figure è di sei, non di sette. I due uomini sui carri nella prima scena sono simili a quelli appiedati e armati della seconda, con i quali forse si identificano. L’elemento in più nel secondo rilievo sono le due donne che occupano i carri al posto degli uomini. Si è pensato a rappresentazioni di Fortuna e di Mater Matuta: in ogni caso, a dee connotate in senso militare, che fanno pensare ad Astarte-Fortuna.
Un dato fondamentale è la presenza, in ambedue i casi, della biga con i cavalli alati: un elemento che ne attesta il carattere sovrannaturale e sembra alludere alla natura divina di uno dei due personaggi dei rilievi: un dio e una dea (o due antenati divinizzati) sembrano così contrapposti a un uomo e a una donna. L’insieme può far pensare a una ierogamia, collegata con imprese militari. Nonostante le incertezze che permangono nell’interpretazione dei rilievi, è probabile che essi intendano illustrare una forma di trionfo arcaico. A questo proposito, è interessante la descrizione della pompa dei ludi Romani (cerimonia certamente molto antica, attribuita dalla tradizione ai Tarquinii) che leggiamo in Dionigi di Alicarnasso (VII, 72, 1-3):
Prima di dare inizio alle gare, i magistrati che ricoprivano la carica più importante allestivano una processione in onore degli dèi e la guidavano dal Campidoglio, attraverso il foro, fino al grande ippodromo. Aprivano la processione i figli dei Romani prossimi alla pubertà, che avevano l’età per prendervi parte: a cavallo quelli i cui padri avevano il censo equestre, a piedi quelli che erano destinati a prestare servizio nella fanteria; gli uni divisi in squadre e battaglioni, gli altri in gruppi e schiere, come se andassero a scuola; lo scopo era quello di far ammirare agli stranieri il fior fiore per numero e bellezza della gioventù romana, che si avvicinava all’età adulta. Questi erano seguiti da aurighi, che guidavano quadrighe, bighe o cavalli non aggiogati; dopo di loro venivano i partecipanti alle gare di atletica leggera e pesante, completamente nudi, fatta eccezione per i genitali, che coprivano. Questa usanza è perdurata a Roma fino ai miei tempi, ed esisteva all’inizio anche presso i Greci […] Dopo gli atleti venivano molte schiere di danzatori, suddivisi in tre gruppi; il primo era formato da uomini adulti, il secondo da giovani imberbi, il terzo da bambini, seguiti da flautisti, che soffiavano in piccoli flauti antichi, come si fa anche attualmente, e da suonatori di lire d’avorio a sette corde, che si chiamano barbita […] Le vesti dei danzatori erano chitoni rossi, stretti da cinture di bronzo; essi portavano al fianco spade e lance più corte delle solite. Gli uomini avevano anche elmi di bronzo, adorni di notevoli cimieri e di pennacchi.
Questa descrizione presenta, come si vede, singolari coincidenze con le scene rappresentate sulle terrecotte architettoniche già esaminate.
Un chiarimento ulteriore sulla natura del santuario si ricava da un gruppo di sculture a tutto tondo a tre quarti del naturale, attribuibili alla seconda fase del tempio, forse acroteri (per altri si tratta invece di donari). Il meglio conservato di questi gruppi rappresenta Ercole, nella tipica iconografia cipriota, accompagnato da una dea armata, che potrebbe essere Atena-Minerva, o anche Astarte-Fortuna (fig. 54). Poiché si tratta, in questo caso, non di elementi di serie, realizzati a stampo (come le lastre con processione), ma di sculture a tutto tondo modellate a stecca, il loro valore documentario risulta più rilevante.
La scena sembra rappresentare l’introduzione di Ercole in Olimpo, e cioè la sua trasformazione in dio: un’allusione trasparente all’apoteosi del sovrano, connessa con la celebrazione del trionfo. Un gruppo analogo e contemporaneo, proveniente dal Santuario di Portonaccio a Veio, esprime certamente lo stesso significato.
Se il frammento conservato del secondo gruppo acroteriale di S. Omobono rappresentava Dioniso e Arianna, come è stato proposto, si tratterebbe di una straordinaria conferma della natura «dionisiaca» del trionfo: come attesta fin dalle origini il nome stesso della cerimonia, derivato dal greco thriambos, il corteo destinato a celebrare la vittoria del dio sull’India.
8. ALTRI CULTI, ALTRE IMMAGINI
Nella sua pionieristica evocazione della Grande Roma dei Tarquinii, Giorgio Pasquali non si limitava a riunire i testi letterari favorevoli al suo assunto, ma estendeva l’esame alle testimonianze di carattere archeologico, già all’epoca disponibili per chi volesse vederle:
In parecchi punti dell’antica Roma, sul Palatino, sul Campidoglio, nel Foro, sull’Esquilino, nel letto del Tevere presso l’Isola Sacra, sono stati scoperti frammenti di terracotte architettoniche. Quasi tutti i tipi hanno riscontro in altre città del Lazio e dell’Etruria meridionale; tutti, pur risentiti originalmente, «etruscamente», per nominare il popolo dell’antica Italia la cui arte ci è meglio nota, ricordano esemplari greci, ionici. Queste terrecotte sono di tali dimensioni che dovettero ornare edifici monumentali. Una tale serie di scoperte significa secondo me ancor più che le maestose costruzioni del Tempio di Giove Capitolino, le quali pure appartengono a quest’età. Privatum illis census erat brevis, commune magnum [le loro sostanze private erano scarse, quelle pubbliche grandi]; e cattedrali medievali torreggiano talvolta su cittadine che non furono mai né molto potenti né molto ricche. Ma una comunità povera può fare uno sforzo per costruire una chiesa che le dia gloria, non più di una; nella Roma dei Tarquinii gli edifici monumentali furono molti: oltre il Tempio di Giove, ne ebbe un altro anche il piccolo Campidoglio in un’altra località, là dove ora è l’Aracoeli; nel Foro frammenti si ritraggono dalla Regia e dal Comitium; quelli del Palatino provengono da almeno tre edifici sopra le Scalae Caci, da almeno uno in prossimità del Lararium. I cittadini romani dell’età dei Tarquinii ebbero gioia di rappresentanze di guerrieri a cavallo e di scene di simposio, di Amazzoni ferite e di favolosi grifi, più di tutto di Satiri e Menadi danzanti; ebbero gusto per tipi che conobbero dall’arte greca. Attraverso l’Etruria? Ma in questa età è arbitrario distinguere arte etrusca e arte latina, e si deve piuttosto stabilire un’unica cerchia di cultura che comprendeva il Lazio e l’Etruria meridionale. I Romani di quel tempo ebbero una finestra aperta sul mondo greco, e parteciparono in qualche modo della sua arte, anche se dovettero ricorrere a un maestro veiente, Volca, perché scolpisse la statua fittile di Giove nel tempio capitolino.
A tanta distanza di tempo, dopo tante nuove scoperte e nuove sistemazioni di dati, sarebbe difficile dire meglio: tali parole non sono infatti motivate da pregiudizi di carattere nazionalistico, come pure si è affermato: si tratta invece di una dimostrazione impeccabile, che parte da una ragionevole ipotesi di lavoro, nutrita e confermata via via da documenti concreti, in primo luogo di carattere archeologico.
A noi non resta che ripercorrere lo stesso itinerario, arricchendolo beninteso con le acquisizioni non solo di nuovi dati materiali, ma anche e soprattutto dei risultati che la riflessione archeologica e storica ha continuato ad accumulare nel corso dei decenni trascorsi.
La documentazione più rilevante per la storia architettonica e urbanistica di Roma arcaica è costituita, per noi come per Pasquali, dalla rilevante massa
di terrecotte architettoniche che, intere o in frammenti, sono state rinvenute quasi ovunque nell’area della città.
L’apparizione degli edifici in muratura, che sostituiscono la primitiva architettura straminea, ha luogo a Roma, come in Etruria, negli ultimi decenni del VII secolo a.C., non solo nell’ambito dell’edilizia di culto, ma anche in quella privata di alto livello. Ciò comportava l’uso del tetto «pesante», in tegole di terracotta, e quindi di travature lignee di grande solidità. L’invenzione sembra da attribuire a Corinto, dove sono stati scoperti i più antichi tetti del genere, databili tra il 675 e il 650. In Etruria il fenomeno ha inizio poco dopo la metà del VII secolo a.C.
Contemporanea è la diffusione di elementi decorativi in terracotta, dipinti o a rilievo, destinati alla parte alta degli edifici, in particolare, ma non solo, dei templi. Gli esempi più antichi a Roma provengono dai lati opposti del Foro, il Comizio e la Regia (fig. 40, in alto), e appartengono a un’unica fase, successiva a un incendio avvenuto intorno al 600 a.C. Questo più antico sistema decorativo, che si riscontra, oltre che a Roma, in Campania e in Etruria settentrionale, si può attribuire agli anni 590-575 a.C.: si tratta in particolare di lastre con teorie di felini, e in un caso con un cavaliere armato. Gli aspetti tecnici e stilistici permettono di collegarne l’origine a un atelier corinzio, e quindi alla discendenza «demaratea» del primo dei Tarquinii.
Particolare interesse riveste il fregio della Regia, dove, come abbiamo visto, insieme ai felini e ai trampolieri, appare anche una rappresentazione del Minotauro. La svalutazione di questo soggetto, implicita nella definizione riduttiva di uomo-toro che se ne è proposta, non è sostenibile: l’isolamento della figura si spiega con la sua appartenenza alla «casa del re», ciò che giustifica l’uso di soggetti iconografici di particolare pregnanza simbolica. Ora, in quel periodo storico (intorno al 570 a.C.), la saga ateniese di Teseo era certamente nota, come pure le sue valenze di «mito di sovranità»: la pertinenza a un edificio in cui si può riconoscere l’abitazione di Servio Tullio si spiega con la volontà di collegare al fondatore di Atene quello che possiamo a buon diritto considerare il «secondo fondatore» di Roma.
Nei decenni successivi, sotto l’ultimo dei Tarquinii, viene creato – probabilmente ad opera di artisti veienti che lavorano a Roma: ovvio il riferimento a Vulca – un tipo di decorazione architettonica (detto tipo Veio-Roma-Velletri), caratterizzato da sime a rilievo, che si diffonde da qui in gran parte del Lazio. I tipi rappresentati, tratti per lo più dalle stesse matrici, anche se ne esistono alcune varianti, comprendono un gruppo limitato di soggetti: processioni di carri (come quelli da S. Omobono, già esaminati in precedenza), corse di cavalieri armati, coppie di cavalieri, corse di bighe, banchetti (fig. 53).
Nella stessa Roma conosciamo un numero notevole di esemplari, per lo più in frammenti, che provengono da quasi tutte le aree della città serviana, e anche dall’esterno di essa: oltre che dal Foro Boario (Santuario di Fortuna e di Mater Matuta), dal Comizio, dal Campidoglio, dal Palatino, dall’Esquilino. È quasi sempre impossibile collegare questi reperti con edifici identificabili: in un caso, la provenienza di una lastra quasi completa da un luogo all’esterno alla città, fuori della Porta Esquilina (anche se riadoperata in un sepolcro) sembra autorizzare l’attribuzione al santuario di Libitina, la divinità della necropoli. Nel caso del Comizio, appare inevitabile il collegamento con l’unico edificio arcaico della zona, la Curia Hostilia.
Fuori di Roma, il complesso più importante, e il primo conosciuto, è quello di Velletri, scoperto nel 1784 (fig. 55): si tratta della serie più completa e meglio conservata di lastre figurate di questo tipo, appartenente a un edificio templare (per altri identificabile piuttosto con un palazzo) che è stato di nuovo esplorato negli ultimi anni.
Il carattere latino della città prima dell’occupazione volsca e la sua natura di colonia romana (attestata già dal 494, e forse risalente, come nel caso di Segni, a un’iniziativa dei Tarquinii) permette di spiegare la presenza di queste terrecotte, provenienti probabilmente da botteghe romane.
Un gruppo di lastre, di un tipo parallelo, ma con motivi figurati leggermente diversi, è apparso nell’area pontina, a Cisterna: si tratta di processioni di armati, con la presenza di carri tirati da cavalli alati (in questo caso, trighe invece di bighe).
A un ulteriore tipo, conosciuto solo a Palestrina, appartengono due lastre (fig. 56), sempre con processioni di carri, di uno stile più provinciale, chiaramente locale. La loro provenienza probabile da un vicino santuario extraurbano di Ercole potrebbe attestarne il carattere «trionfale», analogo a quello del Santuario romano di Fortuna e Mater Matuta.
55. Lastre architettoniche di terracotta da un tempio arcaico di Velletri: cavalieri, corteo di carri, banchetto (Napoli, Museo Nazionale).
56. Lastra architettonica di terracotta da Palestrina, con corteo di carri (Palestrina, Museo Archeologico).
Lo stile di queste lastre figurate, caratterizzato da forme arrotondate, dove predomina una sinuosa linea di contorno, mentre i particolari interni, indicati da semplici linee ornamentali, non interrompono la continuità delle superfici, risale all’esperienza figurativa della Grecia orientale, che assume nel corso del VI secolo a.C. le caratteristiche e la valenza di un vero e proprio «stile internazionale». Gli artefici ionici, la cui presenza in Occidente va collegata con la colonizzazione focea, cui si affianca la presenza di Samii, soppiantano ovunque i più antichi atelier corinzi. La scelta corrisponde alle tendenze culturali della società mediterranea di questo periodo, caratterizzata da strutture politiche ed economiche aristocratiche: una società di «consumi opulenti», che si rispecchia perfettamente in questi raffinati stilemi di provenienza ionica.
La scoperta di un frammento derivante dalle stesse matrici nei recenti scavi del Tempio di Giove Capitolino permette forse di collocare su una base archeologica più solida la tradizione letteraria relativa a Vulca. In effetti, l’attribuzione canonica a quest’ultimo dell’Apollo e degli altri grandi acroteri del Tempio di Portonaccio a Veio è stata recentemente contestata, per la cronologia troppo tarda di queste opere (databili agli ultimi anni del VI secolo d.C.) rispetto ai lavori del tempio, che risalgono a un momento nettamente più antico. Se il frammento di recente scoperta appartiene veramente al tempio, come tutto indurrebbe a pensare, sarebbe logico attribuire a Vulca l’invenzione di questo tipo di lastre, che risale agli anni centrali del VI secolo. Si comprenderebbe meglio, in tal caso, la loro diffusione, attestata da ritrovamenti a Veio, Roma, Velletri e nella pianura pontina: dal luogo iniziale di produzione (Veio) alla principale città committente (Roma), che appare in seguito essa stessa come artefice della diffusione in un’area, che non a caso corrisponde alla colonizzazione romana più antica, quella in direzione del Lazio meridionale costiero.
La diffusione capillare sul suolo di Roma di frammenti di terrecotte architettoniche di età arcaica costituisce una prova indiscutibile della fitta presenza di edifici templari, come già era apparso a Giorgio Pasquali. Una tale, intensa attività edilizia corrisponde al quadro di una città non solo di grande estensione territoriale, ma dotata di risorse economiche notevoli, del tutto incomparabili con quelle delle altre città latine, e certo non inferiori a quelle delle grandi metropoli dell’Etruria meridionale. La cacciata dei Tarquinii e la fondazione della Repubblica, tradizionalmente fissati al 509 a.C., vengono talvolta intesi, con lettura modernizzante, come episodi di uno sviluppo «democratico»: in realtà, siamo in presenza di una reazione antitirannica (nel senso specifico che questo termine assume nel mondo antico), dovuta all’oligarchia patrizia, mirante a bloccare le novità sociali ed economiche introdotte dagli ultimi re: come dimostra chiaramente il processo di «chiusura» della cittadinanza introdotto dal nuovo regime, che mirava ad escludere dal potere i nuovi strati sociali emersi nell’ambito di una società più «aperta», quale era senza dubbio quella dei Tarquinii. Risultato di questo ripiegamento fu la lotta secolare tra patrizi e plebei.
Sul piano delle forme ideali, la Repubblica degli inizi volle presentarsi come un ritorno alle origini, alla società basata sui clan gentilizi, che era stata profondamente corrosa dalle riforme serviane. Questa scelta contribuì potentemente a condizionare l’ideologia senatoria romana, che identificò da allora in poi i suoi valori costitutivi negli exempla maiorum, nei modelli tradizionali del passato. Come sempre, l’innovazione diviene possibile a Roma solo se presentata come un ritorno al passato: anche il potere autocratico di Augusto assumerà le forme di una restaurazione della Repubblica.
L’esistenza di una tale struttura profonda sarà determinante, ad esempio, nei rapporti con la cultura greca: all’apertura che distingue l’epoca degli ultimi re si contrappone un ripiegamento, anche se questo non si manifestò subito dopo la rivoluzione istituzionale: durante i primi decenni del nuovo regime
9. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
notiamo anzi una relativa continuità con la fase precedente, mentre le novità fondamentali si manifesteranno un po’ più tardi. Ad esempio, la politica filellenica si prolunga con fondazioni di templi, dedicati a nuovi culti introdotti dalla Magna Grecia o dalla Sicilia. Possiamo tuttavia riconoscere, all’interno di queste, la presenza di scelte politicamente orientate: così, ad esempio, una tensione è riconoscibile tra il culto aristocratico dei Dioscuri, Castore e Polluce, e quello plebeo di Cerere, Libero e Libera.
Il primo, realizzato tra il 499 e il 484, viene ad insediarsi nel cuore stesso della città, sul lato meridionale del Foro. In questo caso, l’attendibilità della notizia è confermata dai recenti scavi, che hanno rivelato la fase più antica dell’edificio, più volte ricostruito in seguito (figg. 57-59). Il podio del tempio, piuttosto ben conservato, è realizzato con spessi muri in opera quadrata di cappellaccio, che formano un reticolo di sostegno alla struttura superiore (non conservata, ma che doveva comprendere muri in pietra all’esterno, in mattoni crudi all’interno). Esso misurava m 27,50 per 37/40 circa, ed era quindi di poco più piccolo di quello attuale, costruito in età augustea. L’edificio era decorato con notevoli
Alle pagine seguenti: 57. Antefissa di terracotta con testa di sileno, pertinente al Tempio dei Castori (Antiquarium del Foro Romano). 58. In alto, antefissa con testa di Giunone con corna bovine, dal Tempio dei Castori (Antiquarium del Foro Romano). In basso, torso di guerriero (Amazzone?), dall’Esquilino (Musei Capitolini).
terrecotte architettoniche, di cui si sono conservate in particolare alcune antefisse a testa di Giunone e di Sileno (figg. 57-58), analoghe a quelle, tratte dalle stesse matrici, rinvenute altrove a Roma e in molti altri siti del Lazio.
Meno fortunati siamo nel caso del contemporaneo culto di Cerere, Libero e Libera (identificati con i greci Demetra, Dioniso e Persefone), fondazione plebea, e per questo relegato in un’area marginale, alle estreme pendici della collina «plebea» dell’Aventino, ma di cui non si conservano i resti. In questo secondo caso, la natura ellenica del culto, certamente collegato alle importazioni di grano dalla Sicilia, risulta anche dall’etnia delle sacerdotesse, sempre provenienti dalla Magna Grecia. Non è certamente un caso che l’edificio sia stato realizzato da artefici greci (come risultava dalle firme, ancora leggibili al tempo di Varrone), Damophilos e Gorgasos, i cui nomi dorici suggeriscono una provenienza siracusana o tarentina. Così, la componente plebea della popolazione si rivela fin dall’inizio, coerentemente con la sua natura e le sue origini, più aperta ai rapporti verso l’esterno.
Un’idea di questa decorazione si può ricavare da un frammento di gruppo in terracotta trovato sull’Esquilino (fig. 58, in basso), che potrebbe appartenere al Santuario di Venere Libitina, la dea della morte, situato dentro la necropoli (forse parte di un donario, piuttosto che di decorazione frontonale o acroterio). Si tratta del torso di un guerriero caduto, rappresentato a metà del vero, che faceva parte di una scena di combattimento, certamente di carattere mitico. Il personaggio, ferito, indossa una corazza, gli schinieri e tiene con la sinistra un grande scudo rotondo, visto dall’interno. La pelle, di colore bianco, fa pensare che si tratti di un’amazzone.
La notevole qualità del pezzo (argilla depurata, motivi dipinti di grande raffinatezza), di stile «severo», lo distacca nettamente dalla coroplastica locale: tutto fa pensare all’opera di una bottega proveniente dalla Magna Grecia o dalla Sicilia, attiva a Roma nei primi decenni del V secolo, e quindi contemporanea a quella, probabilmente siciliana, di Damophilos e Gorgasos, che potrebbero essere autori anche di questa scultura.
Conosciamo almeno un’altra fondazione templare degli stessi anni e della stessa natura plebea: Mercurio, il «dio della merce», identificato con il greco Hermes, venne a insediarsi nella stessa zona, alle pendici dell’Aventino, come protettore dei commercianti del vicino Foro Boario e del porto del Tevere.
Un notevole cambiamento si nota in questo periodo nell’architettura templare, in cui, proprio negli anni tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., avviene una svolta importante, soprattutto nell’ambito della decorazione fittile. È questa la cosiddetta «seconda fase», in cui viene introdotto un sistema di copertura più pesante, di origine campana, che prevede la sostituzione delle sime laterali con antefisse di un tipo particolare, caratterizzato da un grande nimbo baccellato, con al centro protomi umane (per lo più teste di Giunone o di satiro); aumenta l’importanza del frontone, dove le sporgenze delle travi vengono ricoperte da lastre figurate, in genere con soggetti mitici. Il mito greco in effetti assumerà da questo momento in poi un ruolo maggiore: da una prevalente presenza di Ercole si passerà a temi di repertorio, come la Gigantomachia o il ciclo troiano. La frequente presenza di scene di battaglia è stata collegata con la particolare conflittualità di un momento storico, caratterizzato dalla crisi dei regimi monarchici e dalle tensioni che ne seguirono (per Roma, in particolare, la guerra contro la Lega Latina).
Fra le più antiche manifestazioni di questo nuovo corso si colloca il Tempio di Minerva a Veio, con le sue celebri terrecotte acroteriali e le sue antefisse nimbate a testa di Gorgone, mentre a Roma gli esempi dovettero essere numerosi, anche se solo il Tempio dei Castori ce ne fornisce ancora un’idea.
Questa fase è caratterizzata da radicali cambiamenti stilistici, che consistono sostanzialmente nell’adozione dello stile «severo», nato nella penisola greca, e caratterizzato da forme austere e semplificate, del tutto aliene dalla raffinatezza estenuata dello ionismo asiatico. Anche in questo caso, si tratta di una scelta ideologica precisa delle classi dominanti in questa fase storica, che a Roma si identificano con l’oligarchia patrizia, artefice dell’abbattimento del regime tirannico dei Tarquinii.
Nel corso del V secolo si manifesta una notevole egemonia culturale dell’Etruria interna (che sembra avere inizio con il dominio militare della Chiusi di Porsenna): Volsinii (Orvieto) e Falerii (Civitacastellana) assumono in questa fase un ruolo centrale, che si prolungherà fino alla loro distruzione, avvenuta nei decenni centrali del III secolo, ad opera di Roma: la città cioè che, da qualche decennio, era diventata
A fronte: 59. Colonne del Tempio dei Castori: ricostruzione di età augustea.
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60. Roma, pianta della fase arcaica del Tempio di Apollo.
non solo il centro politico, ma anche il centro culturale dell’Italia peninsulare.
Gli anni successivi, caratterizzati da violente contese civili tra patrizi e plebei e dal dominio del senato patrizio, vedono la cessazione quasi totale di nuove fondazioni cultuali di origine ellenica. Per trovarne un’altra si dovrà attendere il 431 a.C., quando, in seguito a una pestilenza, verrà consacrato ad Apollo Medico un tempio nell’area del futuro Circo Flaminio (fig. 60). Si trattava però di un culto già esistente, come sappiamo dalla menzione di un Apollinar situato nella stessa zona: tutto fa pensare che l’introduzione risalga all’ultimo dei Tarquinii, e che il dio sia giunto da Cuma insieme ai Libri Sibillini.
Parallelamente, notiamo il quasi totale arresto delle importazioni di ceramica greca (attica) a Roma negli anni successivi al 470 a.C., fatto interpretato di solito, e con ragione, come indizio di una grave crisi economica, analogamente alle contemporanee carestie, segnalate dalle fonti letterarie. È possibile però che il fenomeno dipenda anche da una chiusura culturale voluta dai patrizi, perfettamente coerente con le loro scelte ideali. Il cosiddetto «medioevo» romano, come si è voluto definire il V secolo a.C., manifesta in tal modo la sua caratteristica natura di reazione non solo politica, ma anche ideale, che si traduce in un rifiuto cosciente della cultura greca, in quanto strumento ideologico proprio delle nuove classi emergenti che si erano formate nella fase finale, «tirannica», della Monarchia.
Sono anni decisivi per la formazione di una cultura romana autonoma, nel corso dei quali i fermenti greci, ineliminabili, saranno sottomessi a una totale riconversione, determinando la nascita di nuovi modelli artistici; questi troveranno la loro forma definitiva nel secolo seguente, quando la ripresa dei rapporti con la Magna Grecia darà origine al nuovo linguaggio artistico medio-repubblicano che, a seguito della conquista, finirà per estendersi progressivamente a tutta l’Italia peninsulare.