mero complessivo delle figure è di sei, non di sette. I due uomini sui carri nella prima scena sono simili a quelli appiedati e armati della seconda, con i quali forse si identificano. L’elemento in più nel secondo rilievo sono le due donne che occupano i carri al posto degli uomini. Si è pensato a rappresentazioni di Fortuna e di Mater Matuta: in ogni caso, a dee connotate in senso militare, che fanno pensare ad Astarte-Fortuna. Un dato fondamentale è la presenza, in ambedue i casi, della biga con i cavalli alati: un elemento che ne attesta il carattere sovrannaturale e sembra alludere alla natura divina di uno dei due personaggi dei rilievi: un dio e una dea (o due antenati divinizzati) sembrano così contrapposti a un uomo e a una donna. L’insieme può far pensare a una ierogamia, collegata con imprese militari. Nonostante le incertezze che permangono nell’interpretazione dei rilievi, è probabile che essi intendano illustrare una forma di trionfo arcaico. A questo proposito, è interessante la descrizione della pompa dei ludi Romani (cerimonia certamente molto antica, attribuita dalla tradizione ai Tarquinii) che leggiamo in Dionigi di Alicarnasso (VII, 72, 1-3): Prima di dare inizio alle gare, i magistrati che ricoprivano la carica più importante allestivano una processione in onore degli dèi e la guidavano dal Campidoglio, attraverso il foro, fino al grande ippodromo. Aprivano la processione i figli dei Romani prossimi alla pubertà, che avevano l’età per prendervi parte: a cavallo quelli i cui padri avevano il censo equestre, a piedi quelli che erano destinati a prestare servizio nella fanteria; gli uni divisi in squadre e battaglioni, gli altri in gruppi e schiere, come se andassero a scuola; lo scopo era quello di far ammirare agli stranieri il fior fiore per numero e bellezza della gioventù romana, che si avvicinava all’età adulta. Questi erano seguiti da aurighi, che guidavano quadrighe, bighe o cavalli non aggiogati; dopo di loro venivano i partecipanti alle gare di atletica leggera e pesante, completamente nudi, fatta eccezione per i genitali, che coprivano. Que-
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sta usanza è perdurata a Roma fino ai miei tempi, ed esisteva all’inizio anche presso i Greci […] Dopo gli atleti venivano molte schiere di danzatori, suddivisi in tre gruppi; il primo era formato da uomini adulti, il secondo da giovani imberbi, il terzo da bambini, seguiti da flautisti, che soffiavano in piccoli flauti antichi, come si fa anche attualmente, e da suonatori di lire d’avorio a sette corde, che si chiamano barbita […] Le vesti dei danzatori erano chitoni rossi, stretti da cinture di bronzo; essi portavano al fianco spade e lance più corte delle solite. Gli uomini avevano anche elmi di bronzo, adorni di notevoli cimieri e di pennacchi.
Questa descrizione presenta, come si vede, singolari coincidenze con le scene rappresentate sulle terrecotte architettoniche già esaminate. Un chiarimento ulteriore sulla natura del santuario si ricava da un gruppo di sculture a tutto tondo a tre quarti del naturale, attribuibili alla seconda fase del tempio, forse acroteri (per altri si tratta invece di donari). Il meglio conservato di questi gruppi rappresenta Ercole, nella tipica iconografia cipriota, accompagnato da una dea armata, che potrebbe essere Atena-Minerva, o anche Astarte-Fortuna (fig. 54). Poiché si tratta, in questo caso, non di elementi di serie, realizzati a stampo (come le lastre con processione), ma di sculture a tutto tondo modellate a stecca, il loro valore documentario risulta più rilevante. La scena sembra rappresentare l’introduzione di Ercole in Olimpo, e cioè la sua trasformazione in dio: un’allusione trasparente all’apoteosi del sovrano, connessa con la celebrazione del trionfo. Un gruppo analogo e contemporaneo, proveniente dal Santuario di Portonaccio a Veio, esprime certamente lo stesso significato. Se il frammento conservato del secondo gruppo acroteriale di S. Omobono rappresentava Dioniso e Arianna, come è stato proposto, si tratterebbe di una straordinaria conferma della natura «dionisiaca» del trionfo: come attesta fin dalle origini il nome stesso della cerimonia, derivato dal greco thriambos, il corteo destinato a celebrare la vittoria del dio sull’India.
8. ALTRI CULTI, ALTRE IMMAGINI
Nella sua pionieristica evocazione della Grande Roma dei Tarquinii, Giorgio Pasquali non si limitava a riunire i testi letterari favorevoli al suo assunto, ma estendeva l’esame alle testimonianze di carattere archeologico, già all’epoca disponibili per chi volesse vederle: In parecchi punti dell’antica Roma, sul Palatino, sul Campidoglio, nel Foro, sull’Esquilino, nel letto del Tevere presso l’Isola Sacra, sono stati scoperti frammenti di terracotte architettoniche. Quasi tutti i tipi hanno riscontro in altre città del Lazio e dell’Etruria meridionale; tutti, pur risentiti originalmente, «etruscamente», per nominare il popolo dell’antica Italia la cui arte ci è meglio nota, ricordano esemplari greci, ionici. Queste terrecotte sono di tali dimensioni che dovettero ornare edifici monumentali. Una tale serie di scoperte significa secondo me ancor più che le maestose costruzioni del Tempio di Giove Capitolino, le quali pure appartengono a quest’età. Privatum illis census erat brevis, commune magnum [le loro sostanze private erano scarse, quelle pubbliche grandi]; e cattedrali medievali torreggiano talvolta su cittadine che non furono mai né molto potenti né molto ricche. Ma una comunità povera può fare uno sforzo per costruire una chiesa che le dia gloria, non più di una; nella Roma dei Tarquinii gli edifici monumentali furono molti: oltre il Tempio di Giove, ne ebbe un altro anche il piccolo Campidoglio in un’altra località, là dove ora è l’Aracoeli; nel Foro frammenti si ritraggono dalla Regia e dal Comitium; quelli del Palatino provengono da almeno tre edifici sopra le
Scalae Caci, da almeno uno in prossimità del Lararium. I cittadini romani dell’età dei Tarquinii ebbero gioia di rappresentanze di guerrieri a cavallo e di scene di simposio, di Amazzoni ferite e di favolosi grifi, più di tutto di Satiri e Menadi danzanti; ebbero gusto per tipi che conobbero dall’arte greca. Attraverso l’Etruria? Ma in questa età è arbitrario distinguere arte etrusca e arte latina, e si deve piuttosto stabilire un’unica cerchia di cultura che comprendeva il Lazio e l’Etruria meridionale. I Romani di quel tempo ebbero una finestra aperta sul mondo greco, e parteciparono in qualche modo della sua arte, anche se dovettero ricorrere a un maestro veiente, Volca, perché scolpisse la statua fittile di Giove nel tempio capitolino.
A tanta distanza di tempo, dopo tante nuove scoperte e nuove sistemazioni di dati, sarebbe difficile dire meglio: tali parole non sono infatti motivate da pregiudizi di carattere nazionalistico, come pure si è affermato: si tratta invece di una dimostrazione impeccabile, che parte da una ragionevole ipotesi di lavoro, nutrita e confermata via via da documenti concreti, in primo luogo di carattere archeologico. A noi non resta che ripercorrere lo stesso itinerario, arricchendolo beninteso con le acquisizioni non solo di nuovi dati materiali, ma anche e soprattutto dei risultati che la riflessione archeologica e storica ha continuato ad accumulare nel corso dei decenni trascorsi. La documentazione più rilevante per la storia architettonica e urbanistica di Roma arcaica è costituita, per noi come per Pasquali, dalla rilevante massa
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