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1.4. La città dei morti

dal bastone ricurvo (lituo) tipico della sua professione. Non è certamente un caso che un simile oggetto provenga dal Comizio, luogo privilegiato dell’attività degli auguri, e dove era collocata una statua arcaica del fondatore mitico del collegio, Atto Navio.

Grandi oggetti di bronzo, come il carrello e l’anfora scoperti a Bisenzio nella stessa tomba (figg. 20-21), della fine dell’VIII secolo a.C., sono decorati con gruppi complessi di figurine dello stesso genere «popolare», del tutto estranee al repertorio figurativo greco, e quindi di difficilissima interpretazione. Si tratta certamente di miti o rituali indigeni, per la cui spiegazione potrebbe eventualmente essere utile un’analisi di tipo comparativo, etnologico: è comunque da escludere ogni tentativo di interpretarli, come pure è avvenuto, come illustrazioni della storia mitica romana, che è certamente di formazione più tarda.

Vogliamo limitarci, a tal proposito, a un solo esempio paradigmatico: un distanziatore di cavalli in bronzo (fig. 22), trovato in una tomba dell’VIII secolo nel sito di Decima, sulla strada tra Roma e Lavinio. Le due figurine contrapposte che fanno parte dell’oggetto rappresentano una donna che tiene un bimbo al seno e un uomo che viene accecato da due uccelli. Fin dal momento della scoperta, e ancora in seguito, si è preteso di riconoscere in questo modesto manufatto un’illustrazione del mito di Anchise che, unitosi con Afrodite, si sarebbe vantato della sua conquista, subendo di conseguenza la punizione di Zeus, che lo avrebbe accecato. Nel bambino allattato dovremmo riconoscere lo stesso Enea, il cui mito così sarebbe noto nel Lazio fin dall’VIII secolo a.C.

Smontare un’interpretazione del genere non richiede molta fatica: basterebbe ricordare che Afrodite non è una dea kourotrophos («allattatrice di bambini»), e mai viene rappresentata in questo atteggiamento; inoltre, Anchise venne accecato da un fulmine, e non da due uccelli (qui evidentemente promossi ad «aquile di Zeus»!). Siamo chiaramente in presenza di un mito locale, a noi sconosciuto, che potrebbe trovare un parallelo in urne etrusche, dove è rappresentato un guerriero caduto a terra e accecato da due uccelli. L’introduzione del mito greco è un fenomeno alquanto più tardo.

L’emergere della cultura orientalizzante chiarisce il livello culturale delle aristocrazie etrusche e latine nel corso di una fase storica, caratterizzata da un marcato interesse per i prodotti di lusso del Mediterraneo orientale. Ancora una volta, non si tratta solo di una moda superficiale, ma di un profondo coinvolgimento culturale: è questo infatti il momento in cui vengono introdotti per la prima volta i miti greci, ed emergono le prime interpretazioni ellenizzanti dei culti locali: si tratta, in altri termini, di un’acculturazione profonda delle aristocrazie locali, che iniziano a collegare le loro genealogie ad antenati prestigiosi, provenienti dall’Oriente mediterraneo. La spiegazione riduttiva che spesso si propone di tali fenomeni, tesa a sottolineare l’incomprensione e il ritardo delle culture indigene rispetto ai modelli ellenici, non sembra accettabile: quando i documenti sono sufficientemente espliciti, e analizzati senza pregiudizi, ci accorgiamo presto che tali pretese «incomprensioni» sono invece il risultato dell’adattamento dei modelli importati alle situazioni locali: lungi dal rappresentare una importazione meccanica, essi sono la conseguenza di un’acculturazione attiva, in grado di selezionare e scegliere all’interno dell’elemento introdotto quanto risulta integrabile nella cultura locale.

Alle pagine precedenti: 20. Anfora di bronzo con figurine plastiche, dalla necropoli di Bisenzio (Roma, Museo di Villa Giulia). 21. Carrello di bronzo con figurine plastiche, dalla necropoli di Bisenzio (Roma, Museo di Villa Giulia). 22. Distanziatore di cavalli in bronzo, a Decima (Roma, Museo delle Terme).

4. L’INTRODUZIONE DELLA SCRITTURA E LA CULTURA ORALE

È tuttavia da un altro tipo di documentazione, spesso colpevolmente trascurata dagli archeologi, che si possono trarre le attestazioni più significative del fenomeno dell’ellenizzazione: si tratta, come abbiamo visto, dell’introduzione della scrittura nell’Italia tirrenica a partire dalla fine del VII secolo a.C.: il modello, adottato quasi contemporaneamente in Etruria e nel Lazio, è l’alfabeto calcidese, introdotto dalle più antiche fondazioni elleniche della Magna Grecia, quasi certamente da Cuma. Il fenomeno è contemporaneo al processo di formazione delle città e riveste un’importanza enorme, trattandosi non di meccanica importazione di beni materiali, ma dell’adozione di uno strumento culturale complesso, che richiedeva da parte dei fruitori una piena consapevolezza delle sue potenzialità straordinarie, e quindi capacità culturali non indifferenti in un periodo così antico.

All’inizio, l’introduzione della scrittura risponde probabilmente a funzioni utilitarie: è quanto sappiamo per il sistema miceneo di scrittura, il lineare B, utilizzato esclusivamente per redigere gli inventari dei grandi palazzi. Anche la scrittura alfabetica non dovette avere all’inizio altro scopo: certo non a caso, essa è opera di Fenici e di Greci, i più noti popoli mercanti del Mediterraneo. La più antica documentazione di questo metodo di catalogazione e di inventario non è conservata, legata com’era per definizione a materiali scrittori «poveri» e deperibili. Infatti i primi alfabetari noti in Etruria sono incisi su tavolette di osso o di avorio (ma il supporto più corrente doveva essere il legno), che anche in seguito, per secoli, saranno utilizzate per redigere inventari e ricevute.

Le più antiche testimonianze di scrittura si trovano su oggetti di prestigio, poi deposti nelle tombe, o su ex voto destinati a santuari (si pensi al celebre «Vaso di Duenos»). Ma tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo (periodo cruciale, come sappiamo) si verifica un nuovo fenomeno: l’uso viene esteso a documenti incisi su bronzo o su pietra, esposti alla vista del pubblico, che con la sola loro presenza attestano la nascita di strutture «statali» e una certa diffusione della capacità di leggere a gruppi relativamente estesi di persone (di cittadini). Oltre a documenti celebri, come i cippi del lapis Niger e dell’Acquoria a Tivoli e alle nuove iscrizioni di Satricum e di Corcolle (a cui si devono aggiungere gli esempi ricordati dalla tradizione letteraria, come la lex del Tempio di Diana sull’Aventino, il primo trattato romano-cartaginese o il foedus Cassianum) si deve ricordare l’esistenza di decine di iscrizioni incise su ceramica, che attestano l’estendersi dell’uso anche all’ambito privato.

La conoscenza del greco, almeno in cerchie ristrette, sembra dimostrata dall’introduzione dei Libri Sibillini − tre libri rituali scritti in greco, probabilmente provenienti da Cuma e collegati al culto di Apollo − che la tradizione attribuisce all’ultimo dei Tarquinii (e non c’è motivo di dubitare di questa cronologia): un collegio sacerdotale apposito (i duoviri − poi decemviri e quindecemviri − sacris faciundis) era incaricato della loro lettura e interpretazione: risultato della loro opera sarà l’introduzione di nuovi culti di origine greca o orientale, e quindi la progressiva ellenizzazione della religione romana.

In questo stesso periodo dovette iniziare l’uso da parte dei pontefici di annotare sistematicamente la

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23. A sinistra: ricostruzione del sacello del lapis Niger, nel Comizio. A destra, restituzione grafica dell’iscrizione arcaica del lapis Niger.

cronaca degli avvenimenti, trascritta alla fine di ogni anno su tavole di legno imbiancate, esposte all’esterno della Regia: questi «annali dei pontefici», archiviati nello stesso edificio, sono all’origine della storiografia romana. Allo stesso sacerdozio apparteneva la cura del tempo, materializzata nella redazione di un calendario, le cui origini risalgono fino all’età regia: i cosiddetti «fasti Numani», accuratamente segnalati con lettere di dimensioni maggiori nei calendari più tardi. In base a un’analisi interna, è possibile datarli intorno al 600 a.C., e cioè all’epoca di Tarquinio Prisco: si tratta di un documento che attesta l’avvenuta nascita della città, che richiede, accanto a una specifica delimitazione religiosa dello spazio, un’organizzazione anch’essa religiosa del tempo.

Un’impressionante conferma archeologica di questa attività si è avuta con lo scavo del silos collocato nel cortile della Regia, la sede dei pontefici, da cui proviene un grande numero di stili scrittori in osso di tutte le epoche: è difficile resistere alla suggestione di interpretare questi oggetti, testimonianza di secolari operazioni di scrittura e di archiviazione, in relazione all’attività dei pontefici.

La familiarità con i testi greci, attestata a Roma fin dal VI secolo a.C. dall’importazione dei Libri Sibillini, si presta ad altre considerazioni. Sappiamo che si trattava di libri, cioè di rotuli di papiro in numero di tre, conservati in un ricettacolo lapideo nel Tempio di Giove Capitolino, da poco costruito. Lo scritto, certamente redatto in greco, e in versi – come sempre la letteratura di carattere oracolare – veniva consultato, previa autorizzazione del senato, in occasione di eventi particolarmente disastrosi o terrificanti (prodigia), ritenuti sintomi della collera divina. Non conosciamo la tecnica di consultazione, che doveva necessariamente far intervenire il caso (cioè la volontà degli dei): si richiedeva comunque da parte dei sacerdoti responsabili della consultazione una buona conoscenza del greco.

Nozioni non superficiali di lingua e di versificazione di origine greca nella Roma arcaica sono attestate anche da altri documenti: il verso eroico romano, il saturnio (utilizzato ad esempio nella traduzione dell’Odissea da parte di Livio Andronico e sostituito dall’esametro greco solo con Ennio, all’inizio del II secolo a.C.), considerato in genere un metro tipicamente indigeno, è stato spiegato da Giorgio Pasquali come risultato di un adattamento, costituito dall’accoppiamento di due versi greci di carattere lirico (cioè da cantare). La spiegazione tradizionale, che vi riconosce un metro di origine indoeuropea cade di fronte alla constatazione che esso appare solo nel latino e nel greco. La derivazione da quest’ultimo appare dunque accertata, anche se, come sempre, constatiamo un adattamento del modello originario alle esigenze del nuovo utilizzatore: in questo caso,

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24. Il «Vaso di Duenos»: a sinistra, restituzione grafica; a destra, foto (Berlino, Antikenmuseum).

l’impiego come verso epico di elementi originariamente lirici. Secondo Pasquali, il saturnio venne introdotto già nel VI secolo a.C.

Queste intuizioni sono state confermate di recente da nuove scoperte e dal riesame di vecchi documenti. Nel primo caso, si tratta di un’iscrizione della fine del VI secolo scoperta nel Lazio meridionale, a Satricum: il cosiddetto lapis Satricanus, già esaminato in precedenza, in cui si menziona un Publius Valerius, da identificare con grande probabilità con Publio Valerio Publicola, celebre personaggio dell’inizio della Repubblica. L’iscrizione, certamente metrica, comprende un intero verso saturnio e la seconda metà di un altro, confermando così sia l’autonomia originaria dei singoli emistichi di origine greca, sia la nascita già avvenuta del saturnio.

Il cippo del Foro (lapis Niger) (fig. 23), nonostante la mutilazione della sua parte superiore, può essere identificato con una lex arae, cioè con il regolamento per i sacrifici da eseguire nel piccolo santuario di cui esso fa parte, certamente dedicato a Vulcano. L’identificazione della sua funzione permette anche di integrarne la parte iniziale, che ripete la maledizione che si trova all’inizio delle cosiddette leges regiae: «Chi violerà questo luogo [sacro] sia consacrato agli dei Mani». Il testo integrato dimostra che l’iscrizione è in saturni: ancora una volta, una prova che il verso esisteva già alla metà del VI secolo.

Un altro celebre documento arcaico, il «Vaso di Duenos» (fig. 24), di poco più antico (inizio del VI secolo) suggerisce conclusioni analoghe. L’oggetto apparve, alla fine dell’Ottocento, alle radici meridionali del Quirinale, presso la chiesa di S. Vitale, insieme a un deposito votivo, purtroppo disperso. Il luogo è lo stesso, il vicus Longus, dove si trovava uno dei culti serviani della Fortuna. Tutto fa pensare che il ritrovamento sia da collegare a questo santuario.

L’oggetto, di bucchero, consiste di tre vasetti saldati insieme: si tratta di un tipo di recipiente chiamato in greco kernos, utilizzato per la libagione di primizie, soprattutto nel culto eleusino di Demetra. Il suo carattere di vaso votivo è confermato dalla lunga iscrizione incisa tutt’intorno all’oggetto, interamente conservata, che può forse tradursi come segue: «Giura gli dei colui che mi dedica: “Se verso di te la fanciulla non sarà compiacente, lo sarà se vorrai placarla per opera di Tutela”. Un uomo dabbene mi fece per affidarmi a un uomo dabbene: non mi consegnare a un malvagio». Tutto fa dunque pensare a un dono votivo di sostanze (magiche?) a una dea Tutela, il cui intervento servirà a procurare al dedicante i favori di una donna. La potenziale pericolosità (magica?) del vaso e del suo contenuto è illustrata dall’ultima frase. La dea in questione è indicata col nome di Toitesia, che in latino più recente corrisponderebbe a Tuteria: se la correzione in Tutela è accettabile, potrebbe

25. Lastra architettonica con scena di banchetto, dal palazzo di Poggio Civitate (Museo di Murlo) e restituzione grafica. 26. Lastra architettonica di terracotta con teoria di divinità, dal palazzo di Poggio Civitate (Museo di Murlo) e restituzione grafica.

trattarsi di un epiteto di Fortuna (è nota da iscrizioni una Fortuna Tutela), tradotto da Plutarco con l’oscuro Euelpis («che dà buona speranza»).

In ogni caso, l’iscrizione è in versi, che sembrano ottonari trocaici (ancora una volta, versi greci): lo stesso metro che si ritrova in altre formule a carattere magico, come quella cantata ai Meditrinalia dell’11 ottobre, una festa del mosto usato come medicina: novum vetus vinum bibo, novo veteri morbo medeor («bevo vino nuovo vecchio; guarisco dalla nuova, dalla vecchia malattia»).

Questa formula, forse coeva al «Vaso di Duenos», presenta anche altre caratteristiche simili: in particolare il gioco retorico «nuovo/vecchio», del tutto analogo a quello del vaso, «buono/cattivo». Impressiona, in un’epoca così antica, un linguaggio così complesso ed evoluto, di evidente origine greca: siamo in presenza di una testimonianza straordinaria della cultura sacerdotale, diffusa nella Roma del VI secolo a.C.

Un’altra via che possiamo percorrere per ricostruire la cultura preletteraria della città è il ricordo dei carmina convivalia, trasmessoci da un certo numero di autori romani, tra i quali spiccano Catone e Varrone: in particolare il primo, che scrive alla metà del II secolo a.C. Nella sua opera storica, secondo Cicerone (Tusc. Disp., 1.3; 4.3; epist. ad Brutum, 75) si afferma che «presso i nostri antenati era d’uso nei banchetti che i singoli convitati sdraiati cantassero accompagnati dai flauti le lodi e le virtù degli uomini famosi»: ciò sarebbe avvenuto «molti secoli» prima di Catone, indubbiamente in età arcaica. Interessante anche la notazione che i banchettanti erano sdraiati: un uso greco, che in Italia appare in età orientalizzante.

L’argomento presenta un interesse culturale indubbio: si tratta infatti, né più né meno, dell’esistenza di un’epica orale, espressione delle aristocrazie romane: qualcosa di molto simile alla società descritta da Omero, diffusa in tutte le strutture gentilizie arcaiche, come ha dimostrato la ricerca etnologica.

Naturalmente, sull’argomento si è molto speculato, arrivando talvolta alla conclusione aberrante che imputa a Catone la menzione di una pratica greca, mai esistita nella Roma arcaica: esattamente il contrario di quanto saremmo in diritto di aspettarci da un campione del moralismo indigeno, feroce avversario dell’ellenizzazione della società romana!

Tali assurdità sono solo il frutto di una rigida divisione del lavoro nel campo della «scienza delle antichità» di tradizione ottocentesca: per evitarle, sarebbe bastato prendere visione di monumenti figurati arcaici etrusco-latini, noti da secoli (come le terrecotte architettoniche di Velletri) (fig. 55).

Il modello del banchetto greco (ed eventualmente del simposio, il «bere insieme» che conclude il banchetto), va confrontato con l’abbondante documen-

tazione figurata di età arcaica disponibile nell’Italia centrale tirrenica.

Il vero e proprio simposio non appare mai pienamente realizzato in Etruria e nel Lazio: ci troviamo probabilmente di fronte a uno di quei tipici limiti dell’acculturazione ellenizzante, che dipendono dalla presenza di elementi indigeni «forti» della società che riceve, e che determinano varianti anche di rilievo nelle strutture locali «acculturate». L’uso del simposio si scontrava evidentemente con caratteristiche non omologabili della società tirrenica, che sembra di poter riconoscere soprattutto nel ruolo diverso delle donne: Varrone ne ricorda la presenza nei banchetti a Roma, ai quali esse tuttavia partecipavano sedute (De vita populi Romani, fr. 30 Riposati). L’iconografia arcaica delle scene etrusche di banchetto conferma questa notizia, che non può dipendere da fonti greche.

Ora, la partecipazione della donna al banchetto (escluse beninteso le etere) è inconcepibile in Grecia: di qui lo scandalo di Aristotele per la «scostumatezza» delle donne etrusche; di qui anche l’impossibilità di uno sviluppo completo dei costumi greci in Italia, almeno nelle forme più pure, il cui culmine è appunto il simposio.

Una volta riconosciuta questa fondamentale divergenza, frutto ineliminabile degli usi indigeni e della pressione da questi esercitata sugli apporti culturali greci, resta il fatto innegabile che l’introduzione del banchetto in Italia è il risultato dell’importazione, già in età molto antica (e comunque non successiva alla fine del VII secolo a.C.) di usi grecoorientali. Se infatti esaminiamo alcune caratteristiche del simposio in Grecia, ci accorgiamo che almeno i canti simposiaci (almeno quelli di carattere politico-encomiastico, forse meno quelli di carattere erotico) e l’uso di mangiare sdraiati sono attestati fin da età molto antica dalle fonti romane. Per il secondo in particolare disponiamo di un’abbondantissima documentazione iconografica contemporanea e di interi servizi di vasi da banchetto, provenienti da tombe, che ci tolgono ogni eventuale dubbio sull’attendibilità dei dati trasmessi dall’antiquaria romana.

Le testimonianze archeologiche presentano il vantaggio supplementare di offrirci documenti coevi e privi di rielaborazioni ideologiche successive. Interessano qui soprattutto le abitazioni regie o gentilizie, sedi privilegiate del banchetto arcaico, e le scene figurate su terrecotte architettoniche, soprattutto quelle provenienti dallo stesso tipo di edifici, in particolare, da alcuni «palazzi» etruschi, come quelli di Murlo e di Acquarossa. Il fatto che le scene di banchetto si trovino per lo più in edifici di carattere «privato» (anche se non mancano esempi provenienti da templi) dimostra che si tratta di rappresentazioni non generiche, ma strettamente funzionali alle strutture palaziali in cui erano inserite, spesso da identificare con le stesse sale da banchetto. In altri termini, si tratta di immagini che riproducono la sostanza delle attività reali che in queste avevano luogo.

In tali rappresentazioni appaiono, coerentemente con l’uso etrusco, uomini e donne distesi su letti, ai quali si accostano inservienti per versare il vino, attinto dai vicini crateri. Quel che più conta per noi è la presenza di musici con lire e doppi flauti. Nel caso di Murlo (figg. 25-26), è anzi uno dei banchettanti a suonare la lira, secondo un costume tipicamente greco. Nello stesso rilievo un flautista si accosta a un convitato che si volge verso di lui e apre la bocca per cantare: l’atto non permette equivoci, e costituisce l’illustrazione perfetta del passo di Catone già ricordato: «I convitati erano soliti cantare nei banchetti, accompagnati da un flautista».

Certo, ci piacerebbe restituire la voce a questo personaggio, ma anche in mancanza di ciò il contesto è di per sé parlante: la scena si svolge in una sala del palazzo, affacciata su di un sacello certamente destinato al culto dinastico (un larario) (fig. 40), sul cui tetto si dispone la teoria delle statue, identificabili con gli antenati eroizzati. Il canto, possiamo esserne certi, esponeva «le lodi e le virtù degli uomini famosi», come ci spiega Catone.

5. GLI EDIFICI DI CULTO

Varrone (secondo Agostino, La Città di Dio, IV, 31), «afferma anche che i Romani antichi venerarono gli dei per più di 170 anni senza realizzarne immagini». L’introduzione delle statue di culto sarebbe avvenuta, dunque, intorno al 580 a.C., negli ultimi anni di Tarquinio Prisco. Certamente Varrone sta pensando al simulacro del Tempio di Giove Capitolino, dovuto allo scultore veiente Vulca. Si tratta comunque di una data del tutto verosimile, che coincide nell’area tirrenica con il fenomeno di antropomorfizzazione degli dei, contemporaneo all’apparizione del tipo architettonico del tempio: il nome del tempio infatti, tanto in greco (naos) quanto in latino (aedes) designa la «casa»: esso non è altro, in definitiva, che l’«abitazione» della divinità, che vi soggiornava in forma di immagine. La vera sede del culto va identificata nell’altare di fronte al tempio, che esisteva da tempo immemorabile.

La natura in origine non antropomorfa delle divinità romane sarebbe un risultato dell’intervento di Numa, come afferma Plutarco, che risale certamente a Varrone (Vita di Numa, 8): «Numa proibì ai Romani di venerare immagini in cui il dio avesse aspetto d’uomo o forma d’animale. Perciò in principio a Roma non esistette alcun simulacro divino, né dipinto, né scolpito».

5.1. Il tempio greco e il tempio italico

Per ricostruire il processo che portò alla nascita del tempio nel Lazio si rivelano fondamentali gli scavi, realizzati alla fine dell’Ottocento e poi di nuovo alcuni decenni fa a Satricum. Sull’acropoli della città pontina aveva sede il culto poliadico di Mater Matuta. Il più antico luogo di culto non è altro, caratteristicamente, che una capanna, datata alla fine dell’VIII secolo, che non si differenzia in nulla dalle altre simili, destinate ad abitazione (figg. 28-29). Il culto cioè non appare «segnato» come tale, e la sua presenza non sarebbe riconoscibile, se al di sopra della capanna non si fossero in seguito sovrapposti edifici che presentano invece le forme caratteristiche del tempio. Il primo di questi è un piccolo sacello rettangolare (m 6 × 10,40), di un tipo che si ritrova anche altrove nel Lazio (a Gabii, a Velletri, a Lanuvio) e anche in Etruria (a Veio, a Murlo e ad Acquarossa). La costruzione, datata alla seconda metà del VII secolo a.C., nasce probabilmente (come in Etruria) non come edificio di culto autonomo, ma in rapporto con un grande edificio adiacente, nel quale si deve forse riconoscere una «reggia». È stato notato che il più antico «tempio» di Roma, quello di Giove Feretrio sul Campidoglio, che la tradizione antica attribuiva a Numa, presentava forme e dimensioni analoghe, come sappiamo da descrizioni antiche, che ce ne hanno conservate le misure (15 piedi di lunghezza, meno di quattro metri e mezzo). Il primo tempio monumentale, dotato di una ricca decorazione di terrecotte figurate, sarà realizzato a Satricum solo intorno al 540 a.C.

Un’idea di questi primitivi sacelli si può ricavare dalle descrizioni letterarie e dalle immagini monetali del sacello di Giano nel Foro, la cui apertura, come è noto, indicava lo stato di guerra. Il piccolo edificio, accuratamente conservato mediante periodiche

ricostruzioni, mostrava la sua forma originaria ancora nel VI secolo d.C., al tempo delle guerre gotiche, come risulta dal confronto tra le monete neroniane che ce ne trasmettono l’immagine e la descrizione dello storico bizantino Procopio, che poté vederlo ancora intatto (I, 25):

Il tempio è interamente di bronzo, di forma quadrangolare, grande appena a sufficienza per ospitare il simulacro di Giano, che è di bronzo e misura non meno di cinque cubiti. Esso presenta forma umana, ma ha una testa bifronte, con una faccia rivolta a oriente, l’altra a occidente. Dinanzi ad ognuna di esse si trova una porta di bronzo, di cui i Romani un tempo tenevano chiusi i battenti in tempo di pace e di prosperità, mentre li aprivano in tempo di guerra.

Anche altrove l’archeologia ha fornito conferme decisive di questo processo: l’edificio di culto come struttura autonoma e riconoscibile sembra apparire nell’area tirrenica non prima dei decenni iniziali del VI secolo a.C., e dunque contemporaneamente alla notizia varroniana che ricorda l’introduzione a Roma delle statue di culto.

Si deve riconoscere in questo l’azione della cultura greca, che si manifesta contemporaneamente nell’identificazione delle divinità italiche con quelle elleniche (interpretatio graeca). È dunque perfettamente vana la tradizionale ricerca di un modello originario del tempio italico, che sarebbe espressione di una struttura etnico-culturale del tutto autonoma: questa si manifesterebbe tramite caratteristiche spaziali di «assialità» e «frontalità», del tutto assenti nell’architettura greca. Concezioni del genere, ancora diffuse nella letteratura non solo divulgativa, possono sostenersi solo al prezzo di una radicale destoricizzazione delle realtà architettoniche, tanto greche quanto italiche, che si esprimono nella polarizzazione astratta «tempio greco» (limitata al modello del periptero) – «tempio italico» (riconoscibile nel tempio detto tuscanico).

Ora, la ricerca recente ha potuto dimostrare che quest’ultimo appare relativamente tardi (almeno per quanto riguarda il tipo canonico, descritto da Vitruvio) (figg. 27, 35), e costituisce una derivazione dal tipo del periptero greco. In Italia almeno due templi arcaici (il Tempio B di Pyrgi e la seconda fase del Tempio di Mater Matuta a Satricum) presentano una peristasi completa, mentre altri edifici sembrano adattamenti del periptero greco (figg. 28-29): lo stesso Tempio di Giove Capitolino, certamente dotato di colonnati laterali, può considerarsi un precedente del più tardo peripteros sine postico («senza colonnato posteriore») da collegare, già per la stessa denominazione, con il modello greco.

Il tipo tuscanico vero e proprio, con separazione netta del colonnato (limitato alla parte anteriore dell’edificio) dalle celle, che occupano la parte posteriore, appare solo nei primi decenni del V secolo: l’esempio più antico riconoscibile con certezza è forse il Tempio A di Pyrgi (circa 490-480 a.C.).

Questa dipendenza non esclude, tuttavia, le indubbie differenze tra i due tipi di edificio: il modello

27. Il tempio tuscanico secondo Vitruvio: pianta e ricostruzione prospettica. 28. Satricum, pianta dei resti del Tempio di Mater Matuta. greco venne introdotto in maniera selettiva, e subì la pressione delle tradizioni locali, che sono all’origine di modifiche piuttosto rilevanti. Come sempre avviene, l’acculturazione non si manifesta come un fenomeno a senso unico, e le novità culturali vengono accolte solo attraverso un filtro, una scelta attiva. La «frontalità» del tempio tuscanico è sottolineata dall’assenza del colonnato posteriore, dall’unico ingresso e dal podio. Tuttavia, queste caratteristiche vanno intese non come costanti indigene, corrispondenti a una struttura «etnica», ma come risultati di condizionamenti non formali, ma determinati dalle funzioni religiose, cultuali.

Tanto l’isolamento dall’area circostante – che si materializza nel podio – quanto l’esistenza di un solo ingresso assiale e la chiusura dell’edificio sugli altri lati rispondono ad esigenze precise della normativa religiosa, che conosciamo dalla tradizione letteraria antica. Secondo Festo (146 L.) «il templum è un luogo designato a mezzo della parola o recintato, in modo da essere aperto da una sola parte e da avere gli angoli inseriti nel terreno». Templum in latino, almeno in origine, non designa l’edificio templare, ma lo spazio ritualmente delimitato dagli auguri, dal quale è stata eliminata qualsiasi presenza «demonica»: solo con una seconda operazione, la «consacrazione» ad opera dei pontefici, l’area potrà essere dedicata a una precisa divinità, e trasformarsi in un «tempio» (aedes): il podio corrisponde al templum, l’edificio soprastante alla aedes. Di conseguenza, il tempio italico sarà sempre costituito da due parti, il

CAPANNA SACELLO TEMPIO I TEMPIO II

29. Satricum, fasi del Tempio di Mater Matuta. podio e il vero e proprio tempio, con funzioni indipendenti, anche se collegate tra loro.

Questa struttura rituale tipicamente italica, inesistente in Grecia, ha radicalmente condizionato il modello greco, che verrà modificato per adattarlo alle esigenze locali.

5.2. Il tempio a Roma: le testimonianze letterarie

L’unica trattazione teorica generale sul tempio italico (tuscanico) si trova in Vitruvio (L’architettura, IV, 7, 1-5) (figg. 27, 35):

Ora tratterò del modo di realizzare l’ordine tuscanico. L’area dove sorgerà il tempio misurerà in lunghezza sei parti, in larghezza una di meno. Si divida la lunghezza in due e la parte più interna sia destinata alle celle, mentre quella sul lato della facciata si lasci alle colonne. Si divida poi la larghezza in dieci parti: di queste tre siano assegnate a destra e a sinistra a ciascuna delle celle minori o agli ambienti diversi da queste, le altre quattro al santuario centrale. Lo spazio del pronao antistante alle celle sia destinato alle colonne, in modo che quelle angolari si trovino di fronte alle ante, all’altezza dei muri esterni, le due mediane in corrispondenza delle pareti tra le ante e la cella centrale. Altre saranno collocate nello spazio compreso tra le ante e le colonne della facciata. E siano in basso dello spessore di 1/7 dell’altezza, mentre l’altezza corrisponderà alla terza parte della larghezza del tempio e il diametro della colonna alla sommità sia ridotto di un quarto. Le loro basi debbono misurare metà del diametro, e debbono avere un plinto circolare alto metà dell’altezza della base; e il toro al di sopra, con l’apofisi, sarà spesso quanto il plinto. L’altezza del capitello sarà pari alla metà del diametro, la larghezza dell’abaco uguale al diametro inferiore della colonna […] Sopra le colonne poggino travi congiunte […] sopra le travi e sopra i muri i mutuli sporgano per la quarta parte dell’altezza della colonna, e sul loro taglio si fissino i rivestimenti decorati, e al di sopra il timpano del frontone, in muratura o in legno, e su di esso la trave maestra, le travi laterali e quelle longitudinali, in modo che la sporgenza corrisponda a un terzo dell’intero tetto.

È da notare che l’autore, vissuto in un momento culturale caratterizzato prevalentemente in sen-

so classicistico, privilegia il tempio greco, mentre confina la trattazione del tempio italico (da lui definito tuscanico) alla fine della trattazione. Questo spiega il carattere eccessivamente schematico della sua descrizione, che mira ad assimilare, nei limiti del possibile, gli edifici italici a quelli greci: condizione indispensabile per una valutazione positiva dei primi. In ogni caso, anche se la realtà delle singole realizzazioni non corrisponde a questo schema quasi in nessun caso, si può affermare tranquillamente che il modello vitruviano è, nei suoi limiti, sostanzialmente corretto, e deriva dall’osservazione reale di un certo numero di edifici, quasi tutti localizzati a Roma.

Le fonti antiche menzionano una serie di culti introdotti nella città dagli ultimi re, i Tarquinii e Servio. In alcuni casi si può pensare a un’operazione di evocatio, cioè di «appropriazione» di divinità tutelari di città o popoli sconfitti, che in un certo senso costituivano anch’esse una parte della preda. L’operazione ci è nota in particolare dall’episodio relativo alla Giunone Regina di Veio che, evocata da Camillo nel corso dell’assedio della città, troverà la sua nuova sede a Roma nel tempio eretto sull’Aventino. Il rito, di sicuro carattere arcaico, non nacque certo così tardi: è probabile che alcuni casi siano da attribuire ancora al VI secolo, come verrebbe da pensare almeno per Mater Matuta, la dea di Satricum: il culto appare a Roma molto presto, e si potrebbe pensare a un’introduzione seguita alla conquista di Pometia (certamente da identificare con Satricum) da parte di Tarquinio il Superbo.

In ogni caso, nel corso del VI secolo a.C. dovettero verificarsi vari episodi analoghi (anche se non necessariamente tramite l’evocatio), che avviarono un processo ininterrotto di «importazione» di culti, continuato, praticamente senza interruzione, fino all’età imperiale.

Naturalmente, si è dubitato della storicità del fenomeno per quanto riguarda il periodo arcaico. Tuttavia, l’indagine archeologica ha dimostrato in molti casi che si tratta di episodi autentici, dei quali non è lecito dubitare in via di principio. Tra l’altro, le notizie di questo tipo erano certamente documentate negli archivi dei pontefici, e sono tra le più sicure tra quante la tradizione antica ci ha trasmesso.

Una verifica sommaria della dislocazione dei culti nell’ambito della città arcaica può prendere per base il confronto fra la disposizione all’interno della città di tutti i culti arcaici attestati dalle fonti letterarie di cui si conosca la posizione precisa e i luoghi di ritrovamento attestati da terrecotte templari.

La serie più numerosa di templi è quella attribuita all’attività di Servio Tullio, grazie soprattutto a una notizia di Plutarco, ripetuta in due opuscoli diversi (Questioni Romane, 74 e La Fortuna dei Romani, 10), certamente tratta da Varrone e, nonostante l’autorità di questa fonte, singolarmente trascurata. Si tratta della lista dei templi o sacelli di Fortuna, realizzati dal penultimo re di Roma: l’introduzione del culto della dea nella prima metà del VI secolo sembra confermata almeno in un caso, quello del Tempio di Fortuna e Mater Matuta del Foro Boario, come dimostra lo scavo dell’«area sacra» di S. Omobono, sul quale torneremo più avanti.

La lista di Plutarco (Varrone), che indica in greco gli appellativi della dea, di cui talvolta non è facile identificare il corrispondente latino, come spesso anche la localizzazione dei relativi luoghi di culto, è la seguente:

1. Fortuna Brevis (Mikrà); 2. Fortuna Felix? (Euelpis): nel vicus Longus; 3. Fortuna Redux (Apotropaios): nel Foro Boario; 4. Fortuna Obsequens (Meilichia): sul Celio; 5. Fortuna Primigenia (Protogeneia): sul

Campidoglio; 6. Fortuna Virilis (Arren): nella vallis Murcia; 7. Fortuna Privata (Idia): sul Palatino; 8. Fortuna Respiciens (Epistrephomene): sul

Palatino; 9. Fortuna Virgo (Parthenos): sull’Esquilino? 10. Fortuna Viscatrix (Ixeutria): sul Celio.

La reale esistenza di alcuni di questi culti è dimostrata: oltre alla Fortuna Redux (a mio avviso certamente quella del Foro Boario, collegata con il trionfo), va citata almeno la Respiciens, a cui dovrebbe appartenere il frontone fittile di via S. Gregorio (pertinente a un restauro del II secolo a.C.) e che si può collocare – anche per la presenza sul Palatino di un vicus Fortunae Respicientis – nella zona orientale della collina. Accertato è anche il culto capitolino di Fortuna Primigenia (evocatio da Palestrina?) e quello di Fortuna Virilis nella Valle Murcia, alle pendici dell’Aventino verso il Circo Massimo.

A questa lista, della cui storicità a mio avviso non è lecito dubitare, si devono aggiungere il culto di Fors Fortuna al primo miglio della via Campana, i templi di Diana e forse di Luna sull’Aventino, di Libitina e forse di Giunone Lucina sull’Esquilino, anch’essi attribuiti, da altre fonti, a Servio Tullio: collocando su una pianta (fig. 30) tutte le indicazioni relative,

VIA AURELIA

VIA PORTUENSE V IA FLAMINIA SALARIA NOMENTANA

VIA TIBURTINA

PRAENESTINA

LAURENTINA V IA A PPIA VIA ARDEATINA VIA TUSCULANA LABICANA

VIA LATINA 30. Roma, pianta schematica della città antica, con la posizione dei templi di Fortuna e degli altri culti serviani: 1. Fortuna e Mater Matuta; 2. Fortuna Primigenia; 3. Fortuna Respiciens; 4. Fortuna Virgo (?); 5. Fortuna Euelpis (Tutela?); 6. Fortuna Virilis; 7. Fortuna Viscatrix; 8. Fortuna Obsequens; 9. Fortuna Privata?; 10. Fortuna Barbata; 11. Fors Fortuna; 12. Libitina; 13. Diana; 14. Luna.

ci accorgiamo che i culti «serviani» appaiono ovunque, all’interno e immediatamente all’esterno delle mura arcaiche: Palatino, Campidoglio, Foro Boario, Esquilino, Celio, Quirinale, Aventino. In un certo senso, la distribuzione dei santuari della dea cara a Servio sembra quasi destinata a sacralizzare sistematicamente l’intera area della «città serviana».

Nel caso dei Tarquinii, l’attività di fondazione di nuovi culti, se non più ridotta, sembra concentrata soprattutto nel settore centrale della città. A parte la gigantesca impresa del Tempio di Giove Capitolino, si possono attribuire ad essi i culti di Semo Sancus sul Quirinale (evocazione a seguito di una vittoria sabina?), l’inizio dei lavori del Tempio di Saturno (terminati all’inizio della Repubblica) e forse l’introduzione del culto di Mater Matuta (evocazione da Pometia-Satricum?), del culto di Ercole all’Ara Maxima e di quello di Marte nel Campo Marzio.

5.3. Il Tempio di Giove Capitolino

Ogni studio sulla Roma dei Tarquinii non può evitare di confrontarsi con il tema centrale e spinoso del Tempio di Giove Capitolino, tema che riveste un ruolo decisivo per la conferma (o per la confutazione) del quadro trasmessoci dalle fonti antiche.

Per questo la critica moderna è tornata periodicamente sull’argomento, spesso negando il carattere eccezionale di questo edificio: negazione che, in presenza di dati archeologici che lo confermano in pieno, ha dovuto negare la datazione dei resti conservati, e attribuirli a un’epoca più recente, in genere al IV secolo a.C. Una soluzione di compromesso è quella che propone di interpretare l’enorme struttura conservata come un semplice podio, destinato (come nel caso di S. Omobono) a sostenere un edificio assai più piccolo. Ancora più di recente si è affermato che templi peripteri sine postico non esisterebbero prima del IV secolo: è stato facile obiettare che in realtà ne conosciamo almeno un esempio, la prima fase di quello di Satricum (fig. 29), databile al pieno VI secolo.

Prima di affrontare l’esame dei dati archeologici, è opportuno riassumere le informazioni che ci provengono dalla tradizione antica.

Si afferma in genere, per contestarne l’attendibilità, che in questa sia presente una contraddizione interna, e cioè l’attribuzione dell’opera all’uno e all’al-

tro Tarquinio. In realtà, almeno in termini formali, tale contraddizione non esiste: le fonti migliori infatti collegano il voto del tempio, la designazione dell’area e l’inizio dei lavori a Tarquinio Prisco, in seguito alla sua vittoria sui Sabini, mentre il loro completamento sarebbe dovuto a Tarquinio il Superbo, che vi avrebbe impiegato la ricca preda ricavata dalla conquista di Suessa Pometia (Satricum). Dopo tutto, le dimensioni dell’opera dovettero richiedere lavori prolungati nel tempo, valutabili in un cinquantennio. Particolarmente significativo è il testo di Livio, che descrive le modalità della costruzione (I, 56, 1): «[Tarquinio], impegnato nella costruzione del tempio, dopo aver chiamato artefici da ogni parte dell’Etruria, non utilizzò a questo scopo solo denaro pubblico, ma anche il lavoro della plebe». L’utilizzazione delle corvées per la realizzazione di grandi opere pubbliche è ricordata anche in altri casi coevi, la costruzione del Circo e delle cloache. Ora, tale dettaglio corrisponde perfettamente alle condizioni sociali ed economiche di una città arcaica, e difficilmente potrebbe essere inventato: Cicerone del resto nota che tale uso di manodopera gratuita permise di limitare al massimo il costo dell’operazione (Contro Verre, 2, II, 19, 48). Del tutto verosimile è anche il ricordo dell’operazione di exauguratio (espulsione rituale) dei culti già presenti in loco, per liberare l’enorme superficie indispensabile al nuovo edificio, operazione alla quale si sottrassero solo gli inamovibili sacelli di Terminus e Iuventas (e forse anche di Marte): la realtà di tale operazione è dimostrata dal fatto che questi culti antichissimi erano in seguito ancora conservati all’interno dell’edificio.

L’accenno di Livio ai fabri convocati da tutta l’Etruria per collaborare ai lavori è completato da altre testimonianze: fondamentale quella di Plinio (Storia Naturale, XXXV, 157): «Da Veio venne chiamato Vulca, a cui Tarquinio Prisco affidò la realizzazione del simulacro di Giove per il tempio del Campidoglio che era di terracotta, e periodicamente veniva dipinto col minio; per lo stesso tempio venne eseguita la quadriga di terracotta, che si trovava alla sommità del frontone». Certamente alla stessa bottega era stata affidata la realizzazione della grande figura di Summanus (divinità solare, raffigurata con torso umano e code serpentine), anch’essa di terracotta, collocata nel frontone, che venne colpita dal fulmine nel 275 a.C. Con la stessa tecnica Vulca aveva plasmato anche un’immagine di Ercole, che doveva trovarsi nel santuario dedicato al dio nel Foro Boario: è molto probabile infatti che l’introduzione del culto a Roma, chiaramente tramite l’Etruria, si debba agli stessi Tarquinii, che potrebbero averlo introdotto da Corinto (da dove proveniva, secondo la tradizione antica, il fondatore della dinastia, Demarato).

Una narrazione mitica, certamente molto antica, riporta un interessante episodio relativo alla realizzazione di queste opere. La quadriga di terracotta destinata al tempio, al momento della sua produzione nella stessa Veio (come ricorda Festo, 340 L. che, senza nominarlo, accenna a Vulca definendolo «un certo maestro dell’arte della terracotta»), invece di ridursi durante la cottura, come sarebbe stato normale, cominciò a gonfiarsi fino ad occupare l’intera fornace. Gli aruspici etruschi interpretarono il prodigio nel senso che al possessore dell’opera sarebbe

31. Sostruzioni del Tempio di Giove Capitolino, rilievo grafico. 32. Tempio di Giove Capitolino, sezione trasversale (da Cifani). 33. Tempio di Giove Capitolino, pianta ricostruttiva (da Cifani). 34. Denario di Petilius Capitolinus con il Tempio di Giove. 35. Piante dei principali templi arcaici dell’area tirrenica (da Cifani). Alle pagine seguenti: 36-37. Veio, Tempio di Portonaccio: frammento di acroterio di terracotta con testa di Mercurio; acroterio di terracotta raffigurante Apollo (Roma, Museo di Villa Giulia).

50m s.l.m.

45

40

Fondazione tempio: parte conservata Fondazione tempio: parte ricostruita Riempimento argilloso Banco argilloso Banco di tufo

0 5 10 20 30 m

ARA DELLA REGINA TARQUINIA

TEMPIO CAPITOLINO SECONDO MURA SOMMELLA TEMPIO CAPITOLINO SECONDO CIFANI

TEMPIO B PYRGI SATRICUM III VULCI MARZABOTTO

TEMPIO DI PORTONACCIO VEIO VIGNA PARROCCHIALE CAERE TEMPIO DEI DIOSCURI ROMA TEMPIO A PYRGI

TEMPIO DELLA NOCE ARDEA TEMPIO DEL BELVEDERE ORVIETO 0 5 10 20 30 metri

TEMPIO DI APOLLO ROMA 0 1 5 10 20 30 metri

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