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1. IL QUADRO STORICO
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book

149-150. Vulci, Tomba François: Achille sacrifica i prigionieri troiani (Roma, Villa Albani); schema compositivo della scena precedente. disposte più avanti, ai due lati delle «ali», presentano un’analoga corrispondenza: a sinistra vediamo una scena del mito tebano, l’uccisione reciproca di Eteocle e Polinice, a destra, l’uccisione di un «Gneo Tarquinio il Romano» da parte di un personaggio dal nome di Marce Camitlnas. Ciò permette immediatamente di afferrare il senso di tale corrispondenza: il «mito» (a sinistra) corrisponde all’avvenimento «storico», a destra.
È questa la chiave che permette di interpretare le due scene principali, collocate sulle pareti del «tablino»: a sinistra, il sacrificio dei prigionieri troiani sulla tomba di Patroclo da parte di Achille (scena finale dell’Iliade); a destra, il massacro di una serie di persone, ognuna indicata con il nome, tra le quali ne emergono tre: i fratelli vulcenti Aulo e Celio Vibenna, quest’ultimo mentre viene liberato dai legami da Mastarna. L’uccisione di «Gneo Tarquinio il Romano», che si trova nell’ala destra, costituisce certamente la conclusione di questa scena.
Si tratta di un episodio della storia arcaica di Vulci, che resterebbe inspiegabile, se non possedessimo la versione che ce ne ha lasciato l’imperatore Claudio. Questi, nel suo discorso in senato per la concessione della cittadinanza romana ai Galli della Gallia Comata, che possiamo leggere nella copia trascritta sulla tavola bronzea di Lione, narra quanto segue (CIL, XIII, 1668):

Ad Anco Marcio successe Tarquinio Prisco […] che emigrò a Roma e ne ottenne il regno. Anche tra lui e il figlio o nipote (perché anche su questo gli storici non si accordano) si inserisce uno straniero, Servio Tullio che, secondo le nostre fonti, era figlio di Ocresia, una prigioniera di guerra, mentre secondo le fonti etrusche era stato all’inizio amico fedelissimo di Celio Vibenna e lo aveva seguito in ogni avventura; in seguito, sospinto dai casi della Fortuna, era partito dall’Etruria con i resti dell’esercito di Celio e aveva occupato il monte Celio, così chiamato dal nome del suo capo di una volta. Cambiato allora il suo nome, che in etrusco era Mastarna, fu chiamato come ho detto [Servio Tullio] e ottenne il regno con grande vantaggio dello Stato.
Come è facile capire, l’imperatore Claudio, sposato con una donna di origini etrusche e autore di una storia dell’Etruria, sta menzionando la versione etrusca della vicenda di Servio Tullio: proprio quella illustrata nella Tomba François, in una redazione più ampia, che vede l’uccisione di Tarquinio il Romano (probabilmente Tarquinio Prisco) da parte di una coalizione che comprende anche Aulo e Celio Vibenna. Si tratta, in definitiva, dell’illustrazione di una vittoria dei Vulcenti sui Romani, avvenuta in età arcaica.
A questo punto, non è difficile comprendere il significato della scena mitica, l’uccisione dei prigionieri troiani, in cui si rispecchia l’episodio storico: dal momento che i Romani sono Troiani e i Vulcenti si identificano evidentemente con i Greci, troviamo qui una ripetizione, ambientata nel tempo mitistorico, della vittoria dei Vulcenti sui Romani.
Infine, la rappresentazione di Vel Saties (fig. 151), il committente dell’opera, permette di comprendere il motivo iniziale cui dobbiamo la rea-

151. Vulci, Tomba François: Vel Saties, capo dell’esercito vulcente.
lizzazione dell’insieme: egli infatti è rappresentato in un abito dipinto con scene di combattimento (l’equivalente della toga picta romana, l’abito del trionfatore) e coronato di alloro, mentre osserva un uomo accovacciato, con un uccello legato a uno spago, che sta per essere liberato: probabile rappresentazione di una consultazione augurale, analoga a quella celebrata dai generali romani, che prima della battaglia prendevano gli auspici utilizzando dei polli in gabbia. In altri termini, Vel Saties ha celebrato un trionfo in seguito a una vittoria sui Romani: Vulci dovette infatti partecipare alle guerre, spesso vittoriose, che opposero gli Etruschi ai Romani negli anni centrali del IV secolo.
In conclusione, nella tomba è rappresentato per tre volte, in un certo senso, lo stesso evento: tre fatti di epoche diverse (la guerra di Troia, gli scontri tra gli eroi vulcenti e i Tarquinii di Roma, infine la vittoria sui Romani da parte di un esercito guidato da un generale vulcente) sono posti in parallelo, a significare il ripetersi puntuale e inesorabile dello stesso avvenimento. È da notare inoltre che, caratteristicamente, l’episodio contemporaneo che si voleva commemorare, che è all’origine di tutta l’operazione, è rappresentato non in modo esplicito, narrativo, ma solo allusivamente, compendiando in un unico quadro l’antefatto e la conclusione dell’avvenimento: Vel Saties, capo dell’esercito vulcente, prende gli auspici prima della battaglia, ma allo stesso tempo è già vittorioso, come dimostra il suo abbigliamento. Anche in questo, che costituisce l’unico esempio conservato di narrazione «storica» nella pittura etrusca, ci troviamo davanti a una concezione del tempo non lineare, opposta a quella che caratterizza l’arte romana contemporanea.
Questa visione ciclica della storia (nota anche in Grecia) si presenta però qui nella forma più completa e coerente: sarebbe difficile non riconoscervi quella che, per gli autori antichi, era la tipica visione che gli stessi Etruschi avevano della loro storia, cioè lo svolgersi successivo di una serie di saecula, in cui tornavano a ripetersi, circolarmente, gli stessi eventi. L’ultimo di questi saecula avrebbe segnato la fine definitiva della stirpe etrusca.
8. LE TOMBE GENTILIZIE
8.1. Il sepolcro degli Scipioni
L’unico monumento sepolcrale di una grande famiglia senatoria dell’età repubblicana pervenuto fino a noi è il sepolcro degli Scipioni. Tre autori antichi ce ne hanno lasciato notizia:
Cicerone, Tusculane, I, 7, 13: «Se, uscendo dalla Porta Capena, vedi i sepolcri di Calatino, degli Scipioni, dei Servilii, dei Metelli, forse tu li ritieni infelici?».
Livio, XXXVIII, 56: «Nel sepolcro degli Scipioni a Roma, fuori di Porta Capena, vi sono tre statue, due delle quali si dice che siano di P. Scipione [Africano] e di L. Scipione [Asiageno], mentre la terza è del poeta Ennio».
Svetonio, in Gerolamo, Cronaca, p. 25 Reiff.: «Il poeta Ennio morì di gotta a più di settant’anni ed è sepolto nella tomba degli Scipioni, che si trova a meno di un miglio da Roma».
La tomba non viene localizzata lungo una via pubblica: si dice solo che era fuori della Porta Capena, prima del primo miglio. In effetti, essa si trova tra la via Appia e la via Latina, su un diverticolo trasversale, poco prima della Porta S. Sebastiano.
La prima scoperta risale al 1614: fu allora recuperata l’iscrizione del figlio di Scipione Barbato e due ritratti ellenistici (rimasti a lungo nelle collezioni Barberini e ora rispettivamente a Monaco e a Copenaghen) nei quali recentemente sono stati identificati i ritratti di Scipione Africano e di Scipione Asiageno, menzionati da Livio.
Dopo questa prima scoperta, presto dimenticata, la tomba riapparve nel 1780, nella vigna dei fratelli Sassi, e suscitò grande scalpore, ispirando tra l’altro un’opera romanzesca del milanese Alessandro Verri (Le notti romane al sepolcro de’ Scipioni):
Suonò per la città una voce mirabile che si fossero allora scoperte le tombe de’ Scipioni […] Un villereccio abituro sorge sulle tombe Scipioniche, alle quali conduce uno speco sotterraneo simile a covile di fiere. Per quella scoscesa alquanto ed angusta via giunsi agli avelli della stirpe valorosa […] Vidi confuse con le zolle e con le pietre biancheggiare le ossa illustri al lume della face […].
Le iscrizioni e il sarcofago di Scipione Barbato furono trasportate nei Musei Vaticani, dove si trovano tuttora.
Nel 1926 fu completato lo scavo e restaurato il monumento, eliminando i setti in muratura costruiti dai primi scopritori per rinforzare le volte crollanti. Furono inoltre collocate nei luoghi originari le copie del sarcofago e delle iscrizioni. A seguito di questi interventi il luogo appare oggi in una forma assai più vicina a quella originaria.
Il sepolcro (fig. 152) si trova in prossimità della via Appia, con la fronte rivolta a nord-ovest: la facciata, di cui è conservato solo un piccolo tratto sulla destra, era costituita da un grande ordine di semicolonne, poggiante su un podio, su cui restano ancora resti di pitture sovrapposte su vari strati. Si tratta di un intervento realizzato più di un secolo dopo l’apertura della tomba, intorno al 150 a.C., probabilmente dovuto a Scipione Emiliano: le statue di Scipione Africano, Scipione Asiageno ed Ennio,
di cui si è detto, vennero allora inserite in tre nicchie che si aprivano nella fronte monumentale.
Delle pitture che ricoprivano il lungo zoccolo della facciata (fig. 154) si conservano solo scarsi frustuli. È possibile riconoscere che si tratta di numerosi strati sovrapposti, di qualità molto diversa, che in un caso almeno appare molto modesta, vicina a quella del «Sepolcro Arieti».
Le pitture, secondo una ragionevole ipotesi, dovevano essere rinnovate ogni volta che nella tomba veniva deposto un vir triumphalis, un personaggio che in vita aveva ottenuto il trionfo: esse dovevano riprodurre i quadri con le imprese del defunto, esposti durante la processione trionfale. Tutto ciò contribuisce a spiegarne il carattere «corsivo» e qualitativamente modesto: si trattava infatti di opere effimere, destinate a durare per un breve lasso di tempo.
Il sepolcro vero e proprio è scavato in un banco di tufo tenero (cappellaccio). La pianta è di forma all’incirca quadrata, con quattro grandi pilastri che delimitano altrettante gallerie, nelle quali furono sistemati i sarcofagi. Un secondo, più tardo ipogeo venne aggiunto in seguito, aprendo un’altra galleria sulla destra del nucleo primitivo.
L’uso esclusivo dell’inumazione conferma la notizia secondo la quale la gens Cornelia avrebbe conservato fino a Silla questo rituale primitivo, in un periodo caratterizzato quasi esclusivamente dall’incinerazione.
La deposizione più antica, forse quella del fondatore stesso del sepolcro, si trovava in posizione enfatica, sul fondo del corridoio centrale, di fronte all’ingresso. Si tratta di un grande sarcofago di peperino a forma di altare (fig. 153), decorato con un ricco fregio dorico a rosette, sormontato da una fascia a dentelli e da un coperchio con grandi volute laterali. Due iscrizioni indicano il nome del sepolto (come negli altri casi): la prima, più antica, è dipinta in grandi lettere rosse sul coperchio, e attesta che si trattava di un Lucio Cornelio Scipione, figlio di Gneo. L’iscrizione attualmente visibile sulla cassa è stata chiaramente aggiunta in un secondo tempo, sostituendone una più antica, volutamente erasa. Si tratta di quattro versi saturni, che ricordano le imprese del personaggio: «Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, la cui bellezza fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi (Romani). Conquistò Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne trasse ostaggi».
Si tratta quindi di Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298, impegnato con alterne vicende nella terza guerra sannitica. La tomba dovette essere realizzata per questo personaggio nei primi decenni del III secolo a.C. e ospitò in seguito una trentina di sarcofagi destinati ai suoi discendenti (a questi si devono aggiungere le cinque o sei deposizioni della tomba più recente). Di questi sarcofagi, sono conservati i resti di dieci, muniti di iscrizioni, ma non decorati, appartenenti a membri della famiglia vissuti tra la metà del III e gli ultimi decenni del II secolo a.C.

0 1 2 3 4 5 metri muri moderni
opera listata opera laterizia
roccia
152. Roma, sepolcro degli Scipioni: in basso, pianta; in alto, ricostruzione grafica della facciata. 153. Sarcofago di Scipione Barbato, dal sepolcro degli Scipioni (Roma, Musei Vaticani).
Il sarcofago di Scipione Barbato deriva da un tipo di altare, diffuso in Magna Grecia e in Sicilia nel IV secolo a.C.: il fondatore della tomba venne quindi sepolto con particolare solennità, in un contenitore a forma di ara, ciò che implica una sua «eroizzazione», anche se di carattere privato: è probabile quindi che su di esso si celebrassero solennemente i sacrifici anniversari (parentationes). Si tratta di un monumento eccezionale, nel quadro di una tomba caratterizzata da grande semplicità e rigore, sulla linea dell’austerità programmatica dei sepolcri diffusi a Roma e nel Lazio a partire dal periodo arcaico. L’importazione diretta di un modello di altare greco, che implica una connotazione eroica del sepolto, che riporta direttamente all’ideologia politico-religiosa dei successori di Alessandro, costituisce una novità nella Roma di questi anni, parallela all’apparizione di un culto della Vittoria, anch’esso di origine ellenistica e dinastica, che osserviamo in vari settori della produzione artistica romana, dai templi dedicati a divinità «vittoriose» alla prima monetazione d’argento. Nell’elogio di Barbato sono indicati valori etici, che non sono più solo quelli tradizionali: la bellezza fisica (forma) equiparata al valore (virtus) è precisamente la kalokagathia greca, per la prima volta attribuita a un personaggio dell’aristocrazia romana.
La localizzazione presso la via Appia del monumento non sembra priva di significato: la strada era stata aperta solo da pochi anni, ad opera del celebre censore del 312, Appio Claudio Cieco (la prima personalità di cultura greca che ci è possibile identificare con sicurezza nel periodo repubblicano): è nota la funzione ideologica della via, che mirava ad impegnare lo Stato in una politica di espansione verso la Magna Grecia. In questo senso, la scelta di questo luogo come sede del proprio sepolcro da parte di una famiglia come quella degli Scipioni, vicina ai modelli culturali e alle scelte politiche di Appio Claudio, difficilmente sarà stata casuale.
L’evidente derivazione da modelli greci del sarcofago si spiega anch’essa con le tendenze ellenizzanti, tipiche anche in seguito della famiglia: basterà per questo ricordare il grande nipote di Scipione Barbato, l’Africano: la gloria di quest’ultimo viene infatti celebrata da Cicerone nella parte finale della Repubblica, il celebre Sogno di Scipione, dove egli appare a Scipione Emiliano, eroizzato in cielo tra le costellazioni.
L’elogio, come si è detto, venne aggiunto in seguito, intorno al 200 a.C.: quindi quasi certamente dallo stesso Scipione Africano. Si tratta probabilmente di uno stralcio dell’elogio funebre di Barbato, conservato negli archivi di famiglia.
La migliore illustrazione degli usi funerari dell’aristocrazia romana, ancora correnti alla metà del II secolo a.C., e delle loro profonde motivazioni ideologiche si trova nell’opera di uno storico greco strettamente legato agli Scipioni, Polibio (VI, 53-54):