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2. I PRINCIPI DEL LAZIO

38. Ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino.

spettata l’egemonia sull’Italia. Di qui il rifiuto da parte dei Veienti di consegnarla ai Romani, che solo con grandi difficoltà riuscirono a recuperarla.

La verosimiglianza di questa tradizione è stata confermata dalla scoperta, nel Santuario veiente di Minerva, dei grandi acroteri fittili (figg. 36-37) che rappresentavano, tra l’altro, la lotta tra Apollo ed Ercole per il possesso della cerva cerinite: eccezionali opere della fine del VI secolo a.C., attribuite a Vulca al momento della scoperta che, anche se l’identificazione non è sicura, dimostrano comunque l’eccellenza dei coroplasti della città nel periodo contemporaneo all’ultimo dei Tarquinii.

Una precisa descrizione del tempio, nella sua ricostruzione successiva all’incendio dell’83 a.C. (che ne conservò comunque le dimensioni originarie) si trova in un autore di età augustea, Dionigi di Alicarnasso (III, 69, 1-2) (figg. 32-34, 38): «Fu costruito su un podio di quasi otto plettri di perimetro (800 piedi), con lati di quasi duecento piedi: si riscontra una piccola differenza di meno di 15 piedi tra lunghezza e larghezza». Vitruvio (L’architettura, III, 3, 5) ricorda la disposizione «areostila» del colonnato, cioè con intercolumni amplissimi, tipica dei templi tuscanici.

I grandiosi resti dell’edificio, noti da tempo, sono stati recuperati di recente, per la nuova sistemazione dei Musei Capitolini. Questo ha permesso di riprenderne lo studio, con risultati di notevole importanza.

Lo scavo (condotto tra il 1998 e il 2000) ha permesso di liberare in gran parte l’impressionante sostruzione in blocchi di cappellaccio, che ora è interamente visibile nella grande sala del Marco Aurelio (figg. 31, 39).

La datazione dell’edificio si deduce già dall’utilizzazione del cappellaccio, in blocchi di un piede di altezza accuratamente lavorati e connessi, del tutto

39. Sostruzione del Tempio di Giove Capitolino.

analoghi a quelli della prima fase delle Mura Serviane: l’uso di questo tipo di materiale, soprattutto con tali caratteristiche e in tale quantità, non è immaginabile a Roma dopo il periodo arcaico. In ogni caso, lo scavo ha permesso di risolvere in modo definitivo il discusso problema della cronologia.

L’area era occupata in precedenza da un abitato del Medio Bronzo (XVII-XIV secolo a.C.), di cui già prima erano apparse tracce al margine del colle (nell’«area sacra» di S. Omobono), la cui vita si prolunga fin verso la metà del VI secolo, quando verrà eliminato per la messa in opera dell’enorme cantiere del tempio. I lavori relativi sembrano prolungarsi fino alla fine del VI secolo a.C., ciò che conferma in pieno la tradizione antica.

Per quanto riguarda le dimensioni, è confermata nell’insieme la ricostruzione di E. Gjerstad e l’attendibilità delle misure fornite da Dionigi di Alicarnasso, anche se esse ovviamente appaiono arrotondate. Il podio misura 62 metri circa di lunghezza per 53 di larghezza, pari a 210 × 180 piedi di 29,7 cm, con un rapporto di 7 a 6 tra le due dimensioni. Il perimetro è di circa 230 metri e la superficie coperta di 3286 mq (figg. 32-33): si tratta senza alcun dubbio del più imponente tempio tuscanico mai realizzato, comparabile per dimensioni solo alle più grandi realizzazioni greche della Ionia e della Sicilia.

La struttura comporta un muro perimetrale spesso 6,9 metri e quattro muri longitudinali, spessi 3,8, tagliati da due trasversali di 4,5. Sul podio (alto 4,5 m) sorgeva nella parte anteriore un triplice colonnato, mentre la parte posteriore era occupata dalle tre celle, destinate a Giove (la centrale), a Giunone (quella di destra) e a Minerva (quella di sinistra).

Le difficoltà principali della ricostruzione riguardano l’alzato: in particolare, le trabeazioni, di lunghezza che a molti è sembrata eccessiva: le colonne, certamente di tufo, del diametro di circa 2,10 m, presentavano un interasse laterale di 8,40-8,88 m, che raggiungeva i 12,68 al centro. La distanza tra le tre file di colonne era di circa 6,75. In ogni caso, è escluso l’uso della pietra per gli epistili, e si deve pensare a doppie travi di abete affiancate: lunghezze simili si ritrovano in templi greci arcaici e nelle coperture delle basiliche. Travi ben più lunghe, di 100 e 120 piedi, presenti a Roma, sono ricordate da Plinio. I colonnati, come si è visto, si prolungavano sui due lati, lungo le celle, prefigurando un tipo molto diffuso più tardi, designato da Vitruvio come peripteros sine postico.

Altro problema cruciale è quello della copertura, che può ricostruirsi a due o a tre falde. Forse la soluzione più probabile è la seconda (utilizzata in templi molto antichi, come quello di Thermos in Grecia), con un solo frontone, quello anteriore: in esso si trovava l’immagine di Summanus, divinità solare, le cui code serpentine si adattavano perfettamente allo spazio triangolare disponibile; al di sopra, la quadriga di terracotta, sostituita all’inizio del III secolo a.C. da una di bronzo.

La realizzazione di un simile colosso, che dominava dall’alto del Campidoglio il sottostante Foro, è di per sé sufficiente a confermare le notevoli disponibilità economiche della città, e soprattutto il suo potere, preminente all’interno della Lega Latina, che si estendeva fino ai limiti meridionali del Lazio costiero: lo attesta il più antico trattato romano-cartaginese, databile secondo Polibio al primo anno della Repubblica, ma che doveva rinnovarne uno precedente, stipulato ancora in età regia.

La tradizione annalistica attribuisce al primo anno della Repubblica anche la dedica del tempio, dovuta al console Orazio Pulvillo, il cui nome, iscritto sull’edificio, si poteva ancora leggere prima dell’incendio dell’83 a.C. In realtà, sembra più probabile che i lavori si fossero già conclusi prima della caduta dei Tarquinii, e che l’edificio, monumento principale del culto politico a Roma, avesse richiesto una nuova inaugurazione, destinata a obliterare la memoria del tiranno.

La conferma dei dati tradizionali che si ricava dalle nuove indagini, tanto nel caso del principale tempio della città, quanto nel caso della prima cinta muraria, che include l’enorme superficie di 426 ettari, dovrebbe ormai scoraggiare i tentativi, senza posa reiterati, di confutare totalmente le notizie antiche su Roma arcaica, nella quale si continua a riconoscere – nel migliore dei casi – solo un piccolo centro provinciale, soggetto all’egemonia di questa o quella metropoli etrusca. Non si tratta più solo di tarde e incerte tradizioni annalistiche, viziate da visioni ideologiche e condizionate dal successivo sviluppo della Roma imperiale: anche se le vicende della città in età regia continueranno in gran parte a sfuggirci, dovrebbe almeno essere chiara la sua rilevanza nella storia complessiva dell’Italia tirrenica, in cui essa dovette comunque esercitare un ruolo non marginale.

6. LA REGIA DI ROMA E LE «REGGE» ETRUSCHE

Un dogma indiscusso fino ad anni recenti (e del resto ancora accettato da alcuni) è che l’uso delle terrecotte architettoniche con fregi e figurazioni a rilievo fosse riservato solo alla decorazione dei templi. Per questo la Regia di Roma (fig. 40, in alto), la cui funzione originaria di «abitazione del re» dovrebbe essere pacifica, in ragione dello stesso nome, è stata in un primo tempo identificata con un santuario: in effetti, gli scavi che ne hanno a più riprese esplorato i resti, situati ai limiti orientali del Foro, hanno rivelato che fin dalle fasi più antiche l’edificio comportava una ricca decorazione di terrecotte a rilievo e dipinte. Studi più approfonditi, e soprattutto la scoperta in Etruria meridionale e nello stesso Lazio di edifici analoghi, nei quali è impossibile riconoscere luoghi di culto, ha obbligato a modificare tale opinione. Le scoperte più significative a riguardo sono quelle di Murlo (Poggio Civitate, presso Siena), nell’Etruria settentrionale, e di Acquarossa (vicino Viterbo), in Etruria meridionale.

Il palazzo di Murlo (fig. 40, al centro), isolato in una zona non urbanizzata e certamente sede di un principe etrusco, presenta due fasi, una del periodo orientalizzante (metà del VII secolo) e una arcaica (intorno al 580): solo di quest’ultima è possibile ricostruire una pianta completa, che riprende comunque, più in grande, quella dell’edificio precedente. Si tratta di un edificio quadrato, di circa 60 metri di lato, con un grande cortile centrale, intorno al quale si dispone una serie di ambienti: i settori più importanti sono quello di nord-ovest (un gruppo di tre stanze, di cui la centrale identificabile con un sacello del culto gentilizio) e quello di sud-ovest (una struttura analoga, con al centro la sala destinata ai banchetti). Una serie di statue fittili a tre quarti del vero (fig. 41) era collocata, a mo’ di acroteri, sul tetto della zona nord, in connessione con la parte cerimoniale del palazzo. Si tratta certamente di rappresentazioni di antenati eroizzati.

La presenza di sime rampanti dimostra che le sale cerimoniali possedevano frontoni, e sono quindi assimilabili a edifici di culto. Lastre figurate formavano fregi continui (figg. 25-26), con rappresentazione di concili di divinità, corse di cavalli, banchetti e cortei

0 10 20 30 m 0 2 4 6 8 10 m 40. A sinistra: Roma, pianta della Regia. Al centro, palazzo di Murlo: pianta. A destra, palazzo di Acquarossa («zona F»): pianta.

nuziali. È agevole riconoscere nell’insieme di questo apparato decorativo, realizzato sul posto e ispirato a modelli corinzi e della Grecia orientale, una messa in scena delle attività e dei valori gentilizi, in una fase in cui il potere era ancora prerogativa di gruppi aristocratici. La scomparsa dell’edificio negli ultimi decenni del VI secolo si spiega con la crisi di questo modello arcaico e con la nascita della città, che nell’Etruria settentrionale avviene con netto ritardo rispetto alle aree più meridionali dell’Etruria e del Lazio.

Il caso di Acquarossa (nell’attuale provincia di Viterbo) appare diverso (fig. 40, in basso): anche qui si tratta di un palazzo, ma non isolato, bensì collocato all’interno di un’ampia area di circa 80 ettari, urbanizzata già a partire dalla metà del VII secolo a.C., ma per breve durata: alla metà del VI, infatti, il sito viene abbandonato, per essere sostituito dal vicino abitato di Ferento.

Il complesso è organizzato anche in questo caso intorno a una corte, su cui si affacciano ad angolo retto due ali principali: una di queste, a est, è costituita (come a Murlo) da tre ambienti comunicanti tra loro, dei quali il centrale, più grande, va probabilmente identificato con una sala da banchetto. L’altra ala, dotata di frontone, sembra destinata ad attività cultuali, certamente di carattere gentilizio.

Le terrecotte figurate (datate intorno al 530 a.C.) comprendono antefisse e fregi, questi ultimi collocati principalmente sulla copertura della sala da banchetto: processioni di carri con fanti e cavalieri armati, scene di banchetto e di danza orgiastica (komos) (fig. 43). È interessante la presenza, nei rilievi con corteo (chiaramente di carattere militare e «trionfale») di soggetti mitici, del tutto assenti a Murlo: si tratta di due delle «fatiche di Ercole», il leone Nemeo e il toro Cretese. Se ne può dedurre che, come nella Roma contemporanea, anche ad Acquarossa l’introduzione del mito greco, in particolare di quello di Eracle, sia funzionale a forme di eroizzazione o divinizzazione del sovrano. Di conseguenza, le caratteristiche cultuali di questi edifici non configurano templi di carattere pubblico, ma sono piuttosto la risposta alle

41. Poggio Civitate (Murlo), statua acroteriale in terracotta.

A fronte: 42. Lastra in terracotta con felini e Minotauro, dalla Regia (Antiquarium del Foro Romano). 43. Acquarossa, lastra architettonica in terracotta con scena di danza (Museo di Viterbo).

esigenze ideologiche e di potere di un ceto aristocratico, nel momento in cui da questo vanno emergendo figure di «principi» e di «tiranni» analoghe a quelle che conosciamo a Roma nello stesso periodo.

I modelli architettonici in questi due esempi sembrano desunti dalle regge del Vicino Oriente, mediate dalla cultura greca della Ionia, come si desume dalle caratteristiche stilistiche delle terrecotte ornamentali.

La scoperta di questi complessi palaziali in Etruria, in contesti antecedenti o contemporanei alla formazione delle città, permette di comprendere meglio la situazione di Roma, dove lo scavo della Regia e degli edifici connessi ha rivelato situazioni sostanzialmente analoghe. Anche in questo caso, le strutture, esplorate in vari momenti, sono state in un primo tempo interpretate come templi, esclusivamente per la presenza di terrecotte architettoniche, anche se il loro aspetto non corrispondeva in alcun modo a edifici di culto.

L’interpretazione come dimora regale appare oggi accertata, non solo in base alle forme dell’edificio, del tutto analoghe a quelle dei «palazzi» etruschi, ma anche per la testimonianza delle fonti antiche, che vi riconoscono l’abitazione primitiva dei re e in seguito quella del «re sacro» (rex sacrorum) repubblicano, che dei monarchi precedenti eredita le funzioni sacrali. Ritrovamenti eccezionali, come la coppa di bucchero degli ultimi decenni del VI secolo a.C., con la scritta REX (fig. 44), contribuiscono a confermare tale interpretazione.

Come le «regge» etrusche, la Regia di Roma (fig. 40, in alto) (che costituiva solo una parte del complesso abitativo originario) si accentra intorno a un cortile triangolare, sul cui lato di fondo si dispone una struttura tripartita, comprendente tre ambienti comunicanti, coperti da un unico tetto trasversale a doppio spiovente con copertura di tegole e accesso dall’ambiente centrale: si tratta di un tipo di casa che appare nel corso del VII secolo (quando scompaiono le grandi capanne longitudinali con tetto stramineo) e si diffonde ovunque nell’area tirrenica. Ne possiamo conoscere l’alzato tramite le riproduzioni che sono rimaste in tombe rupestri, come quella perfettamente conservata di Tuscania.

Come negli esempi etruschi, la sala centrale doveva servire per il banchetto, mentre gli ambienti laterali avevano funzioni cultuali: nel caso di Roma, sappiamo che essi ospitavano i culti di Marte e Ops Consiva, divinità rispettivamente della guerra e dell’abbondanza agricola e chiare proiezioni divine del rex e della regina. Anche qui le terrecotte architettoniche appaiono funzionali a questa presenza religiosa: in particolare, la lastra frammentaria con teorie di felini, trampolieri e la figura del Minotauro (fig. 42), che non è possibile separare dal mito ateniese di Teseo, da interpretare in questo caso come modello ideale del re, in una dimensione di apoteosi. Questi rilievi, la cui datazione intorno agli anni 570-550 corrisponde a quella tradizionale di Servio Tullio, potrebbero appartenere alla reggia di quest’ultimo.

44. Frammento di bucchero dalla Regia con la scritta REX (Antiquarium del Foro Romano).

7. FORTUNA E MATER MATUTA

Nei fasti arcaici, detti «numani», si deve riconoscere il calendario urbano arcaico, databile intorno al 600 a.C.: regolamentazione del tempo solidale alla regolamentazione dello spazio, funzionali ambedue alla definizione formale della nuova città, che per vari indizi va collocata in questo stesso momento. È sintomatico che in esso non appaia il culto di Fortuna, che sarebbe stato introdotto, secondo l’unanime testimonianza delle fonti antiche, dal penultimo re di Roma, Servio Tullio, a cui venivano attribuiti, come sappiamo, numerosi templi della dea.

Questo conferma la cronologia del calendario, da attribuire di conseguenza al periodo di Tarquinio Prisco, mentre la successiva apparizione del culto di Fortuna intorno alla metà del VI secolo è dimostrata dallo scavo del tempio della dea, venerata insieme a Mater Matuta nella cosiddetta «area sacra» di S. Omobono, nel Foro Boario.

La scoperta, avvenuta negli anni ’30 del secolo scorso, è forse la più importante per la conoscenza della città arcaica; d’altra parte il sito è ancora ben lontano dall’aver restituito tutte le informazioni che è in grado di fornire, dal momento che i livelli più antichi sono stati esplorati solo in minima parte, nonostante l’amplissima messe dei materiali già recuperati, che è possibile coniugare con la serie piuttosto nutrita delle notizie fornite dalle fonti letterarie antiche.

Da queste apprendiamo che Servio Tullio avrebbe fondato nel Foro Boario un duplice culto, di Fortuna e di Mater Matuta. La presenza di quest’ultima nel «Calendario Numano» fa pensare però che esso fosse in realtà più antico: come abbiamo visto, potrebbe trattarsi di un’importazione del culto, tramite evocatio, dal suo luogo di origine nel Lazio meridionale, Satricum. Questa città, la più importante della Pianura Pontina, va identificata certamente con Suessa Pometia, conquistata e saccheggiata, secondo la tradizione, da Tarquinio il Superbo.

Comunque, il racconto tramandato insiste soprattutto sul culto di Fortuna, e sul suo intimo legame con la figura di Servio: il re sarebbe stato amante e favorito della dea, che lo avrebbe potentemente aiutato nella sua ascesa da un’umile origine al potere.

Non si tratta di una tarda storiella romantica, come si è pensato, ma della traccia residuale di una struttura mitica, diffusa nell’Oriente antico e recepita successivamente dalle società arcaiche del Mediterraneo: questa stabilisce un rapporto diretto tra regalità e divino, che si manifesta nella protezione da parte di una «grande dea» ritenuta detentrice del potere, che viene trasferito al sovrano tramite un rapporto coniugale (una «ierogamia»). Ne troviamo un’attestazione esplicita e contemporanea nelle note lamine d’oro di Pyrgi, il porto di Cerveteri, redatte in fenicio e in etrusco: in queste un sovrano (o più probabilmente un tiranno) di Cerveteri, Thefarie Velianas, afferma di aver ottenuto il dominio sulla città grazie alla dea Astarte (identificata con l’etrusca Uni, la Giunone romana) tramite una cerimonia, in cui si può forse riconoscerere una ierogamia. Troviamo così in una città vicina, non solo geograficamente, la documentazione epigrafica di un modello orientale, la cui presenza a Roma è attestata dal racconto mitico.

Il modello originario si può riconoscere nell’Egitto faraonico, dove la «grande dea» Iside è legata

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45. S. Omobono: facciata del tempio arcaico di prima fase (disegno ricostruttivo).

a un «dio morente», Osiride, sostituito provvisoriamente dal nuovo sovrano, che assume l’identità del figlio di Osiride e Iside, Horus. «Grande dea» e «dio morente» costituiscono una coppia, funzionale alla regalità sacra, che troviamo ovunque nel Vicino Oriente: basterà citare gli esempi di Cibele-Attis e di Astarte-Adone. In quest’ultimo caso, si tratta precisamente della coppia testimoniata a Pyrgi, mentre a Roma l’Astarte-Afrodite fenicio-cipriota sembra identificarsi con Fortuna, che assume le stesse funzioni rispetto alla regalità di Servio Tullio.

È stato osservato che in Egitto l’intronizzazione del re segue immediatamente la designazione divina e assume le forme di un trionfo sul nemico vinto. Analoghe osservazioni si possono fare a proposito del trionfo romano, che sappiamo introdotto dall’Etruria ad opera dei Tarquinii. In primo luogo, il nome stesso di «trionfo» deriva direttamente dal greco thriambos, che designa la cerimonia della vittoria di Dioniso sull’India: Dioniso è infatti un altro «dio morente», analogo a Eracle, eroe figlio di un dio e di una mortale, che dopo la morte diventerà una divinità. Ora, il trionfo arcaico, come sappiamo, si traduce sostanzialmente nell’identificazione del re con Giove. Le insegne che caratterizzano la cerimonia non lasciano adito a dubbi: il trionfatore utilizza la quadriga di cavalli bianchi, indossa gli abiti e la corona del dio, si dipinge la faccia di minio, a imitazione del simulacro di Giove Capitolino: egli è in quel momento Giove in persona, dopo aver celebrato il «matrimonio sacro» con la dea. Anche nella Roma arcaica dunque intronizzazione del re e cerimonia di vittoria si identificano, nell’ambito di una complessiva «divinizzazione» o «eroizzazione» del sovrano, base e giustificazione del potere assoluto, connotato come sacro.

Nel contesto così ricostruito, acquista senso il rapporto «coniugale» tra Servio e la Fortuna, soprattutto se consideriamo il fatto che il tempio della dea nel Foro Boario è strettamente collegato al trionfo: al centro dell’«area sacra» di S. Omobono si trovava infatti la Porta Trionfale, di cui si conservano ancora i resti di età imperiale, e il Tempio di Fortuna (che assumerà in seguito l’appellativo di Redux, «la garante del ritorno vittorioso») è sempre presente nelle scene storiche che raffigurano il trionfo o il ritorno solenne dell’imperatore (adventus).

Per questo, i resti del Santuario arcaico di Fortuna e Mater Matuta nel Foro Boario rivestono un valore cruciale per la comprensione delle strutture non solo religiose, ma di potere della Roma dei Tarquinii e di Servio.

I resti scavati (figg. 45-47) appartengono alle fasi medio e tardo-repubblicana: si tratta di un grande

0 1 4 m

A 1 B

2

AEDES FORTVNAE ET MATRIS MATVTAE

1964 VI

1938 1959 V

4A 3 B A

1961-62

4B

1962-4 IIIIV

III A fronte: 46. Piante della prima e della seconda fase del tempio arcaico; 47. Pianta della fase medio-repubblicana dei templi di Fortuna e Mater Matuta. 48. S. Omobono: leoncino in avorio; 49. Retro dello stesso con iscrizione etrusca (Musei Capitolini).

50. Tempio arcaico di S. Omobono, seconda fase: ricostruzione grafica del tetto. 51-52. Tempio arcaico di S. Omobono, seconda fase: restituzione di una lastra di terracotta con fregio figurato («processione 1»); restituzione di una lastra di terracotta con fregio figurato («processione 2»).

Alle pagine seguenti: 53. Frammenti di lastre di terracotta arcaiche dal Palatino (Antiquarium del Palatino). 54. Tempio arcaico di S. Omobono, seconda fase: acroterio di terracotta con Ercole e Minerva.

podio unitario, sul quale sorgono i due templi gemelli, prova di una forte solidarietà tra i due culti. È probabile che questa struttura, che si conserverà anche nei rifacimenti successivi, appartenga al restauro dovuto a Camillo, successivo alla presa di Veio (396 a.C.). Della fase più antica, risalente al VI secolo a.C., è stato esplorato solo un settore minimo, riportando in parte alla luce uno dei due templi, la cui identificazione è discussa: la sua posizione ad est del complesso farebbe comunque pensare a Mater Matuta, dal momento che Fortuna, per la sua funzione «trionfale», doveva trovarsi all’esterno del pomerio, e quindi più a ovest.

Il podio del tempio, solo in parte scavato, presenta due fasi: la prima databile intorno al 550, la seconda (ricostruita dopo un incendio) al 530 a.C.: tali date corrispondono a quelle tradizionali di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo: sarebbe difficile non riconoscere in questi dati una conferma palese della tradizione antica, che attribuisce al primo l’introduzione del culto di Fortuna, introduzione che possiamo dunque considerare storica.

Tra i ricchissimi materiali scoperti nel corso degli scavi, oltre agli ex voto di lusso (costituiti per lo più da ceramica greca – corinzia, attica, laconica – oltre che etrusca) spiccano oggetti straordinari, come un leoncino in avorio (figg. 48-49) su cui sono iscritti due nomi, uno dei quali relativo a una nota gens di Tarquinia, gli Spurinas: conferma preziosa della presenza a Roma di aristocratici emigrati a Roma da questa città, contemporaneamente ai Tarquinii.

Di grande rilievo è anche il ritrovamento di un cospicuo gruppo di terrecotte architettoniche, pertinenti a uno o ad ambedue le fasi del tempio. Il dubbio riguarda l’attribuzione di due grandi leoni a rilievo (fig. 45), chiaramente inseriti in origine nello spazio del frontone (unico caso in area etrusco-italica di frontone chiuso arcaico, su modello chiaramente corinzio), per i quali si è proposta l’attribuzione alla fase più antica. Per altri, invece, potrebbe trattarsi della decorazione del secondo tempio, ancora non scavato.

Certamente alla seconda fase appartengono i frammenti di almeno due lastre che decoravano gli spioventi di un frontone (sime) (figg. 50-52), appartenenti a un tipo che conosciamo anche in altre località del Lazio (il gruppo più completo è quello di Velletri) (fig. 55), e che deriva dalle stesse matrici: ciò sembra autorizzare l’attribuzione a un solo centro di produzione, che potrebbe essere Veio o forse la stessa Roma, dove si concentra la maggior parte dei ritrovamenti (fig. 53) (si veda per questo il paragrafo seguente).

Le lastre presentano processioni di carri rivolti verso destra e verso sinistra, convergenti verso il centro del frontone. Nel primo tipo (Processione I) (fig. 51) si riconoscono (da destra a sinistra) il dio Mercurio (Hermes), o un araldo con breve perizoma, copricapo (petaso) e caduceo; un carro a tre cavalli (triga), guidato da un auriga in lunga veste, accompagnato da un personaggio maschile, mentre un altro dietro la triga saluta; una biga di cavalli alati, anch’essa occupata da un auriga e da un altro personaggio. Nel secondo (Processione II) (fig. 52) un uomo armato di lancia precede una triga occupata da un auriga e da una donna, con il capo coperto da un berretto a punta (tutulus); dietro il carro si trova un uomo armato di lancia; segue una biga alata, anche in questo caso con un auriga e una donna dietro la quale è un guerriero armato di lancia; chiude il corteo un uomo che saluta.

Una prima differenza tra i due rilievi è evidente: i personaggi del primo sono disarmati, quelli del secondo (almeno in due casi) armati di lancia; uno di questi ultimi apre il corteo (che quindi è connotato in senso militare), mentre nell’altro appare Mercurio (o un araldo in veste di Mercurio) con il caduceo, segno di pace. La prima impressione è che si tratti di due scene simmetriche, l’una di partenza (profectio), come attesta anche il personaggio all’estremità destra, che sembra estraneo all’azione, e che saluta; l’altra di ritorno dalla guerra (adventus), dove a salutare è colui che arriva, non chi resta: infatti il nu-

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