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7. FORTUNA E MATER MATUTA
from THE ORIGINS OF ROME
by Jaca Book
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115-116. Tempio di Villa S. Silvestro (Cascia): ricostruzione; pianta ricostruttiva. A fronte: 117. Dettaglio del podio.
piccolo edificio di tufo (16 × 9,50 m, pari circa a 55 × 32 piedi), preceduto da un’ampia scalinata di 18 gradini. Il podio, di cui resta solo la parte inferiore, era analogo a quello del Tempio C. Il tempietto doveva essere prostilo tetrastilo, con intercolumnio centrale più ampio.
La decorazione plastica di questi edifici prolunga senza grandi variazioni quella canonica per l’architettura sacra del periodo precedente, a partire dal tardo arcaismo. Spiccano comunque alcune realizzazioni eccezionali, come i frammenti di due statue frontonali (non sappiamo se pertinenti a frontoni chiusi, alla greca, o a mutuli di rivestimento delle travi, come nella precedente tradizione italica) scoperte sul Palatino (fig. 114), appartenute al Tempio della Vittoria, dedicato nel 294 da L. Postumio Megello.
Le due teste, realizzate a stecca, sono vicine alle terrecotte templari tardo-classiche di Falerii (Tempio dello Scasato), anteriori alla distruzione della città (241 a.C.), e conservano ancora l’intensa policromia originaria. Si tratta di una testa barbata, forse di Giove, e di una giovanile (Liber-Bacco?), che dovevano far parte di una scena mitica. Il confronto con l’eccezionale gruppo di statue templari provenienti da Tivoli (ai Musei Vaticani) (fig. 113), certamente pertinenti a un frontone, rende probabile una simile collocazione anche nel caso dei frammenti dal Palatino: si tratterebbe del più antico esempio a Roma di frontone chiuso decorato, ispirato senza mediazioni all’architettura templare greca: una consuetudine che si diffonderà nella città solo un secolo più tardi.
A queste sculture si possono accostare, per qualità e cronologia, una testa giovanile (Apollo?) da Antemnae (sulla via Salaria, alle porte di Roma) (fig. 61), di una plastica più mossa e libera, specialmente nella resa dei capelli, che fa pensare al ritratto di Alessandro. Potrebbe trattarsi anche in questo caso di parte di una scultura frontonale. Forse la stessa funzione (piuttosto che quella funeraria, che sarebbe del tutto isolata in questo periodo) si può attribuire alla straordinaria «Testa Fortnum», proveniente dall’Esquilino (conservata a Oxford), caratterizzata da un intenso patetismo, che rimanda all’opera di Skopas (ad esempio, il Meleagro): si tratta di uno dei rari casi in cui si può riconoscere una precisa derivazione da uno scultore del mondo classico per un’opera realizzata a Roma, forse da attribuire all’attività di artisti provenienti da Taranto.
Altre informazioni sull’architettura templare medio-repubblicana si possono ottenere solo dall’esame di edifici costruiti nelle colonie latine, certamente sul modello di quelli urbani.
Particolarmente significativi sono quelli di Sora, Alba Fucens e Isernia (le prime due fondate nel 303, la terza nel 268 a.C.), ai quali si deve ora aggiungere quello di Villa S. Silvestro (Cascia).
Il più grande di questi edifici è quello di Sora, scoperto nel 1974 sotto la cattedrale, al cui interno se ne conservano quasi interamente le strutture in alzato. Il podio, in opera quadrata di calcare, misura 24 metri per almeno 37 e presenta una grande modanatura a doppio cuscino contrapposto, con gola intermedia, visibile su tutto il lato occidentale. Doveva trattarsi di un edificio tuscanico, con cella e ali laterali, orientato a sud, in direzione del foro.
A Isernia si conservano i resti di un tempio del tutto simile, di poco più piccolo (circa 32 × 21 m), anch’esso aperto a sud sul foro della colonia. Il podio, visibile per 13 metri, presenta anch’esso un’identica modanatura a doppio cuscino contrapposto.
Un aspetto analogo doveva presentare in origine anche un tempio di Alba Fucens, trasformato nella chiesa di S. Pietro: la modanatura del podio, ora asportata, aveva probabilmente in origine la stessa forma.
Il meglio conservato di questi templi, anch’esso trasformato in chiesa, si trova nel villaggio di Villa S. Silvestro, presso Cascia (figg. 115-118) (in un’area che faceva parte in origine della prefettura sabina di Norcia). L’esplorazione ancora in corso ha accertato che esso sorgeva all’interno di una piazza, identificabile con il foro di una colonia romana viritana, cioè non urbana (conciliabulum), certamente fondata da Manio Curio Dentato nei decenni successivi alla conquista della Sabina. L’edificio (databile quindi subito dopo il 290 a.C.), già esplorato più volte in passato, e attualmente in corso di scavo, conserva l’intero podio, che misura 29 × 20,70 m ed è orientato a sud-est (figg. 117-118). Anche in questo caso, si nota la caratteristica modanatura a doppio cuscino con gola intermedia, che si ritrova anche negli edifici già menzionati. L’alzato, quasi interamente scomparso, presentava probabilmente l’aspetto di un tempio tuscanico ad ali, con doppio colonnato frontale tetrastilo.
La sistematica utilizzazione, in quattro fondazioni coloniarie romane, di uno stesso tipo edilizio, che conserva le forme dei templi arcaici tradizionali non solo nella pianta, ma anche nelle modanature del podio (che riprendono quelle degli altari di VI secolo a.C.) non è certamente casuale. Si tratta chiaramente del recupero di un tipo arcaico, del tutto diverso da quello utilizzato nell’architettura urbana contemporanea (almeno a giudicare dagli esempi conservati, come il Tempio C di Largo Argentina, per il quale si utilizzò il tipo più «moderno» del peripteros sine postico). Il fatto è tanto più notevole, in quanto quest’ultimo edificio si deve probabilmente allo stesso personaggio, Curio Dentato, che sembra direttamente coinvolto nella deduzione viritana di Villa S. Silvestro.
La scelta è dunque voluta, ed è volta ad enfatizzare le più antiche tradizioni della città, al momento in cui queste venivano presentate come modello culturale per le nuove aree di conquista. Ciò corrisponde perfettamente con quanto sappiamo della personalità di Curio, assertore in pubblico, ed egli stesso osservante nella pratica personale, dell’antico e sobrio costume «sabino». Così si spiega che un simile, arcaico prototipo sia stato sistematicamente applicato in quelle vere e proprie emanazioni della città imperiale che furono le colonie latine.
118. Tempio di Villa S. Silvestro (Cascia), foto dell’insieme.
5. I DEPOSITI VOTIVI
Il sistematico e capillare sciamare dei coloni romani a seguito degli eserciti che avevano conquistato l’Italia ebbe in primo luogo, ovviamente, scopi militari (le colonie, specialmente quelle latine, erano vere e proprie fortezze di frontiera) e sociali, miranti all’allontanamento degli individui appartenenti agli strati subalterni, in rapida espansione demografica, certamente rischiosa per gli equilibri interni della Repubblica. Un risultato a lungo termine decisivo, anche se non previsto, di tale emigrazione di massa fu la progressiva romanizzazione dell’Italia.
Sappiamo come, nel caso dell’edilizia sacra, si assista alla definizione di tipi standardizzati, proiezione aggressiva del potere centrale, intesi a imporre i modelli urbani alle popolazioni soggette. Disponiamo tuttavia di pochi esempi conservati, in base ai quali il fenomeno può essere solo intravisto.
Ben altra messe documentaria ci ha conservato la diffusione capillare di un tipo di materiali, strettamente legati alle pratiche cultuali minute e quotidiane, e per questo universalmente presenti nelle aree soggette alla conquista e alla colonizzazione romana.
Si tratta delle cosiddette «stipi votive», cioè dei depositi, spesso immensi, di ex voto, per lo più costituiti da modesti oggetti di terracotta, che si diffondono, a partire da Roma e dal Lazio, in tutte le aree della penisola nel corso del IV e del III secolo a.C. Nella stessa Roma si conoscono alcuni grandi depositi del genere, in particolare quelli provenienti dal Tevere e dal Santuario Esquilino, forse di Minerva Medica (fig. 120).
Accanto a questi, esistono esempi di ex voto in terracotta di qualità e dimensioni talvolta eccezionali, espressione di una committenza «alta», che però non si differenzia in modo radicale dalla produzione più modesta e più diffusa, dal momento che utilizza anch’essa gli stessi materiali «poveri» (la terracotta) e partecipa della stessa cultura genericamente ellenizzante. Ciò permette di apprezzare l’esistenza di un continuum sociale e culturale, caratteristico di questo momento storico.
Tra questi prodotti qualitativamente superiori si distinguono le statue provenienti da un santuario di Ariccia (figg. 119, 121), certamente di Cerere-Demetra, in cui le statue votive della divinità si ricollegano direttamente alla produzione contemporanea (IV secolo a.C.) della Sicilia greca, da dove probabilmente provengono gli artisti che le realizzarono. Tipico, in questo senso, il grande busto femminile, la cui resa incisiva può far pensare a prototipi metallici. La forma del busto, tagliato all’altezza delle spalle, si ritrova soprattutto negli ex voto sicelioti che rappresentano Kore-Proserpina, rappresentata al momento in cui emerge dal mondo sotterraneo. Un motivo identico riappare in alcuni busti femminili di calcare della necropoli di Preneste (fig. 196), databili tra la fine del IV e il III secolo a.C., che derivano evidentemente dallo stesso modello, e identificano nell’assimilazione alla dea la speranza di rinascita a nuova vita della defunta.
Il complesso più rilevante di terrecotte votive del Lazio è quello scoperto a Lavinio, una delle due «capitali» religiose del Lazio (accanto ad Alba Longa), dove erano ambientate la leggenda di Enea e la nascita del popolo latino. Tre luoghi di culto principali e uno secondario sono ricordati dalla tradizione antica, tutti collocati fuori delle mura della città (fig.
119. Due statue votive di terracotta, dalla stipe di Ariccia.
A fronte: 120. Testa votiva di terracotta, dalla stipe detta di Minerva Medica (Roma, Musei Capitolini). Alle pagine seguenti: 121. Dettagli di statue votive di terracotta, dalla stipe di Ariccia.
122), mentre il Tempio dei Penati, fondato da Enea, doveva trovarsi sull’arx.
Il geografo Strabone scrive (V, 3, 5): «A metà strada tra Ostia e Anzio si trova Lavinio, che possiede un Santuario di Afrodite, comune ai Latini»; e altrove, a proposito di Eraclea di Lucania, considerata anch’essa fondazione troiana (VI, 1, 14):
Come prova dell’origine troiana della colonia indicano la statua lignea di Athena Iliaca che vi si trova […] È del tutto insensato pretendere che provengano da Troia questi simulacri, come fanno gli scrittori: e infatti anche a Roma, a Lavinio, a Lucera e nella Siritide Athena viene chiamata Iliàs, come se provenisse da Troia.
Il poeta ellenistico Licofrone (Alessandra, 12531262), nella narrazione dello sbarco di Enea a Lavinio, la cita come Athena Mindia. In Dionigi di Alicarnasso (I, 64, 5), a proposito della morte di Enea in battaglia, si legge: «I Latini gli eressero un heroon dotato di questa iscrizione: “Al padre dio infero (Indiges), che regola le acque del fiume Numico”: si tratta di un tumulo non grande, con intorno alberi piantati regolarmente, degno di essere visto». Plinio (Storia Naturale, III, 56) ricorda il Santuario (lucus) di Sol Indiges.
Gli scavi realizzati nel sito di Pratica di Mare a partire dagli anni Cinquanta hanno permesso di identificare in questa località il sito di Lavinio: questo si trovava a 24 stadi dal mare, che corrispondo-
no ai 4 chilometri attuali. La città occupa un’area di circa 30 ettari, circondata da mura, intorno alla quale sono state messi in luce i resti di tre santuari principali: quello detto della Madonnella (da una piccola chiesa paleocristiana), a poco più di 300 metri a sud delle mura; il «santuario orientale», a 100 metri a est delle mura; il santuario alle foci del Numico. Il primo di questi, quello della Madonnella, è il più monumentale e il più estesamente esplorato (figg. 123, 125): sembra che non fosse dotato di un tempio, ma solo di un edificio rettangolare con due ingressi e un portico su due lati, realizzato intorno alla metà del VI secolo e abbandonato intorno al 450 a.C. Il complesso di culto era costituito da tredici altari in tufo (fig. 123), che però non sono contemporanei, ma vennero eretti successivamente tra la metà del VI e la fine del IV secolo a.C., raggiungendo in quest’ultimo periodo il numero di dodici, a seguito dell’abbandono e dell’interramento del tredicesimo, il più antico. I culti qui praticati con certezza, in quanto testimoniati da iscrizioni su lamine di bronzo, originariamente affisse a due altari, sono quello dei Dioscuri (VI secolo a.C.) e quello di Cerere (IV secolo a.C.).
Una notevole quantità di materiali votivi di VI secolo a.C. proviene da questa zona: oltre a ceramica arcaica di importazione greca e a buccheri etruschi, due statuette femminili in bronzo provenienti dalla Magna Grecia e diciotto bronzetti maschili, tipici della cultura laziale (analoghi a quelli scoperti a Roma, nel Comizio). Al periodo più rappresentato, il IV-III secolo, appartiene una serie cospicua di ex voto di terracotta: circa 40 statue molto frammentarie, 210 statuette, 40 animali e un grande numero di votivi anatomici: l’insieme dimostra che si tratta di un santuario connotato in senso «salutare». Si è proposto di riconoscervi quello di Venere.
0 Roma
500 A
terme
necropoli B
porta sant. di Minerva
Pomezia
1000 santuario XIII are heroon
villa Torvaianica
122. Lavinio: pianta della città con i santuari; 123. Lavinio: Disegno prospettico delle are del Santuario della Madonnella; 124. Lavinio: Disegno ricostruttivo della «Tomba di Enea». 125. Lavinio, foto di un’ara del Santuario della Madonnella (Lavinio, Museo).
Alle pagine seguenti: 126-128. Lavinio, Santuario di Minerva: statue di Minerva e testa votiva di terracotta.
129-130. Lavinio, Santuario di Minerva: statue di offerenti in terracotta.
A breve distanza da qui è stato esplorato un piccolo tumulo, certamente quello visto da Dionigi di Alicarnasso, che lo attribuisce ad Enea (fig. 124). L’iscrizione riportata dall’autore afferma che si trattava dell’heroon del Pater Indiges, cioè del fondatore mitico dei Latini, identificato con Latino. Solo successivamente a quest’ultimo si sovrappose l’eroe troiano. Il tumulo fu eretto nella seconda metà del IV secolo a.C. sopra una tomba risalente al VII, che sembra esser stata esplorata e consacrata tramite un sacrificio nel VI. Esso presentava un falso ingresso, costituito da una porta monumentale di pietra. Nel personaggio sepolto si riconobbe il mitico fondatore del popolo latino, Enea: il mito, nato forse già nel VI secolo, trovò la sua definitiva ufficializzazione, segnalata dalla costruzione del tumulo, nel IV, probabilmente con lo scioglimento della Lega Latina (338 a.C.), quando Roma ebbe bisogno di riaffermare la sua egemonia sul Lazio, rivendicando le origini troiane.
Il «santuario orientale» ha restituito il complesso votivo più rilevante del Lazio: gli oggetti erano stati deposti in una fossa, scavata verso la fine del III secolo a.C, quando Lavinio venne quasi interamente abbandonata. Non si conosce ancora l’edificio di culto, anche se la scoperta, insieme agli oggetti votivi, di terrecotte architettoniche di V secolo a.C. ne rendono certa l’esistenza.
Del ritrovamento fanno parte, oltre alla ceramica arcaica greca ed etrusca (in quantità limitata) e a quella, più abbondante, di IV e III secolo a.C., poche statuette arcaiche di bronzo. La grande maggioranza dei reperti è costituita da terrecotte: statuette, donne che allattano, bambini in fasce, gruppi familiari di tre-sette personaggi, mammelle, uteri, conigli, melograni, trottole, palle; ma soprattutto statue a due terzi o tre quarti del naturale (solo poche a grandezza naturale o anche superiore): nel complesso, circa 100 esemplari, dei quali 70 ricomposti. Finora, solo una parte molto ridotta di questo enorme materiale è stato pubblicato. Spiccano tra tutte tre statue di Minerva, una delle quali conservata solo per la parte inferiore e un’altra a metà circa del naturale (fig. 126): insieme ad altre immagini più tarde della dea, esse permettono di identificare con sicurezza il santuario con quello, noto dalle fonti, di Athena Iliàs.
La statua più notevole della dea misura 1,96 metri con la base. Essa è databile negli ultimi decenni del V secolo e presenta un aspetto del tutto particolare rispetto all’iconografia corrente: tiene con la destra una spada invece dalla solita lancia, con la sinistra lo scudo ovale, inoltre è letteralmente ricoperta di serpenti, a partire da quello a tre teste che si avvolge intorno al corpo e a un braccio, a quelli che appaiono sullo strano corpetto a squame che riveste la parte superiore del corpo, a quelli infine fissati sull’orlo dello scudo. Insolita è anche la figura del tritone con duplice coda di pesce appoggiato al lato sinistro della figura. Anche lo stile è del tutto particolare: le