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Villetta con ospiti

zionato e l’ornitologo viene presto riammesso nel museo di storia naturale di Parigi.

DDietro la cinepresa Nicolas Vanier, scrittore, regista ed avventuriero francese. Tra i suoi film ricordiamo il documentario Il grande Nord (2006), ma anche la dolce storia di amicizia di Belle e Sebastien. Come per quest’ultimo anche in Sulle ali dell’avventura viene narrata una vicenda tra cinema e letteratura: il cineasta ha infatti dedicato alla storia anche un romanzo, dallo stesso titolo. Nicolas Vanier si è imbattuto successivamente nell’ornitologo Christian Moullec, soprannominato “birdman”, che dal 1999 dedica la sua vita ad allevare e salvare esemplari di oche rimaste orfane ed appartenenti a specie rare. Moullec ha una formazione da meteorologo e in diverse interviste ha dichiarato di svolgere questo mestiere anche per avere occasione di viaggiare e scoprire la fauna di luoghi diversi, in particolare delle terre australi. L’ornitologo in una sua intervista ha dichiarato riguardo le oche: “Le adoro perché sono indomabili e non conoscono frontiere”; per questo lo studioso con una grande passione per i volatili, afferma di aver imparato molto da Lambart Von Hessen, noto nel mondo della salvaguardia degli animali ed in particolare delle oche nane della Lapponia. Moullec possiede anche una grande dimestichezza con la macchina da presa; afferma infatti in una sua intervista “Jacques Perrin mi ha chiesto di aiutarlo con Il popolo migratore; poi ho lavorato a una serie di documentari per la BBC, Earth Flight, che mi ha fruttato un Emmy per la Miglior fotografia”.

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Moullec ha collaborato alla sceneggiatura e seguito le riprese dalla Francia all’Artico, curando in prima persona quelle in volo con le oche.

Tratto da una storia vera, il film è una fiction con l’anima da documentario ma anche dalla forte costruzione narrativa. Vanier patrocina tra le altre iniziative “L’école agit!”, un progetto che si occupa di sensibilizzare nelle scuole i ragazzi verso i temi della conservazione ambientale. Dal punto di vista registico il film presenta un gran numero di sfide tecniche. Emozioni, brividi e meraviglia ci vengono trasmesse da immagini aeree mozzafiato, al fianco di oche vere e non ricreate digitalmente. Nel cast l’attore protagonista Jean-Paul Rouve è popolarissimo in Francia grazie alla saga comica dei Les Tuche - che in Italia ha ispirato le commedie di Fausto Brizzi Poveri ma ricchi e Poveri ma ricchissimi -, ma perfettamente a suo agio anche su toni più seri. E poi troviamo nei panni di Paola Mélanie Doutey, attrice francese di successo, compagna dell’attore, regista e sceneggiatore Gilles Lellouche. Donne Moi des Ailes, questo il titolo in originale della pellicola che ha un significato simbolico molto profondo di estrema libertà ma soprattutto di un insegnamento di vita, strumento di crescita. Il più grande cambiamento nel corso di questa storia, aldilà della maturità raggiunta dal ragazzo, è quello del protagonista Christian che diventa un vero padre; con l’esperienza fatta con le sue oche l’ornitologo con la testa tra le nuvole riesce a comprendere fino in fondo l’importanza della libertà per ciascuno di noi.

Giulia anGElucci

DDiletta Tamanin, donna fragile e in cura per i suoi stati depressivi, gestisce l’azienda vinicola della sua famiglia ma vive un senso di insoddisfazione per le continue lontananze di suo marito Giorgio e per il rapporto conflittuale con sua figlia Beatrice; Giorgio sperpera le ricchezze della moglie a sua insaputa, insospettendo la suocera Miranda, che ha scoperto delle incongruenze nelle ultime fatture. Carmine, commissario napoletano corrotto, aiuta Giorgio con una denuncia a suo carico per aver minacciato con una pistola un ragazzo che importunava Beatrice e, nel frattempo, sorveglia un gruppo di rumeni, implicati in attività illecite, tenendo sottocchio Adrian, ragazzo che aiuta i Tamanin nelle commissioni ordinare; sua madre Sonja, cameriera di Miranda, si è trasferita in Italia per garantire al figlio un futuro migliore, sperando che non si lasci coinvolgere nelle attività di suo zio.

Diletta aiuta don Carlo, parroco del paese, a raccogliere i fondi per inaugurare una biblioteca parroc-

di Ivano De Matteo

Origine: Italia, Francia, 2018 Produzione: Marco Poccioni e Marco Valsania per Rodeo Drive con Rai Cinema e Les Films D’Ici Regia: Ivano De Matteo Soggetto e Sceneggiatura: Ivano De Matteo, Valentina Ferlan Interpreti: Marco Giallini (Giorgio), Michela Cescon (Diletta), Massimiliano Gallo (Commissario Panti), Erika Blanc (Miranda, madre di Diletta), Cristina Flutur (Sonja), Monica Billiani (Beatrice), Tiberiu Dobrica (Adrian), Bebo Storti (Dottor De Santis), Vinicio Marchioni (Don Carlo) Durata: 88’ Distribuzione: Academy Two Uscita: 30 gennaio 2020

chiale, che egli sperpera in segreto con una delle tante amanti; durante una festa in paese, Beatrice confida i suoi turbamenti ad Adrian.

Di notte, Diletta scopre un intruso in casa e gli spara; in preda al panico, chiama Giorgio, in realtà in albergo con la sua amante e, nonostante le raccomandi di non chiamare nessun altro, la donna contatta don Carlo. Giorgio rincasa con Carmine e scoprono che l’intruso è Adrian, ancora vivo, ma il poliziotto vieta di chiamare i soccorsi, dato che Diletta ha sparato con la pistola che egli ha consegnato a Giorgio nonostante gli sia stato revocato il porto d’armi. Beatrice confessa segretamente al padre che aveva invitato Adrian in casa, segretamente da Diletta, che non se ne sarebbe dovuta accorgere dati gli psicofarmaci per dormire, per cui Giorgio le chiede di non raccontare nulla per evitare l’accusa di omicidio colposo, sostenuta dal labile equilibrio mentale della donna.

Carmine contatta il dottor De Santis affinché curi Adrian, ricattandolo con una registrazione privata nel caso chiamasse un’ambulanza, ma il medico non riesce a salvare il ragazzo. Sonja si presenta alla villa, preoccupata per la scomparsa del figlio, di cui ha notato il motorino fuori dal cancello. I protagonisti le raccontano che Adrian si è intrufolato armato per rubare e che Diletta ha sparato per legittima difesa; sebbene Giorgio le offra un’ottima cifra per risarcirla in cambio del suo silenzio, Sonja, non credendo alla loro versione, minaccia di denunciarli, ma il commissario le fa comprendere quanto l’introduzione di un rumeno nella casa di una famiglia benestante italiana già di per sé è una premessa che si ritorcerebbe contro di lei e la sua famiglia, di cui sono note le attività del fratello.

Sonja accetta di non denunciarli e, recuperata la salma di Adrian, torna in Romania dal secondo figlio.

I

Il noir, con la sua fotografia plumbea e le scenografie claustrofobiche della casa dei Tamanin, esplora le contraddizioni politiche e sociali del nostro Paese, attraverso una messinscena che accentua l’atmosfera tanatologica che ingloba i corpi in uno spazio quasi mentale, che interessa prevalentemente il personaggio di Michela Cescon. Donna imprigionata in un’esistenza soddisfacente solo in apparenza, Diletta è spesso messa in quadro in una gabbia domestica, il cui culmine è nella lunga sequenza notturna alla ricerca dell’intruso, in cui la donna è collocata in una mise en abyme di spazi, sulla destra del fotogramma, nella zona liminale del piano intermedio dell’abitazione, in cui il corpo è immerso nell’unico spazio illuminato, circondato dal buio di un luogo quasi estraneo, caratterizzato da grate simili a sbarre e dalle linee aguzze delle scale e degli stipiti delle porte.

Mirata a dimostrare la vacuità di narratives sociali, intrinsecamente discriminatori nel sostituire la verità dei fatti con assunti collettivamente riconosciuti e per questo immodificabili nell’incasellamento dell’esistenza in frame rassicuranti e monolitici, l’idea di partenza, seppur legittima, non è sostenuta dalla stessa minuzia estetica, data una narrazione che si rivela un collage di luoghi comuni e di personaggi macchiettistici che sembrano estrapolati da altrettanti film italiani contemporanei. Ancora una volta, il maschile si rivela inadeguato, se non manipolatore; nasconde le sue scappatelle extraconiugali con i tipici viaggi di lavoro, odiato dalla ricca suocera, unica cosciente della sua natura abietta, di cui è consapevole una moglie (iper)nevrotica e fragile, che nasconde a se stessa la verità dei fatti, ricoprendosi di attività collettivamente utili per compensare un vuoto esistenziale e affettivo, un perfetto doppelgänger di una Valeria Bruni Tedeschi (si pensi a Il capitale umano) e un’eco della Sabrina Impacciatore di A casa tutti bene o delle tante donne esaurite e insoddisfatte di Margherita Buy.

I secondari sono “personaggi tipo”, dalla figlia ribelle e autolesionista, in costante conflitto con sua madre, al tradizionale poliziotto corrotto (ovviamente meridionale), nonché figure autorevoli costrette a nascondere le loro zone d’ombra a vantaggio del loro ruolo sociale, una riprova (ormai abusata) delle vacuità di rappresentanti istituzionali che vengono meno ai loro doveri a vantaggio del proprio tornaconto personale.

De Matteo riconferma la visione di un’Italia che si nasconde dietro un manicheismo italiano/buono e immigrato/cattivo per giustificare le proprie colpe, preferendo proiettarle al di fuori per evitare una presa di responsabilità delle proprie azioni, in un mascheramento sociale delle sue fragilità e malvagità; l’impressione però è di trovarsi di fronte a uno dei diversi tentativi del nostro cinema di ripiegarsi diegeticamente su azioni e sensazioni già proposte, di conseguenza non in grado di trovare la sua forza espressiva o di muovere riflessioni che non siano state già suscitate da ulteriori autori, contemporanei e passati.

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