11 minute read

Doppio sospetto Dafne 3t

Next Article
L’età giovane

L’età giovane

La conseguenza è che l’imam è arrestato e Ahmed avviato in un centro di recupero in campagna, dove, a contatto con disponibili educatori e un’attività agreste, dovrebbe compiere un percorso di recupero. I tentativi sembrano però destinati al fallimento. Neanche la conoscenza con una ragazza, Louise, a cui Ahmed piace molto e che suscita un bacio fugace, considerato subito un atto impuro, può fare qualcosa.

Lui vuole ancora uccidere la sua insegnante: fugge dal centro ma nel tentativo di entrare in casa di lei attraverso una finestra dei piani alti, precipita al suolo ferendosi gravemente. È la stessa insegnante a chiamare l’ambulanza per tentare di salvarlo.

Advertisement

SSappiamo che la cinematografia dei fratelli Dardenne si è sempre dedicata ad approfondire temi sociali, miserie quotidiane e angosce esistenziali con una speciale sensibilità verso il documentario (ne hanno girati una quarantina, forti della loro provenienza dalle città industriali del Belgio e dall’ambiente operaio della loro infanzia). In questo film i due registi spostano il loro sguardo di cineasti dalla povertà di una condizione umana e ambientale all’alienazione di un nucleo postindustriale reso ancora più problematico da valenze male intese d’integralismo religioso.

D’altra parte è la nuova conflittualità sociale: la forte avanzata migratoria dai paesi dell’Islam si è stabilizzata in tante città del Nord Europa creando non pochi problemi di convivenza con i locali e d’integrazione con costumi e abitudini spesso non accettate e mal sopportate.

Sono gli stessi Dardenne a dire, in una bella intervista rilasciata a Cannes 2019 per la presentazione del loro film che: “...se il nostro cinema è conosciuto come quello che guarda il mondo, cerca di fare luce, di aprire un dibattito su argomenti importanti, ci siamo detti che non potevamo chiamarci fuori da questa fase della nostra storia...” (il riferimento era rivolto agli attentati nell’area metropolitana di Bruxelles del 2016); “...con il cinema cercavamo di capire se e come si poteva uscire da questo fanatismo”.

Questo è il punto. Quel tentativo di uscire dalla situazione difficile imposta dal destino che nei film dei due fratelli cineasti si realizzava (si sublimava, quasi) in un vero riscatto morale, qui in cosa si è trasformato, da cosa è stato sostituito? Quale obiettivo si sono posti i Dardenne nel seguire passo dopo passo le azioni del giovane Ahmed, standogli accanto in tanti momenti con la loro amatissima macchina a mano?

Da quello che abbiamo visto non c’è un riscatto morale. I pur disponibili educatori, gli organizzatori dell’impianto sociale della città, il forte equilibrio dell’insegnante oggetto del desiderio omicida di Ahmed, nulla possono fare per risolvere lo scontro che non è solo di persone ma di civiltà.

I Dardenne vogliono forse dirci che non è possibile ipotizzare una società in cui diverse religioni, diverse culture, posizioni umane diverse, possano convivere in un nuovo equilibrio di civiltà? Soprattutto quando uno dei due “sfidanti interlocutori” non sente ragioni nel considerare l’altro da sé un infedele? Perché questo è il centro nevralgico della storia dei Dardenne che elimina ogni possibilità di ricostruzione umana e considera infruttuoso ogni percorso di redenzione.

La stessa caduta di Ahmed nel suo tentativo di entrare nella casa dove poter uccidere l’insegnante non sembra un fatto doloroso con relativa richiesta d’aiuto: piuttosto un estremo atto di ribellione, un estremo desiderio di solitudine offensiva nei confronti di chi accorre, in questo caso l’insegnante, di cui non si vuole il soccorso ma solo la punizione feroce per essere dal lato degli infedeli.

Se invece i Dardenne volevano fare riflettere sull’impossibilità sofferta e sofferente dell’incomunicabilità tra due mondi dobbiamo dire che ci sono riusciti.

FaBrizio morEsco

di Olivier Masset-Depasse

Origine: Francia, Belgio, 2018 Produzione: Jacques-Henri Bronckart, Olivier Bronckart Regia: Olivier Masset-Depasse Soggetto e Sceneggiatura: Barbara Abel Interpreti: Veerle Baetens (Alice Brunelle), Anne Coesens (Céline Geniot), Mehdi Nebbou (Simon Brunelle), Arieh Worthalter (Damien Geniot), Jules Lefebvres (Theo), Luan Adam (Maxime), André Pasquasy (Dottore) Durata: 97’ Distribuzione: Teodora Film Uscita: 27 febbraio 2020

DOPPIO SOSPETTO

UUna cittadina qualsiasi del Belgio, anni ’60. In una villetta bi-familiare vivono due famiglie molto amiche, molto unite. Alice e Céline sono le due donne che guidano la loro vita borghese, l’amicizia dei loro figli adolescenti, Theo e Maxime, la compagnia dei loro mariti, non particolarmente importanti.

Un giorno un fulmine arriva a distruggere tutto questo: Maxime, sporgendosi dalla finestra della sua camera da letto per recuperare il gatto in fuga sui tetti, cade al suolo e muore.

Da questo momento le cose non sono più come prima: Céline sembra rimproverare la sua amica per

non avere vigilato abbastanza - lei era in giardino alle prese con i suoi fiori - addossandole così la responsabilità della morte del figlio. L’atteggiamento di Céline prende una strada sempre più manifesta: un’ossessione che la porta a odiare i suoi vicini per un figlio che loro hanno e che lei non ha più e che le fa perdere definitivamente l’equilibrio.

La suocera di Alice, durante una festicciola in giardino, pronuncia una frase non troppo felice che Céline si lega al dito: sostituisce le pastiglie che l’anziana signora prende per alleviare i suoi disturbi al cuore tanto che questa, durante un passaggio in auto, ha un infarto e muore.

Alice sospetta qualcosa e chiede l’autopsia della suocera che rivela che la cura era stata interrotta e dunque le pastiglie sostituite.

Ormai la strada è presa, Céline non si ferma più: uccide il marito (che voleva calmare l’ossessione della moglie) facendo passare la cosa per un suicidio. In seguito addormenta Theo con il cloroformio e poi Alice e il marito con un sonnifero nel whiskey: completa l’opera aprendo il tubo del gas e uccidendo i suoi vicini in uno scenario presto definito, anche qui, come suicidio.

Si giunge così al finale: Céline è in tribunale dove ottiene da un giudice, forse un po’ troppo sbrigativo, l’affidamento del giovane Theo.

Céline e Theo sono ora su una spiaggia. Ridono, scherzano, si rincorrono con gioia; Céline ha, finalmente e un’altra volta, un figlio tutto suo. N Nel lindore vive la sporcizia più grassa; nella serenità attende in agguato una bestia tremenda pronta a risvegliarsi dal suo apparente torpore e manifestarsi nelle sue forme più insane: il sospetto, la menzogna, il tradimento, l’angoscia, la vendetta, l’odio, l’assassinio.

Due grandi maestri come Hitchcock e Chabrol s’impadronirono di queste dinamiche per regalarci dei capolavori basati sul dubbio patologico, sul meccanismo conflittuale tra normalità e follia, sul tormento oscuro insito nel profondo di ognuno, capace di manifestarsi in maniera imprevedibile, sadica, persecutoria.

Il regista Olivier Masset-De Passe dirige con grande maestria questa storia che distilla veleno scena dopo scena e coinvolge lo spettatore e i personaggi in un gorgo che trascina in basso verso l’incubo. Due sono i pilastri fondamentali della paranoia presentata dal cineasta: la storia basata esclusivamente su una dimensione femminile, sul rapporto tra due donne e l’ambientazione casalinga che inquadra il racconto. Due donne, due amiche che mostrano dall’inizio del film il fascino della loro ambigua normalità nell’utilizzare discorsi, dialoghi e sorrisi su famiglia, scuola, bambini che più semplici non si può ma proprio per questo capaci di nascondere qualcosa di devastante. Due madri pronte a incupirsi in uno sguardo, in un atteggiamento convulso che svela la possibilità di essere diverse se il possesso di quanto a loro appartiene (un figlio) mostra, offensivamente, il benché minimo cedimento, figurarsi la morte.

L’ambiente, stanze da letto, salotti, giardini è perfetto nella sua confezione anni ‘60, colorato quel che basta, elegante ma non troppo; è impreziosito dall’abbigliamento delle due protagoniste, gonne, tailleur, completini giusti, “normali”, con un cenno, forse, di seduzione borghese, quelle forme fasciate che possono attirare lo sguardo.

Un paradiso, insomma, l’alveo perfetto perché si sviluppi il buio del cuore, perché si possa pensare di uccidere, perché si uccida.

Di gran livello le attrici, la bruna Anne Coesens (Céline) capace di passare da una compostezza quasi placida a una morbosità nascosta che zampilla bolle di acido fino alla violenza ossessiva finale; la bionda Veerle Baetens, in fibrillazione nervosa fin dall’inizio, disponibile subito al sospetto, torva, dura, senza pietà non ce la fa a salvarsi ma solo a versare una lacrima sul finale della propria vita.

FaBrizio morEsco

DAFNE

DDafne è un’esuberante trentacinquenne affetta dalla sindrome di down che venera il lavoro e odia le vacanze perché, a sua detta, ‘durante le vacanze succede sempre qualcosa di brutto’.

Durante ferie in campeggio Dafne si diverte insieme alla madre Maria e al padre Luigi, due coniugi ormai attempati. Proprio alla ripartenza verso casa, Maria accusa un malore e deve essere portata d’urgenza in ospedale. Nell’attesa del responso medico capiamo qual è il rapporto tra Dafne e il padre:

di Federico Bondi

Origine: Italia, 2019 Produzione: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa per Vivo Film con Rai Cinema Regia: Federico Bondi Soggetto: Federico Bondi, Simona Baldanzi Sceneggiatura: Federico Bondi Interpreti: Carolina Raspanti (Dafne), Antonio Piovanelli (Luigi), Stefania Casini (Maria) Durata: 94’ Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà Uscita: 27 marzo 2019

una relazione complessa nella quale le poche parole spese tra i due sono, per gran parte, dei rimproveri della figlia ai vizi del padre (fumo e vino). Ciò deriva probabilmente dall’assenza di Luigi nella crescita di Dafne che si risolve, in questo momento di crisi, in una sorta di rapporto semi-conflittuale.

Alla notizia della morte di Maria, Luigi è visibilmente scosso ma dà l’impressione d’essere in grado di gestire la situazione. Dafne invece sembra completamente distrutta e si lascia andare a scatti d’ira, cercando di risvegliare la madre in obitorio e buttando a terra delle pillole calmanti offerte da un’infermiera. Ma la situazione si ribalterà presto.

Giungono all’ospedale gli zii di Dafne che accompagnano lei e il padre nella vecchia casa di Maria, date le sue ultime volontà di essere sepolta nel suo paese natale.

Svolti i funerali, il rientro in casa è drammatico. Luigi sembra cadere in uno stato di depressione acuta e Dafne è ancora evidentemente turbata. Il giorno dopo Dafne sembra essersi ripresa tanto da scuotere il padre ad andare a lavoro, accompagnandolo personalmente e poi recandosi al proprio. Arrivata al supermercato, luogo della sua occupazione, Dafne è accolta con una festa dai suoi colleghi che le dimostrano vicinanza e affetto e la riportano alla vita di tutti i giorni, facendole quasi dimenticare il trauma. Così non è per Luigi che cerca consolazione nel vino.

A lavoro Dafne conosce Camilla, una giovane nuova impiegata con la quale lega e dalla quale impara, tramite i suoi discorsi, l’importanza di provare nuove esperienze. È presumibilmente da questo insegnamento che scaturisce la pazza idea di proporre al padre di intraprendere una sorta di pellegrinaggio a piedi verso il paese natale della madre per portarle un saluto al cimitero.

Prima della partenza, mettendo in ordine la casa, Dafne trova. in un vaso, un palloncino quasi completamente sgonfio che decide di riporre in uno scrigno.

Dopo una prima parte in treno, i due si avventurano in sentieri boschivi alla scoperta di nuovi panorami che li porteranno a rivalutare il proprio reciproco rapporto, rendendoli inseparabili.

La meta è ancora distante e sono costretti a passare la notte in un ostello, dove consumeranno anche la cena. Durante il pasto, mentre Dafne si è allontanata per cercare di liberare il computer del cuoco dalle pubblicità, Luigi racconta la sua storia alla ristoratrice e nel raccontarla capisce gli errori del passato (come il non riuscire ad accettare che sua figlia fosse malata e la sua conseguente noncuranza) e l’importanza della figura di Maria per entrambi.

Ripreso il viaggio, dopo una lunga camminata, Dafne dimostra nuovamente la sua indipendenza chiedendo un passaggio a due guardie forestali in servizio che si offrono volentieri. Arrivati al cimitero lo trovano però chiuso, dato l’approssimarsi della sera, e decidono così di passare la notte nella vecchia casa della madre, per riprovare la mattina seguente.

Prima di andare a letto, Dafne, per consolare il padre ancora scosso, gli porge lo scrigno con il palloncino perché al suo interno c’è ancora il respiro della madre e, dunque, un ultima prolungamento della sua vita. R Raccontare un’esperienza traumatica al cinema non è mai cosa semplice. Farlo dal punto di vista di una persona con sindrome di down è una sfida. Ma Federico Bondi ha trovato in Carolina Raspanti - l’esordiente interprete di Dafne, anch’essa portatrice di handicap -, oltre che grande disponibilità e un’indimenticabile interpretazione, una vera e propria forza della natura, regalandoci un film estremamente intimo, poetico e toccante.

Al trauma si affianca il difficile rapporto tra un padre, taciturno e depresso e una figlia, problematica ma energica che, nonostante la sua condizione, riesce a prendere le redini della propria vita e di quella del padre, ormai in declino. Il film ci ricorda come anche le persone affette da sindrome di down possano avere una vita, possano essere indipendenti e possano avere qualcosa da insegnare a coloro che (erroneamente) vengono reputati ‘normali’.

Non deve essere stato semplice per il regista, specializzato in documentari al suo secondo film di finzione, gestire il cast, che in molte scene prevedeva la presenza di più persone con disabilità. Il risultato ottenuto è impeccabile.

Bondi non dimentica le sue origini da documentarista, anzi le sfrutta proficuamente. Si vede nelle scene lasciate andare oltre il termine dell’azione (suggerendo una sorta di effetto straniamento in senso brechtiano che rende spesso labile il confine tra persona e personaggio), nel tremolio della macchina a spalla e in un dettaglio, da lui stesso raccontato in un’intervista: Carolina non aveva mai letto la sceneggiatura. Ciò che ella avrebbe dovuto fare sul set le veniva suggerito poco prima, senza porre enfasi sui dialoghi ma solo sulla situazione. Questo stratagemma, secondo il regista, avrebbe dona-

This article is from: