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Pietro Forti

Terra di nessuno Dove le mafie, e in particolare la ‘ndrangheta, trovano spazio per le loro infiltrazioni a Roma e nel Lazio

Fugare una serie di pregiudizi quando si parla del fenomeno mafioso è fondamentale. E dunque, per quanto gli affari storicamente (o meglio, folcloristicamente) legati al fenomeno mafioso siano ancora oggi una parte fondamentale dell’introito italiano delle ‘ndrine, oggi è fondamentale guardarsi dalle infiltrazioni nell’economia legale. Una delle regioni in cui i dati sull’infiltrazione mafiosa nelle aziende saltano all’occhio è il Lazio: nella regione, e soprattutto nelle province di Roma e Latina, il numero di aziende confiscate è oltre il doppio rispetto alla media nazionale (5,9 ogni 10.000 aziende registrate a Roma, 5,2 a Latina).

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Sopravvive chi s’adatta La vulgata televisiva e cinematografica relativa alla mafia vede i suoi protagonisti per lo più intenti in azioni estremamente violente verso terzi o, non meno spesso, verso membri della propria stessa “specie”. Le guerre interne alle mafie sono tra gli argomenti preferiti del mondo cinematografico, con conquiste di territori altrui a marcare le differenze tra diverse tribù. E se da una parte per le ‘ndrine è impossibile raccontare una realtà altra rispetto a una dimensione fortemente locale e profondamente familiare, dall’altra fuori dalla regione d’appartenenza la ‘ndrangheta ha trovato, più che un terreno da conquistare, un ecosistema in cui ambientarsi. Questo è valido soprattutto per il Lazio e, in particolare, per la capitale. Il rapporto “Mafie nel Lazio”, commissionato dalla Regione Lazio e a cura di Crime&Tech (Università Cattolica di Milano) conferma una delle più classiche raffigurazioni di Roma: la città che “nun vo’ padroni”, ma che allo stesso tempo ha offerto una squisita ospitalità a moltissime organizzazioni criminali nel corso dei decenni. Presenza, ovviamente, negata in maniera quasi religiosa, ma onorata soprattutto dagli anni ’80 con un radicamento forte sul territorio (tanto da garantire il tempo, a pezzi di organizzazioni mafiose preesistenti, di sviluppare dei gruppi “autonomi” rispetto alle organizzazioni centrali).

La filiera Tale presenza, appunto, non è però egemonica: anzi, quel che sembrerebbe richiesto alle organizzazioni mafiose del Lazio sarebbe una certa capacità di adattamento e, alle volte, di cooperazione ed integrazione. Ciò, per quanto paradossale, assume contorni piuttosto abitudinali se si pensa appunto nell’ottica dell’infiltrazione delle economie legali presenti sul territorio regionale: così tante e così composte da costituire un’occasione di spartizione dei compiti estremamente redditizia oltreché, per l’appunto, teoricamente legale. Esempio principe della costruzione di una vera e propria filiera mafiosa riguarda il commercio all’ingrosso, riscontrata ma non del tutto smantellata da varie indagini ed operazioni (nello specifico operazioni Acero-Krupy, Gea e Sudpontino) appunto nel sud del Lazio. Si tratta del Mercato Ortofrutticolo di Fondi (MOF): qui si è dato vita ad un business florido, ben curato e radicato sul territorio (ma con, secondo il rapporto di Crime & Tech, “proiezioni internazionali”) attraverso collegamenti con elementi dell’amministrazione pubblica e, appunto, cooperazione a più livelli tra tre “mafie tradizionali”, vale a dire Camorra, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Secondo le indagini, il clan dei Tripodo (famiglia riferibile alla ‘ndrangheta) era in grado di pilotare la grossa parte delle decisioni logistiche anche, appunto, con il benestare di elementi dell’amministrazione comunale di Fondi: prezzi del mercato, titolarità di fatto di varie ed importanti aziende agricole, decisione riguardo all’accesso al mercato di determinate imprese piuttosto che altre.

Il tutto, secondo i rapporti, basandosi su una forza di intimidazione esplicita o, nella maggior parte dei casi, implicita. La “filiera”, nel caso del MOF, si articolava appunto nel controllo di fatto del mercato da parte delle ‘ndrine locali ma non solo. Secondo l’indagine Sudpontino la produzione dei prodotti agricoli sarebbe controllata da elementi tanto di Cosa Nostra tanto della Stidda, e il trasporto dei prodotti ortofrutticoli nel basso Lazio sarebbe di fatto nelle mani di famiglie di riferimento del clan dei Casalesi. Nel caso specifico del MOF, dunque, l’utilizzo della società fondana Lazialfrigo (riferibile alla Paganese Trasporti, a sua volta riconducibile ai Casalesi) sarebbe stato di fatto l’atto di controllo per l’esportazione dei prodotti ortofrutticoli provenienti da Fondi e dintorni verso il settentrione e, attraverso il controllo del casertano, verso il mercato meridionale e siciliano. Una macchina perfettamente oliata, in cui la spartizione dei ricchissimi proventi della produzione agricola e dello sfruttamento dei terreni (e dei lavoratori) del basso Lazio verrebbe operata in maniera del tutto disinvolta da parte delle componenti mafiose, che con una semplice e indolore opera di coinvolgimento delle amministrazioni locali e di intimidazione degli avversari diretti.

I debiti vanno saldati L’infiltrazione nell’economia legale, come s’è visto, non è detto che segua metodi del tutto puliti: l’intimidazione è sempre dietro l’angolo, ed è un metodo infallibile. Non basterebbe ovviamente ciò a distinguere la mano della ‘ndrangheta sulla Capitale, ma il metodo mafioso è il più antico del mondo. E con l’operazione più antica del mondo le ‘ndrine si erano andate ad introdurre nel business più redditizio a Roma: il mattone. Nell’estate del 2019, l’operazione “Giù le mani” aveva portato al sequestro nella provincia di Roma di un ampio ventaglio di immobili, quote societarie, aziende. Nello specifico: 173 immobili ubicati in Roma e provincia (da Riano a Grottaferrata, passando per Morlupo e Rignano Flaminio),

provincia di Viterbo e inoltre province di L’Aquila, Genova, Sassari e Reggio Calabria; 40 complessi aziendali di cui ben 7 supermercati (in seguito al sequestro dei quali Carrefour Italia ha rilasciato dichiarazioni di estraneità alla faccenda) e quattro allevamenti di bovini; 38 quote aziendali e aziende individuali; e poi gioielli, macchine, assegni, dispositivi elettronici di ogni tipo e persino valute virtuali. Tutto ciò come risultato di una sola operazione di Polizia. Questo gonfio portafoglio era stato riempito, molto semplicemente, con l’usura: enormi prestiti da parte di esponenti delle ‘ndrine, e in particolare di quella Mollica-Morabito-Palamara-Scriva. Prestiti ad aziende, imprese e singoli terminati con l’insolvenza e con la cessione delle attività, che pur mantenevano il nome del precedente titolare sulla carta, ma de facto controllate dalle ‘ndrine.

Hobby D’altronde, il controllo di società immobiliari e di immobili, sempre secondo il rapporto Crime&Tech, costituisce l’altra grande attività e passione delle ‘ndrine calabresi oltre al commercio all’ingrosso (che, oltre all’ortofrutticolo – vedasi il sopra citato MOF – si articola persino nel controllo dell’attività di decine di fiorai, utilizzati alle volte persino come attività di copertura per lo spaccio). Le Direzioni Distrettuali Antimafia di Reggio e Catanzaro, oltre ai comandi provinciali di Cosenza e sempre di Reggio, avevano nel 2017 individuato in tutta Italia 54 imprese controllate direttamente o riconducibili ad attività ‘ndranghetiste e soprattutto alla ‘ndrina dei Piromalli. Ebbene, 24 di esse erano imprese romane o con sede legale a Roma. E, per la gran parte, volte a vincere appalti pubblici di tipo immobiliare o di manutenzione soprattutto stradale.

Se la ‘ndrangheta ha la possibilità, dunque, di allontanarsi dalla propria regione di origine, è solo grazie alla capacità di integrazione ed infiltrazione nelle economie già presenti, con un metodo tutto suo. E di occasioni, andando verso il nord, ce ne sono sempre di nuove.

Scomodo Gennaio 2020 di Pietro Forti

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