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Riccardo Vecchione di Bacon e Freud - Quando il male ti "esiste" dentro

Eppure, come recita il trailer di lancio, “quando pensi di aver capito tutto, Parasite si trasforma in qualcos’altro”. Non assumendo però le tinte orrorifiche di un Noi (2019) alla Jordan Peele, come invece ci si aspetterebbe. Le espressioni si fanno mostruose, la scala cromatica si sposta verso il verde spettrale e il rosso sanguigno, eppure l’impressione di trovarsi di fronte a una gigantesca critica alla società di classe si radicalizza. Ma lo scontro, che prima coinvolgeva ricchi e poveri, costringe i secondi a sbranarsi fra loro, lasciando momentaneamente i primi a masturbarsi indisturbati. E con lo spostamento del fuoco, anche il linguaggio subisce una manipolazione che, a ben guardare, lo rende più grottesco che propriamente horror. Se la prima ora di bobina si era concentrata sugli ectoparassiti, abitanti della superficie esterna dell’ospite, la seconda ne introduce una tipologia endoparassitaria, annidatasi per anni nelle cavità interne di Casa Park. La conseguenza è una guerra fratricida fra poveri, una lotta contro l’annegamento resa visivamente, in una scena emblematica, con due cessi apparentemente comunicanti: se l’uno scarica, l’altro straborda. E’ proprio questa capacità immaginativa del regista di Taegu a regalare spunti a tratti anche geniali, introducendolo fra le fila di quei grandi artisti capaci di plasmare le arti comunicative a loro piacimento. Come quello scrittore che sceglie determinate sonorità linguistiche per rievocare concetti di grettezza e putredine, così Bong Joon-woo rimanda direttamente a uno specifico bestiario animalesco con la semplicità di una immagine: “sapete quando accendi la luce e gli scarafaggi si disperdono?”. Così si congedano i parassiti. Trascinandosi nel buio, non visti, giù per i rigagnoli e gli anfratti della città. Compiendo una catabasi lungo le fogne della civiltà.

di Carlo Giuliano

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-------------------------------------------------------------------- Bacon e Freud / Quando il male ti "esiste" dentro

"Vorrei che i miei dipinti suscitassero la sensazione di essere stati attraversati da un essere umano che ha lasciato una scia della sua presenza, la traccia della memoria di eventi passati, proprio come una lumaca lascia la sua bava". Così diceva Francis Bacon a proposito della sua arte, e non potrebbe essere più suo l'immaginario viscerale di questa frase. Bacon è intrappolato dietro la maschera di William Blake in "Study for a portrait II": nel volto ceroso e repellente dello scrittore inglese si legge, anzi, si sente la sua presenza. Il nero dello sfondo e delle pareti, la ristrettezza dello spazio, le pennellate selvagge e cadenti contribuiscono perfettamente allo scopo del dipinto: lasciare chi guarda disorientato e far crescere una tensione ansiogena all’interno del dipinto senza che questa possa essere incanalata in qualche direzione ed essere smaltita. Bacon crea un mostro alla Elephant Man, grottesco e brutto fuori, rovinato dal suo tempo, come se fosse il mistero del nostro sentimento davanti alla sua visione a nutrirlo e mantenerlo vivo. Francis Bacon dipinge modelli, amici e amanti su sfondi neri, ma anche quando li ritrae in contesti familiari e spesso casalinghi, l'atmosfera è claustrofobica e disturbante in quanto le figure vengono scollegate dal contesto. L'effetto ottenuto si ha anche grazie alla collocazione di queste figure distorte all’interno di una perfetta scatola prospettica, oltretutto enfatizzata da precise linee geometriche. Bacon tende a giocare con le forme, decide con precisione cosa mostrare e cosa nascondere attraverso i colori e le pennellate frenetiche.

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La ricchezza dei contenuti delle ope- re del pittore lo rendono il protagoni- sta assoluto dell'esposizione, la quale però lascia spazio a piacevoli sorprese, come nel caso di Paula Rego (tra l'altro l’unica figura femminile del gruppo e, insieme a Frank Auerbach, la sola ancora in vita), e Michael Andrews, il più schivo e nascosto degli artisti di Londra, che forse meritava più spazio, in quanto con solo due opere rivela la sua grande portata comunicativa. Il collettivo della School of London (espressione coniata dall’artista Ron- ald Brooks Kitaj nel libro del 1976, The Human Clay) ha come minimo co- mune denominatore il fatto di ritro- varsi in una città dissestata e stravolta dalla seconda guerra mondiale. In questo tragico scenario Londra si apre come porto d' asilo per chi scappa dal- le persecuzioni naziste in Germania (come Frank Auerbach, Leon Kossof e Lucian Freud), per chi è in fuga da un regime totalitario (come Paula Rego, che cercava pace dal regime di Salazar in Portogallo), ma è anche un rifugio per un uomo come Francis Bacon, rifiutato e abbandonato dalla famiglia solo perché omosessuale. Londra, tuttavia, è molto lontana dall’essere un' oasi felice e rassere- nante, lo capiamo bene dalle geom- etrie incerte e traballanti delle Christ Churches di Kossof. La città diventa, più che altro, un centro gravitazio- nale disperante, in cui gli artisti vi- vono una vita on the edge - sull' orlo del precipizio, e intraprendono un processo personale di amara diges- tione degli eventi storici, e conseg- uente presentazione dei sentimenti di angoscia e smarrimento generati. Bacon, Freud e gli altri artisti, infatti, non raccontano, non insegnano: la loro è una pittura che ha come unico scopo quello di passare direttamente dagli occhi allo stomaco, senza so- stare per la mente. Vi è un grandissi- mo lavoro di studio proprio sul FAR SENTIRE e sulla resa estetica delle forme: in Bacon, ad esempio, si nota nell'utilizzo del viola e arancione aci- di a contrasto col nero e nella creazi- one di un’atmosfera senza ossigeno. Questo sforzo di aggredire i sensi non fa certo torto a Bacon e gli al- tri, al contrario, c'è da stender loro un tappeto rosso, giacché la loro arte è pura sensazione, e l'arte, in quanto tale, DEVE essere sentita. I soggetti di questi pittori sono ma- teriali, carnali: c'è chi li rappresenta con crudo realismo, e chi distorce le loro forme, le sfalda, le intrec- cia, ma ciò che conta è che sono reali, esistono; essi sono nient'al- tro che un passaggio di testimone, la traccia del dolore di un essere umano. Quello di cui parlano è un dolore vivo, tangibile e palpa- bile dallo spettatore. C'è chi questo dolore lo manifesta apertamente attraverso la durezza accecante dei corpi nudi come Freud (naked non solo perché sono senza vestiti, ma soprattutto perchè sono letteral- mente spogliati, veri), e chi come Rego e Andrews lo nasconde sotto un velo illusorio di spensieratezza. Ritornando al disegno, questo è per gli artisti di Londra un con- tinuo esercizio, che allo spettatore può quasi sembrare finalizzato a ricordare l’esistenza dei soggetti e a preservare la loro presenza fisica dalla paura, quella degli anni ’50, di un disastro nucleare imminente. Ma siamo sicuri che quest'ansia di volersi affermare come esseri esis- tenti sia confinata al periodo della guerra fredda? Probabilmente la riuscita comunicativa di questi ar- tisti va oltre il loro indiscutibile tal- ento. La paura di una distruzione prossima, una realtà omologata e disorientata e la volontà di sgomi- tare pur di distinguersi dalla mas- sa , sono le fibre che si intrecciano nel fil rouge che connette il mondo estemporaneo di Bacon e Freud al nostro. Se volete concedervi il beneficio del dubbio, andate alla mostra della Scuola di Londra..

di Riccardo Vecchione

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