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Daniele Gennaioli di "Ma stai a scherzà? Ma proprio a Roma vorresti suonare?
from N.28 GENNAIO 2020
by Scomodo
“Ma stai a scherza’? Ma proprio a Roma vorresti suonare?” --------------------------------------------------------------------------------------------------------- Una lunga considerazione su come si pone la nostra città nel booking internazionale, dalla musica leggera al genere più radicato
"Roma il 1.° Novembre 1786. Sì; io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuto visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più tardi."
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A distanza di più di duecento anni, le parole di Goethe nei suoi Ricordi di Viaggio in Italia rimangono tanto amare quanto valide, malgrado quel futuro già vissuto che ci ha consegnato la città per come la conosciamo. La sua complessità, le sue profonde contraddizioni e quell'aria di “buttarla in caciara, tanto vada come vada si accontentano”, queste peculiarità sono solo alcune delle cause per la quale una delle città più antiche del mondo versa in una condizione di snob autoindotto, o più verosimilmente di appannaggio culturale che la porta ad essere così ferocemente criticata, in primis dagli stessi cittadini. Ma dove ha più riscontro la caducità di questo processo di appannaggio, di questa falsificazione dell'offerta e mala organizzazione delle possibilità?
In tutti gli ambienti, dal figurativo all'audiovisivo passando per l'ambito musicale, c'è un sintomo conclamato di ritardo temporale, nel discorso artistico e nella sua evoluzione. Roma è indietro, non solo rispetto al resto di Europa e dell'Occidente dalle comuni origini culturali, ma rispetto soprattutto alle maggiori città di tutta la penisola, che contano di opportunità artistiche più suggestive e sicuramente meno imbarazzanti. Nel particolare, uno dei risultati più evidenti, anche all'occhio e all'orecchio di un ascoltatore occasionale, è la constatazione di come la città sembra essere esclusa dalle medie e grandi agenzie di booking internazionale. Con un occhio più stretto agli artisti attuali, che fanno uscire opere “long play” in questi anni di forte consumo musicale, la predisposizione a bypassare la città per andare a Milano, Torino, Firenza, Lucca, Bari e fino all'estremo meridione come Ortigia, è segno di una forte criticità nell'universo del booking romano, dall'organizzazione dei festival a quella locali a più ampio respiro. Non va naturalmente fatta tabula rasa in questo panorama: esistono pochissime eccezioni, contabili sulle dita di una sola mano, che fanno ancora da luce del faro, in grado quindi di poter offrire al pubblico un'artista europeo o statunitense che sia, fresco fresco della spremitura critica che lo classifica come nuovo testimone della direzione artistica che prenderà la musica di tutto il pianeta. E di conseguenza, anche il suo consumo e le sue rappresentazioni corollarie, dall'arte dei videoclip a quella della moda, dal dibattito politico alla ricerca estetica. Di generare quindi, dall’esperienza di un semplice concerto, un effetto domino degli interessi, che una volta coltivati si maturano in ulteriori conoscenze. Per affrontare questo argomento, abbiamo incontrato una personalità di riferimento nel mondo della musica italiana e internazionale, Raffaele Costantino. Il suo ruolo come DJ e speaker su Rai Radio 2 e la sua figura di musicista e producer, rilevante nel mondo dell'elettronica, del jazz e dell'hip hop, soprattutto quello fuoriporta, interprete di linguaggi provenienti dall'Africa, dalla scena losangelina e da quella londinese. L'incontro con una figura non solo tecnicamente preparata ed esperta, ma propriamente intellettuale e con le sue posizioni a riguardo, ha consentito alla semplice considerazione di partenza di poter diventare un ragionamento tanto intuitivo quanto efficace, scoprendo che non ci si deve minimamente soffermare sugli aspetti burocratici del fenomeno, ma maggiormente su quelli culturali e sociologici. Chi è Raffaele Costantino? E a sua volta chi è DJ Khalab? E soprattutto, quali sono state le tue esperienze che ti hanno portato ad essere la figura che rappresenti? Allora, Raffaele Costantino è ovviamente il mio nome e cognome, con la quale mi sono ritrovato, mentre invece Khalab è il nome che mi sono scelto come Alias artistico. La mia carriera è iniziata una ventina di anni fa a Roma, lavorando come commesso in un negozio di dischi, addetto alla musica alternativa, come il jazz, l'hip hop, il soul, il funk e la world music. Pian piano ho iniziato a collaborare come giornalista per alcune riviste, come Rockstar e altre sorelle italiane, mentre frequentavo l'Accademia della Critica inMusica Internazionale, diretta da Vincenzo Martorella. Da li è nata una carriera da DJ, prima per mantenermi, poi mi sono accorto che è diventato proprio un lavoro. Tutto questo si è abbinato ad un percorso professionale nella radio dove lavoro da 12 anni, nella quale adesso tengo un programma dedicato alle musiche alternative, Musical Box su Rai Radio Due. Per quanto riguarda la mia carriera come artista, ho sentito la necessità di coniugare i tre linguaggi su cui investivo la maggior parte della mia ricerca musicale, ossia jazz, elettronica e musica africana. Tutto questo è nato come progetto dal nome di Dj Khalab. Alla fine conto di due anime, una di artista, l’altra di conoscitore e consulente musicale, lavorando anche con molti brand tra cui Nike e Redbull. Partiamo da un pregiudizio diffuso, specialmente nella nostra generazione, dai ‘90 in poi, è vero che Roma è una delle città più snobbate dal booking estero? Diciamo che Roma in sé non è snobbata da nessuno, dovunque tu vada qualsiasi artista ti dice quanta è bella Roma e quanto sarebbe bello poterci organizzare qualcosa. Il problema è che la che la città stessa si autoesclude per una serie di dinamiche complesse, di natura sia sociologica che economica. Queste dinamiche non arrivano in termini di approfondimento al promoter o all’organizzatore di eventi americano o inglese che sia. Quello che arriva è un output finale che è quello della mancanza di richiesta: Roma ha dimostrato negli ultimi venti anni, sarà per un cambio generazionale, sarà per un annichilimento della popolazione, sarà per un tipo di taglio e di ricerca di intrattenimento di queste generazioni, di essere una città che in realtà non crea domanda. “Una delle città più antiche del mondo versa in una condizione di snob autoindotto, o più verosimilmente di appannaggio culturale.”
Tutti gli esperimenti che sono stati fatti dal 2000 in poi sulla ricerca, la qualità, tutti i lavori di approfondimento in ambiti alternativi non hanno mai creato grandissimi numeri, anche perchè non è a tutti gli effetti una città giovanissima. Ha un percentuale di ragazzi molto giovani, di studenti universitari che non hanno il budget per vedere grandi concerti, si ascoltano più i grandi i classici che la musica nuova, quella contemporanea. Ti faccio un esempio: i ragazzi del Cinema America sono diventati il riferimento culturale della sinistra italiana, facendo il cinema in piazza e quindi proponendo qualcosa di culturale. In realtà più che culturale il lavoro che fanno, impegnandosi e ottenendo ottimi risultati, è qualcosa di politico, concentrandosi sulla coesione del territorio e la partecipazione di quartiere. Sul piatto di culturale non viene aggiunto nulla, non c’è una vera rivoluzione: mentre stanno lavorando e si smazzano, chi mette la musica per passare il tempo non mette qualcosa di attuale e di poco conosciuto ai più, mette Rino Gaetano. La risposta, sana e corretta, che ti danno nel chiedergli perché proprio lui è sempre quella: perché a me, a noi piace questa musica qui. Non è di per sé il fenomeno sbagliato, solo che sta alla base di una forte mancanza di un tipo di intrattenimento che soddisfi la sete di cultura adesso, di conseguenza non ci sono i numeri per il pubblico e in conclusione non si fanno certi eventi. C’è una piccola fascia che il budget per andare all’estero a vedersi il Primavera, il Sonar, il North Sea Jazz e così tanti altri, però se ci pensi saranno i primi che se un concerto simili si ripresenterà qui a Roma diranno “tanto l’ho visto a Barcellona, perché dovrei rivedermelo qui”. Tutto questo sta alla base della domanda, senza quella ovviamente in Italia non si crea la richiesta.. Tanto ovvio quanto poco banale. Sulla figura allora del DJ, dello strillone musicale che ricopre un ruolo fondamentale negli eventi musicali a Roma, pensi anche tu che in quest’ultimo periodo questa professione abbia un orecchio spostato eccessivamente all’idea di nostalgia? Assolutamente. Quello fa sempre parte del carattere di questa città, c’è poco da fare. Tutte le città hanno il proprio carattere e te lo dice uno che è arrivato a Roma a venti anni, con un senso critico già acceso. Questa città ha la capacità di mantenere agli occhi del mondo la sua storia e le sue antichità, dimenticandosi di concentrarsi anche sul futuro e sulle sue possibili direzioni, qualunque sia la forma artistica che queste prendono. Di queste figure che ogni settimana propongono serate potremmo citarne a migliaia, sono persone che si sono affezionate ad un certo tipo di musica che per loro, e per molti altri, ha del mitologico. Coloro che si vogliono alloggiare sugli allori di un passato così prossimo possono farlo, molti di loro hanno anche più di 50 anni e si ritrovano alle loro serate ragazzi e ragazze di 20-25 anni. Però tutto questo è il segno di una mancanza del filo, della curiosità e dell’interesse per la musica in termini di contemporaneità, un lavoro che secondo me sono proprio i DJ a dover fare. Dalla fine degli anni 80 in poi i DJ hanno smesso di intrattenere e basta, sono diventati ricercatori, appassionati, collezionisti, esperti nel proporre un suono che abbia la capacità di sintetizzare concetti, di asciugare i ragionamenti in ambito musicale. Un critico alla rovescia insomma, al posto di criticare il prodotto... Te lo confeziona, te lo costruisce e te lo presenta attraverso anche nuovi strumenti, come quello della playlist e non per forza quello del DJ set. Ci sono invece molti che sono rimasti con l’idea dello zompettare alle feste, con quella musica e con quello stile, e tutto questo per loro non si evolverà mai. “Siamo pieni di luoghi contenitori, ma non abbiamo laboratori, luoghi che invece aiutano a sviluppare contenuti.”
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“Il problema è che la città stessa si autoesclude per una serie di dinamiche complesse, di natura sia sociologica che economica.” Riprendendo l’argomento della città che si auto-esclude, come li vedi i concerti “one wonder” che le istituzioni propongono, organizzando eventi di massa in luoghi come il Circo Massimo e lo Stadio Olimpico? Sono solo eventi di garanzia, oppure sono un tentativo di far passare Roma per una città che conta, quando poi a tutti gli effetti non è così? Quelle sono le brioche regalate al popolo. Chiamare un grande nome come una popstar commerciale o un vecchio babbione, prendi Phil Collins o i Rolling Stones, quello è il modo per riempire una piazza chiamando il più sputtanato dei musicisti e mettendolo nella più sputtanata delle arene, con dietro una storia pazzesca come il Circo Massimo. L’amministrazione ha del cash da spendere, tre o quattro uffici di booking si presentano e sapendo che i comuni sono quelli a cui si possono spremere più soldi, si organizza l’evento. Il promoter privato già fà più fatica di fronte a questi eventi, ma la base è sempre quella di voler far passare l’idea di un’amministrazione che cura anche questi aspetti, che bada al popolo anche in questi ambiti. Diamo un pò di numeri: la SIAE ha pubblicato la lista dei concerti con maggiore affluenza di tutto il 2019, trovando ai primi posti città come Firenze, Milano, Bologna. Roma. Lo stesso concerto di Ed Sheeran, popstar internazionale più vista dagli italiani nell’anno passato, ha fatto più numeri a Firenze (61.867) che nella capitale (59.964). Il pubblico allora c’è, si muove e genera una grande affluenza a questi eventi: è possibile allora, oltre ad una posizione di auto-esclusione, aggiungere una posizione di omertà alla nostra città, che non collabora minimamente con i booker stranieri, privilegiando le agenzie che si sono già consolidate? Sono le stesse che a loro volta gestiscono quasi sempre solo artisti italiani. Quando si parla di una maggiore affluenza in Italia rispetto ai paesi esteri io ci credo, quando gli eventi più grossi vengono spinti bene si crea un’affluenza enorme. Non è proprio una questione di omertà. Uno dei grandi problemi di questo paese però è che la SIAE sta facendo una battaglia sbagliata in partenza, quella di insistere a valorizzare la musica italiana, spendendo un sacco di soldi per questo programma di artisti in ascesa. Vengono mandati all’estero per farsi conoscere, pagando loro tourneè e trovando loro i locali, i teatri, i luoghi dove potersi esibire. Ma cosa sperano, che poi quando si ripresenteranno si potranno riesibire senza problemi, se la prima volta che l’hanno fatto non c’era nessuno? Qui c’è bisogno di aprire la mente del pubblico italiano alla cultura musicale del mondo. Mandare degli artisti in giro senza lavorare sulla loro musica, in modo da poter superare quello che fanno all’estero, senza continuare a scopiazzare o a rimanere indietro nel linguaggio e nelle mode, dovrebbe essere alla base di questo lavoro. Far diventare i nostri artisti migliori di quelli stranieri è un obiettivo che si può porre già partendo dal permettere loro di viaggiare e di arricchire il proprio bagaglio culturale. Si potrebbe rifare lo stesso paragone delle brioche, al posto di spendere un milione di euro per fare un capodanno con Laura Pausini, quei soldi invece li distribuisci per cento giovani artisti sotto i 25 anni, gli dai 50.000 mila euro a testa per fargli smettere di fare i camerieri per un anno e costruirsi il proprio studio indipendente. Invece la politica deve fare altro, deve stringere le mani, come è successo ad esempio con l’Ex Gil. Ho seguito con l’incarico della Regione Lazio il progetto di riqualificazione di questo posto, in modo che diventasse un centro di creatività. Quando si sono resi conto che il progetto era destinato a poche persone, incentrato sull’ascolto e sulla creazione di contenuti, lo hanno fatto subito fuori.
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Quello che gli serviva era un luogo dove poter stringere re- lazioni, fare presentazioni, eventi, ospitate, un luogo con- tenitore. Siamo pieni di luoghi contenitori, ma non abbiamo laboratori, luoghi che invece aiutano a sviluppare contenuti.
Per quanto riguarda tutte quelle situazioni parallele alle istituzioni, dove la collettività si riunisce come all’Angelo Mai o molti altri, dove molti artisti trovano luogo per po- tersi esibire, specialmente dall’e- stero, non pensi che possano essere simbolo di una nuova fertilità arti- stica, in grado di far maturare an- che da noi artisti come FKA Twigs? Quando parli di Fka Twigs, parli di una ragazza figlia di una serie di contaminazioni e esperien- ze, figlie a loro volta di una città come Londra, dove si mischiano decine di culture e di etnie diver- se. Quando in un paese come il nostro combattiamo l ingresso di altre persone e non ci lasciamo contaminare, non possiamo pre- tendere di tendere a questo feno- meno. A Londra, a New York, a Parigi ci vivono africani, giamai- cani e tante altre comunità che da 40 50 anni hanno avuto figli, i quali sono andati a scuola, si sono fidanzati e a loro volta han- no rifatto altri figli. Questi sono ragazzi che se a 15 o 16 anni ascol- tano la musica nera, ci si ricono- scono perfettamente, non hanno la necessità di ascoltare cazzate, come Giusy Ferreri, i TheGiorna- listi o altri surrogati della musi- ca. Questi sono abituati ad ascol- tare la musica vera, a casa hanno dischi di Coltrane e non di Rino Gaetano, con tutto il rispetto per la figura. Finchè non saremmo una società contaminata, finchè non avremmo in 10 persone a tavola 5 di altre nazionalità, non saremmo mai abbastanza aper- ti a far parte del mondo e tut- to il discorso della domanda e dell’offerta non si risolverà mai.
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Quello che possono fare le istitu- zioni è creare laboratori, esempi come l’Angelo Mai o come è sta- to il Rialto. Invece sono gli stessi luoghi che rischiano la propria pelle, con uno stato che li para- gona a quei locali che fanno bal- lare la musica latino-americana sul tavolo. Il governo non si è creato strumenti per analizzare questi sistemi, non consultano esperti sul merito e applica- no le leggi e basta, non creano laboratori e neanche propon- gono luoghi in sostituzione a queste operazioni di sfratto. Tutto quello che riesce a fare l’amministrazione è prenderse- la con luoghi che non hanno la forza economica per pagare tut- to quello che andrebbe pagato, cifre esorbitanti anche per gli stessi privati. Tanto quello che interessa è la piazza, la stretta di mano e i sorrisi sotto il palco.
Partendo da un contesto così difficile, la nostra generazione dovrebbe impegnarsi a ricostruire la città, sotto quindi anche il profilo culturale. Semmai tutto questo dovesse prendere piede, quali sono secondo te a Roma i generi che la potrebbero rappresentare, di cosa potrebbe diventare crocevia la no- stra città? Premetto subito che è assoluta- mente vero che avete sete, vedo molti giovani andare a concerti di musica alternativa, il proble- ma come ti ho detto è che man- cano i grandi numeri. Il Pigne- to ad esempio è pieno di posti convergenti, con tante proposte che rientrano in un certo spirito.
Sì, ma se si va a vedere in termini di acustica… L’acustica non è tanto un pro- blema, in tutta Italia è così: uno apre un posto, poi si vede se suona bene o no. Nel resto del mondo si pensa a cosa si farà suonare, si costruisce un locale in base al genere che si ospiterà.
Ad ogni modo, Roma ha risposto alla grande sull’elettronica estrema, la techno poco influenzata da altri generi, un po’ rientrando nel ragionamento del non farci contaminare. Sull’altra sponda c’è un forte seguito per l'indie rock, per la scena indipendente e per il post punk, vivendo una sorta di post-adolescenza mai maturata. Quella di volerti far sentire che adesso cambiamo il mondo, che siamo rivoluzionari, che dobbiamo lasciare la donna della nostra vita per essere più poetici, che c’è un cattivo da combattere. In questi due generi possiamo sperare come crocevia, sebbene grazie a delle operazioni dell’Auditorium e di altri enti per un periodo siamo stati importanti anche nel jazz internazionale. Ma anche lì siamo stati bruciati da Milano, dalle serate più fresche che vengono proposte lì. Al posto di stare zitti e seduti, di andarsene immediatamente alla chiusura, di non potersi bere una birra in tranquillità dopo l’evento, in tutto il mondo si balla fino alle 5 di mattina quando si va ad un evento jazz. All’Auditorium invece no, parlo a ragion veduta, essendo stato il consulente musicale per dieci anni. Un’ultima riflessione: pensi che il concerto a Luglio di Kendrick Lamar possa essere considerato un miracolo? Che possa essere considerato un primo passo all’apertura dell’attuale mainstream di genere? Assolutamente no. Fa parte di un ragionamento imprenditoriale, lo so perchè conosco molto bene chi ci sta dietro e giustamente è qualcuno che si è detto “Quanti numeri fa questo ragazzo? Quando ho un buco nel mio palinsesto?”, ha unito le due cose e c’è venuto fuori il concerto. Se non fosse stato Kendrick Lamar probabilmente non sarebbe successo niente. Fa sempre capo ad un ragionamento di domanda e offerta, potrebbe benissimo non piacere agli stessi organizzatori la musica di un’artista così rilevante a livello mondiale come Kendrick. Sulla falsariga di un’inchiesta, la discussione con Raffaele è servita ad evidenziare come non esiste alcuna forma di ostracismo nei nostri confronti da parte degli entourage internazionali: le ragioni alla base di questo fenomeno sono radicate nel nostro tessuto sociale, nei cambiamenti culturali di cui siamo stati vittime e complici allo stesso tempo. Come gli asini dietro la lavagna, ci sentiremmo sempre incompresi, rimanendo tuttavia ignoranti, non solo nella musica ma anche in tutte le altre forme. A volte basta soffermarsi a riflettere: perche città come Venezia e Torino gestiscono delle iniziative a sfondo cinematografico che fanno impallidire la corrispondente romana? La nostra eredità culturale rimarrà in una fase stantia se non si inizia a lavorare sia sul piano territoriale, sia sul carattere individuale. I primi segnali ci sono stati, la musica indipendente italiana sta iniziando a contare sempre di più, ma molto spesso è solo una figura sbiadita della controparte statunitense. Come accennavano gli scrittori più di duecento anni fa, Roma in realtà non è cambiata così tanto, ha sempre avuto bisogno di interpreti che comunicassero non solo la sua storia, ma il suo presente, che scoprissero il rapporto correlativo che c’è tra il giudizio e lo “stato di cose”, tra la realtà isolata dal suo contesto globale e il momento che la va a descrivere. Sulla base di questo, dovremmo iniziare a porci come tali, interpreti del nostro futuro, o a valorizzare i pochi rimasti, che riescono a darci delle tracce da seguire. di Daniele Gennaioli “Al posto di stare zitti e seduti, di andarsene immediatamente alla chiusura, di non potersi bere una birra in tranquillità dopo l’evento, in tutto il mondo si balla fino alle 5 di mattina quando si va ad un evento jazz.”