N.28 GENNAIO 2020

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Eppure, come recita il trailer di lancio, “quando pensi di aver capito tutto, Parasite si trasforma in qualcos’altro”. Non assumendo però le tinte orrorifiche di un Noi (2019) alla Jordan Peele, come invece ci si aspetterebbe. Le espressioni si fanno mostruose, la scala cromatica si sposta verso il verde spettrale e il rosso sanguigno, eppure l’impressione di trovarsi di fronte a una gigantesca critica alla società di classe si radicalizza. Ma lo scontro, che prima coinvolgeva ricchi e poveri, costringe i secondi a sbranarsi fra loro, lasciando momentaneamente i primi a masturbarsi indisturbati. E con lo spostamento del fuoco, anche il linguaggio subisce una manipolazione che, a ben guardare, lo rende più grottesco che propriamente horror. Se la prima ora di bobina si era concentrata sugli ectoparassiti, abitanti della superficie esterna dell’ospite, la seconda ne introduce una tipologia endoparassitaria, annidatasi per anni nelle cavità interne di Casa Park.

La conseguenza è una guerra fratricida fra poveri, una lotta contro l’annegamento resa visivamente, in una scena emblematica, con due cessi apparentemente comunicanti: se l’uno scarica, l’altro straborda. E’ proprio questa capacità immaginativa del regista di Taegu a regalare spunti a tratti anche geniali, introducendolo fra le fila di quei grandi artisti capaci di plasmare le arti comunicative a loro piacimento. Come quello scrittore che sceglie determinate sonorità linguistiche per rievocare concetti di grettezza e putredine, così Bong Joon-woo rimanda direttamente a uno specifico bestiario animalesco con la semplicità di una immagine: “sapete quando accendi la luce e gli scarafaggi si disperdono?”. Così si congedano i parassiti. Trascinandosi nel buio, non visti, giù per i rigagnoli e gli anfratti della città. Compiendo una catabasi lungo le fogne della civiltà. di Carlo Giuliano

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Bacon e Freud / Quando il male ti "esiste" dentro "Vorrei che i miei dipinti suscitassero la sensazione di essere stati attraversati da un essere umano che ha lasciato una scia della sua presenza, la traccia della memoria di eventi passati, proprio come una lumaca lascia la sua bava". Così diceva Francis Bacon a proposito della sua arte, e non potrebbe essere più suo l'immaginario viscerale di questa frase. Bacon è intrappolato dietro la maschera di William Blake in "Study for a portrait II": nel volto ceroso e repellente dello scrittore inglese si legge, anzi, si sente la sua presenza. Il nero dello sfondo e delle pareti, la ristrettezza dello spazio, le pennellate selvagge e cadenti contribuiscono perfettamente allo scopo del dipinto: lasciare chi guarda disorientato e far crescere una tensione ansiogena all’interno del dipinto senza che questa possa

essere incanalata in qualche direzione ed essere smaltita. Bacon crea un mostro alla Elephant Man, grottesco e brutto fuori, rovinato dal suo tempo, come se fosse il mistero del nostro sentimento davanti alla sua visione a nutrirlo e mantenerlo vivo. Francis Bacon dipinge modelli, amici e amanti su sfondi neri, ma anche quando li ritrae in contesti familiari e spesso casalinghi, l'atmosfera è claustrofobica e disturbante in quanto le figure vengono scollegate dal contesto. L'effetto ottenuto si ha anche grazie alla collocazione di queste figure distorte all’interno di una perfetta scatola prospettica, oltretutto enfatizzata da precise linee geometriche. Bacon tende a giocare con le forme, decide con precisione cosa mostrare e cosa nascondere attraverso i colori e le pennellate frenetiche.

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77

Scomodo

Dicembre 2019

77


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