N.28 GENNAIO 2020

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L’EDITORIALE di Pietro Forti

La comprensione di un fenomeno così ampio come quello mafioso, che al livello mondiale ha avuto un’influenza profonda e duratura, oggi non può essere compresa se non all’interno di un quadro complesso, composto da decine di attività e di immagini riconducibili alla “mafia”. La mafia è diventata così tanto parte di così tante diverse vulgate che, oggi, diventa quasi del tutto impossibile stabilire cosa sia mafia e cosa non lo sia. Probabilmente, ciò ha anche a vedere con usi impropri del termine: il metodo mafioso e le caratteristiche di un’associazione a delinquere di stampo mafioso sono scolpite nel marmo dalla legge italiana, e tuttavia la definizione di cos’è effettivamente mafia si palleggia in maniera infinita tra due estremi. Un estremo è quello che, per semplicità, potrebbe essere definito “mediatico”: la mafia sarebbe ovunque, sarebbe tutto, dal più piccolo degli evasori sino agli abitanti di un palazzo occupato, senza ovviamente trascurare lo zingaro (d’altronde, tra un Casamonica e l’abitante campo nomadi non può esserci troppa differenza). Questo tipo di narrazione tossica non ha fatto altro che sottrarre rilevanza al fenomeno mafioso vero e proprio, descrivendo come mafia semplicissime organizzazioni a delinquere, in modi talmente pittoreschi ed esagerati da aver causato, probabilmente, più di un disturbo delirante. L’altro estremo, d’altronde, non è meno pericoloso. Le reclamizzate morti violente causate da Cosa Nostra, la violenza generalizzata nelle faide interne alla camorra e le continue intimidazioni hanno portato a considerare mafia solo le peggiori bande armate. Ovviamente, la narrazione di questi eventi vuole la sua parte. Da Gomorra a Romanzo Criminale e Suburra, passando per le decine di rappresentazioni della violenza attuata da Cosa Nostra dagli anni ’70 agli anni ’90, della mafia si è praticamente sempre raccontato il lato televisivo: gli omicidi, lo spaccio, l’intimidazione. E laddove la ruberia e il controllo ramificato del territorio non bastava ad incutere terrore nello spettatore, una sparatoria risolveva il problema. Si è abituata, dunque, una buona fetta l’opinione pubblica a pensare che in assenza di una massiccia e perpetua violenza non si potesse parlare di mafia. E, quindi, a non sospettare minimamente che in ogni attività, impresa o atto di amministrazione della cosa pubblica si potesse annidare il fenomeno mafioso. Scomodo

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Ciò è ancora più drammaticamente vero se si considera l’evoluzione della nostra società: in un sistema cittadino che offre sempre più opportunità di consumo e che si apre definitivamente a una potenziale espansione perenne, le contraddizioni si moltiplicano. Con l’evoluzione della società, i nuovi ordini mafiosi si sono evoluti per necessità e hanno imparato a perpetuare il metodo mafioso in contesti diversissimi tra loro e molto lontani dai confini della terra d’origine. Qui, soprattutto nelle amministrazioni locali e nelle imprese, le mafie sono un coltello del burro, un elemento nuovo per cui in moltissimi casi non si hanno gli anticorpi. E dunque si vanno moltiplicando i casi di corruzione e di infiltrazione profonda nel tessuto sociale, economico ed amministrativo tanto dei piccoli quanto dei grandi centri abitati. C’è dunque una mancanza di lucidità di fondo nell’individuare il fenomeno mafioso oggi, e questa mancanza è gravida di conseguenze. Non si è abituati minimamente a riconoscere un’attività di tipo mafioso, innanzitutto; non si è abituati a considerarlo un problema ordinario, attribuendogli un valore di fatto “straordinario” nel più intimo senso del termine; non si è abituati, infine, a considerarla una questione di primo piano, di fatto marginale nella vita del Paese (e non solo). Ebbene, se c’è qualcosa che i “grandi” dell’antimafia italiana si sono prodigati nel descrivere è proprio ciò: laddove c’è mafia, c’è un danno per la comunità. Diventa cruciale descrivere con precisione sempre crescente, dunque, il fenomeno mafioso attraverso le attività che gli sono state riconosciute negli anni dalla legge e dalla giustizia. Nelle pagine del focus che apre questo numero Scomodo è andato a raccontare l’attività mafiosa della ‘ndrangheta, che occupa decine di pagine negli atti giudiziari e l’attenzione perpetua degli inquirenti, ma la cui attività in tutta la penisola è al contempo sconosciuta ai più. L’obiettivo, dunque, è restituire al fenomeno mafioso (e in questo caso ‘ndranghetista) la dimensione e l’immagine che realmente gli appartengono. Anche e soprattutto tra i lettori che appartengono a una generazione, quella più giovane, a cui la mafia è stata raccontata con estrema imprecisione.

Buona lettura! 1


I N D I C E FOCUS LA NUOVA MALATTIA • L'espansione incontrollata della 'ndrangheta Il male più grande di Claudio Minutillo Turtur Terra di nessuno di Pietro Forti Turismo e terremoto di Alessandro Luna Romanzo settentrionale di Chiara Falcolini

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ATTUALITÀ Risiko libico di Luca Bagnariol, Alessandro Luna, Simone Martuscelli Le Indie di Modi di Susanna Rugghia, Leonardo João Trento, Francesco Paolo Savatteri Questioni di rappresentanza di Rodolfo Cascino-Dessy,Federico Leuci,Simone Martuscelli I CONSIGLI DEL LIBRAIO Parallasse di Marco Collepiccolo e Rebecca Cipolla

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MOSTRI Ex oleificio di Ilaria Michela Coizet

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CULTURA LA COPERTINA di Alessio Zaccardini "Ma stai a scherzà? Ma proprio a Roma vorresti suonare?" di Daniele Gennaioli Tolo Tolo, trapasso di un successo di Lorenzo Vitrone I will not make any more boring art di Luca Giordani e Gaia Del Bosco Stereo8 di Jacopo Andrea Panno La pupa e il secchione di Cosimo Maj Questa non è una pagina spam di Maria Marzano

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RECENSIONI 76 Parasite -Quando la lotta di classe si trasforma in disinfestazione di Carlo Giuliano 76 Bacon e Freud - Quando il male ti "esiste" dentro di Riccardo Vecchione 77 PLUS Qualcuno pensi ai bambini! di Luca Bagnariol Il grande tabú storico di Lorenzo La Malfa Sognando la Transizione di Lorenzo Cirino

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LA NUOVA MALATTIA

L'ESPANSIONE INCONTROLLATA DELLA 'NDRANGHETA Recenti inchieste hanno tentato di ferire un pesante colpo alla ‘ndrangheta, e il risultato è stata un’operazione di dimensione nazionale. Tuttavia, la percezione del fenomeno mafioso, ed in particolare di quello ‘ndranghetista, è estremamente ridotto e relegato ad un bagaglio di immagini del passato. La realtà, dagli anni ’90 e dagli anni delle stragi di mafia, è profondamente cambiata, e i metodi di infiltrazione ed intimidazione della ‘ndrangheta hanno iniziato a divorare quasi ogni regione del Paese. Ovunque ci sia un business redditizio, c’è una buona possibilità che la ‘ndrangheta ci abbia messo gli occhi sopra, e le ‘ndrine si moltiplicano in tutta Italia

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Metastasi La mancanza di una narrazione popolare e radicata del fenomeno mafioso, probabilmente, ha radici culturali fin troppo profonde per analizzarle compiutamente. Tuttavia, è possibile con un po’ d’olio di gomito descrivere il fenomeno con dei casi di studio tutt’altro che semplici, ma facilmente comprensibili una volta sviscerati. L’obiettivo del focus, dunque, è quello di analizzare il fenomeno mafioso attraverso la descrizione di quella che è stata definita (definizione ripresa più volte negli articoli che compongono quest’approfondimento) “metastasi” con non poco acume. Termine medico che descrive la diffusione di un tumore, la metastasi è metafora quasi perfetta della diffusione di una specifica associazione mafiosa, ovvero la ‘ndrangheta, al centro delle analisi che leggerete. Chi ha scritto questo focus consiglia di guardare alla scelta di descrivere la diffusione delle ‘ndrine attraverso l’espediente della narrazione di poche regioni con attenzione: è descritta non solo la diffusione della ‘ndrangheta, radicata ben oltre le regioni scelte, ma una serie di modi operandi ricorrenti nella scelta delle attività e nella capacità di riproporre metodi di infiltrazione e di radicamento. Una scelta differente, quella procedere per attività criminali avrebbe probabilmente dei parametri di ricerca incentrati sulla gravità dei singoli crimini e sulle economie legali spesso viste come “più infiltrabili”. Le statistiche sui comuni sciolti per ‘ndrangheta ovviamente porterebbero a percentuali fuorvianti, e una mappa probabilmente non aiuterebbe in alcun modo la descrizione dell’espansione preoccupante delle ‘ndrine. Partire dunque dalla Calabria per risalire la penisola, dunque, non è la traiettoria di un viaggio, ma la descrizione di una metastasi. La quale, risulterà evidente, è ad uno stato avanzatissimo.

Il male più grande

Come la 'ndrangheta regna indisturbata in Calabria. È appena iniziato il 2020, ed è quindi il momento del bilancio del 2019 per la Calabria. I dati sono tutt’altro che confortanti: otto comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Per capire perché la ‘ndrangheta di fatto monopolizzi un’intera regione dobbiamo innanzitutto ripercorrere brevemente la sua storia e spiegare la sua organizzazione. La ‘ndrangheta calabrese si basa su “ndrine”, ossia famiglie mafiose storiche che si arricchiscono di nuovi componenti di generazione in generazione. Le ndrine sono raggruppate in “locali” o “società”, i quali presentano organi di vertice chiamati “mandamenti” , “crimine” o “provincia”. Il ruolo di questi ultimi è fondamentale in quanto hanno il compito di coordinare l’azione unitaria dell’organizzazione, dirimerne le controversie e garantire il rispetto delle regole. 4

Proprio per questa sua articolazione così elementare, la ‘ndrangheta è stata presa sottogamba negli anni, considerandola per molto tempo subalterna e meno pericolosa rispetto a Cosa Nostra. Ad oggi è chiaro che questo fu un tragico errore che permise, dopo il duro colpo inflitto a Cosa Nostra con il maxiprocesso del ‘92-’93, alla ‘ndrangheta di avere strada spianata per diventare la più potente organizzazione criminale al mondo. Proprio questa sua struttura semplice ha permesso alle ‘ndrine di espandersi all'estero, riproducendo il loro modello vincente in territori insospettabili l, come l'Australia. Ciò che distingue la ‘ndrangheta rispetto alle altre storiche associazioni criminali è la sua storica capacità di variare e di adattarsi in modo camaleontico a una società in continua trasformazione. Scomodo

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Le ‘ndrine infatti sono passate dall’originaria infiltrazione nel settore agropastorale del primo Novecento al “business” dei sequestri di persona tra gli anni 70-90, per approdare al traffico di stupefacenti dal 1991. Un cambiamento dovuto al fatto che i sequestri di persona si erano rivelati non più proficui in seguito alla legge numero 82 dello stesso anno che stabilì il congelamento dei beni delle famiglie colpite da rapimenti.

in quanto investimenti considerati altamente sicuri. Stando al rapporto del 2013 dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, sono stati sequestrati 11238 immobili e 1708 aziende. Rispetto al 2018 si contano invece rispettivamente: 729 soggetti segnalati alle autorità giudiziarie per estorsione, 70 per usura, 234 per riciclaggio e 182 per associazione finalizzata a traffico di stupefacenti.

L’origine La ndrangheta è purtroppo un cancro inestirpabile in Calabria: la metastasi è così diffusa che di fatto ne controlla ogni settore economico. Com'è stato possibile? La risposta sta nel fatto che la ‘ndrangheta è per molti il miglior datore di lavoro. Basta pensare al fatto che nella regione la disoccupazione tocca il 20% (il doppio rispetto alla media italiana), e che i giovani calabresi sono purtroppo destinati ad un futuro misero qualora non emigrino. In questo scenario disperato allora subentra la mafia, che riesce a convertire il disagio e la miseria a suo favore rendendo complice del suo progetto criminale l’intera società civile, creando un clima di terrore e allo stesso tempo un grande consenso tra il popolo che le sarà sempre riconoscente per non essere stato condannato a una vita di stenti. Tuttavia, anche se tutta la regione lavorasse per la ‘ndrangheta, questa non sarebbe in grado di disporre di un patrimonio multimiliardario come quello attuale. Per raggiungere tali cifre infatti non si serve di persone casuali, ma di soggetti che garantiscono contatti diretti con “i poteri forti” tramite uno spregevole do ut des. Centrali sono infatti le figure di avvocati, notai e medici. Questi ultimi, tra le altre cose, sono in grado di garantire perizie false ai mafiosi, così da tentare di farli sottoporre a regimi carcerari più leggeri e talvolta di fargli evitare direttamente la reclusione. Per capire l’influenza e il potere spaventoso che le cosche calabresi possiedono i dati sono più eloquenti di fiumi d’inchiostro. Relativamente al 2013 ad esempio, la situazione è la seguente: riciclaggio di denaro per 118 miliardi di euro (più del 10% del PIL italiano), 6,7 miliardi di ricavi in seguito ad aggiudicazione di appalti pubblici e 4,1 per lo smaltimento di rifiuti tossici. A fronte di questi immensi guadagni la ‘ndrangheta, ormai da molti anni, investe prevalentemente nel mercato immobiliare e in asset mobiliari,

Nuove passioni Questi potrebbero in un certo senso definirsi come i “classici” reati di stampo ndranghetista che si presentano con regolarità anche in tutte le altre regioni in cui si è infiltrata; più inaspettato invece è il fatto che negli ultimi anni si registri una grande presenza della ‘ndrangheta in tre campi in particolare: la sanità, l’appropriazione illegittima dei fondi europei per la PAC (politica agricola comune) e il gioco d’azzardo online. Riguardo il primo, occorre fin da subito premettere che si intende tanto sanità privata quanto pubblica. Proprio rispetto a quest’ultima ci sono stati dei casi di cronaca che hanno reso evidente la situazione insostenibile che vive la Calabria, come quello dell’ASL di Locri che nel 2007 è stata sciolta per mafia. Dalle indagini risultava infatti che era diventata un vero e proprio centro nevralgico per le ‘ndrine, che l’avrebbero trasformata in un giro d’affari di circa 180 milioni di euro e 1700 dipendenti. Casi simili si sono verificati nel 2018 e 2019 tanto a Reggio Calabria quanto a Catanzaro, le cui ASP (aziende sanitarie provinciali) sono state sciolte per infiltrazione mafiosa a distanza di sei mesi l’una dall’altra. A Reggio la situazione era la seguente: 200 milioni di debiti e circa 600 mila pazienti costretti a richiedere assistenza al di fuori della Calabria; rendendo chiaro che non si esagera quando negli ultimi anni si dice che il principale ospedale della Calabria è ormai il Gemelli di Roma. Spostandoci sul tema dell’appropriazione indebita dei fondi europei per l’agricoltura, sappiamo che tra il 2014 e il 2020 sono stati versati solamente all’Italia 37,5 miliardi per la PAC e decine di miliardi per la sola Calabria.

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Sulla base di un rapporto del Senato risulta inoltre che tra il 2014 e il 2016 su 2,4 miliardi di fondi stanziati ci sono state frodi per 1,5 (più del 60%). Non sorprende quindi che nei confronti dell’Italia venga regolarmente aperta una procedura di infrazione da parte dell’UE per indebita erogazione di fondi (solo in Calabria ammontano a 31 milioni). Da ultima nel 2018, un’indagine del comando Carabinieri per la tutela agroalimentare coordinata dalla DDA di Reggio Calabria ha portato ad otto arresti e potrebbe rivelarsi fondamentale per svelare il metodo con cui la ‘ndrangheta opera per ottenere illegalmente i finanziamenti. La tesi dell’accusa è che i fondi suddetti siano stati utilizzati nel periodo 2010-2018 tra le altre cose per pagare le spese legali ai membri delle ndrine. Il metodo era relativamente semplice: il CONASCO - un consorzio agricolo che aiuta i piccoli imprenditori ad ottenere finanziamenti e sussidi - trasmetteva in via telematica le loro domande per ottenere i fondi per la PAC all’ARCEA, l’agenzia della Regione Calabria per le erogazioni in agricoltura. Nonostante la comunicazione del consorzio accertasse la presenza dei presupposti necessari per beneficiare dei fondi, in realtà le pratiche rimanevano nei suoi uffici prive di certificati e firme necessari. La conseguenza era che l’ARCEA erogava finanziamenti a imprese defunte e talvolta inesistenti falsamente dichiarate operanti e legittime dal CONASCO. In questo modo molti condannati per delitti di criminalità organizzata risultavano piccoli imprenditori agricoli pienamente legittimati a ricevere finanziamenti. Tutto un gioco Stando alle parole dell’ex Procuratore Generale antimafia Cafiero de Raho, invece, quella del gioco online è diventata “la nuova frontiera della lotta alla mafia”. Negli anni si sono succedute circa 20 inchieste sul tema; l’ultima in termini di tempo risale al 2018 e porta alla luce uno scenario che vede i più importanti clan reggini, baresi e catanesi spartirsi le piattaforme di gioco e gestire un patrimonio di circa 4,5 miliardi di euro che - come da copione 6

veniva reinvestito in immobili e società fantasma all’estero grazie a prestanome. Talmente vasto era diventato il giro d’affari che per portare a termine l’inchiesta ci si è dovuti coordinare con moltissime autorità giudiziarie europee ed extraeuropee, a conferma se ce ne fosse bisogno della potenza ed influenza delle ‘ndrine. Nonostante in Italia esista un organo deputato al controllo sul gioco d’azzardo (l’Aams), a questo ovviamente sfuggono le attività illegali - usura, estorsioni e riciclaggio- che si celano dietro le slot e il poker online. Se già dal 1992, in quanto ritenute entrate facili da ottenere a fronte di gravi esigenze di bilancio, si avviò una progressiva deregolamentazione del settore, è stato il 2006 - con la legge Bersani/Visco - l’anno che ha spinto la ‘ndrangheta ad investirvi in modo massiccio. Con la possibilità contenuta nella legge per gli operatori stranieri di entrare nel mercato italiano, alle ‘ndrine si presentava un’occasione unica: riciclare i proventi del narcotraffico in un modo relativamente semplice e sicuro. Hanno colto la palla al balzo. Una figura centrale in questo campo era quella di Gioacchino Campolo che, condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione, aveva finito per rivestire una posizione di autorità tale da essere chiamato il “re dei videopoker”, visto che controllava la gestione e il noleggio degli apparecchi da gioco di tutta Reggio Calabria. Il quadro che emerge da questa breve rassegna dell’attività della ‘ndrangheta nella sua regione d’origine è sconfortante. I clan sembrano andare ad una velocità due volte superiore rispetto allo Stato - un esempio lampante è il fatto che la ‘ndrangheta paghi i propri fornitori spesso in bitcoin per eludere i controlli fiscali- ed i cittadini sono sempre più succubi del sistema criminale di cui sono prigionieri. Non esistono soluzioni facili, ma è quanto mai necessario instillare nei calabresi un senso di legalità sincero e reale. Se l’intervento repressivo statale non deve mancare, è una rivoluzione anzitutto culturale che urge in Calabria. Le nuove generazioni, la nostra generazione, non merita un sistema marcio come quello che impera ancora oggi. Ma se si crede che il problema riguardi solo la Calabria, ci si sbaglia di grosso.

di Claudio Minutillo Turtur Scomodo

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Terra di nessuno

Dove le mafie, e in particolare la ‘ndrangheta, trovano spazio per le loro infiltrazioni a Roma e nel Lazio Fugare una serie di pregiudizi quando si parla del fenomeno mafioso è fondamentale. E dunque, per quanto gli affari storicamente (o meglio, folcloristicamente) legati al fenomeno mafioso siano ancora oggi una parte fondamentale dell’introito italiano delle ‘ndrine, oggi è fondamentale guardarsi dalle infiltrazioni nell’economia legale. Una delle regioni in cui i dati sull’infiltrazione mafiosa nelle aziende saltano all’occhio è il Lazio: nella regione, e soprattutto nelle province di Roma e Latina, il numero di aziende confiscate è oltre il doppio rispetto alla media nazionale (5,9 ogni 10.000 aziende registrate a Roma, 5,2 a Latina). Sopravvive chi s’adatta La vulgata televisiva e cinematografica relativa alla mafia vede i suoi protagonisti per lo più intenti in azioni estremamente violente verso terzi o, non meno spesso, verso membri della propria stessa “specie”. Le guerre interne alle mafie sono tra gli argomenti preferiti del mondo cinematografico, con conquiste di territori altrui a marcare le differenze tra diverse tribù. E se da una parte per le ‘ndrine è impossibile raccontare una realtà altra rispetto a una dimensione fortemente locale e profondamente familiare, dall’altra fuori dalla regione d’appartenenza la ‘ndrangheta ha trovato, più che un terreno da conquistare, un ecosistema in cui ambientarsi. Questo è valido soprattutto per il Lazio e, in particolare, per la capitale. Il rapporto “Mafie nel Lazio”, commissionato dalla Regione Lazio e a cura di Crime&Tech (Università Cattolica di Milano) conferma una delle più classiche raffigurazioni di Roma: la città che “nun vo’ padroni”, ma che allo stesso tempo ha offerto una squisita ospitalità a moltissime organizzazioni criminali nel corso dei decenni. Presenza, ovviamente, negata in maniera quasi religiosa, ma onorata soprattutto dagli anni ’80 con un radicamento forte sul territorio (tanto da garantire il tempo, a pezzi di organizzazioni mafiose preesistenti, di sviluppare dei gruppi “autonomi” rispetto alle organizzazioni centrali). Scomodo

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La filiera Tale presenza, appunto, non è però egemonica: anzi, quel che sembrerebbe richiesto alle organizzazioni mafiose del Lazio sarebbe una certa capacità di adattamento e, alle volte, di cooperazione ed integrazione. Ciò, per quanto paradossale, assume contorni piuttosto abitudinali se si pensa appunto nell’ottica dell’infiltrazione delle economie legali presenti sul territorio regionale: così tante e così composte da costituire un’occasione di spartizione dei compiti estremamente redditizia oltreché, per l’appunto, teoricamente legale. Esempio principe della costruzione di una vera e propria filiera mafiosa riguarda il commercio all’ingrosso, riscontrata ma non del tutto smantellata da varie indagini ed operazioni (nello specifico operazioni Acero-Krupy, Gea e Sudpontino) appunto nel sud del Lazio. Si tratta del Mercato Ortofrutticolo di Fondi (MOF): qui si è dato vita ad un business florido, ben curato e radicato sul territorio (ma con, secondo il rapporto di Crime & Tech, “proiezioni internazionali”) attraverso collegamenti con elementi dell’amministrazione pubblica e, appunto, cooperazione a più livelli tra tre “mafie tradizionali”, vale a dire Camorra, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Secondo le indagini, il clan dei Tripodo (famiglia riferibile alla ‘ndrangheta) era in grado di pilotare la grossa parte delle decisioni logistiche anche, appunto, con il benestare di elementi dell’amministrazione comunale di Fondi: prezzi del mercato, titolarità di fatto di varie ed importanti aziende agricole, decisione riguardo all’accesso al mercato di determinate imprese piuttosto che altre. 7


Il tutto, secondo i rapporti, basandosi su una forza di intimidazione esplicita o, nella maggior parte dei casi, implicita. La “filiera”, nel caso del MOF, si articolava appunto nel controllo di fatto del mercato da parte delle ‘ndrine locali ma non solo. Secondo l’indagine Sudpontino la produzione dei prodotti agricoli sarebbe controllata da elementi tanto di Cosa Nostra tanto della Stidda, e il trasporto dei prodotti ortofrutticoli nel basso Lazio sarebbe di fatto nelle mani di famiglie di riferimento del clan dei Casalesi. Nel caso specifico del MOF, dunque, l’utilizzo della società fondana Lazialfrigo (riferibile alla Paganese Trasporti, a sua volta riconducibile ai Casalesi) sarebbe stato di fatto l’atto di controllo per l’esportazione dei prodotti ortofrutticoli provenienti da Fondi e dintorni verso il settentrione e, attraverso il controllo del casertano, verso il mercato meridionale e siciliano. Una macchina perfettamente oliata, in cui la spartizione dei ricchissimi proventi della produzione agricola e dello sfruttamento dei terreni (e dei lavoratori) del basso Lazio verrebbe operata in maniera del tutto disinvolta da parte delle componenti mafiose, che con una semplice e indolore opera di coinvolgimento delle amministrazioni locali e di intimidazione degli avversari diretti. I debiti vanno saldati L’infiltrazione nell’economia legale, come s’è visto, non è detto che segua metodi del tutto puliti: l’intimidazione è sempre dietro l’angolo, ed è un metodo infallibile. Non basterebbe ovviamente ciò a distinguere la mano della ‘ndrangheta sulla Capitale, ma il metodo mafioso è il più antico del mondo. E con l’operazione più antica del mondo le ‘ndrine si erano andate ad introdurre nel business più redditizio a Roma: il mattone. Nell’estate del 2019, l’operazione “Giù le mani” aveva portato al sequestro nella provincia di Roma di un ampio ventaglio di immobili, quote societarie, aziende. Nello specifico: 173 immobili ubicati in Roma e provincia (da Riano a Grottaferrata, passando per Morlupo e Rignano Flaminio), 8

provincia di Viterbo e inoltre province di L’Aquila, Genova, Sassari e Reggio Calabria; 40 complessi aziendali di cui ben 7 supermercati (in seguito al sequestro dei quali Carrefour Italia ha rilasciato dichiarazioni di estraneità alla faccenda) e quattro allevamenti di bovini; 38 quote aziendali e aziende individuali; e poi gioielli, macchine, assegni, dispositivi elettronici di ogni tipo e persino valute virtuali. Tutto ciò come risultato di una sola operazione di Polizia. Questo gonfio portafoglio era stato riempito, molto semplicemente, con l’usura: enormi prestiti da parte di esponenti delle ‘ndrine, e in particolare di quella Mollica-Morabito-Palamara-Scriva. Prestiti ad aziende, imprese e singoli terminati con l’insolvenza e con la cessione delle attività, che pur mantenevano il nome del precedente titolare sulla carta, ma de facto controllate dalle ‘ndrine. Hobby D’altronde, il controllo di società immobiliari e di immobili, sempre secondo il rapporto Crime&Tech, costituisce l’altra grande attività e passione delle ‘ndrine calabresi oltre al commercio all’ingrosso (che, oltre all’ortofrutticolo – vedasi il sopra citato MOF – si articola persino nel controllo dell’attività di decine di fiorai, utilizzati alle volte persino come attività di copertura per lo spaccio). Le Direzioni Distrettuali Antimafia di Reggio e Catanzaro, oltre ai comandi provinciali di Cosenza e sempre di Reggio, avevano nel 2017 individuato in tutta Italia 54 imprese controllate direttamente o riconducibili ad attività ‘ndranghetiste e soprattutto alla ‘ndrina dei Piromalli. Ebbene, 24 di esse erano imprese romane o con sede legale a Roma. E, per la gran parte, volte a vincere appalti pubblici di tipo immobiliare o di manutenzione soprattutto stradale. Se la ‘ndrangheta ha la possibilità, dunque, di allontanarsi dalla propria regione di origine, è solo grazie alla capacità di integrazione ed infiltrazione nelle economie già presenti, con un metodo tutto suo. E di occasioni, andando verso il nord, ce ne sono sempre di nuove.

di Pietro Forti Scomodo

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Turismo e terremoto

La 'ndrangheta emiliano romagnola dagli anni '80 ad oggi Pur di fronte ad un compostissimo rapporto della magistratura, oltre le rigide cifre e i termini tecnici, quando si parla di Mafia inevitabilmente ci si immaginano dialoghi, scene e personaggi che, nella nostra mente, si avvicinano a quelle figure strepitosamente affascinanti che abbiamo conosciuto nei grandi film di Coppola, Scorsese e de Palma. E se si volesse tenere a mente il più famoso del genere, “il Padrino”, la storia della ‘Ndrangheta in Emilia Romagna troverebbe molte analogie con il capolavoro di Coppola. Tutto nasce da una migrazione: quella di Don Vito nel Padrino, da Corleone a New York, e quella di Antonio Dragone da Cutro a Montecavolo, frazione di Quattro Casella in provincia di Reggio Emilia. Entrambi arrivano in un luogo nuovo in cui cercano di riproporre le logiche e gli schemi criminali che hanno imparato nelle città di nascita, creando associazioni di stampo mafioso nuove e radicate nel territorio in cui sono confinati. Entrambi perdono prima un figlio e poi la loro stessa vita, lasciando spazio alla prole e ai clan rivali. Ma se quella di Vito Corleone è una storia inventata da Mario Puzo, quella di Antonio Dragone trova i suoi riscontri nelle carte processuali, nelle gazzette regionali di quegli anni e nella memoria di chi ha vissuto nel reggiano alla fine del secolo scorso. La migrazione La ‘ndrangheta arriva in Emilia tramite un provvedimento che lo costringe, per via del suo ruolo nella ‘ndrina di Cutro, ad un soggiorno obbligato in una frazione della regione padana. Abbandona così il suo lavoro “copertura” di bidello in una scuola elementare e comincia ad esportare e riproporre a Montecavolo un apparato ‘ndranghetista che presto diventa una ‘ndrina a parte che si diffonde in maniera epidemica in tutta l’Emilia Romagna. Ma per conquistare territori nuovi bisogna venire a patti con la regione che si vuole colonizzare, così Dragone crea una ‘ndrina mai del tutto radicata nel territorio, ma che la magistratura definirà come “in trasferta”, con il centro di Comando a Cutro ed un regime di controllo molto meno asfissiante e capillare di quello calabrese. Scomodo

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Presto la provincia di Reggio Emilia passa dall’essere un semplice luogo di riciclo del denaro guadagnato in “patria” al costituire un’occasione d’oro per via del fittissimo reticolato economico padano di commerci, aziende ed imprese che fanno gola ai tanti emigrati, parenti e “colleghi” che Dragone fa arrivare a Reggio dalla Calabria negli anni. L’Emilia diventa un luogo d’affari resi possibili dagli appoggi che si riescono a strappare alle varie amministrazioni locali e ad oggi la ‘Ndrangheta è l’associazione di stampo mafioso più presente nella regione padana, dove convive con Mafia e Camorra secondo una sorta di Pax Mafiosa che, apparte alcuni casi fra cui quello, di cui si parlerà più avanti, dell’omicidio Guerra a Cervia, riduce al minimo le intimidazioni e le violenze che fino a poco tempo fa non colpivano mai i locali ed erano riservate a compaesani imprenditori e rivali. La ‘ndrangheta emiliana parte dalle iniziative di alcuni muratori di provincia calabresi che, cercando di forzare appalti pubblici, gettano le basi per una “classe” di imprenditori edili ‘ndranghetisti, tanto che in alcune intercettazioni del 2012 Giuseppe Pagliani, il capogruppo del PDL nella provincia di Reggio Emilia, dopo un colloquio con uno dei boss calabresi della zona che gli prometteva voti, spiega alla fidanzata Sonia che “questi sono la memoria dell’edilizia degli ultimi trent’anni! A Reggio han costruito tutto”. E per questi spietati “muratori di provincia”, l’occasione più ghiotta è stata, per quanto faccia un po’ impressione dirlo, il terremoto del 2012. La provvidenziale fioritura di appalti per la ricostruzione delle aree colpite e gli ingenti fondi pubblici stanziati hanno costituito, insieme all’economia del turismo emiliano romagnola, uno dei campi più fortunati per la ‘Ndrangheta da sfruttare. 9


Tutela violenta La parabola dei Dragone, nel frattempo, si spegne progressivamente e subisce due colpi fortissimi: l’arresto di Antonio e l’uccisione del figlio, a cui seguirà la propria, entrambe ad opera, si sospetta fortemente, della famiglia rivale in Emilia che diventerà poi la più influente della regione, quella di Grandi Aracri, che terranno le fila della malavita padana fino all’arresto di vari esponenti del clan in seguito all’inchiesta Edilpiovra, che li condannerà definitivamente. Ad oggi, secondo i rapporti della magistratura, in Emilia Romagna si individuano 3 modus operandi della ‘ndrangheta, divisi territorialmente in Emilia, Romagna e provincia di Bologna. Mentre in Emilia si presenta più compatta e strutturata, spingendosi ad episodi anche pesanti, come quello dell’attentato del 2006 alla sede dell’agenzia delle entrate di Sassuolo, in Romagna e provincia di Bologna convivono mafie italiane e straniere che fanno convergere i loro affari per lo più su turismo e gioco d’azzardo per quel che riguarda la regione della riviera, spaccio di droga e operazioni di falsari nel capoluogo. La Romagna è una piazza strategica per il riciclaggio di denaro per via della vicinanza geografica con la Repubblica di San Marino, di cui spesso gli ‘ndranghetisti sfruttano il segreto bancario e la non tracciabilità dei conti. Per quanto riguarda il gioco d’azzardo, in provincia di Ravenna si è consumato uno degli episodi più gravi degli ultimi anni, ossia il già citato omicidio di Gabriele Guerra, un piccolo criminale romagnolo che, uscito dal carcere, aveva cercato di aprire una bisca clandestina a Cervia che facesse concorrenza alla ‘ndrangheta. Negli ultimi giorni della sua vita lo si era sentito affermare che era ben consapevole di cosa volesse dire far loro uno sgarbo ma che, da romagnolo, si rifiutava di lasciare la piazza ai calabresi. “Io sono romagnolo ed è giusto che in Romagna mangino anche i romagnoli”. Un pizzico di incoscienza ed orgoglio regionale di cui ebbe pochi secondi per pentirsi, prima di essere raggiunto, nella sera del 14 luglio del 2003, 10

da 15 proiettili nella sua macchina parcheggiata in una via di Cervia che lo fecero ritrovare con la testa appoggiata al volante, i fanali accesi e lo stereo ancora acceso a tutto volume. Da allora fu chiaro che, di gioco d’azzardo, in Romagna, si sarebbero occupati i calabresi, compatti contro eventuali sgarbi di rivali locali e stranieri. In Emilia, al contrario, la ‘ndrangheta non è stata esente di faide interne, come abbiamo raccontato nella resa dei conti fra Grandi Aracri e Dragone. Le province di Ferrara, Modena e Parma hanno una moderata storia di infiltrazioni ‘ndranghetiste ma che si concentrano per lo più nei piccoli paesi, anche se la presenza registrata è molto forte a Modena e, secondo la magistratura, in forte espansione a Parma. Ma non si registrano omicidi ed attentati, salvo quelli incendiari contro imprese o aziende. In queste tre regioni il sangue è l’ultima ratio, il gesto estremo cui non sono mai costretti ad affidarsi perché la loro “fama li precede”, dal momento che sono l’associazione di stampo mafioso più presente in Emilia e basta far capire all’imprenditore con cui si vogliono far affari poco leciti con chi è che ha a che fare per evitare di dover ricorrere a metodi più violentemente convincenti. Controllo totale Reggio Emilia è un caso a parte: centro ed enclave della ‘Ndrangheta regionale, si muove per lo più per conto di quattro famiglie: i Cutro, i Nicoscia, i Dragone e gli Arena. Negli anni si è registrato uno spopolamento progressivo della provincia di Crotone, riscontrato da una crescita di popolazione in provincia di Reggio Emilia. Il quadro che la magistratura fa è definito “critico”, ed ha portato all’esclusione di numerosissime imprese edili dagli appalti per la ricostruzione dopo il terremoto, oltre a molti sequestri dal 2013 in poi e altrettanti ritiri di porti d’armi. Le tante inchieste e i relativi arresti hanno portato a 3 condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso ad esponenti della famiglia Grandi Aracri e, nonostante i ripetuti atti intimidatori, sono state riscontrati rapporti consolidati con esponenti politici che hanno raggiunto il culmine in due episodi significativi. Il primo è stato il viaggio-tour di alcuni candidati sindaco a Reggio Emilia proprio nella città calabrese di Cutro, con lo scopo di attirare le simpatie della comunità immigrata al nord. Scomodo

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Il secondo una cena del 2012 a cui parteciparono pubblicamente alcune famiglie calabresi della zona e due esponenti del PDL per discutere e condannare “l’eccessivo attivismo” del prefetto di Reggio Emilia contro i sospetti ‘ndranghetisti. A denunciare con particolare impegno la crescente presenza in Emilia di un sistema di ‘ndrine radicato nel territorio è stato un giornalista dell’Espresso, Giovanni Tizian, che vive sotto scorta da 8 anni per via delle minacce subite da un boss delle ‘ndrangheta emiliana. Ci ha gentilmente spiegato come si comportano queste cosche nella sua regione: “Dagli anni ‘80 in Emilia-Romagna la ‘ndrangheta si è mossa senza individuare un settore preciso, ma controllando tutto tramite imprenditori locali, tanto che sono andati a processo anche nomi molto grandi. Sul territorio offre una pluralità di servizi: un pacchetto di voti, il trasporto delle merci di molte aziende, i lavori di smaltimento delle macerie del terremoto, la vendita di macchinette per il gioco d’azzardo e ciò che riguarda il settore alberghiero. Sono riusciti ad instaurare un rapporto con l’economia del territorio di reciproca utilità, intuendo una forte necessità degli imprenditori di evadere il fisco, tanto che la maggior parte dei reati sono legati a questa natura. Tramite un sistema di false fatturazioni si è permesso ai locali di abbattere l’Iva, segnalando una finta produzione da vendere ad un altro imprenditore, e alla ‘Ndrangheta di riciclare il denaro guadagnato altrove. Un altro gioco “innovativo” che hanno portato in Emilia riguarda i trasporti regionali: è stato scoperto un cartello dei trasporti di merci che si accordava su un prezzo molto basso, dovuto alle connivenze con la politica che permettevano di eludere i costosi controlli, per concorrere slealmente con i trasporti legali”. Appoggi Un sistema che non può vivere senza appoggi politici nelle varie amministrazioni locali. “Il primo comune sciolto per mafia è stato quello di Brescello, governato dal PD, che è stato soprannominato Cutrello proprio per i noti rapporti con la ‘Ndrangheta calabrese”, continua Tizian. “In cambio di vari favori era stato garantito al Partito un pacchetto di voti degli immigrati calabresi e per lo stesso motivo è stato arrestato il presidente del consiglio comunale di Piacenza. Scomodo

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Per quanto riguarda i tour a Cutro per raccogliere voti, si sono manifestati per molti esponenti politici, fra cui anche l’ex-ministro delle Infrastrutture del PD Graziano Delrio, che è stato sindaco di Reggio Emilia dal 2004 al 2013. In ogni caso, i contatti con la politica emiliana hanno avuto in passato un rapporto forse più stretto con il PDL, tramite contatti con alcune prefetture e cene con affiliati della ‘Ndrangheta. Per quanto riguarda le regionali di fine Gennaio, ancora non si sa come si stanno muovendo i pacchetti di voti calabresi, questa conversazione si è tenuta il 20Gennaio, circa una settimana prima delle amministrative, ma credo che, quando saranno pubblici gli esiti, si potranno fare analisi per capire dove sono andati”.

di Alessandro Luna

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Romanzo Settentrionale Come e dove ha investito la 'ndrangheta al nord? E’ il 1963, anno in cui Rocco Lo Presti, calabrese originario di Marina di Gioiosa Jonica, si stabilisce nel comune di Bardonecchia in Piemonte. E’ lui il padrino della 'ndrangheta nel settentrione e di lì a pochi anni sarà chiaro a tutti che “non si muove foglia che Rocco non voglia”, nonostante l'opinione pubblica si mantenga restìa ad ammettere che anche il nord si è “sporcato” di mafia. “Un provvedimento forse eccessivamente duro in relazione alla reale gravità del fenomeno, (...) iniziative tese alla revisione del caso, al fine di procedere ad una riabilitazione dell'immagine e della dignità del comune in questione”. Queste le parole con cui l'allora Ministro degli Interni Gianni Alemanno si riferì allo scioglimento di Bardonecchia nel 1995. Da allora ci sono voluti 25 anni, altri 11 comuni indagati e innumerevoli indagini per ammettere, malgrado la continua tendenza a minimizzare, l'esistenza di una “metastasi” mafiosa nel settentrione, peraltro particolarmente organizzata. Le origini degli insediamenti mafiosi nel settentrione hanno radici lontane e, contrariamente all'immaginario comune che li vuole dediti prevalentemente a grandi attività finanziarie, trovano tutt'ora una base in comuni di piccole dimensioni, dove è più facile ricreare quei legami di fedeltà che garantiscono la vita delle 'ndrine e dove il potere pubblico è più facilmente avvicinabile. Ma da dove si insinua e che dimensioni raggiunge questa “metastasi”? La cementificazione Se analizziamo la concentrazione delle ‘ndrine locali troviamo una stretta corrispondenza tra densità mafiosa e densità di popolazione. L'alto tasso abitativo infatti permette di coniugare il modello del piccolo comune con un buon bacino di capitale sociale, spesso frutto di processi migratori, e una più facile mimetizzazione sociale. E inoltre queste aree sono spesso soggette ad una massiccia cementificazione: secondo l'ISTAT le zone con maggiori percentuali di superfici edificate sono Monza-Brianza, Milano e Varese, tre delle principali zone di attività della 'ndrangheta Lombarda. 12

Proprio l'edilizia è l'ambito privilegiato dalle cosche, occupando il 48% delle loro attività, secondo quanto emerge da i rapporti svolti per la presidenza della Commissione Antimafia dall'Osservatorio sulla Criminalità Organizzata dell'Università di Milano (CROSS). Spicca qui il settore del movimento terra, privilegiato e non raramente monopolizzato dalla 'ndrangheta, in parte per la scarsa qualificazione che richiede, in parte grazie al fatto che fino al 2006 la normativa permetteva che il vincitore di un subappalto potesse servirsi di una ditta per la terra movimentata senza che questa fosse controllata. Se a questo si aggiunge la possibilità di coniugare il trasporto di terra con quello di rifiuti, anche tossici, era inevitabile che il percorso di insediamento partisse da qui. La spinta più forte arriva ad ogni modo nel 2008: con la crisi finanziaria le banche chiudono i rubinetti ai prestiti e risulta sempre più difficile per aziende come la Perego Strade Srl reperire le liquidità necessarie, spingendole a rivolgersi alla 'ndrangheta. Il prestito usuraio è da sempre uno dei primi punti di contatto con le cosche, insieme alla gestione di conflitti, non di rado inscenati, e la protezione dagli altri clan. Attività tutte imputabili a delle mancanze dello Stato nel provvedere a servizi per le imprese, che si affidano all'intervento delle consorterie tramite degli “uomini cerniera”, non di rado professionisti, che si pongono da mediatori con i capi delle locali. Fin qui l'intervento è generalmente pacifico e la violenza non è neanche necessaria: chi scende a patti con i boss ne sottovaluta lo spessore criminale e, reputandosi il contraente forte, accetta di contraccambiare i favori con delle quote di partecipazione nelle società. Per meglio comprendere la portata di queste partecipazioni riferiamoci a quello che è stato uno dei casi più eclatanti: la Perego Strade Srl. L'azienda, originariamente familiare e tutta lombarda, si rivolge nell'estate del 2008 ad Andrea Pavone e Salvatore Strangio per ottenere dei prestiti e una concorrenza “spianata”. Scomodo

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Immediatamente Pavone entra nella Perego Strade srl, fino a diventarne poi amministratore: crea una seconda società, la Perego General Contractor, in cui fa confluire l’intero insieme di dipendenti, con l’aggiunta di alcuni neossunti calabresi di dubbia qualificazione professionale, così che libero da passività possa meglio concorrere nel mercato. Già dopo pochi mesi nella compagine sociale della Pgc figurano due fiduciarie, per una quota complessiva del 49 per cento: sono la Carini Spa e Comitalia Compagnia Fiduciaria Spa. Se ne solleviamo il velo scopriamo che il 39 per cento della Carini rimanda a Strangio e Pavone, e il 10 per cento della Comitalia al noto boss Cristello. Nel dicembre 2008 la Perego è una partecipata della ‘ndrangheta. Una volta assunto il controllo di imprese di queste dimensioni non sarà difficile imporre i propri “padroncini” come unici contraenti per tutte le attività connesse, dal movimento terra al ciclo del cemento, fino allo smaltimento di rifiuti. La sanità La 'ndrangheta va dove vanno i soldi e i soldi al nord vanno alla sanità, che vanta una spesa pubblica regionale tra il 75 e l'80%. A renderla ancor di più un settore appetibile concorrono le reti di dipendenze e l'insieme di relazioni sociali di prestigio che permettono di costruire un importante bacino di voti. Un'infiltrazione a questi livelli era ritenuta impensabile fino a quando l'inchiesta Infinito non ha portato alla luce la vicenda pavese: al vertice della ASL di Pavia nel 2008 veniva nominato Carlo Chiriaco, “uomo di 'ndrangheta” con alle spalle fatti di sangue ed estorsioni. Nello stesso anno l'azienda sanitaria gestiva un budget di 780 milioni di euro e aveva alle dipendenze sedici istituti tra ospedali, strutture private e centri di ricovero e cura di eccellenza. Nei due anni in carica, fino al suo arresto, Chiriaco è stato il punto di riferimento dell'intreccio mafia-politica-sanità, garantendo posti di lavoro, concessioni di appalti, false prove e, non da ultimo, rapporti con alti livelli politici. Questi ultimi confermati da intercettazioni in cui Chiriaco, nelle regionali del 2010, prometteva intorno alle 12 mila preferenze a due candidati del PdL, per tramite dei capi della 'ndrangheta lombarda Pino Neri e Cosimo Barranca. Il caso pavese è stato senza dubbio il più eclatante, ma non l'unico: la sanità della regione lombarda in generale si presta particolarmente all'infiltrazione mafiosa. Scomodo

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Secondo l'osservatorio CROSS questo sarebbe dovuto alla forte componente politica nella vita sanitaria. In particolare la fedeltà partitica è la base su cui vengono stabilite promozioni e nomine dei dipendenti fino ai primari, che sono nominati e non scelti per concorso pubblico. Questa sensibilità sarebbe poi accentuata da una forte liberalizzazione del settore, priva però di adeguati meccanismi di controllo: l'apertura di appalti ha così permesso la nascita di nuclei di aziende private di grandezza tale da riuscire a condizionare il potere pubblico. Quanto emerge da questo quadro è la sorprendente capacità degli 'ndranghetisti di comprendere il contesto e coglierne ogni opportunità. Quando i riflettori di tutta una nazione erano puntati verso lo stragismo di Cosa Nostra, la 'ndrangheta si muoveva nell'ombra di una mafia silenziosa, sussurrata. La violenza che ha usato è una extrema ratio e soprattutto, difficilmente rivolta alle persone. Ha saputo capire che il ricco nord aveva abbassato le difese, ritenendosi immune da una criminalità da poveri e meridionali, ma era pieno di risorse. Soprattutto il nord non era, oggi come allora, privo di lacune, in particolare vuoti dello Stato che la 'ndrangheta vede e prevede come opportunità. Non è un caso che la vicenda Perego nasca dalla crisi del 2008 e non è un caso che le più recenti attività a Milano si sviluppino tra i venditori alimentari ambulanti, mercati che il pubblico ha lasciato privi di regole. A “gestire i conflitti” oramai ci pensano le locali.

di Chiara Falcolini

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AT T UA L I TÀ


Risiko libico La Conferenza di Berlino del 19 Gennaio ha cercato di mettere ordine nella difficile gestione della guerra civile libica.

L’obiettivo dichiarato era quello di evitare che si venisse a creare una situazione simile a quella sviluppatasi in Siria. Negli ultimi mesi infatti, la Libia è divenuto il centro delle mire espansionistiche di Russia e Turchia, mentre l’Italia appare relegata ad un ruolo di secondo piano. La situazione nel Paese nordafricano appare ogni giorno sempre più complessa, ma rimangono elementi stabili a partire da cui è possibile condurre un’analisi approfondita della questione.

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Risiko libico -------------------------------------------------------------------------------------------------------L’avanzata dell’asse turco-russo e la sconfitta dell’Italia nello scacchiere geopolitico nordafricano

Perché ci interessa così tanto la Libia? Ci sono guerre orribili di cui nessuno parla e conflitti irrisolti che macinano migliaia di vittime ogni anno ma che non godono del privilegio di trovare i leader dei maggiori Paesi del mondo schierati con una fazione o con l’altra e che non sono il tema centrale di summit straordinari i cui resoconti riempiono le prime pagine dei maggiori quotidiani internazionali. La Libia, invece, gode di questo particolare e al contempo triste favore, tanto che i due vertici di Mosca e Berlino, in cui si è cercato di far firmare una tregua ai due rivali libici, sono stati seguiti con la massima attenzione ed hanno spesso scalzato le notizie di politica nazionale dai primi secondi dei telegiornali. Il motivo è molto semplice e, a pensarci, oggi fa sorridere il soprannome che ad inizio Novecento, in occasione della guerra italo-turca, Salvemini coniò per la Libia: “lo scatolone di sabbia”. Come ad intendere l’inutilità della zona dal punto di vista delle risorse che vi si potevano sfruttare. Poi, negli anni sessanta, si è scoperto che quella che in era fascista era stata un’inutile colonia italiana era in realtà ricca di giacimenti petroliferi su cui l’Italia, per mezzo dell’Eni, la Francia, gli Stati Uniti e la Turchia hanno prima o dopo mostrato forti interessi. Oggi, dopo la caduta del colonnello Muammar Gheddafi a metà delle rivolte della primavera araba del 20102012, lo “scatolone di petrolio” 16

Scomodo

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è amministrato ufficialmente da un governo di unità nazionale guidato da Fayez Al-Sarraj ed appoggiato da Stati Uniti, Turchia, ed Italia, che ha sede nella capitale di Tripoli, assediata da mesi dall’esercito dei Miliziani del generale Khalifa Haftar, che gode invece dell’appoggio di Francia e Russia e che controlla gran parte del nord e del centro della Libia. Gli avvenimenti, giorno dopo giorno, si susseguono cambiando la situazione repentinamente. Mentre ciò che resta invariato sono gli interessi di partenza che sono all’origine di ogni mossa, offensiva e non, a cui assisteremo nei prossimi mesi intorno alla crisi libica. Abbiamo perciò voluto darne un quadro chiaro e corretto, come a voler fornire a noi e a chi legge uno strumento per poter comprendere meglio ciò che è successo e ciò che invece ci aspetterà nelle prime pagine dei prossimi mesi.

Questo fenomeno ha portato ad una totale svalutazione del ruolo del Ministero degli Esteri, dimostrato dal fatto che la sua guida è stata affidata a politici il cui curriculum non giustifica minimamente la posizione che occupano sulla principale scrivania della Farnesina. Il che rappresenta uno dei principali motivi della totale perdita di credibilità del nostro Paese dinanzi alla Comunità Internazionale, che nel corso del tempo è costata all’Italia la propria leadership nella gestione della crisi libica.

nella gestione delle ingenti risorse energetiche presenti nel sottosuolo del Paese nordafricano). Per un lungo periodo di tempo, è sembrato che l’Italia avesse totalmente perso il proprio peso specifico nella zona di Tripoli che aveva faticosamente costruito nel corso di un secolo, a partire dalla campagna di Libia del 1911 voluta dal Presidente Giolitti. La svolta è arrivata grazie all’operato di Paolo Gentiloni come Ministro degli Esteri del governo Renzi. Nel corso dei suoi due anni di mandato, fra 2014 e 2016, l’ex Presidente del Consiglio ha dimostrato di essere una delle poche figure politiche italiane capace di comprendere i cambiamenti geopolitici che stavano attraversando il globo, come dimostra il grande interessamento nei confronti della “Belt and Road Initiative” di Xi Jinping quando il progetto era ancora nella sua fase embrionale. Gentiloni è riuscito in poco tempo a ritagliarsi un ruolo decisivo nella gestione del caos della guerra civile libica, risultando determinante nella scelta dell’ONU di affidare il governo di unità nazionale Fayez Al-Sarraj, che avrebbe dovuto porre fine al conflitto e concedere finalmente una nuova stabilità alla regione. L’Italia, grazie all’operato della Farnesina sotto il governo Renzi, pareva aver di nuovo pieno controllo sulla zona mediterranea, ma a seguito di questo successo ed alla caduta del governo Renzi (il cui posto a Palazzo Chigi venne occupato dallo stesso Paolo Gentiloni), la linea politica italiana nei confronti della questione ha assunto una svolta veramente disastrosa.

“Questa condizione di paese “vuoto” (la densità è bassissima, intorno ai 3 abitanti/km²) ma incredibilmente ricco influenzerà per molti anni a venire la posizione geopolitica della Libia.”

Da primi della classe ad ultima ruota del carro: il caso italiano Per comprendere al meglio cosa il nostro Paese stia facendo in Libia in questo momento, non ci si può limitare ad analizzare gli ultimi avvenimenti ma bisogna concentrare l’attenzione su quanto è stato fatto in politica estera dall’Italia a partire dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011. Prima di procedere in quest’analisi storico-politica, c’è bisogno di una doverosa precisazione: l’opinione pubblica italiana ha sviluppato nel corso dell’ultimo decennio un totale disinteresse nei confronti dell’operato del nostro Paese all’estero, concentrando la propria attenzione unicamente sugli avvenimenti all’interno dei nostri confini nazionali. Scomodo

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Conclusa questa premessa, è ora di osservare come si siano evoluti i rapporti di forza all’interno della Libia e come l’Italia vi abbia perso il proprio primato diplomatico internazionale. Durante la caduta di Gheddafi nel 2011, gli stretti rapporti fra il dittatore libico e il governo italiano guidato da Silvio Berlusconi impedirono al nostro Paese di prendere parte al processo decisionale internazionale che portò alla caduta del regime, guidato principalmente da Stati Uniti e Francia (interessata a prendere il posto della penisola

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A partire dall’affidamento della Farnesina ad Angelino Alfano, gli sforzi del governo Gentiloni si sono concentrati principalmente sul tentativo di porre freno al grande flusso di migranti proveniente dalle coste libiche, piuttosto che impegnarsi nel mantenimento del fragile equilibrio che si era andato a creare fra il governo riconosciuto di Al-Sarraj a Tripoli e quello del Generale Haftar in Tripolitania, che già nel 2016 iniziava a mettere fortemente sotto pressione l’intera area. In Italia si era però troppo impegnati a porre in primo piano il livore della popolazione nei confronti della mancata regolamentazione dei flussi migratori provenienti dal Mediterraneo, cercando di arginarlo tramite l’istituzione della famigerata Guardia Costiera Libica piuttosto che intervenendo sulla causa ultima dell’immigrazione, ossia la forte instabilità politica della zona. Questa linea non è stata tuttavia perseguita dal governo Lega-Movimento 5 Stelle, la cui scelta di affidare la Farnesina ad Enzo Moavero Milanesi è stata dettata dalla volontà di compiere una decisa svolta alla questione libica. Milanesi ha infatti deciso di accantonare l’incondizionato appoggio ad Al-Sarraj in modo tale da presentare l’Italia come Paese mediatore fra gli interessi della Tripolitania e della Cirenaica. In quest’ottica vanno letti l’organizzazione della Conferenza per la Libia a Palermo e la decisione di allontanare l’ambasciatore Giuseppe Perrone dalla Libia, poiché figura scomoda per Haftar. 18

Tali tentativi non hanno portato ad alcun risultato concreto, ma la linea di Milanesi è stata particolarmente apprezzata dal neoministro degli Esteri Luigi di Maio, il quale aveva annunciato il proposito di portare avanti la nuova linea “pro-concilazione” libica fin dall’inizio del suo mandato.

“La svolta è arrivata grazie all’operato di Paolo Gentiloni come Ministro degli Esteri del governo Renzi.” Questa decisione è risultata il colpo di grazia alle aspirazioni dell’Italia del mantenimento della leadership diplomatica della zona, poiché questo titolo era stato concesso allo Stato italiano proprio per l’egregio lavoro svolto per convincere l’ONU a scegliere Al-Sarraj.

Lo stesso leader della Tripolitania ha avuto modo di esprimere pubblicamente il suo disappunto verso la nuova linea politica del governo italiano, disertando l’incontro con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte a causa della sua scelta di dare la precedenza all’incontro con il generale Haftar. Questo clamoroso “autogol diplomatico” ha fatto definitivamente sprofondare ogni possibile rivendicazione di leadership diplomatica da parte del governo italiano, portando a compimento il processo iniziato sotto la direzione di Alfano e relegando l’Italia ad un ruolo di totale marginalità nei confronti della gestione della crisi libica. I sogni da sultano ottomano di Erdogan Era da più di un secolo che la Turchia non interveniva in maniera così diretta nelle vicende libiche: dal Trattato di Losanna del 1912, che siglò la fine della guerra italo-turca con la cessione della Libia all’Italia, quando ancora era sconosciuta la ricchezza del Paese in termini di risorse. Anni dopo, troppo tardi perché l’Italia potesse usufruirne, nel territorio libico vennero alla luce i già citati enormi giacimenti di idrocarburi. Questa condizione di paese “vuoto” (la densità è bassissima, intorno ai 3 abitanti/km²) ma incredibilmente ricco influenzerà per molti anni a venire la posizione geopolitica della Libia. La riscossa turca nel Paese ha tante motivazioni alla base, e anche di matrice molto diversa tra loro. Tra queste, sicuramente ci sono motivi ideologici: Scomodo

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l’aggressiva politica estera della Turchia messa in atto negli ultimi anni ha come obiettivo tre aree precise: il Medio Oriente, il Nord Africa e i Balcani. Tutte aree che furono, un tempo, dell’Impero Ottomano. Questo che è stato definito il “neo-ottomanesimo” di Erdogan si coniuga con un uso puramente politico dell’Islam, come leva per conquistare e poi mantenere una certa influenza su tutto il mondo islamico, almeno quello di parte sunnita. Agli interessi ideologici si aggiungono poi, e notevoli, quelli economici. Il 27 novembre scorso Turchia e Libia hanno firmato un memorandum fondamentale: da un lato, la Turchia ha lì gettato le basi dell’intervento militare poi confermato dalla decisione del Parlamento il 2 gennaio; ma soprattutto, i due Paesi hanno concordato insieme un allargamento della ZEE (Zona Economica Esclusiva) turca nel Mediterraneo orientale. L’accordo ha sollevato le ovvie proteste di tutti i paesi con sbocco sul mare di quella regione (Grecia, Cipro, Egitto), ma rischia di avere conseguenze ben più importanti dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico. In quell’area infatti dovrebbe sorgere EastMed, un gasdotto che collegherà le risorse energetiche di Cipro e Israele all’Europa, fornendo da solo al Vecchio Continente fino a 10 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno (circa il 10% del suo fabbisogno annuo). L’accordo bilaterale tra Turchia e Libia impedisce ad altri paesi di effettuare attività di “esplorazione e perforazione” Scomodo

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senza il consenso dei due contraenti, impedendo quindi in apparenza la costruzione del gasdotto che proprio il 2 gennaio ha ricevuto il via libera dai capi di Stato di Grecia, Israele e Cipro.

“Ma da oggi, per chi vuole accaparrarsi lo “scatolone”, la Turchia è di nuovo una concorrente non trascurabile.”

Sempre ad inizio gennaio, l’8, Erdogan ha inaugurato insieme a Vladimir Putin il TurkStream: un gasdotto che, attraversando il Mar Nero, fornisce alla Turchia abbondanti riserve di gas naturale russo (fino a 31 miliardi di metri cubi all’anno). L’obiettivo della Turchia, da questo punto di vista, appare chiaro: da un lato, garantirsi importanti forniture energetiche (Russia, ma anche Libia);

dall’altro, diventare interlocutore necessario per l’approvvigionamento diretto all’Europa. L’intervento turco spariglia le carte anche dal punto di vista militare. Già a maggio il sostegno della Turchia al Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez Al-Sarraj era arrivato in maniera massiccia, sottoforma di rifornimento di armi. 40 veicoli corazzati, fucili, mitragliatrici, missili, aerei, droni: l’arsenale fornito da Erdogan al suo alleato libico (noncurante dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite sulla Libia) era imponente, ed è stato anche grazie a quest’intervento che le forze del generale Khalifa Haftar non sono riuscite a completare in breve tempo quella presa di Tripoli che, ad aprile, sembrava ormai imminente. Una cavalcata che sembrava già scritta si è invece trasformata in una logorante guerra di posizione, e più passano le settimane più la soluzione del conflitto sembra potersi realizzare in sede diplomatica più che sul campo di battaglia. Soluzione che, però, avrebbe due nomi e cognomi ben precisi: Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin. Sostenitore di Sarraj il primo, di Haftar il secondo, nelle ultime settimane sta prendendo sempre più piede l’idea di una spartizione per zone di influenza secondo le geografie attuali del conflitto: la Tripolitania alla Turchia, Cirenaica e Fezzan alla Russia. Si potrebbe, cioè, riproporre anche in Libia il modello che sembra essere destinato ad influenzare anche le sorti della Siria, ovvero quello di un dualismo Turchia-Russia che sta lentamente escludendo dai giochi l’Occidente filostatunitense. 19


La Turchia infatti riesce a giocare in maniera eccellente il ruolo di mediatore tra le due fazioni: in quanto membro NATO ed osservatore esterno dell’Unione Europea (e con un accordo sui migranti con l’UE che pesa in termini negoziali) è interlocutore necessario dei Paesi occidentali, ma dall’altro lato la svolta “imperiale” e filo-islamica messa in atto dall’AKP di Erdogan ha migliorato – e di molto – i rapporti con diversi Paesi dell’area mediorientale, Iran e Qatar su tutti. C’è, infine, un altro punto di paragone tra il conflitto libico e quello siriano, e consiste nell’accentuarsi di una tendenza che va avanti ormai da diversi decenni: la “globalizzazione” dei conflitti locali, ovvero la creazione di complessi meccanismi di alleanze che vanno ad intervenire in guerre – in apparenza – civili. La Libia si presenta oggi come un paese debolissimo dal punto di vista delle strutture istituzionali – praticamente inesistenti – e ricchissimo di risorse energetiche ed economiche: il massimo che i predoni della politica internazionale potessero sperare di trovare. Così, forse, la definizione data più di un secolo fa da Salvemini della Libia può tornare ad avere un senso. Ma da oggi, per chi vuole accaparrarsi lo “scatolone”, la Turchia è di nuovo una concorrente non trascurabile.

Se in Cirenaica si ascoltasse de Andrè, forse i militari libici di Al-Sarraj userebbero questa frase per spiegare perché sono convinti che le milizie russe Wagner siano impegnate ad aiutare il generale Haftar a conquistare Tripoli.

Sono, secondo quasi tutti gli analisti geopolitici, l’arma che il Presidente russo usa quando vuole esercitare un'influenza su un conflitto senza coinvolgere direttamente l’esercito nazionale. Nascono come un’organizzazione militare privata, ufficialmente illegale secondo la legge russa, che si specializza nel combattere la pirateria in giro per il mondo e che oggi, secondo molti, è stata “assunta” dal ministero della difesa russo che la impiega in operazioni internazionali in cui non può agire in prima persona. Il nome si dovrebbe, secondo il Times, alla passione del fondatore Dimitry Utkin per il Terzo Reich. Partiti da mille unità sono arrivati a contarne cinquemila nel 2017. Tutti mercenari e quasi tutti veterani dell’esercito russo, tra i 35 e i 50 anni, attratti dalle prospettive economiche che l’affiliazione sembra garantire: secondo il Moscow Times la paga è di 1300 dollari per chi si addestra in Russia, mentre sale a 4300 dollari al mese per le operazioni estere. Il collegamento tra le milizie Wagner e il Cremlino dovrebbe essere responsabilità di Yevgeny Prigozhin, oligarca vicino sia a Utkin che a Vladimir Putin, soprannominato lo chef per via della sua compagnia di catering a cui spesso il presidente russo si rivolge per i ricevimenti ufficiali. È ormai certa la loro presenza nella guerra di Siria e ci sono forti sospetti che, anche in Venezuela, abbiano avuto un qualche ruolo pochi mesi fa. Nelle ultime settimane Vladimir Putin ha promesso che si sarebbero ritirate dalla regione ma l’interesse del Cremlino nella guerra civile che vede opposti Haftar e Al-Sarraj è evidente.

“Nelle ultime settimane Putin ha promesso che si sarebbero ritirate dalla regione ma l’interesse del Cremlino nella guerra civile che vede opposti Haftar e Al-Sarraj è evidente.”

L’imbarazzo di Putin: un’influenza sopravvalutata “E se gli spari in fronte o nel cuore, soltanto il tempo avrà per morire”. 20

A quanto pare il loro modus operandi, la loro firma è questa: un colpo alla nuca o al torace che uccide all’istante, caratterizzato da un foro d’entrata molto piccolo e dalla mancanza di quello d’uscita.

“L’aggressiva politica estera della Turchia messa in atto negli ultimi anni ha come obiettivo tre aree precise: il Medio Oriente, il Nord Africa e i Balcani.” I cadaveri di alcuni soldati riportano questi segni che, secondo i libici, rappresenterebbero il “marchio di fabbrica” dei cecchini russi di queste milizie che ufficialmente non dipendono direttamente dal governo russo, ma che sono vicine ad un oligarca di Mosca fedelissimo di Putin.

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Su qualsiasi manuale di storia contemporanea si potrà notare come fin dai tempi dell’impero zarista la Russia ha sempre cercato di estendersi nel Mediterraneo e di stabilire nei porti europei una qualche roccaforte economica, cercando sbocchi che molto raramente, e spesso per poco, è riuscita a crearsi. Ed anche oggi la situazione è pressoché la stessa. Molto sinteticamente, la Russia sta perdendo influenza nel Mediterraneo per quel che riguarda i gasdotti e sta quindi puntando al crocevia petrolifero che ha in Libia una delle sedi maggiori e strategiche. E il singolare compagno di sventura di Vladimir Putin è il Presidente turco Erdogan. Le difficoltà sono cominciate con l’inaugurazione di un gasdotto, l’EastMed, che collega Israele all’Italia, passando per la Grecia e Cipro, due storiche roccaforti mediterranee dell’influenza russa in Europa. L’EastMed mette in difficoltà anche la Turchia, che quindi si trova ad avere una improvvisa comunanza di interessi con la Russia, nonostante le sia contrapposta in territorio libico dal momento che, insieme all’Italia e all’Europa, sostiene il governo nazionale di Al-Sarraj. Mentre Putin, pur con qualche tentennamento, di cui è emblematica la scelta di non impiegare direttamente l’esercito ma le milizie “ufficialmente indipendenti” Wagner, sostiene sia diplomaticamente che economicamente Khalifa Haftar. E quasi un mese fa questi due “falsi rivali” hanno inaugurato in Turchia un oleodotto che collega Ankara a Mosca. Ma Putin sembra non voler puntare tutto sui gasdotti, Scomodo

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che evidentemente avverte sminuirsi come arma economica e strategica, ed ha quindi puntato gli occhi sulla città di Tobruk, sulle coste orientali della Libia, oggi in mano ad Haftar. Colonia prima greca e poi romana, Tobruk è stata durante il primo Novecento oggetto di contesa tra le forze britanniche e quelle dell’asse nazifascista, ma è diventata strategica nel Mediterraneo solo dopo che negli anni 60 sono stati scoperti degli importanti giacimenti petroliferi.

Oggi è uno dei maggiori terminali di oleodotti della costa araba. Putin punta a stabilire una base di influenza proprio in questa città ed è a questo che, principalmente, si deve la scelta di sostenere Haftar. Anche se Russia e Turchia stanno lentamente virando verso un “cessate il fuoco” che possa stabilizzare la situazione libica e garantire loro uno sviluppo più sereno dei propri piani. Durante la presentazione del gasdotto Turkstream di cui si parlava prima, Putin e Erdogan hanno entrambi chiesto congiuntamente che si arrivasse ad una tregua tra i due contendenti libici.

Al-Serraj ha subito fatto sapere che sarebbe disponibile ad una tregua, mentre Haftar si è rifiutato di scendere a compromessi con il Presidente di Tripoli, probabilmente per la stessa ragione per cui il primo ha accettato: al momento le forze del generale appoggiato da Putin sembrano avere buone prospettive di far cadere la capitale e sconfiggere definitivamente Al-Sarraj. Ma alla conferenza di Mosca in cui Putin non è riuscito a convincere il generale Haftar a firmare una tregua è emerso uno scenario poco confortante per il presidente Russo. Nonostante gli ingenti prestiti che gli ha concesso, e su cui spera di far leva una volta finita la guerra per avere la base di Tobruk, sembra che l’influenza che si pensava il Cremlino esercitasse sul rivale di Al-Sarraj sia meno forte e vincolante del previsto. E Vladimir Putin, si può dire, è forse per la prima volta in seria difficoltà dal punto di vista geopolitico. Certamente il fatto che nessun paese sia ancora riuscito ad esercitare una tanto agognata influenza determinante sulla Libia è specchio della complicatezza di questa guerra civile dal punto di vista militare e diplomatico.

di Luca Bagnariol, Alessandro Luna, e Simone Martuscelli 21


Le Indie di Modi

-------------------------------------------------------------------Come il primo ministro indiano sta mettendo in pericolo la democrazia più grande del mondo

Con 1,3 miliardi di abitanti, 900 milioni di elettori ed un’ultima tornata elettorale che ha visto i seggi rimanere aperti per 39 giorni, almeno dal punto di vista quantitativo l’India è la democrazia più grande del mondo. Ed anche sulla qualità in realtà ci sarebbe ben poco da eccepire. La Costituzione del 1950 infatti, che ha da poco compiuto 70 anni, definisce l’India come una “repubblica sovrana, laica e democratica” che garantisce ai propri cittadini giustizia, uguaglianza e libertà. Nonostante le drammatiche condizioni di povertà, analfabetismo e sottosviluppo, l’India riuscì già nel 1950 ad instaurare un regime democratico funzionante, laico e moderno, che l’ha sempre ben distinta agli occhi dei paesi occidentali nel confronto con i suoi “cattivi” vicini, essendo alla fine degli anni ’40 l’unico paese democratico dell’intera Asia continentale. L’11 dicembre il Parlamento ha approvato il Citizenship Amendment Bill (CAB): una modifica di una legge di 64 anni fa che impediva ad un immigrato irregolare di diventare cittadino indiano, per stabilire invece una eccezione notevole, cioè la possibilità di ottenere la cittadinanza indiana per i tutti migranti provenienti dai paesi limitrofi — Bangladesh, Afghanistan e Pakistan — ma solamente se di fede Indù, Sikh o Cristiana, escludendo dunque categoricamente i migranti di fede musulmana. In seguito all’approvazione si sono sollevate numerose proteste in tutto il Paese, con diversi tentativi da parte del governo di reprimerle attraverso un grande dispiegamento di truppe, coprifuochi e sospensioni dei servizi internet

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(di cui l’India è il leader mondiale con 106 “shutdown” solo nel 2019, secondo le stime dell’Internet Shutdown Tracker). Il risultato è un bilancio di oltre 20 vittime da dicembre a oggi, la cui responsabilità è stata ripetutamente negata dai portavoce delle forze di polizia. Tuttora le proteste non si sono estinte. Molti osservatori ora si interrogano sulla condizione di salute della democrazia indiana, e su quella che appare come una possibile svolta nazionalista-identitaria, che potrebbe allontanare l’India dai suoi valori fondanti: in primis quello della laicità dello Stato. Il protagonista di tali vicende è il primo ministro indiano Narendra Modi del Bharatiya Janata Party (BJP) — ovvero il “Partito del Popolo Indiano”. Eletto per la prima volta nel 2014, è stato riconfermato per un secondo mandato vincendo con una maggioranza schiacciante nelle elezioni del maggio 2019. Il BJP che lo sostiene è un partito che storicamente rappresenta le posizioni della destra nazionalista, a difesa dell’identità induista del paese. Il presidente BJP, nonché Ministro degli Interni, Amit Shah è famoso per le sue invettive piuttosto accese nei confronti degli immigrati musulmani. Particolarmente significative le parole da lui pronunciate lo scorso aprile in piena campagna elettorale, quando durante un comizio ad un’adunata parlava degli immigrati musulmani provenienti dal vicino Bangladesh, descrivendoli come “infiltrati” e “termiti nel suolo del Bengala”,

promettendo inoltre che “il governo del BJP andrà a prendere questi infiltrati uno ad uno e li getterà nel Golfo del Bengala”. C’è comunque da ricordare che questi toni e discorsi, benché poco pacifici, non hanno sempre avuto un riscontro pratico nell’azione di governo di questo partito: Il BJP infatti è già stato al potere per un intero mandato dal 1998 al 2004, senza tuttavia adottare quei controversi provvedimenti — come l’abrogazione dello status speciale alla regione del Jammu e Kashmir — che erano presenti nel loro programma.

che non solo danneggia – più o meno direttamente - le condizioni di vita degli abitanti della nazione, ma mostra anche in maniera evidente le contraddizioni della politica di Modi. Se infatti in politica interna il premier indiano ha calcato la mano con provvedimenti discriminatori ed identitari, in politica economica è ben lontano dal potersi definire isolazionista. “Narendra Modi è un nazionalista ma al tempo stesso è anche un globalista – spiega alla redazione di Scomodo Ugo Tramballi, editorialista di politica estera del Sole24Ore - non ha interrotto le riforme economiche intraprese dai governi precedenti guidati dal Congress Party”. Una politica economica in contrasto con la propria ideologia di appartenenza, e che allo stesso tempo non sta dando i risultati sperati. Il tasso di crescita del PIL indiano è infatti in costante calo da circa due anni: secondo i dati della World Bank nel 2016 la crescita era circa dell’8.1%, mentre nel 2018 la cifra si è assestata intorno al 6.8%. Ovviamente si tratta di numeri che fanno impallidire l’economia stantia dei Paesi europei, ma che non bastano per una nazione come l’India in cui sono ancora presenti grandissime disuguaglianze e un PIL pro capite molto basso. “Modi ha promesso di raddoppiare il PIL della nazione entro la fine del secondo mandato – prosegue Tramballi – ma ciò implica una crescita al 12% per i prossimi cinque anni”. E’ possibile quindi che il motivo di radicalizzazione della politica del BJP sia in parte anche frutto della necessità di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli aspetti più deboli della conduzione di governo.

“Degli oltre 500 casi analizzati, quasi 9 imputati su 10 sono risultati essere musulmani. E mentre soltanto il 40% degli induisti venivano dichiarati immigrati irregolari, la percentuale saliva al 90% per gli imputati musulmani.”

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Con Narendra Modi invece questi provvedimenti sembrano aver preso una forma ben concreta, in particolare a partire dall’inizio del suo secondo mandato. Elemento fondamentale della svolta induista indiana è stato infatti il risultato delle elezioni del 2019, con cui il BJP ha guadagnato 20 seggi in più nella Lok Sabha, la camera bassa del parlamento. Una vittoria che appare ancora più strana se si considera il rallentamento economico indiano,

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Il processo di involuzione identitaria intrapreso dall’India passa da due atti fondamentali che non a caso si sono svolti nell’estate del 2019, appena dopo le elezioni generali.

Autonomia revocata All’inizio di agosto il governo Modi ha revocato con un ordine presidenziale l’articolo 370 della Costituzione Indiana che prescriveva il cosiddetto statuto speciale alla regione di Jammu e Kashmir. Infatti, la spartizione del sub-continente indiano, che risale al ’47, aveva come presupposto l’adozione di un forte criterio identitario: il Pakistan a predominio musulmano, mentre l’India, sebbene più restia ad assimilare l’elemento religioso a quello nazionale, di fatto a maggioranza hindu; comportando di conseguenza una dinamica migratoria all’interno di quei territori senza precedenti, per un numero stimato di 11 milioni di persone. L’eccezione era rivestita proprio dal principato del Jammu e Kashmir, che presentava un monarca hindu e una popolazione a maggioranza musulmana. Trattandosi dell’unico Stato a maggioranza musulmana, il 60% della popolazione, il governo indiano concesse al Kashmir una larga autonomia, fino allo scorso agosto, quando il Ministro degli Interni Amit Shah l’ha abrogata. L’articolo in questione non è stato eliminato per voto ma per decreto, e non vi è dubbio che quella del governo indiano risulti una delle scelte più tranchant dei sette decenni che hanno accompagnato la «spartizione»,

spesso non indolore, della regione himalayana tra la maggioranza islamica pakistana e la minoranza hindu proveniente dal subcontinente. Le ricadute sul piano politico e sociale, nonché sulla sicurezza interna, sarebbero in effetti enormi.

«Il Pakistan eserciterá tutte le opzioni possibili per contrastare questo atto illegale» ha dichiarato il Ministro degli Esteri del paese in una nota sul sito ufficiale del Ministero, mentre il Ministro per i Diritti Umani Shireen Mazari in un tweet ha definito l’azione dell’India una "annessione illegale". In secondo luogo, il sotto-articolo 35a del testo revocato, definisce i diritti di accesso alla condizione di «residenti permanenti» nella regione, sancendo il divieto per gli indiani non nati nel Kashmir di trasferirsi in quello Stato e di possedere case e terreni. Secondo quanto scrive il Washington Post in un articolo del 13 agosto, per molti esperti questo provvedimento potrebbe portare grandi cambiamenti demografici all’interno della popolazione del Kashmir, aprendo di fatto alla possibilità da parte di tutti i cittadini indiani di stabilirsi nell’area. Per questo i critici del provvedimento hanno visto questa mossa come un tentativo da parte del governo di diluire la concentrazione di musulmani nell’unico Stato a maggioranza islamica.

“Amit Shah è famoso per le sue invettive piuttosto accese nei confronti degli immigrati musulmani: "il governo del BJP andrà a prendere questi infiltrati uno ad uno e li getterà nel Golfo del Bengala".”

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In primis il Pakistan ha da subito condannato fermamente l’abolizione dell’autonomia costituzionale della regione, oggetto di contesa tra la Repubblica islamica e lo Stato federale indiano dalla fine degli anni ’40.

Inoltre, le violazioni sistematiche dei diritti fondamentali dei cittadini e le azioni coercitive dei militari del governo centrale creano sempre più dissenso nella comunità internazionale: quella che l’antropologa e reporter Saïba Varma, in un lungo articolo firmato per The Nation, ha definito come una pesante cappa repressiva denunciando l’imposizione di un blocco di sicurezza e il taglio di tutte le comunicazioni nella zona del Kashmir amministrata dall'India, una volta aver dispiegato 400,000 unità tra militari, paramilitari e forze militarizzate della polizia. Scomodo

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La rivista indiana The Wire ha attaccato il processo di “invisibilizzazione del paese e della popolazione” che mira ad una “guerra d’usura per domare il particolarismo di un territorio considerato troppo ostile all’India e rivolto al Pakistan”. Il reportage aggiunge inoltre che negli ultimi mesi “tutti i grandi leaders politici della regione sono stati incarcerati”. Ma la notizia più eclatante arriva forse da Londra: The Indipendent in un articolo del 4 settembre dichiarava che per la prima volta le autorità indiane hanno dovuto riconoscere che l’operazione in Kashmir non stesse avvenendo in modalità del tutto pacifiche. Un primo morto è stato ufficialmente dichiarato, un ragazzo di 18 anni; ma sarebbero almeno cinque, secondo The Guardian, i civili ad essere stati uccisi dalle forze dell’ordine in occasione della partecipazione a delle manifestazioni sporadiche. Un annuncio di grande risonanza che ha provocato nuove proteste e dai cui si è scatenata una più forte azione repressiva, che, come testimonia l’emissione televisiva satellitare qatariana Al Jazeera, si accompagna anche di arresti arbitrari e di atti violenti perpetrati dalla polizia e i militari. Il 20 gennaio l’Agenzia Nova ha inoltre annunciato l’uccisione di tre militanti dell’organizzazione filo-pakistana Hizbul Mujahideen in un conflitto a fuoco con le forze di sicurezza. Il National Register of Citizens Nello stesso periodo, avveniva il secondo grande atto dell’agenda nazionalista del BJP. Scomodo

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Il 31 agosto 2019 il governo indiano ha pubblicato la versione finale del National Register of Citizens (NRC): una sorta di censimento dei cittadini dello Stato dell’Assam, al confine col Bangladesh, a cui il governo lavorava fin dal 2015.

“Il Ministro per i Diritti Umani pachistano Shireen Mazari in un tweet ha definito l’azione dell’India una "annessione illegale".”

L’obiettivo, come dichiarato dalle stesse fonti ufficiali, era quello di individuare gli immigrati clandestini provenienti dai Paesi confinanti. 33 milioni di persone hanno dovuto quindi dimostrare di aver vissuto – loro stessi o la propria famiglia – in India da prima del 24 marzo 1971. Due giorni dopo, quello stesso anno, il Bangladesh dichiarava la propria indipendenza dal Pakistan.

Circa due milioni di persone di persone sono rimaste fuori dalla lista, con il pericolo di perdere la cittadinanza e di conseguenza diventare a tutti gli effetti immigrati irregolari. Secondo quanto scrive la BBC, ciò può voler dire rischiare la detenzione o la perdita dei diritti civili. Come si legge dagli articoli di diverse testate internazionali, i due milioni rimasti fuori dalla versione finale avrebbero avuto quattro mesi per appellarsi ai “Foreigners Tribunal” – definiti dal New York Times come “tribunali opachi e semi-giudiziari, con una storia di discriminazioni” – per dimostrare la propria indianità. Pur essendo in teoria scaduto il termine ultimo dei quattro mesi, non ci sono notizie su quante persone siano state infine reinserite nella lista. Sul sito ufficiale del governo dell’Assam – guidato dal BJP - i due link che dovrebbero permettere la visione della versione finale del NRC non sono funzionanti e i comunicati stampa sul tema si fermano al 31 agosto. L’intera operazione del National Register of Citizens è stata vista da molti come “un tentativo per espellere milioni di musulmani, che compongono un terzo del Paese”, scrive Al Jazeera. Secondo la BBC invece quella dell’espulsione è un’ipotesi poco plausibile, in quanto il Bangladesh (da cui proviene la maggioranza degli immigrati nell’Assam) non accetterebbe una tale richiesta da parte dell’India, mentre è più probabile che si crei una grossa componente di popolazione apolide, senza diritto di voto. 25


Tra i fattori che avvalorano la tesi di un odio religioso alla base del NRC c’è l’alto livello di arbitrarietà con cui il censimento è stato portato avanti. Numerosi giornali e agenzie d’informazione, tra cui Al Jazeera, il Washington Post, il Guardian, il New York Times e Amnesty International, raccontano diversi esempi di famiglie in cui un solo componente è stato considerato irregolare. Secondo l’emittente indiano News18, legato alla CNN, tra gli esclusi figuravano anche i parenti di Fakhruddin Ali Ahmed, quinto presidente dell’India dal 1974 al 1977. “Il processo di determinazione della nazionalità dei Foreigners Tribunal - ha dichiarato Aakar Patel, fino a novembre 2019 direttore esecutivo di Amnesty International India, attraverso un articolo pubblicato dalla stessa organizzazione - è separato dalla realtà dei documenti in India. Molti indiani, in particolare quelli appartenenti alle comunità più povere e marginalizzate, non hanno documenti d’identità certificati o non sono in grado di procurarseli in tempo”. Nello stesso articolo si legge di Subrata Dey, un uomo morto in un campo di detenzione nel 2018 dopo che un Foreigners Tribunal non gli aveva accordato la cittadinanza a causa (secondo le dichiarazioni dei familiari) di un errore di battitura nei documenti. Ma al di là della disorganizzazione e opacità della burocrazia indiana, un’inchiesta portata avanti dalla giornalista Rohini Mohan e pubblicata su Vice News ha evidenziato una netta maggioranza musulmana tra i soggetti dichiarati immigrati irregolari dai Foreigners Tribunal. Mohan ha richiesto i registri degli ultimi sei mesi del 2018 a tutti i cento Foreigners Tribunal dell’Assam. 26

Nonostante questi fossero obbligati per legge a consegnarli, solo cinque hanno inviato quanto reclamato dalla giornalista. Degli oltre 500 casi analizzati, quasi 9 imputati su 10 sono risultati essere musulmani. E mentre soltanto il 40% degli induisti venivano dichiarati immigrati irregolari, la percentuale saliva al 90% per gli imputati musulmani. Nel frattempo, secondo quanto si legge in un articolo del 17 agosto del New York Times, il governo locale sta “pianificando la costruzione di dieci nuovi campi di detenzione, con la capacità di contenere migliaia di persone”. Al settimo punto del manifesto elettorale del BJP, pubblicato in occasione delle elezioni del 2019, viene espressa l’intenzione di ampliare il sistema del National Register of Citizens ad altre zone dell’India. Conclusione Il quadro generale che emerge dopo mesi di provvedimenti di ferro appare preoccupante agli occhi di molti osservatori, che giudicano seri i pericoli che i valori fondamentali dello Stato indiano starebbero correndo. Fra questi vi è Sashi Tharoor, un ex diplomatico indiano oggi parlamentare dell’Indian National Congress, principale partito d’opposizione. Intervistato da Fareed Zakaria della CNN, Tharoor è particolarmente critico dell’ultimo provvedimento del governo, il CAB: questo sarebbe profondamente in contrasto con l’idea originaria alla base della fondazione dello Stato indiano. Come ricorda l’ex diplomatico infatti, il movimento d’indipendenza indiano, in occasione della partizione del 1947, non si divise sulla base di una frattura ideologica o geografica, bensì su un altro principio fondamentale: se la religione dovesse essere o meno il fattore determinante della nazionalità. Scomodo

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Coloro i quali ritenevano fosse così nel ’47 crearono il Pakistan. Gli altri invece, guidati dal Mahatma Gandhi, Nehru, e anche da leader musulmani come Maulana Azad e Bacha Khan, erano convinti che non fosse così e che la loro battaglia per l’indipendenza dovesse essere per tutti, di qualsiasi religione, spinti dall’idea di creare un’India libera per tutti. La stessa Costituzione del 1950, continua Tharoor, riflette questi principi di eguaglianza e non-discriminazione, garantendo ai propri cittadini sia la libertà di culto che di propaganda religiosa. Il premier indiano gode di un notevole sostegno nell’elettorato indù, che lo ha sostenuto anche nelle scelte degli ultimi mesi. Bisogna però ricordare le grandi sfide che Modi si trova davanti: dare continuità ed ulteriore forza alla crescita economica indiana e riuscire a risolvere i problemi degli indiani, in particolare la povertà. Questi elementi saranno determinanti per la valutazione del suo mandato e dunque per una sua rielezione. Bisognerà poi vedere quanto l’ideologia suprematista indù rimarrà centrale nella sua azione di governo. Per il momento però, viene difficile non guardare con preoccupazione l’India, constatando che neanche la più grande democrazia del mondo è immune al fenomeno di aggressione e indebolimento delle istituzioni liberal-democratiche che ormai non sembra più risparmiare alcun continente.

di Susanna Rugghia, Leonardo João Trento, Francesco Paolo Savatteri Scomodo

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Questioni di rappresentanza

-------------------------------------------------------------------L’ennesima nuova legge elettorale italiana mette in luce la fragilità del sistema politico Dopo oltre quarant'anni di proporzionale, nel 1993 viene approvato in Italia il primo sistema elettorale misto con la legge Mattarella, ed è lì che la parata del cambio delle leggi elettorali ha inizio: Mattarellum, Porcellum, Italicum, Rosatellum e Rosatellum bis. Cinque sistemi diversi in soli trent'anni. Ma a quanto pare tutto ciò non è bastato, e con il 2020 arriva l'ennesimo cambio di rotta. Soprannominata Germanicum dai media, la nuova legge elettorale è stata depositata presso la commisione Affari Costituzionali della camera il 9 gennaio dai relatori Emanuele Fiano (PD) e Francesco Forciniti (M5S) e presentata alla camera la scorsa settimana dal Presidente della commissione degli Affari Esteri Giuseppe Brescia (M5S). Sostenuta dalla quasi totalità della maggioranza di governo (PD, M5S, Italia Viva), essa prevede un ritorno al proporzionale con una soglia di sbarramento al 5% e diritto di tribuna. All'opposizione di questa legge troviamo la Lega in prima linea, seguita da Fratelli D'Italia, centrodestra e LeU. Cosa cambierebbe in caso venisse approvata la nuova legge elettorale? Se la legge Brescia entrasse in vigore, passeremmo dall'attuale Rosatellum bis, ovvero un sistema misto a separazione completa - in cui solo il 61% dei seggi viene distribuito con un meccanismo proporzionale e clausole di sbarramento, mentre il restante viene attribuito con un sistema maggioritario uninominale - ad un sistema prettamente proporzionale che ricorda vagamente quello della Prima Repubblica, di conseguenza verrebbero aboliti i collegi uninominali ed il premio di maggioranza. 28

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Inoltre, la soglia del 3% per entrare in parlamento si alzerebbe al 5, probabilmente per sollecitare aggregazioni e coalizioni più solide fra le forze politiche minori che già attualmente faticano ad emergere. Verrebbe introdotto anche il diritto di tribuna, per tutelare la possibilità dei piccoli partiti di essere rappresentati, ovvero dei seggi per i partiti che pur non superando la soglia di sbarramento riescono ad ottenere il quoziente in tre circoscrizioni all'interno di almeno due regioni. Anche Matteo Salvini si è mosso per proporre una sua visione di sistema, a lui più conveniente in quanto statisticamente primo nei sondaggi: un referendum abrogativo che abolirebbe l’attribuzione dei seggi plurinominali con metodo proporzionale all'interno della legge vigente. Presentato il 27 novembre alla Cassazione, il quesito è stato respinto il 16 gennaio dalla Corte costituzionale in quanto considerato inammissibile ed eccessivamente manipolativo, se fosse entrato in vigore avrebbe trasformato il sistema attualmente misto in un sistema maggioritario puro. Un maggioritario secco a previsione del nuovo parlamento avrebbe portato un problema di rappresentatività di non poco conto. Di per sé il sistema maggioritario è meno rappresentativo del proporzionale, essendo un sistema che va a favorire, a discapito dei partiti minori, la maggioranza parlamentare. Se combinato con il taglio dei parlamentari, cavallo di battaglia storico dei pentastellati, alcune delle forze politiche, specialmente quelle minori che già ora faticano a farsi sentire, non avrebbero alcuna possibilità di entrare in parlamento, lasciando intere fette di elettorato prive di rappresentanza.

Lo stesso discorso può essere applicato al Ddl Brescia, che pur essendo proporzionale, se combinato con il taglio dei parlamentari presenterebbe, seppur in misura minore, lo stesso problema. Proprio per questo è stato istituito il diritto di tribuna, come spiegato prima, ma nel nuovo assetto parlamentare, più che una soluzione del problema sembra un “tappabuchi” non troppo efficace. Si corre oltretutto il rischio di trovarsi nuovamente in una situazione di impasse nel caso in cui la Consulta, in un prossimo futuro, dichiari il Germanicum incostituzionale come già avvenuto in passato con la legge elettorale del 2015 presentata dal governo Renzi (Italicum) e in modo parziale con la legge Calderli del 2005 (Porcellum).

Al servizio della politica In principio era il proporzionale. E poi il Mattarellum. E ancora Porcellum, Consultellum, Italicum e Rosatellum. Il record di sistemi elettorali adottati dal dopoguerra in poi appartiene all’Italia, e non è decisamente qualcosa di cui vantarsi. La prima legge elettorale fu approvata dalla Consulta Nazionale, organo istituito al termine della Seconda guerra mondiale, e applicata per la prima volta in occasione dell’elezione dell’Assemblea Costituente il 2 giugno del 1946. Si trattava di un sistema proporzionale puro, nel quale l’assegnazione dei seggi avveniva in proporzione ai voti ottenuti dalle liste o coalizioni nelle 32 circoscrizioni elettorali. La legge in questione permise la formazione degli esecutivi nell’arco di tutta la Prima Repubblica, consentendo alla Democrazia Cristiana di porsi come perno centrale delle varie coalizioni di governo tra il 1948 e il 1992. Il sistema diede vita, infatti, a quella che il politologo Giovanni Sartori ha definito “alternanza periferica”, ovvero un susseguirsi di maggioranze di governo in cui attorno alla DC si avvicendavano i vari Pli, Pri, Psdi e Psi. Eccezion fatta per la parentesi della cosiddetta Legge Truffa, in vigore solo per il 1953, il proporzionale puro non ha conosciuto modifiche sino al 1993. All’indomani dei grandi cambiamenti dei primi anni ’90, dal crollo del Muro di Berlino allo scandalo Tangentopoli che annientò i grandi partiti della Prima Repubblica, anche la legge elettorale fu oggetto di riforma a seguito del referendum del 18 aprile 1993.

“Mattarellum, Porcellum,

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Italicum, Rosatellum e Rosatellum bis.

Cinque sistemi diversi in soli trent'anni. E con il 2020 arriva l'ennesimo cambio di rotta.” Le domande sorgono spontanee a questo punto: Perché cambiare legge elettorale? Come mai in Italia una legge elettorale non dura ormai più di cinque anni? E soprattutto qual è il motivo per cui abbiamo cambiato sistematicamente sistema elettorale negli ultimi trent'anni? La risposta possiamo trovarla solo andando ad analizzare la nostra storia politica. Facciamo un passo indietro, e torniamo a prima del Mattarellum.

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La riforma, che porta il nome del suo relatore e attuale Capo dello Sato Sergio Mattarella, introdusse un sistema elettorale misto, in cui il 75% dei seggi era assegnato secondo metodo maggioritario in collegi uninominali, mentre il restante 25% dei seggi veniva redistribuito secondo il principio proporzionale. Il passaggio al maggioritario, combinato alla nascita dei nuovi partiti e delle nuove dinamiche politiche della Seconda Repubblica, comportò un vero e proprio terremoto elettorale nel 1994. Per la prima volta il sistema politico italiano produsse coalizioni pre-elettorali, conseguenza diretta della presenza di collegi uninominali in cui anche un singolo voto in più può fare la differenza. Inoltre, le elezioni del 1994 diedero inizio ad un’epoca di bipolarismo quasi perfetto che accompagnerà l’Italia sino all’esplosione del Movimento 5 Stelle. Da un lato, infatti, il polo di centro-destra si unì sotto la guida dell’homo novus della politica italiana, Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia. Il centro-sinistra, invece, si compattò attorno al neonato Partito Democratico della Sinistra, cui si affiancarono altre liste dell’area progressista e post-comunista, quali Verdi e Rifondazione Comunista. Tuttavia, la legge elettorale non riuscirà a soddisfare a pieno gli attori politici della Seconda Repubblica. In particolare, sarà l’avversione di Berlusconi per i collegi uninominali, ritenuti causa di debolezza per il centro-destra, a convincere il Cavaliere della necessità di una terza riforma del sistema elettorale. La Legge Calderoli, meglio nota sotto l’epiteto di Porcellum, sostituì i collegi uninominali con il premio di maggioranza: in questo modo il correttivo maggioritario era assicurato dalla garanzia del 54% dei seggi assegnati alla prima lista o coalizione, a prescindere dal numero di voti ottenuti. 30

Ciononostante, l’intuizione di Berlusconi non si rivelò vincente nelle successive elezioni politiche del 2006, quando fu la coalizione dell’Ulivo a spuntarla proprio grazie alla vittoria del premio di maggioranza per una manciata di voti. Dopo essere stata applicato per ben tre elezioni (2006, 2008, 2013), il Porcellum fu oggetto di un giudizio di incostituzionalità pronunciato dalla Corte Costituzionale nel dicembre 2013: la modifica della Corte eliminò non solo l’assegnazione dei premi di maggioranza, poiché indipendenti dal raggiungimento di una soglia minima di voti, ma anche le liste bloccate, che impedivano all'elettore di esprimere una preferenza diretta ai candidati. Dal momento che la Legge Calderoli non fu abrogata bensì ne furono eliminate solo alcune disposizioni, la sentenza lasciò in vigore un sistema elettorale completamente proporzionale, in quanto depurato del premio di maggioranza, e integrato in modo da consentire il voto di preferenza. La legge elettorale risultante fu immediatamente soprannominata Consultellum, sulla scorta della tradizione “latineggiante” ormai largamente in uso nel dibattito pubblico. Ancora una volta, però, gli interessi politici guidarono l’ennesimo processo di revisione del sistema. Questa volta fu il centro-sinistra a guida Renzi a promuovere una nuova riforma elettorale, la quale riguardò però solo la Camera dei Deputati, essendo parte di un più ampio quadro di riforma costituzionale che prevedeva l’abolizione del Senato. L’Italicum, così soprannominato dallo stesso segretario del PD, fu ispirato al modello francese ovvero un proporzionale puro con premio di maggioranza alla lista che avesse raggiunto il 40% dei voti. Scomodo

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Fu previsto inoltre un eventuale doppio turno in caso di mancato raggiungimento della soglia. Come il Consultellum, però, anche l’Italicum non conobbe mai effettiva applicazione dal momento che fu anch’esso vittima di un giudizio di costituzionalità da parte della Corte. In particolare, furono dichiarati incostituzionali sia il ballottaggio sia la possibilità per il capolista eletto in più collegi di scegliere a propria discrezione quello d’elezione. A questo punto, il duplice intervento della Corte, prima nel dicembre 2013 e poi nel gennaio 2017, consegnò al sistema politico differenti meccanismi elettorali per i due rami del Parlamento. In particolare, alla Camera rimase in vigore l’Italicum ma depurato del ballottaggio e della discrezionalità di scelta del collegio di elezione per i capilista plurieletti. Al Senato, che nel frattempo aveva resistito all’abolizione proposta dalla riforma Renzi-Boschi, rimase in vigore il Porcellum senza il premio di maggioranza regionale, di fatto un ritorno al proporzionale puro. La necessità di armonizzare i sistemi per le due Camere ha portato il Parlamento a produrre ancora una volta una nuova legge elettorale. Pochi mesi dopo la sentenza della Corte, infatti, il vicepresidente della Camera Ettore Rosato ha presentato una nuova proposta di legge elettorale, poi definitivamente approvata nel novembre 2017. Il Rosatellum, tutt’ora in vigore, segna il ritorno al sistema misto, ma stavolta il meccanismo prevalente è quello proporzionale, con il quale si attribuisce il 67% dei seggi, mentre il restante 33% è assegnato ai vincitori dei rispettivi collegi uninominali secondo metodo maggioritario. Anche questa nuova legge elettorale, tuttavia, non è riuscita a consegnare una maggioranza di governo stabile e coesa all’indomani delle elezioni del 2018. Scomodo

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La prevalenza del proporzionale sul maggioritario, combinata all’irriducibilità politica e ideologica del tripolarismo italiano, ha impedito la formazione di un governo che rispettasse le coalizioni presenti sulla scheda elettorale. Al contrario, il Rosatellum ha comportato un esito post-elettorale molto simile a quelli della Prima Repubblica, ovvero la necessità di costruire alleanze post-elettorali a sostegno di governi inevitabilmente fragili e instabili.

L’elezione del Collegio elettorale che ne consegue avviene su base federale: il candidato che prende anche un solo voto in più dell’avversario si accaparra tutti i grandi elettori di quello Stato (ad eccezione di Nebraska e Maine in cui vige una ripartizione dei seggi su base proporzionale).

Ognuno dei 435 seggi della Camera dei Comuni corrisponde ad uno dei 435 collegi, e il candidato che ottiene la maggioranza relativa nel singolo collegio conquista il seggio. Questo sistema garantisce quasi sempre una buona governabilità – ma non è detto: nel 2017 Theresa May si trovò a dover formare un governo partendo da un hung parliament, ovvero un Parlamento privo di un partito di maggioranza assoluta – e impernia il sistema politico verso un bipolarismo che favorisce i partiti più grandi e i partiti con forte radicamento territoriale. Alle elezioni del 12 dicembre scorso se n’è avuta l’ennesima riprova: i Liberal Democratici hanno conquistato 11 seggi, pur avendo ottenuto l’11% dei voti, in funzione della distribuzione di questo consenso in maniera più o meno uniforme su tutto il territorio; lo Scottish National Party invece, che ovviamente presenta i suoi candidati solo in Scozia, ha ottenuto 48 seggi pur avendo solo il 3,9% dei consensi a livello nazionale. Sono molti, in Italia, gli estimatori di questo sistema; che però ha il grave difetto di fornire un Parlamento “deformato” rispetto alla reale presenza dei partiti nel Paese, allo scopo di fornire a tutti i costi una maggioranza chiara (vedi Scomodo n.27, “Brexit Poll”) Più simile alla nostra è, invece, la legge elettorale tedesca. Anzi: in una delle prime bozze il Rosatellum tuttora in vigore era chiamato Tedeschellum proprio perché ispirato, a detta degli autori, al modello tedesco; e anche la legge elettorale presentata poche settimane fa è stata subito, erroneamente, ribattezzata Germanicum.

“Il Rosatellum ha comportato un esito post-elettorale molto simile a quelli della Prima Repubblica, ovvero la necessità di costruire alleanze post-elettorali a sostegno di governi inevitabilmente fragili e instabili.”

Come funziona all’estero Il compito, non semplice, di individuare le motivazioni alla base della tendenza italiana a un continuo ricambio di leggi elettorali sono particolarmente evidenti se si esamina il sistema elettorale di diversi Paesi europei e non. Il confronto in questo caso è necessario per stabilire quale siano le caratteristiche che contribuiscono alla stabilità di un sistema, rispetto anche alla capacità di restituire un’immagine coerente del Paese rappresentato. Negli USA, ad esempio, il sistema elettorale è stabilito dall’Articolo II della Costituzione (1787) e l’ultima modifica sostanziale al sistema elettorale risale al XII emendamento del 1804, con due aggiustamenti nel 1951 (limite di due mandati presidenziali) e nel 1961 (allargamento del voto al Distretto di Columbia). Il sistema elettorale statunitense è un maggioritario indiretto: gli elettori esprimono il voto per il Presidente, ma in realtà eleggono i cosiddetti “grandi elettori” ad esso collegati. È quindi il Collegio elettorale ad eleggere di fatto il Presidente, ma in realtà sono rarissime le occasioni in cui i grandi elettori non rispettano il mandato affidatogli. 32

Questo sistema premia i candidati il cui consenso è ben distribuito tra i vari stati, penalizzando invece chi gode di un consenso massiccio ma più circoscritto geograficamente. In due recenti casi celebri, entrambi sfavorevoli al Partito Democratico, il candidato che aveva vinto nel voto popolare ha invece perso secondo il sistema dei grandi elettori: Al Gore nel 2000 contro G.W. Bush (che perse in Florida addirittura per 327 voti) e Hillary Clinton nel 2016 contro Donald Trump. Rimanendo nel mondo anglosassone, è ugualmente imperniato su un sistema fortemente maggioritario il sistema elettorale nel Regno Unito. Rimasto praticamente invariato dal Representation of the People Act del 1948, il sistema britannico è il più classico esempio di “first-past-the-post”, un uninominale a turno unico.

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Tuttavia, sono tante le differenze tra il modello tedesco e le tentate imitazioni italiane. Il sistema elettorale della Germania è un misto di maggioritario e proporzionale, in cui gli elettori possono esprimere due voti: uno per il candidato all’uninominale del suo collegio e l’altro ad un partito o una lista per la quota proporzionale. La quota proporzionale è di gran lunga più importante di quella maggioritaria, ma la vera differenza la fanno i correttivi: per garantire una buona governabilità la soglia di sbarramento è alta, al 5% (ma le liste più piccole possono provare a vincere i collegi uninominali). Inoltre, per evitare le storture dei sistemi maggioritari, il Bundestag tedesco non ha un numero di seggi sempre uguale (il minimo è 598, attualmente sono 709) ma si adatta in base alla quantità di candidati eletti al di fuori della quota proporzionale.

hanno entrambe in Costituzione generici richiami – peraltro molto simili – ad un voto “personale ed eguale, libero e segreto”, senza ulteriori specifiche. Passaggio al maggioritario come garanzia di stabilità? Non è così facile, per due motivi principali.

Il secondo invece deriva da una peculiarità del sistema legislativo italiano: il Capo dello Stato, ovvero il Presidente della Repubblica, esercita solo una funzione di garanzia; mentre il Presidente del Consiglio è un primus inter pares, con limitato potere esecutivo. Ne deriva che, in assenza di una figura preminente, il Parlamento assuma un’importanza maggiore che altrove, in quanto vero e unico luogo dell’azione politica; e in quanto tale deve rispettare determinati criteri di rappresentatività (basta pensare alle questioni riguardanti il Porcellum e l’Italicum). Un sistema maggioritario, a queste condizioni date, non solo danneggerebbe la rappresentatività, ma non garantirebbe un governo più stabile: in quanto fornirebbe un Parlamento ugualmente frastagliato, semplicemente però non in corrispondenza con le volontà dell’elettorato. Quel che rimane è la tendenza tutta italiana ad adattare il sistema elettorale alle contingenze politiche, e non viceversa. E tra chi ha bisogno di un ritorno al proporzionale puro (centrosinistra e M5S), chi spera in un maggioritario (Salvini) e chi addirittura spinge per una riforma dell’ordinamento dello Stato in senso semipresidenzialista (Meloni), i prossimi mesi potrebbero essere decisivi per delle importanti modifiche del sistema politico e legislativo italiano. Cambiare tutto, per non cambiare nulla.

“Un sistema maggioritario, a queste condizioni, non solo danneggerebbe la rappresentatività, ma non garantirebbe un governo più stabile.”

Un problema tutto italiano Una prima conclusione che è possibile trarre da questo ampio confronto è la maggiore stabilità nel tempo dei sistemi anglosassoni o comunque maggioritari. Una questione di maggiore abitudine alle prassi democratiche, certo, ma pesa anche un fattore meno culturale e più legislativo: sono meno soggetti a modifica i sistemi elettorali riportati in costituzione. È il caso degli Stati Uniti, ma anche della Francia per quanto riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica (diverso è il caso del Regno Unito, non essendo questo provvisto di una vera e propria Costituzione). Italia e Germania, che hanno sistemi più soggetti a modifiche (nel caso tedesco) o revisioni complete (come accade in Italia), Scomodo

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Il primo è che in Italia la cultura del maggioritario non ha mai attecchito tra gli attori politici: il passaggio al bipolarismo nel nostro Paese non ha mai davvero penalizzato i piccoli partiti, che hanno sempre trovato nelle enormi coalizioni di centrodestra e centrosinistra una sorta di ala protettiva sotto la quale fare il bello e il cattivo tempo una volta arrivati al governo.

di Simone Martuscelli, Federico Leuci e Rodolfo Cascino-Dessy 33


Il nodo della legge elettorale

Il passaggio al maggioritario, dopo quasi 50 anni di proporzionale, avrebbe dovuto garantire governabilità. Invece, ha aperto un valzer di 5 leggi in 27 anni, pensate contro l’avversario di turno piuttosto che per una visione d’insieme del sistema politico italiano.

VI

(1972-1976)

VII

(1976-1979)

VIII

(1979-1983)

IX

(1983-1987)

X

(1987-1992)

XI

(1992-1994)

V

Legislature

(1968-1972)

1946 Per eleggere l’Assemblea Costituente, viene approvata una legge elettorale molto proporzionale: la soglia di sbarramento è a 300.000 voti (meno dell’1%) e si possono esprimere fino a 4 preferenze. Dal 1948, la stessa legge viene applicata anche alla Camera dei Deputati.

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IV

(1963-1968)

III

(1958-1963)

II

(1953-1958)

I

(1948-1953)

Assemblea costituente (1946-1948)

1953 Il Governo della Democrazia Cristiana guidato da De Gasperi introduce due mesi prima delle elezioni la cosiddetta “Legge Truffa”, nonostante fortissime proteste delle opposizioni. La legge prevede un premio di maggioranza del 65% per la coalizione che supera il 50% dei voti, ma alle elezioni il blocco DC ottiene il 49,8%, non ottenendo il premio. Nel 1957, la legge viene abolita e si reintroduce il proporzionale semplice.

1991 Vengono raccolte le firme per 3 referendum per spostare l’Italia verso un sistema elettorale maggioritario, ma solo il quesito che prevede di diminuire le preferenze da quattro a una sola viene considerato costituzionale. Il referendum viene approvato con oltre il 95% dei voti a favore.

Scomodo

1993 Passa a larga maggioranza un referendum che propone di introdurre il maggioritario al Senato. Su questa spinta, viene approvata una nuova legge elettorale per Camera e Senato, che prevede il 75% di maggioritario con collegi uninominali e il 25% di proporzionale. È il Mattarellum, scritta e proposta dall’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

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XVIII

(2018-oggi)

XII

(1994-1996)

XIII

XIV

XV

(2006-2008)

(2001-2006)

(1996-2001)

XVII

2020

(2013-2018)

2005 2014 Il Governo Berlusconi, preoccupato per il rischio di perdere le elezioni, approva il Porcellum, la “legge porcata” scritta da Roberto Calderoli (Lega). La legge è un proporzionale con un forte premio di maggioranza alla Camera, sbarramento al 4% e liste bloccate, che rende però molto difficile ottenere una maggioranza al Senato. In effetti, l’anno dopo il centrosinistra vince le elezioni, ma al Senato ha numeri talmente deboli che il governo dura meno di due anni.

Scomodo

XVI

(2008-2013)

Il Porcellum viene dichiarato incostituzionale, perché le liste bloccate sono troppo lunghe e perché non prevede una soglia per l’assegnazione del premio di maggioranza. Il Governo Renzi introduce l’Italicum, un’altra legge proporzionale con premio di maggioranza legato al raggiungimento del 40%, con ballottaggio fra le prime due coalizioni nel caso in cui nessuna raggiungesse quella soglia. La legge vale solo per la Camera, perché secondo Renzi il Senato andava reso non elettivo con una riforma costituzionale.

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2017 Dopo la vittoria del No nel referendum costituzionale sulla riforma Renzi, anche l’Italicum è dichiarato incostituzionale. PD, Forza Italia e Lega si accordano su una nuova legge elettorale, il Rosatellum, che prevede il 37% di maggioritario con collegi uninominali e il 63% di proporzionale, e una soglia di sbarramento al 3%. La legge viene molto criticata, soprattutto perché si può dare un unico voto per il proporzionale e il maggioritario, limitando l’efficacia dei collegi uninominali.

2019 La Lega, grazie al voto favorevole di 8 consigli regionali di centrodestra, presenta una proposta di referendum che elimina tutti i riferimenti al proporzionale dal Rosatellum, trasformandolo in maggioritario puro. Pochi giorni fa, la Corte Costituzionale l’ha dichiarato inammissibile, perché manipolava troppo la legge originale.

Con la nascita del governo Conte Bis fra M5S e PD, inizia la discussione per una nuova legge elettorale puramente proporzionale. I collegi uninominali del Rosatellum, infatti, sono visti come troppo favorevoli al centrodestra e a Salvini: se si andasse a votare, potrebbero avere una maggioranza sufficiente a modificare la Costituzione da soli. La proposta attuale del Movimento 5 Stelle è il “Germanicum”, un proporzionale puro con soglia di sbarramento al 5% e il diritto di tribuna, un modo per dare una piccola quantità di seggi anche ad alcuni partiti sotto lo sbarramento.

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I CONSIGLI DEL LIBRAIO Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città.

IL MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM

“Mediterraneo in Barca” di George Simenon Editore: Adelphi

TRA LE RIGHE Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM

“Educazione europea” di Roman Gary Editore: Neri Pozza

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Marco consiglia: “Il Mediterraneo è…Il Mediterraneo è…resto così con la penna a mezz’aria in seria difficoltà…” Inizia così questo diario di viaggio di Georges Simenon sulla sua goletta a zonzo per un Mediterraneo che non esiste più. Quello solcato solo da barche a vela e vaporetti, limpido anche nelle sue acque più profonde, profumato, colorato e pescoso, povero e aristocratico al tempo stesso, latino eppure ancora così poco occidentale. Siamo nel 1934. Fra pagine di “filosofeggiare” e altre da puro “raccontatore di storie” Simenon ci regala una testimonianza preziosa del Nostro Mare come era. Pagine ironiche, sornione, placide e a tratti fendenti come una chiglia che taglia le onde. Il volumetto è arricchito da bellissime fotografie scattate dall’autore durante il suo viaggio. Matteo Codignola dedica un’appendice a fine libro a questo aspetto poco conosciuto di Simenon fotografo. Si legge d’un fiato. Si ha voglia di rileggerlo. Piccolo e maneggevole si legge ovunque, ma in barca, in pattino o gommone, è il massimo. Paola consiglia: Libro scritto nella tempesta della seconda guerra mondiale, narra di un gruppo di partigiani polacchi che nel cuore della foresta porta avanti la propria battaglia di resistenza contro i tedeschi. Il personaggio centrale, Janek, è un ragazzo che per necessità si unisce alla lotta senza sapere quasi ancora nulla del mondo. La durezza della situazione non gli impedisce di sperimentare e scoprire come in una rivelazione nuova le amicizie e l’amore, ma soprattutto in lui nascono e si rafforzano i principi fondanti di una “educazione europea”: non solo la dignità dell’essere uomo e l’aspirazione alla libertà ma la fondamentale rilevanza di unire le forze per creare una società nuova, senza più sopraffazioni e violenza. Nessuna retorica in queste pagine che scorrono come in un flusso coinvolgente, ci si ritrova a vivere nella foresta insieme agli studenti malconci e affamati, a patire e a provare sentimenti affini, a conoscere i contrasti interiori e le contraddizioni che inevitabilmente segnano un periodo nero di storia europea.

Scomodo

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TOMO CAFFÈ Via degli Etruschi, 4 00185 Roma RM

“Le femmine - Vecchio scorticatoio” di Wolfgang Hilbig Editore: Keller

ODRADEK Via dei Banchi Vecchi, 57 00186 Roma RM

“Generazione di rimessa” di Andrea Catarci Editore: Derive Approdi

CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM

“La biblioteca del ghiaccio” di Nancy Campbell Editore: Bompiani

Anna consiglia: Due racconti di uno straordinario scrittore tedesco, sconosciuto alla maggior parte dei lettori Italiani. La prosa di Hilbig è uno strumento di eccezionale crudeltà e dolorosa meraviglia, in grado di scavare nel paesaggio urbano, nell'inquietudine della natura, nelle vertigini della mente e nelle prigioni della memoria degli uomini vissuti tra la Seconda guerra mondiale e i quartieri impenetrabili della DDR. Una riscoperta preziosa, a opera di una delle migliori case editrici italiane dei nostri tempi. Davide consiglia: Ci siamo abituati a ritenere gli anni '80 come gli anni del riflusso. Anni segnati esclusivamente dai jeansLevi's 501 a vita alta, dai Ray-Ban a goccia, dalle sneakers ai piedi passando per le "canotte" dai colori sgargianti. Sono stati descritti come gli anni dell'edonismo, dell'individualismo, delle "mode effimere e classiste". Leggendo il bel libro di Andrea Catarci sembra che la storia e le storie non siano andate proprio così. Perchè la "generazione di rimessa" iniziò silenziosamente, apparentemente in modo invisibile, a ricucire lo strappo con gli anni Sessanta-Settanta e a ritessere il filo rosso della memoria e delle lotte sociali. Un romanzo da leggere, un contributo non retorico per quegli anni. Federica e Rossella consigliano: Elemento indispensabile di numerosi cocktail, palestra per provetti scalatori, pista da curling? Il ghiaccio affascina e spaventa, da sempre e in ogni luogo. L’artista britannica Nancy Campbell esplora da tempo gli ambienti polari e marini e ha avuto l’opportunità di vivere e lavorare nei siti dove il ghiaccio la fa’ da padrone, dalla Groenlandia all’Alto Adige, dal Nunavut alla Svizzera. La sua narrazione trasmette con efficace naturalezza la storia del ghiaccio e delle sue sorprendenti interazioni con l’umanità. In bilico tra più discipline, tra scienza e creazione artistica e poetica, l’Autrice racconta la nostra storia, quella degli uomini e delle donne che hanno saputo addomesticare il ghiaccio e adattarsi alle sue inflessibili leggi. Una lettura resa ancora più impellente dalla progressiva sparizione dei ghiacci. A complemento necessario, due volumi di taglio scientifico: Addio ai ghiacci. Rapporto dall’Artico e Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare.

Il libraio vi augura una buona lettura Ci sostengono anche: PUNTO SCUOLA

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Via del Governo Vecchio, 82, 00186 Roma RM

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KOOB

Piazza Gentile da Fabriano, 16, 00196 Roma RM

JASMINE

Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM

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Parallasse

-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

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Il 2020 si è aperto con una frenesia mediatica su una imminente “terza guerra mondiale”. Gli eventi delle prime settimane di gennaio sono stati rilanciati da tutte le maggiori testate nazionali e internazionali, spesso in maniera esasperata. Sui social network, come spesso accade, si arriva alla parodia della frenesia mediatica attraverso il meme della #WW3. Si parla ovviamente dello scontro tra Iran e USA, che ha una storia lunga ma è ripreso, dopo un’apparente tregua, con la presidenza Trump. I primi di gennaio hanno visto l’uccisione del capo dei Quds force iraniani Soleimani e la conseguente aggressione iraniana sulla basi statunitensi in Iraq. L’ostilità USA-Iran va ormai avanti da molto tempo e una data fondamentale è il 1979, anno in cui cinquantadue dipendenti dell’ambasciata americana vennero presi in ostaggio a Teheran. È da questo episodio che si possono iniziare a raccontare i fatti del nuovo capitolo del conflitto. Il 31 dicembre 2019 dei manifestanti iracheni prendono d’assalto l’ambasciata americana a Baghdad; dietro all’organizzazione di questo attacco possiamo trovare la figura del generale Soleimani, che da tempo si riteneva responsabile degli attacchi contro gli USA nel Medio Oriente. Quest’affronto all’orgoglio americano non sta bene a chi risiede alla Casa Bianca e la sua risposta arriva il 3 gennaio quando Donald Trump,

con un drone, uccide Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad. All’indomani della morte di Soleimani la stampa ha recepito la notizia dando inizio alle narrazioni, le analisi e le congetture sul futuro. La forma delle notizie tuttavia appare esasperata se raffrontata a solo due settimane dopo, quando si è ritornati alla normalità. In Italia, dove forse il carattere esasperato dell’impatto mediatico è ancora più accentuato, c’è stato un ritorno delle agende del giorno sulla situazione politica italiana. La ragione di questo comportamento è da ricercare nella costruzione di un percorso giornalistico/narrativo più accattivante possibile, che si realizza solo se le peggiori previsioni diventano realtà. In questo modo la realtà dei fatti si scosta significativamente dalla realtà giornalistica, che appartiene ad un diverso universo narrativo. Allo stesso modo la notizia non è solo uno strumento narrativo e formale, ma un vettore di contenuti che, se da una parte descrive il mondo, dall’altra è in grado di trasformarlo. La conferma più grande arriva dalle “fake news” e dalla loro influenza sulla società. Gli eventi delle prime settimane di gennaio non si esimono da questo fenomeno. Raffrontando gli emittenti statunitensi e iraniani, più o meno faziosi che siano, emerge una vera e propria battaglia di propaganda incrociata. Scomodo

Gennaio 2020


La notizia come arma da guerra Nell’epoca dell’informazione lampo la notizia è uno strumento che assume carattere fondamentale per il controllo e per la proiezione di potere oltre i propri confini nazionali. L’esempio più lampante è quello di Russia Today, che utilizza il grande reach per diffondere una lettura pro-Russia delle notizie. Allo stesso modo tra Iran e Stati Uniti, soprattutto in queste settimane intense, è in corso una guerra di soft power, dove gli USA sono sicuramente avvantaggiati, ma l’Iran non è da meno nello sforzo. La notizia diventa un’arma utilizzata per vincere la battaglia dell’opinione pubblica, sia nazionale che internazionale. Questo sicuramente emerge con i maggiori emittenti interni iraniani, che sono totalmente controllati dallo Stato, ma anche con i network che si rivolgono ad un pubblico internazionale. Di quest’ultima categoria in Iran abbiamo PressTV e Fars News Agency. Gli Stati Uniti invece hanno un panorama interno molto più eterogeneo. Non bisogna guardare lontano tuttavia per notare il grande impegno che il governo investe nel condizionare l’opinione pubblica iraniana. L’obiettivo è superare la barriera informativa persiana e proporre una lettura pro-occidente delle notizie, finanziando i progetti che vanno in quella direzione. I due principali sono Iran International English e Radio Farda che è una sezione di Radio Free Europe/ RadioLiberty (l’emittente usato contro l’URSS e oggi contro la Russia) dedicata a diffondere informazioni pro-occidente in Iran. I momenti più intensi di questa fuoco incrociato di propagande si trovano successivamente all’attacco iraniano sulle basi USA. Scomodo

Gennaio 2020

L’offensiva, più che militarmente significativa, doveva essere un colpo simbolico agli Stati Uniti. Nei primi momenti dall’attacco, come spesso accade, sui social network venivano diffuse immagini non relative all’attacco e numeri di morti non verificati, fino a 20. Dagli USA arrivavano invece notizie circa nessuna vittima. Il giorno dopo tuttavia la televisione iraniana ha riportato un numero di morti pari a 80, mentre la totalità delle altre fonti confermava nessuna vittima.

Solo il 17 gennaio arriva la notizia che undici militari statunitensi sono stati feriti, a differenza di quanto precedentemente rivelato dal Pentagono e Donald Trump, durante l’aggressione iraniana. Se uno dovesse informarsi usando questi canali otterrebbe informazioni sempre del tutto opposte e mai coerenti con la realtà. Una questione invece meno legata agli assetti di potere nella regione ma assai più importante per la grande influenza sull’opinione pubblica, è l’abbattimento dell’aereo di linea ucraino la notte dell’attacco iraniano.

L’opzione più votata nei momenti successivi al fatto fu quella dell’incidente dovuto all’errore umano, con emittenti iraniane che rilanciavano la notizia di come il Boeing 737, secondo alcuni dipendenti, fosse stato “progettato da pagliacci, a loro volta supervisionati da scimmie”. Solo in seguito alll’evidenza schiacciante le autorità iraniane, e quindi i media, hanno rivelato le effettive responsabilità. Scatenando quindi la risposta di una parte della popolazione che ha dato inizio ad un nuovo ciclo di proteste in Iran. La copertura mediatica che hanno ricevuto è stata asimmetrica. Mentre la televisione nazionale iraniana e i vari outlet iraniani non riportavano nulla (o quasi), i canali di informazione pro-USA in Iran rilanciavano le notizie, costruendo forse un’immagine simile alle proteste di novembre, che tuttavia sono state assai più grandi. Allo stesso modo in questi mesi le proteste in Iraq non trovano voci autorevoli in grado di descriverle. Si tratta sia di giovani sunniti, insofferenti rispetto al nuovo potere sciita, ma anche di giovani sciiti, che riconoscono la totale assenza dello stato. A differenza di come si cerca di dipingere l’Iraq, la realtà è che il paese ad oggi è ancora fortemente diviso. L’approccio della stampa nazionale La maggior parte dei nostri giornali decide di dedicarvi la prima pagina, tra i più importanti si possono trovare La Stampa, Il Corriere della Sera e La Repubblica. Questi due primi colossi della giornalistica italiana citati riportano la notizia, rispettivamente, con i seguenti titoli “Trump a un passo dalla guerra con l’Iran” e “Raid Usa, l’Iran: ora vendetta”. 39


Scrivendo così, sono in primo piano gli Stati Uniti d’America e la decisione avventata di Trump di uccidere una delle figure più rilevanti in medio oriente, dove da tempo la tensione è altissima. Il Giornale scrive: “Ucciso il boia iraniano e il governo tentenna” mettendo in mezzo anche la politica italiana, facendo una critica a Conte e Di Maio definendoli “conigli” poiché scelgono di non prendere una posizione a riguardo. Ma è davvero possibile prendere una posizione in una situazione complessa come questa? L’ex ministro degli interni, Matteo Salvini, tale quesito non se lo pone. Decide di comportarsi come quando a scuola annuivamo con vivo consenso al più simpatico della classe per cercare di diventare il suo migliore amico. Sul suo profilo Facebook pubblica un post, «Donne e uomini liberi, alla faccia dei silenzi dei pavidi dell’Italia e dell’Ue, devono ringraziare Trump e la democrazia americana per aver eliminato uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà»; motivando poi il suo schieramento dalla parte del presidente americano poiché quest’ultimo “difende i valori cristiani”. Il Manifesto riporta questa dichiarazione con un titolo breve e riassuntivo: “Salvini fa l’ultrà di Trump”. Il leader del partito Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni dichiara, forse per la sua storica vicinanza al regime di Assad e alla Russia, come riportato da il Sole 24 Ore: “la complessa questione mediorientale in cui si innesta la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, non merita tifoserie da stadio ma necessita di grande attenzione” e continua “la più ferma condanna al gravissimo assalto all’ambasciata statunitense in Iraq e una forte preoccupazione per le conseguenze della reazione americana che ne è seguita”. 40

A seguire la linea del pensiero di Salvini, è Libero che decide di elogiare Trump con il seguente titolo “Evviva Trump ha ucciso il boia iraniano” così minimizzando non solo una notizia ma, in termini figurati, un incendio che sta divampando. La stessa testata decide di cantare fuori dal coro, e sulla prima pagina del 6 gennaio troviamo: “Abbiamo i talebani a casa, scoppia il tifo per l’islam”. Scrivendo poi che: “Il governo, i giornali e tiggì piangono l’eliminazione del boia iraniano antisemita e per evitare le ritorsioni di Teheran si prostrano verso La Mecca, mostrando il sedere a Usa e Occidente.” È evidente come Libero non trova difficoltà a schierarsi, come non trovi difficoltà a sminuire chi saggiamente decide di usare la cautela, per cercare di non peggiorare una situazione che non elimina l’ipotesi di una seria escalation. La Repubblica fa parte di chi, come direbbe Libero, “mostra il sedere a USA e Occidente”, e il titolo che esce sulla loro prima pagina è “Ora il mondo ha paura”. E questa paura di cui parla il quotidiano si rafforza quando il 5 gennaio l’Iran si ritira dall’accordo sul nucleare stipulato durante il mandato di Barack Obama e quando l’8 gennaio dei missili bombardano due basi americane. Un altro avvenimento che aggrava la situazione, è la notizia di un aereo ucraino abbattuto da un missile poco dopo il decollo dall’aeroporto di Teheran Imam Khomeini, che ha portato alla morte di 180 persone. L’Iran poi ammette di essere il responsabile di quel missile, lanciato per un “errore umano”. Lo spazio che occupa questa tragedia nelle prime pagine dei quotidiani, riportata solo dopo l’ammissione dell’Iran, è misero e solo alcuni giornali come Il Manifesto le dedicano la prima pagina.

Ma in tutti i titoli vengono riportate le proteste e le piazze piene che questo evento ha scaturito. Il mal contento e lo sdegno crescono e danno vita a sempre più manifestazioni, rivolte e mobilitazioni. La tensione è allo stremo non solo nei due paesi in conflitto, ma anche nel resto del globo. L’opinione pubblica si divide, c’è chi acclama Trump, chi afferma che è un pazzo e chi decide di non schierarsi. I nostri telegiornali riportano però solo immagini di cortei in Iran contro gli Stati Uniti d’America, in cui bruciano la bandiera a stelle e strisce e dichiarano morte alla nazione nemica. Ma sulle piattaforme social saltano fuori video e immagini di iraniani che non proclamano vendetta e di americani che condannano le azioni del presidente Trump. Sono in prima linea insieme al loro dissenso verso il conflitto che rende sempre più gravoso l’inizio del nuovo decennio.

di Marco Collepiccolo e Rebecca Cipolla Scomodo

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di Ilaria Michela Coizet Foto di Emma Terlizzese

SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA

EX OLEIFICIO Superficie totale dell’area: 20.000 mq Anno di abbandono: metà anni '80 Anno di bonifica dell'area: 2007 Proprietà: ignota 42

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LA DELIBERA AVREBBE CONCESSO AL SINDACO I MEZZI PER POTER INTERVENIRE SULLE PROPRIETA FATISCENTI QUANDO QUESTE SI RITROVANO A MANCARE DEGLI INTERVENTI DI MANUTENZIONE ORDINARIA

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ul panorama della vecchia Roma industriale del quadrante sud, all’altezza del viadotto della Magliana, si staglia il colosso bruno dell’ex oleificio. Lo stabile, oramai abbandonato, fino a poco più di trent’anni fa era adibito alla produzione meccanica di olio di semi e di soia.

Poco distante sorgeva un ulteriore edificio che si occupava del trattamento degli scarti alimentari, quali grasso animale, ossa e frattaglie. L’azienda, fiorente fino a quasi tutta la seconda metà del secolo scorso, si occupava di ricevere la materia prima, di chiarificarla e poi di lasciarla decantare. Per gestire una lavorazione tanto eterogenea, il complesso era organizzato su vari livelli; le dimensioni dell’intero stabile, infatti, non sono certo trascurabili: ben 20.000 metri quadri. Una volta chiuso, è stato vittima della sorte che spesso grava sugli edifici in disuso della capitale, sia pubblici che privati: trasformatosi nell’ennesimo monumento all’incuria, è diventato una discarica a cielo aperto. Nel 2007 Polizia e Carabinieri hanno sgomberato la zona che in quel momento era occupata da più di trecento persone. Ma come testimoniò all’epoca dei fatti il consigliere comunale Augusto Santori (Alleanza Nazionale), “dopo lo sgombero dell’ex Oleificio di Borgata Petrelli, i nomadi stanziati in via dell’Imbarco alla Magliana Vecchia, sotto il cavalcavia della Roma-Fiumicino, hanno raggiunto quota 1500 unità. Quindi l’emergenza sociale si è spostata di soli pochi metri”. Scomodo

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Gli abitanti del quartiere avevano addirittura richiesto l’abbattimento dello stabile per evitare il ripresentarsi di occupanti abusivi, in un clima di tensione sociale molto rigido. In una delle numerose ricognizioni sul posto, sono state rinvenute anche molteplici guaine di cavi elettrici. In un articolo del Diarioromano, viene suggerito che potessero appartenere alla refurtiva delle bande criminali che nel 2015 si appropriarono del rame sulla Roma-Fiumicino, danneggiando l’illuminazione stradale. Non ci sono fonti ulteriori che confermano questa ipotesi.

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Una riqualifica mancata La bonifica del luogo risale al 2007 insieme allo sgombero ma, da quel momento in poi, la situazione dello stabile è rimasta stagnante nella sua trascuratezza. Nel caso di ex impianti industriali, risanare l’area è un’azione fondamentale ed urgente. I rifiuti tossici potrebbero danneggiare gravemente le condizioni del terreno e delle falde acquifere: basti pensare alle ingenti quantità di amianto spesso rinvenute durante questo tipo di procedura. In Italia si tratta di un’operazione tassativa ai sensi degli articoli 239 e seguenti del Codice Ambientale. Secondo quanto viene scritto in un post su Facebook pubblicato nel settembre del 2016 dal comitato Magliana Viva, il proprietario dello stabile aveva presentato intorno al 2006 una proposta di riqualificazione commerciale della zona, poi decaduta per la non fattibilità del progetto. Non esistono informazioni su chi sia il proprietario, la redazione ha tentato di contattare sia il Municipio XI che la stessa associazione Magliana Viva, senza ottenere risposta. 45


Una possibilità di dare nuova vita allo stabile si sarebbe potuta aprire nel 2018, quando la consigliera comunale Cristina Grancio presentò in Campidoglio una delibera ispirata alle iniziative avviate positivamente nel resto d’Italia (vedi Scomodo n.16, “La città inamministrabile II: la battaglia pubblica”). In particolare, si voleva fare riferimento alla città di Napoli che, negli ultimi anni, ha saputo vincere diverse battaglie contro l’abbandono e la decadenza di strutture che, se tutelate in maniera opportuna, potrebbero rappresentare una risorsa preziosa per la città. Proprio per questo motivo, il primo cittadino partenopeo, Luigi De Magistris, si era presentato a favore dell’iniziativa della Grancio, affiancandola nel progetto. La delibera avrebbe concesso al sindaco i mezzi per poter intervenire sulle proprietà fatiscenti quando queste si ritrovano a mancare degli interventi di manutenzione ordinaria. In caso di inadempienza, la delibera prevedeva che la cura fosse attribuita ai servizi pubblici a livello locale. L’attuazione di questo programma era prevista per immobili il cui stato di abbandono fosse stato accertato da almeno cinque anni e avrebbe potuto prendere in considerazione oltre 440 aree. 46

La proposta però è finita nel dimenticatoio, contrariamente a ciò che è accaduto a Napoli, dove la giunta partenopea ha aderito alla delibera. Nonostante il grande trambusto di due anni fa, al momento i due ettari occupati dalla proprietà sono abbandonati a loro stessi. Il 9 luglio 2019 la struttura è andata in fiamme, allarmando non poco gli abitanti della borgata Petrelli. Ma negli ultimi anni l’ex oleificio ha cominciato letteralmente a riprendere colore. Il luogo, spazioso e lontano dal centro, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare moltissimi giovani writers che hanno visto in questo stabile inselvatichito una nuova meta. Scritte, tag e colori animano le pareti e i soffitti dell’edificio, quelle stesse pareti che per anni erano state considerate morte e oramai perdute. Le leggende che pesano sui luoghi abbandonati della capitale relative al traffico di droga e alla malavita hanno un evidente fondo di verità, ma al momento ciò che maggiormente imperversa fra i desolati corridoi dell’ex oleificio, è in realtà una comunità di giovani artisti di ogni estrazione sociale, alcuni dei quali sfruttano la decadenza colorata di questo mostro urbano come sfondo e protagonista dei loro book fotografici. Scomodo

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ROMA SI TROVA A ESSERE COMBATTUTA TRA L'IMPULSO DI UNA RINASCITA POST INDUSTRIALE POSSIBILE E SUSSISTENTE E QUELLO DI UN’IMMOBILITA CORROSIVA CHE, TUTTORA, LA CONTRADDISTINGUE E LE REMA CONTRO.

Sfortunatamente però, questa realtà creativa e spontanea, non è la sola che anima ciò che resta dell’oleificio. Il punto della riqualificazione di questo tipo di aree è finalizzato proprio ad evitare l’insorgere delle attività criminali che, a ondate più o meno pesanti, si presentano e ripresentano sul suolo romano.

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Roma bifronte In un’ottica propria di società occidentali sempre più sviluppate e meno dipendenti dal settore industriale, trovare un nuovo destino per l’archeologia industriale è un processo inevitabile e necessario che la maggior parte delle città europee ha già intrapreso, spesso con successo. A Roma, una tendenza in questo senso è presente ma si fa portatrice di numerose contraddizioni. Da un lato il caso dell’oleificio non è isolato: sempre nella stessa zona esistono numerosi complessi industriali abbandonati, tra cui anche l’ex tipografia Buffetti, in mezzo ad una polemica a causa della possibile presenza di amianto. Dall’altro, in maniera quasi antitetica, a poca distanza esistono esempi virtuosi, come il museo nella Centrale Montemartini o molti degli edifici dell’università di RomaTre. A conti fatti, Roma si trova a essere combattuta tra l’impulso di una rinascita post-industriale possibile e sussistente e quello di un’immobilità corrosiva che, tuttora, la contraddistingue e le rema contro.

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CULTURA


“Ma stai a scherza’? Ma proprio a Roma vorresti suonare?” Una lunga considerazione su come si pone la nostra città nel booking internazionale, dalla musica leggera al genere più radicato

Ci ritroviamo più volte nel nostro piccolo a dover viaggiare per vedere l’artista preferito esibirsi, che sia all’estero o che sia in altre città italiane. Sulla base di questo pensiero, abbiamo voluto rapportarci con un esperto nel settore per capire meglio le cause per la quale la nostra città non rientra nelle coordinate predefinite delle agenzie di booking straniere. continua a pag. 56

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Gabriel Vigorito

Gabriel Vigorito, classe ’96. Attualmente all’ultimo anno dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, grafico e web designer, a soli 23 anni collabora con Sergio Castellitto alla realizzazione di un film di cui, per contratto, non può farci il nome in qualità di realizzatore di grafiche per i props di scena mentre, nel tempo libero, vince una borsa di studio per la Biennale Spazio Pubblico 2019 per la riqualificazione di Campo Boario e Testaccio in team con Mirko Properzi ed espone al Museo Hendrik Christian Andersen. Oltre ad essere un freelancer collabora con Digital Outcome come Web Designer, illustratore e creativo. In Scomodo fin dal principio.

Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese

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Allora Gabriel, il tuo stile sembra una commistione di generi differenti. Intersechi la grafica elaborata con il disegno a mano libera con un sottofondo longilineo e costante che unisce il tutto. Come nasce questo stile? È un’idea in divenire che sto sviluppando da circa un anno ovvero da quando all’Accademia ho sommato la classe di Grafica Editoriale. Se fossi rimasto soltanto in Accademia probabilmente sarebbe nato qualcos’altro. Le mie vecchie serie non sono altro che dei giganti di pongo fluttuanti alla Francis Bacon... quindi ho preferito buttarli e cercare un’altra chiave. Forse adesso sono in una fase d’indecisione stilistica. La direzione è tracciata ma è ancora tutto da vedere.

Tutti le vedono, le zecche, ma nessuno le indica. I riflettori, in tutto ciò, sono gli occhi dei lavoratori onesti che sanno tutto ma non intervengono, restano in silenzio e, quindi, collusi.

È questo il motivo della linea non uniforme? Esatto.

Cambiando totalmente argomento... tu sei entrato in Scomodo praticamente alla sua fondazione, come si è evoluto secondo te questo progetto e che futuro vedi considerando anche l’apertura dei nuovi “avamposti” di Torino e Milano? Forse con qualche contraddizione ma credo sia normale. Le idee evolvono, si strutturano nel tempo, quindi è normale che si modifichino.

A chi ti ispiri per le tue opere? Credo che al giorno d’oggi sia più corretto parlare di costante contaminazione rispetto a grandi maestri da prendere come esempio. Se proprio dovessi scegliere, l’artista che mi ha dato di più è Jenny Saville che riprende spesso il tema della carne, dei corpi deformati. Ultimamente sta riprendendo anche la tematica della linea caotica, confusa quasi portata a suggerire delle immagini, mentre si muove. Un altro artista che mi ha influenzato è Giulio Sartorio, con i suoi corpi snodati molto sottili e secchi. In quelle strutture corporee noto delle sensazioni, delle realtà, delle emotività che riporto nei miei lavori. Nello specifico poi, la copertina di questo mese è una forte critica alla società italiana contemporanea, dicci qualcosa in più. Qual è l’idea alla base. Ti sei ispirato a qualche articolo del numero in particolare? Al Focus che, questo mese, parla di mafia. Nella copertina la tematica principale è quella del ballo. Tutto danza, ruota e avviene sotto i riflettori. Questi corpi caotici, vitali si muovono perfettamente illuminati mentre vengono divorati da questi parassiti (le zecche di cartone ndr) che non sono altro se non questa presenza mafiosa che divora tutto e si nutre dei corpi.

Spiegami meglio. Come ti accennavo, l’articolo del Focus di questo mese parla di come la mafia sia riuscita ad infiltrarsi all’interno delle istituzioni. Io credo che questi mafiosi siano conosciuti. Credo che si sappiano nomi e cognomi... ma chi li conosce si sente abbandonato dallo Stato, si sente solo, e resta in silenzio. Anche se per paura, o minacce. La mafia è riuscita a nascondersi nelle istituzioni in piena vista, e questo è preoccupante.

Fammi un esempio. Per esempio all’inizio nessuno avrebbe voluto inserire pubblicità all’interno del giornale ma, con il tempo, abbiamo compreso che esistono dei tipi di pubblicità “differenti”, come la collaborazione con Banca Etica. Un ragionamento di questo genere, all’inizio, non lo avremmo mai fatto. Si cresce, s’impara e si migliora. Con le espansioni stiamo entrando in una Fase 2 non preventivata. Vedremo dove arriveremo.

Beh, questo rende la tua risposta ancora più interessante però, come fai a farti notare? Con il passaparola? In realtà sì. Poi con i contest dell’Accademia, anche se tutti del dipartimento di grafica. L’importante è lanciarsi. Ogni tanto mi è capitato di lavorare a dei progetti senza ultimarli ma che mi hanno fatto crescere molto. Mentre, al giorno d’oggi, chiunque possegga una qualsivoglia conoscenza di Photoshop o di Illustrator si definisce, immancabilmente, un artista… Oppure un grafico. Esatto. Sono effettivamente tutti artisti? A me il termine artista non piace, proprio per questo motivo. Ormai anche i calciatori sono artisti. È una parola pericolosa. Per produrre qualcosa di nuovo, di tuo, devi conoscere tutto quel che è stato fatto in precedenza. Devi sapere dove stai andando. Puoi anche imparare ad usare Photoshop in due giorni, fai un artwork e magari esce un buon lavoro. Ma, alla fine, dipende se quella produzione è fine a se stessa o se avrà un seguito. Diciamo che se quel lavoro diventa una serie, quindi viene esplorato, compreso e migliorato forse siamo sulla buona strada per trovare un artista. Probabilmente, alla fine, l’artista non è nient’altro che un esploratore.

di Alessio Zaccardini

Tutto ciò mentre viviamo in uno Stato che investe sempre meno in cultura…. Com’è evoluto il ruolo dell’artista negli ultimi anni? Quant’è difficile farsi notare? Parlerei quasi di difficoltà anche per lo studente artista, non solo per gli artisti. Il prossimo anno i fondi statali per l’istruzione passeranno dal 3.5% al 3.4%. Può sembrare poco, ma non è così. Gli artisti di oggi nascono e crescono in questo contesto. Per il resto non credo di essere la persona giusta per parlarne. Nel 2020 si emerge con i social e io non li ho mai curati. 53

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“Ma stai a scherza’? Ma proprio a Roma vorresti suonare?” --------------------------------------------------------------------------------------------------------Una lunga considerazione su come si pone la nostra città nel booking internazionale, dalla musica leggera al genere più radicato

"Roma il 1.° Novembre 1786. Sì; io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuto visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più tardi." A distanza di più di duecento anni, le parole di Goethe nei suoi Ricordi di Viaggio in Italia rimangono tanto amare quanto valide, malgrado quel futuro già vissuto che ci ha consegnato la città per come la conosciamo. La sua complessità, le sue profonde contraddizioni e quell'aria di “buttarla in caciara, tanto vada come vada si accontentano”, queste peculiarità sono solo alcune delle cause per la quale una delle città più antiche del mondo versa in una condizione di snob autoindotto, o più verosimilmente di appannaggio culturale che la porta ad essere così ferocemente criticata, in primis dagli stessi cittadini. Ma dove ha più riscontro la caducità di questo processo di appannaggio, di questa falsificazione dell'offerta e mala organizzazione delle possibilità?

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In tutti gli ambienti, dal figurativo all'audiovisivo passando per l'ambito musicale, c'è un sintomo conclamato di ritardo temporale, nel discorso artistico e nella sua evoluzione. Roma è indietro, non solo rispetto al resto di Europa e dell'Occidente dalle comuni origini culturali, ma rispetto soprattutto alle maggiori città di tutta la penisola, che contano di opportunità artistiche più suggestive e sicuramente meno imbarazzanti. Nel particolare, uno dei risultati più evidenti, anche all'occhio e all'orecchio di un ascoltatore occasionale, è la constatazione di come la città sembra essere esclusa dalle medie e grandi agenzie di booking internazionale. Con un occhio più stretto agli artisti attuali, che fanno uscire opere “long play” in questi anni di forte consumo musicale, la predisposizione a bypassare la città per andare a Milano, Torino, Firenza, Lucca, Bari e fino all'estremo meridione come Ortigia, è segno di una forte criticità nell'universo del booking romano, dall'organizzazione dei festival a quella locali a più ampio respiro. Non va naturalmente fatta tabula rasa in questo panorama: esistono pochissime eccezioni, contabili sulle dita di una sola mano, che fanno ancora da luce del faro, in grado quindi di poter offrire al pubblico un'artista europeo o statunitense che sia, fresco fresco della spremitura critica che lo classifica come nuovo testimone della direzione artistica che prenderà la musica di tutto il pianeta. E di conseguenza, anche il suo consumo e le sue rappresentazioni corollarie, dall'arte dei videoclip a quella della moda, dal dibattito politico alla ricerca estetica. Di generare quindi, dall’esperienza di un semplice concerto, un effetto domino degli interessi, che una volta coltivati si maturano in ulteriori conoscenze. Per affrontare questo argomento, abbiamo incontrato una personalità di riferimento nel mondo della musica italiana e internazionale, Raffaele Costantino.

Il suo ruolo come DJ e speaker su Rai Radio 2 e la sua figura di musicista e producer, rilevante nel mondo dell'elettronica, del jazz e dell'hip hop, soprattutto quello fuoriporta, interprete di linguaggi provenienti dall'Africa, dalla scena losangelina e da quella londinese. L'incontro con una figura non solo tecnicamente preparata ed esperta, ma propriamente intellettuale e con le sue posizioni a riguardo, ha consentito alla semplice considerazione di partenza di poter diventare un ragionamento tanto intuitivo quanto efficace, scoprendo che non ci si deve minimamente soffermare sugli aspetti burocratici del fenomeno, ma maggiormente su quelli culturali e sociologici.

Da li è nata una carriera da DJ, prima per mantenermi, poi mi sono accorto che è diventato proprio un lavoro. Tutto questo si è abbinato ad un percorso professionale nella radio dove lavoro da 12 anni, nella quale adesso tengo un programma dedicato alle musiche alternative, Musical Box su Rai Radio Due. Per quanto riguarda la mia carriera come artista, ho sentito la necessità di coniugare i tre linguaggi su cui investivo la maggior parte della mia ricerca musicale, ossia jazz, elettronica e musica africana. Tutto questo è nato come progetto dal nome di Dj Khalab. Alla fine conto di due anime, una di artista, l’altra di conoscitore e consulente musicale, lavorando anche con molti brand tra cui Nike e Redbull.

“Una delle città più antiche del mondo versa in una condizione di snob autoindotto, o più verosimilmente di appannaggio culturale.”

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Chi è Raffaele Costantino? E a sua volta chi è DJ Khalab? E soprattutto, quali sono state le tue esperienze che ti hanno portato ad essere la figura che rappresenti? Allora, Raffaele Costantino è ovviamente il mio nome e cognome, con la quale mi sono ritrovato, mentre invece Khalab è il nome che mi sono scelto come Alias artistico. La mia carriera è iniziata una ventina di anni fa a Roma, lavorando come commesso in un negozio di dischi, addetto alla musica alternativa, come il jazz, l'hip hop, il soul, il funk e la world music. Pian piano ho iniziato a collaborare come giornalista per alcune riviste, come Rockstar e altre sorelle italiane, mentre frequentavo l'Accademia della Critica inMusica Internazionale, direttadaVincenzo Martorella.

Partiamo da un pregiudizio diffuso, specialmente nella nostra generazione, dai ‘90 in poi, è vero che Roma è una delle città più snobbate dal booking estero? Diciamo che Roma in sé non è snobbata da nessuno, dovunque tu vada qualsiasi artista ti dice quanta è bella Roma e quanto sarebbe bello poterci organizzare qualcosa. Il problema è che la che la città stessa si autoesclude per una serie di dinamiche complesse, di natura sia sociologica che economica. Queste dinamiche non arrivano in termini di approfondimento al promoter o all’organizzatore di eventi americano o inglese che sia. Quello che arriva è un output finale che è quello della mancanza di richiesta: Roma ha dimostrato negli ultimi venti anni, sarà per un cambio generazionale, sarà per un annichilimento della popolazione, sarà per un tipo di taglio e di ricerca di intrattenimento di queste generazioni, di essere una città che in realtà non crea domanda.


Tutti gli esperimenti che sono stati fatti dal 2000 in poi sulla ricerca, la qualità, tutti i lavori di approfondimento in ambiti alternativi non hanno mai creato grandissimi numeri, anche perchè non è a tutti gli effetti una città giovanissima. Ha un percentuale di ragazzi molto giovani, di studenti universitari che non hanno il budget per vedere grandi concerti, si ascoltano più i grandi i classici che la musica nuova, quella contemporanea. Ti faccio un esempio: i ragazzi del Cinema America sono diventati il riferimento culturale della sinistra italiana, facendo il cinema in piazza e quindi proponendo qualcosa di culturale. In realtà più che culturale il lavoro che fanno, impegnandosi e ottenendo ottimi risultati, è qualcosa di politico, concentrandosi sulla coesione del territorio e la partecipazione di quartiere. Sul piatto di culturale non viene aggiunto nulla, non c’è una vera rivoluzione: mentre stanno lavorando e si smazzano, chi mette la musica per passare il tempo non mette qualcosa di attuale e di poco conosciuto ai più, mette Rino Gaetano. La risposta, sana e corretta, che ti danno nel chiedergli perché proprio lui è sempre quella: perché a me, a noi piace questa musica qui. Non è di per sé il fenomeno sbagliato, solo che sta alla base di una forte mancanza di un tipo di intrattenimento che soddisfi la sete di cultura adesso, di conseguenza non ci sono i numeri per il pubblico e in conclusione non si fanno certi eventi. C’è una piccola fascia che il budget per andare all’estero a vedersi il Primavera, il Sonar, il North Sea Jazz 56

e così tanti altri, però se ci pensi saranno i primi che se un concerto simili si ripresenterà qui a Roma diranno “tanto l’ho visto a Barcellona, perché dovrei rivedermelo qui”. Tutto questo sta alla base della domanda, senza quella ovviamente in Italia non si crea la richiesta..

“Siamo pieni di luoghi contenitori, ma non abbiamo laboratori, luoghi che invece aiutano a sviluppare contenuti.” Tanto ovvio quanto poco banale. Sulla figura allora del DJ, dello strillone musicale che ricopre un ruolo fondamentale negli eventi musicali a Roma, pensi anche tu che in quest’ultimo periodo questa professione abbia un orecchio spostato eccessivamente all’idea di nostalgia? Assolutamente. Quello fa sempre parte del carattere di questa città, c’è poco da fare.

Tutte le città hanno il proprio carattere e te lo dice uno che è arrivato a Roma a venti anni, con un senso critico già acceso. Questa città ha la capacità di mantenere agli occhi del mondo la sua storia e le sue antichità, dimenticandosi di concentrarsi anche sul futuro e sulle sue possibili direzioni, qualunque sia la forma artistica che queste prendono. Di queste figure che ogni settimana propongono serate potremmo citarne a migliaia, sono persone che si sono affezionate ad un certo tipo di musica che per loro, e per molti altri, ha del mitologico. Coloro che si vogliono alloggiare sugli allori di un passato così prossimo possono farlo, molti di loro hanno anche più di 50 anni e si ritrovano alle loro serate ragazzi e ragazze di 20-25 anni. Però tutto questo è il segno di una mancanza del filo, della curiosità e dell’interesse per la musica in termini di contemporaneità, un lavoro che secondo me sono proprio i DJ a dover fare. Dalla fine degli anni 80 in poi i DJ hanno smesso di intrattenere e basta, sono diventati ricercatori, appassionati, collezionisti, esperti nel proporre un suono che abbia la capacità di sintetizzare concetti, di asciugare i ragionamenti in ambito musicale. Un critico alla rovescia insomma, al posto di criticare il prodotto... Te lo confeziona, te lo costruisce e te lo presenta attraverso anche nuovi strumenti, come quello della playlist e non per forza quello del DJ set. Ci sono invece molti che sono rimasti con l’idea dello zompettare alle feste, con quella musica e con quello stile, e tutto questo per loro non si evolverà mai. Scomodo

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Riprendendo l’argomento della città che si auto-esclude, come li vedi i concerti “one wonder” che le istituzioni propongono, organizzando eventi di massa in luoghi come il Circo Massimo e lo Stadio Olimpico? Sono solo eventi di garanzia, oppure sono un tentativo di far passare Roma per una città che conta, quando poi a tutti gli effetti non è così? Quelle sono le brioche regalate al popolo. Chiamare un grande nome come una popstar commerciale o un vecchio babbione, prendi Phil Collins o i Rolling Stones, quello è il modo per riempire una piazza chiamando il più sputtanato dei musicisti e mettendolo nella più sputtanata delle arene, con dietro una storia pazzesca come il Circo Massimo. L’amministrazione ha del cash da spendere, tre o quattro uffici di booking si presentano e sapendo che i comuni sono quelli a cui si possono spremere più soldi, si organizza l’evento. Il promoter privato già fà più fatica di fronte a questi eventi, ma la base è sempre quella di voler far passare l’idea di un’amministrazione che cura anche questi aspetti, che bada al popolo anche in questi ambiti. Diamo un pò di numeri: la SIAE ha pubblicato la lista dei concerti con maggiore affluenza di tutto il 2019, trovando ai primi posti città come Firenze, Milano, Bologna. Roma. Lo stesso concerto di Ed Sheeran, popstar internazionale più vista dagli italiani nell’anno passato, ha fatto più numeri a Firenze (61.867) che nella capitale (59.964). Il pubblico allora c’è, si muove e genera una grande affluenza a questi eventi: è possibile allora, oltre ad una posizione di auto-esclusione, Scomodo

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aggiungere una posizione di omertà alla nostra città, che non collabora minimamente con i booker stranieri, privilegiando le agenzie che si sono già consolidate? Sono le stesse che a loro volta gestiscono quasi sempre solo artisti italiani.

“Il problema è che la città stessa si autoesclude per una serie di dinamiche complesse, di natura sia sociologica che economica.”

Quando si parla di una maggiore affluenza in Italia rispetto ai paesi esteri io ci credo, quando gli eventi più grossi vengono spinti bene si crea un’affluenza enorme. Non è proprio una questione di omertà. Uno dei grandi problemi di questo paese però è che la SIAE sta facendo una battaglia sbagliata in partenza, quella di insistere a valorizzare la musica italiana, spendendo un sacco di soldi per questo programma di artisti in ascesa.

Vengono mandati all’estero per farsi conoscere, pagando loro tourneè e trovando loro i locali, i teatri, i luoghi dove potersi esibire. Ma cosa sperano, che poi quando si ripresenteranno si potranno riesibire senza problemi, se la prima volta che l’hanno fatto non c’era nessuno? Qui c’è bisogno di aprire la mente del pubblico italiano alla cultura musicale del mondo. Mandare degli artisti in giro senza lavorare sulla loro musica, in modo da poter superare quello che fanno all’estero, senza continuare a scopiazzare o a rimanere indietro nel linguaggio e nelle mode, dovrebbe essere alla base di questo lavoro. Far diventare i nostri artisti migliori di quelli stranieri è un obiettivo che si può porre già partendo dal permettere loro di viaggiare e di arricchire il proprio bagaglio culturale. Si potrebbe rifare lo stesso paragone delle brioche, al posto di spendere un milione di euro per fare un capodanno con Laura Pausini, quei soldi invece li distribuisci per cento giovani artisti sotto i 25 anni, gli dai 50.000 mila euro a testa per fargli smettere di fare i camerieri per un anno e costruirsi il proprio studio indipendente. Invece la politica deve fare altro, deve stringere le mani, come è successo ad esempio con l’Ex Gil. Ho seguito con l’incarico della Regione Lazio il progetto di riqualificazione di questo posto, in modo che diventasse un centro di creatività. Quando si sono resi conto che il progetto era destinato a poche persone, incentrato sull’ascolto e sulla creazione di contenuti, lo hanno fatto subito fuori. 57


Quello che gli serviva era un luogo dove poter stringere relazioni, fare presentazioni, eventi, ospitate, un luogo contenitore. Siamo pieni di luoghi contenitori, ma non abbiamo laboratori, luoghi che invece aiutano a sviluppare contenuti. Per quanto riguarda tutte quelle situazioni parallele alle istituzioni, dove la collettività si riunisce come all’Angelo Mai o molti altri, dove molti artisti trovano luogo per potersi esibire, specialmente dall’estero, non pensi che possano essere simbolo di una nuova fertilità artistica, in grado di far maturare anche da noi artisti come FKA Twigs? Quando parli di Fka Twigs, parli di una ragazza figlia di una serie di contaminazioni e esperienze, figlie a loro volta di una città come Londra, dove si mischiano decine di culture e di etnie diverse. Quando in un paese come il nostro combattiamo l ingresso di altre persone e non ci lasciamo contaminare, non possiamo pretendere di tendere a questo fenomeno. A Londra, a New York, a Parigi ci vivono africani, giamaicani e tante altre comunità che da 40 50 anni hanno avuto figli, i quali sono andati a scuola, si sono fidanzati e a loro volta hanno rifatto altri figli. Questi sono ragazzi che se a 15 o 16 anni ascoltano la musica nera, ci si riconoscono perfettamente, non hanno la necessità di ascoltare cazzate, come Giusy Ferreri, i TheGiornalisti o altri surrogati della musica. Questi sono abituati ad ascoltare la musica vera, a casa hanno dischi di Coltrane e non di Rino Gaetano, con tutto il rispetto per la figura. Finchè non saremmo una società contaminata, finchè non avremmo in 10 persone a tavola 5 di altre nazionalità, non saremmo mai abbastanza aperti a far parte del mondo e tutto il discorso della domanda e dell’offerta non si risolverà mai. 58

Scomodo

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Quello che possono fare le istituzioni è creare laboratori, esempi come l’Angelo Mai o come è stato il Rialto. Invece sono gli stessi luoghi che rischiano la propria pelle, con uno stato che li paragona a quei locali che fanno ballare la musica latino-americana sul tavolo. Il governo non si è creato strumenti per analizzare questi sistemi, non consultano esperti sul merito e applicano le leggi e basta, non creano laboratori e neanche propongono luoghi in sostituzione a queste operazioni di sfratto. Tutto quello che riesce a fare l’amministrazione è prendersela con luoghi che non hanno la forza economica per pagare tutto quello che andrebbe pagato, cifre esorbitanti anche per gli stessi privati. Tanto quello che interessa è la piazza, la stretta di mano e i sorrisi sotto il palco. Partendo da un contesto così difficile, la nostra generazione dovrebbe impegnarsi a ricostruire la città, sotto quindi anche il profilo culturale. Semmai tutto questo dovesse prendere piede, quali sono secondo te a Roma i generi che la potrebbero rappresentare, di cosa potrebbe diventare crocevia la nostra città? Premetto subito che è assolutamente vero che avete sete, vedo molti giovani andare a concerti di musica alternativa, il problema come ti ho detto è che mancano i grandi numeri. Il Pigneto ad esempio è pieno di posti convergenti, con tante proposte che rientrano in un certo spirito. Sì, ma se si va a vedere in termini di acustica… L’acustica non è tanto un problema, in tutta Italia è così: uno apre un posto, poi si vede se suona bene o no. Nel resto del mondo si pensa a cosa si farà suonare, si costruisce un locale in base al genere che si ospiterà. Scomodo

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Ad ogni modo, Roma ha risposto alla grande sull’elettronica estrema, la techno poco influenzata da altri generi, un po’ rientrando nel ragionamento del non farci contaminare. Sull’altra sponda c’è un forte seguito per l'indie rock, per la scena indipendente e per il post punk, vivendo una sorta di post-adolescenza mai maturata. Quella di volerti far sentire che adesso cambiamo il mondo, che siamo rivoluzionari, che dobbiamo lasciare la donna della nostra vita per essere più poetici, che c’è un cattivo da combattere. In questi due generi possiamo sperare come crocevia, sebbene grazie a delle operazioni dell’Auditorium e di altri enti per un periodo siamo stati importanti anche nel jazz internazionale. Ma anche lì siamo stati bruciati da Milano, dalle serate più fresche che vengono proposte lì. Al posto di stare zitti e seduti, di andarsene immediatamente alla chiusura, di non potersi bere una birra in tranquillità dopo l’evento, in tutto il mondo si balla fino alle 5 di mattina quando si va ad un evento jazz. All’Auditorium invece no, parlo a ragion veduta, essendo stato il consulente musicale per dieci anni.

Se non fosse stato Kendrick Lamar probabilmente non sarebbe successo niente. Fa sempre capo ad un ragionamento di domanda e offerta, potrebbe benissimo non piacere agli stessi organizzatori la musica di un’artista così rilevante a livello mondiale come Kendrick.

I primi segnali ci sono stati, la musica indipendente italiana sta iniziando a contare sempre di più, ma molto spesso è solo una figura sbiadita della controparte statunitense. Come accennavano gli scrittori più di duecento anni fa, Roma in realtà non è cambiata così tanto, ha sempre avuto bisogno di interpreti che comunicassero non solo la sua storia, ma il suo presente, che scoprissero il rapporto correlativo che c’è tra il giudizio e lo “stato di cose”, tra la realtà isolata dal suo contesto globale e il momento che la va a descrivere. Sulla base di questo, dovremmo iniziare a porci come tali, interpreti del nostro futuro, o a valorizzare i pochi rimasti, che riescono a darci delle tracce da seguire.

“Al posto di stare zitti e seduti, di andarsene immediatamente alla chiusura, di non potersi bere una birra in tranquillità dopo l’evento, in tutto il mondo si balla fino alle 5 di mattina quando si va ad un evento jazz.”

Un’ultima riflessione: pensi che il concerto a Luglio di Kendrick Lamar possa essere considerato un miracolo? Che possa essere considerato un primo passo all’apertura dell’attuale mainstream di genere? Assolutamente no. Fa parte di un ragionamento imprenditoriale, lo so perchè conosco molto bene chi ci sta dietro e giustamente è qualcuno che si è detto “Quanti numeri fa questo ragazzo? Quando ho un buco nel mio palinsesto?”, ha unito le due cose e c’è venuto fuori il concerto. 60

Sulla falsariga di un’inchiesta, la discussione con Raffaele è servita ad evidenziare come non esiste alcuna forma di ostracismo nei nostri confronti da parte degli entourage internazionali: le ragioni alla base di questo fenomeno sono radicate nel nostro tessuto sociale, nei cambiamenti culturali di cui siamo stati vittime e complici allo stesso tempo. Come gli asini dietro la lavagna, ci sentiremmo sempre incompresi, rimanendo tuttavia ignoranti, non solo nella musica ma anche in tutte le altre forme. A volte basta soffermarsi a riflettere: perche città come Venezia e Torino gestiscono delle iniziative a sfondo cinematografico che fanno impallidire la corrispondente romana? La nostra eredità culturale rimarrà in una fase stantia se non si inizia a lavorare sia sul piano territoriale, sia sul carattere individuale.

di Daniele Gennaioli Scomodo

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Tolo Tolo -------------------------------Trapasso di un successo

Scomodo

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Sarebbe rimasto indietro chi in questo inizio del 2020 non avesse notato la mastodontica invasione mediatica dell’ultima fatica di Luca Medici, in arte Checco Zalone: Tolo Tolo. Nell’era dello streaming e del binge watching ossessivo e frenetico, pochi sono i film (pochissimi quelli che escono in sala) che riescono ancora a porre su se stessi una potente lente d’ingrandimento che faccia addirittura un oggetto di discussione. Alcuni di essi sono in grado di travalicare le consuete sedi di competenza cinematografica e diventano a tutti gli effetti un fenomeno di interesse pubblico, in questo caso nazionale. Che il ritorno di Checco Zalone avrebbe suscitato un nuovo clamore mediatico era assodato già dall’annuncio sulle stampe dell’uscita del nuovo film. Con già quattro lunghi di enorme successo alle spalle, il comico pugliese sapeva di avere una spada di Damocle puntata sulla testa. La sua grande capacità di gestire questa sentitissima aspettativa del pubblico (e di portarla a suo favore) è resa manifesta dalla grande attesa che ha saputo creare attorno alle sue pellicole. Se tra il primo e il secondo film di Zalone sono passati due anni, tra Quo vado? (2016) e quest’ultima pellicola l’attesa è stata di ben quattro anni. Un periodo di gestazione nella norma per qualsiasi film d’autore, ma di certo inusuale per chi fa commedia, soprattutto in Italia. Il fenomeno Tolo Tolo, al di là del prodotto filmico in sé, sta assumendo così tante sfaccettature e chiavi di lettura che appare quasi impossibile cercare di portare avanti un discorso analitico in maniera totalizzante o complessivo. Una recensione del film risulterebbe fin troppo riduttiva per sezionare un’opera che ha visto parte delle sue finalità realizzarsi anche e soprattutto fuori dalla sala. Tanto vale provare a seguire un iter che ci porti dentro il film in sé e tutto quello che ha causato nel panorama nostrano. Al di là e al di qua dello schermo. 61


Al di qua dello schermo Tolo Tolo è stato scritto da Zalone con la collaborazione di Paolo Virzì e diretto dallo stesso Zalone al suo esordio alla regia. Questi due dati bastano per comprendere che nel film qualcosa di diverso sarebbe emerso. La trama (di cui nulla è trapelato se non in maniera vaga dall’uscita del brano-trailer Immigrato) narra le vicende del solito “italiano medio, senza alcuna qualità” costretto ad un esilio/latitanza in Africa - simile a un altro “esilio” molto noto e ora al cinema, quello di Bettino Craxi in Hammamet di Gianni Amelio. Con un background comico legato all’ennesimo faticoso rapporto di Checco con le tasse e altre varie questioni fiscali (un tema ormai ben codificato nell’universo dei suoi film, anche troppo), Zalone si ritrova a dover affrontare la travagliata odissea dei migranti africani verso l’Europa. Si prefigura così la surreale immagine di una fuga dalla guerra dei villaggi subsahariani e la conseguente traversata del deserto e del Mediterraneo di un italiano medio. Il dispositivo “Checco” è sempre il medesimo: un tamarro di provincia che per via della sua ignoranza dilagante e spropositata si rapporta al contesto preso in considerazione in maniera così estrema da suscitare ridicole conseguenze. Ciò che cambia, seppur flebilmente, è tutto ciò che sta intorno al personaggio di Zalone.

“Che il ritorno di Checco Zalone avrebbe suscitato un nuovo clamore mediatico era assodato già dall’annuncio sulle stampe dell’uscita del nuovo film.” 62

Scomodo

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“Tolo Tolo è sicuramente il film meno “checcocentrico” del compositore barese: è tutto il mondo che circonda il protagonista a cambiare.” Tolo Tolo è sicuramente il film meno “checcocentrico” del compositore barese: è tutto il mondo che circonda il protagonista a cambiare. Per la prima volta in tutta la filmografia del comico pugliese l’intreccio degli altri protagonisti sembra avere una ragion d’essere diversa da quella esclusivamente più sterile di servire la battuta nel migliore dei modi e dei tempi. Se da sempre a dirigere le azioni e le reazioni erano state le scelte strampalate del nostro zotico, in Tolo Tolo il focus su Checco spesso si perde. E questo è un bene. In molti momenti si ha addirittura l’impressione che la sua presenza in scena si riduca a quella di “commento comico” delle azioni portate avanti dagli altri protagonisti africani che spesso sembrano non curarsi neanche delle sue parole. Questo “distanziamento” del punto di vista dalla maschera zaloniana a cui eravamo abituati permette a Tolo Tolo di mettere in luce più di ogni altro film passato una natura mediocre di un personaggio mediocre. Checco è un sempliciotto, un ignorante, incapace di comprendere e di leggere effettivamente la realtà che lo circonda. Se al film sono state mosse molte critiche per le poche risate che ha saputo suscitare è perché in molti non hanno saputo cogliere il chiaro distaccamento della storia da un personaggio che mai è stato positivo e che ora più che mai è incapace di stabilire un’empatia con lo spettatore. Scomodo

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Se Zalone ha sempre suscitato impressioni e opinioni contrastanti è proprio perché nessuno, in quattro film, ha mai saputo bene in fondo come relazionarsi ad un personaggio del genere. Un personaggio che per natura suscita ilarità per la sua goffaggine, quindi provoca empatia, ma dal quale poi ci si distacca perché “è la rappresentazione dell’italiano medio, e io non lo sono!”. Se Zalone ha sempre instillato il dubbio dividendo il pubblico è perché le risate dei suoi film sono ambigue, armi a doppio taglio: si ride perché ci si identifica e si riconosce se stessi? O perché ci fa ridere la parodia di comportamenti che non condividiamo e che quindi amiamo vedere scherniti? In Tolo Tolo le risate ci sono, ma si caricano di un’amarezza dovuta a un più chiaro (ma non ancora esplicito) riposizionamento del personaggio: Checco Zalone è un cafone. La natura patetica del suo atteggiamento si è fatta più evidente. Se da una parte qualcuno ha saputo ancora ridere di gusto nel vederlo preferire la guerra alla ex-moglie o alle tasse, d’altra parte a molti, moltissimi, è risultato molto difficile ridere quando lo hanno visto calato in un universo come quello del tema dell’immigrazione. Un tema attualissimo, di cui Zalone non ha saputo dare né una corretta interpretazione né tantomeno una precisa considerazione o esplicita presa di posizione. Il discorso sull’immigrazione viene portato avanti dalle parole dal personaggio già descritto prima: il criterio per cui Checco decide se l’accoglienza sia giusta o no è mossa per tutto il film dal suo interesse di evadere o no le tasse.

La parodia mussoliniana evidenzia chiaramente un orientamento di critica verso una certa modalità di far politica impossibile da non cogliere.

Per il resto, il film presenta numerosissime falle narrative, registiche e, incredibilmente, soprattutto tecniche: inaccettabile ad esempio vedere nel trailer Immigrato una color correction terribile, a tal punto che a un certo punto la mano dell’immigrato-lavavetri sul parabrezza si colora di giallo quando si sovrappone al volto di Zalone accuratamente ingiallito. Questi errori presenti in più momenti sul film forse possono essere carpiti solo all’occhio di un professionista del settore; ad ogni modo non giustificano una superficialità nella lavorazione di un prodotto che rimane sempre cinematografico e che dunque è fatto anche di reparti tecnici e di professionisti. Un errore all’apparenza così irrilevante dimostra tuttavia un’approssimazione del lavoro che sembra volersi ridurre solo ad un one-man show. Ma i film, seppur forti al botteghino, non possono esistere solo della maschera che chiama al box-office. Tale negligenza nell’offrire un prodotto costellato da diversi errori tecnici anche nel montaggio è l’ennesima dimostrazione di un arrogante convinzione per cui basta vedere la faccia di Zalone per portare la gente in sala, mancando di rispetto a intere categorie professionali che fanno della cura dell’insieme di un prodotto la loro principale finalità.

“Se Zalone ha sempre suscitato impressioni e opinioni contrastanti è proprio perché nessuno, in quattro film, ha mai saputo bene in fondo come relazionarsi ad un personaggio del genere.” Ma la presa di posizione rimane molto tiepida e il trasformismo politico del film è costante. Mereghetti ha parlato di uno Zalone che “non cura più il suo personaggio, ma lo getta”. La maturità del film non risiede di certo nel tema trattato: inutile ancora cercare di intellettualizzare ciò che non ha niente da intellettualizzare (e neanche vuole averlo). La tanto agognata maturità di Tolo Tolo è nella più chiara pateticità di un personaggio per troppo tempo rimasto molto ambiguo.

“Il grande fraintendimento sta nel concepire la comicità di Zalone come un “alto che si abbassa” quando, come scrive bene Davide Turrini per il Fatto Quotidiano, è solo un “basso che esagera”.”

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Si ricordi, come bene ha suggerito nella sua recensione sul Fatto Quotidiano Gianni Canova, che “far vedere qualcuno che non vede, è il modo migliore per far vedere qualcosa che non si vede”.

Al di là dello schermo Non è un caso infatti che il film stia avendo una vita più fuori che dentro la sala. Tolo Tolo si è aggiudicato il record di miglior esordio al botteghino nella storia del cinema italiano, più di 8 milioni di euro nel primo giorno. Una cifra esorbitante che ha continuato a salire nelle settimane successive: più di otto milioni di italiani hanno visto Tolo Tolo a tre settimane dalla prima. Scomodo

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La grande e accuratissima macchina del marketing e della promozione di Pietro Valsecchi ha sicuramente contribuito a potenziare l’impatto di un prodotto che già da sé avrebbe trascinato. La lungimiranza di Luca Medici nel far uscire un film circa ogni tre anni - durante i quali la sua figura pubblica scompare totalmente dai riflettori - garantiscono una più forte ricezione del film dunque molto atteso, a differenza della solita annuale commedia delle tre carte dove sceneggiature fatte con lo stampino e attori interscambiabili non portano nulla di nuovo. Impossibile prescindere anche dall’enorme clamore politico che il film ha suscitato. Con l’endorsement iniziale di Salvini e di tutta la destra al trailer Immigrato, erroneamente (davvero, seriamente?) scambiato per l’anticipatore di una pellicola “sovranista”, il film è diventato banco d’accusa tra due altre fazioni di pubblico, la sinistra che vede in Zalone il grande artista perché “bisogna essere molto colti per far finta di essere scemi”, e l’ala più reazionaria che forse ha sempre riso alle battute di Zalone perché forse non le considerava tali. Da questo tipo di diatribe totalmente futili e sovrastrutturali, Checco Zalone non può che uscirne vincitore. La critica più progressista continua a voler vedere in Tolo Tolo rimandi a Monicelli, a Risi, a Sordi o addirittura a riferimenti culturali extra-cinematografici, ostinata a voler scovare un “altro”, una doppia lettura o una base nascosta d’intenti o di ideali dietro un film che a detta di certi critici “è stupido solo in apparenza”; l’italiano medio intanto ride inconsapevole delle gag che hanno per bersaglio proprio lui. Scomodo

Gennaio 2020

Il grande fraintendimento sta nel concepire la comicità di Zalone come un “alto che si abbassa” quando, come scrive giustamente Davide Turrini per il Fatto, è solo un “basso che esagera” e che fa finta di elevarsi. Zalone si fa così beffe di tutti, e lo fa portandosi a casa più di 40 milioni di euro. Ostinati a cercare una sovrastruttura e a voler giustificare un successo che non vogliamo ci appaia immotivato, ci sfugge che Tolo Tolo è un film di consumo.

Un prodotto commerciale concepito e nato per raggiungere nelle migliori condizioni la copertura su tutto il territorio nazionale, distribuzione che sembra aver nuovamente ottenuto con estrema facilità. I numerosi orari di spettacolo di Tolo Tolo offerti dalle sale non fanno altro che rispecchiare una domanda di mercato che difficilmente si è vista con altri film commerciali. Zalone parla agli italiani, a quella fetta di pubblico che al cinema ci va a Natale con la famiglia.

Pensare che numeri del genere facciano male a un cinema più all’ombra è una considerazione erronea: un film che esce al cinema nello stesso periodo di Tolo Tolo non può che beneficiarne, e questo è dimostrato anche dagli incassi degli altre pellicole che hanno avuto un notevole rigonfiamento proprio nelle settimane dopo l’uscita dell’ultima fatica di Luca Medici, anche a distanza dal periodo di festività. Se il cinema è anche industria, l’esistenza di Zalone e della sua commedia risulta chiaramente motivata. Anzi, se devono essere prodotti film di consumo da cashflow, tanto vale che sia Tolo Tolo e non la solita commedia di scoregge e rutti: va riconosciuto a Checco la lungimiranza di gettare in ogni suo film precise componenti sociali del presente. Così mentre il pubblico si divide e si azzuffa, Zalone se ne va proprio come fa alla fine di Tolo Tolo: canticchiando, in mongolfiera, mettendo se stesso in ridicolo e dandoci per l’ennesima volta l’impressione di averci capito qualcosa. Quando in realtà non c’è niente da capire.

di Lorenzo Vitrone 65


I will not make any more boring art -------------------------------------------------------------------Vita morte e “miracoli” di uno dei padri dell’arte contemporanea

Il 5 gennaio 2020 è morto John Baldessari. E come ogni povero diavolo che viva d’arte, a meno che non sia sposato con qualche grande di Hollywood o passato a miglior vita, è completamente sconosciuto, fatta eccezione per i pochi appassionati del settore e il mai deludente Matt Groening, che lo fa apparire nell’episodio 14 della 29esima stagione dei Simpsons in un flashback risalente all’epoca del college di Marge, quando l’arte era “solo una scusa per fare festa” e la lei giovanissima si ritrovò ad intervistare uno dei più importanti artisti emergenti d’avanguardia. Questo episodio, secondo il racconto della sig.ra Simpson, risale infatti agli anni ’70, decennio durante il quale si manifesta una grande rivoluzione in Baldessari: brucia tutte le sue opere precedenti – con le cui ceneri, più di 10 kg, prepara dei biscotti da esporre – e dopo poco esordisce con un’opera audiovisiva che consiste in una mano, probabilmente la sua, che scrive in loop su un foglio a righe per tutta la durata del video “I will not make any more boring art”(non farò più arte noiosa). Da qui la perpetua presenza di ironia nelle sue opere. I lavori di Baldessari vengono spesso riconosciuti come appartenenti all’arte concettuale, filosofia artistica la cui teoresi mette in conflitto professionisti di tutto il mondo, i quali però convengono su un solo importante elemento: lo scopo dell’opera non risiede nel destare ammirazione (per materiali o tecnica utilizzati) 66

nel pubblico, bensì nella capacità di confondere lo spettatore, portarlo inevitabilmente a porsi delle domande ed aprire una discussione, spesso riguardo oggetti o fatti completamente assenti nelle nostre riflessioni quotidiane; e questo è possibile grazie alla traslazione che viene fatta dell’oggetto scelto come soggetto dell’opera dal suo ordinario contesto. In un’epoca in cui, seguendo questo filo logico, tutta l’arte è finalmente concepita come concettuale, accogliendo con entusiasmo la lezione di Duchamp, il ready-made, passando per il dadaismo e le speculazioni filosofiche di Joseph Kosuth, mescolando i colori della pop art, Baldessari si contraddistingue per la sua arte assolutamente non noiosa, impregnata d’ironia.

“L’ironia e la provocazione sono lampanti, il Genio indiscusso.” L’ironia (dal greco έίρωνεία, finzione e interrogazione, in riferimento all’ironia socratica con cui si riassume il procedere speculativo di chi, dichiarandosi ignorante, chiede lumi all’altrui sapienza per mostrare come quest’ultima si riveli in effetti infruttuosa per rispondere al suo stesso «sapere di non sapere») è per definizione un atteggiamento di superiore distacco dalle cose di chi coglie l’aspetto ridicolo o paradossale o banale di una situazione.

L’ironia di Baldessari dunque non provoca risa sganasciate, essa attira la nostra attenzione e fa automaticamente sorridere: non si rimane interdetti come spesso accade di fronte ad un’opera di arte moderna, percepiamo sin da subito la presenza di qualcosa di diverso, critico, provocatorio, per questo sorridiamo, pur senza comprendere di che si tratti ; rimaniamo quindi fermi di fronte al lavoro, cercando tra i cassetti della nostra mente una spiegazione razionale al significato dell’opera, ed è lì che Baldessari raggiunge il suo obiettivo. Capita spesso, di fronte ad un’opera apparentemente incomprensibile, di decidere di disimpegnarsi dall’analisi di questa ed andare oltre; ciò non avviene con Baldessari: egli ci mette nella condizione di restare, ci attrae, ed è difficile trovare poi il coraggio di allontanarsi senza neanche provare a riflettere. Baldessari parla alla pancia e raggiunge la mente. Un esempio lampante della sua ironia è la mostra del 2010 per la Fondazione Prada: ”Giacometti Variations”. Una serie di enormi figure, alte circa 4,5 metri, ispirate all’immaginario dello scultore svizzero, abbigliate e accessoriate con oggetti e vestiti disegnati da Baldessari stesso, al fine di formare un’ipotetica sfilata di figure immobili. A detta di alcuni, tragicomica e mancante di rispetto nei confronti di Giacometti, che con tale accusa portò l’artista californiano in tribunale. Evidentemente i due non godevano della stessa ironia. Secondo la Fondazione Prada si trattava di “un’ipotesi di integrazione che tende a captare le valenze di un dialogo tra arte e moda, dove l’osmosi tra mannequin ed entità scultorea diventa una dichiarazione di reciproca attrazione e comunicazione”. Scomodo

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Tuttavia, il vestiario, tolto dal suo naturale contesto e posizionato sulle enormi riproduzioni delle filiformi figure di Giacometti è una, neanche troppo velata, critica all’industria della moda, i cui fruitori non sono persone, ma mannequin privi di animo, che nonostante indossino i migliori capi firmati, rimangono spogli. Ciò spiegherebbe l’azzeccatissima scelta di Baldessari di rifarsi alle sculture di Giacometti, simbolo della solitudine e della desolazione dell’animo umano. Se si pensa poi che questa mostra sia stata realizzata presso la Fondazione Prada a Milano, l’ironia e la provocazione sono lampanti, e il Genio indiscusso. Baldessari, come molti suoi contemporanei, si caratterizza anche per la sua attenzione al linguaggio, strumento che gli uomini, sin dalla preistoria, utilizzano per scambiarsi informazioni ed eventualmente discutere. Molteplici le scritte, le parole, i testi che si possono ritrovare nei lavori di Baldessari. Una delle sue più interessanti opere è Tips for artists who want to sell: una tela con su scritte, in acrilico, tre “chicche” per artisti che vogliono vendere, come propone il nome. Nell’ approcciarsi a quest’opera probabilmente ci si aspetta qualcosa di estremo, ridicolo, paradossale, e invece ci ritroviamo a leggere dei suggerimenti veritieri, dove risiede la pura ironia di Baldessari. In questo caso la realtà dei fatti – gente che fa arte al solo scopo di guadagnare - è già paradossale di per sé, dal momento che va a distruggere l’ideale di artista che si impegna per divulgare messaggi di valore, facendo inevitabilmente rivolgere l’attenzione verso la riflessione sull’essenza dell’arte ed il significato della figura dell’artista oggi. Scomodo

Gennaio 2020

Ciò che più desta entusiasmo riguardo questo tipo di lavori, con protagoniste parole e frasi, il linguaggio nella sua forma più accessibile, è che sempre riusciranno nel loro scopo. Anche a distanza di decenni, essi saranno ammirati e soprattutto compresi, non si tratta di semplice apprezzamento estetico come può avvenire con la scultura classica o con i ritratti del Rinascimento, comportando una concezione dell’arte, citando Baldessari, masturbatoria, ovvero inutile, tesa al solo piacere momentaneo e senza valore educativo alcuno ma di dubbi sorti, pensieri smossi.

Ciò però non significa che Baldessari, durante tutta la sua vita, non sia stato al passo con i tempi, anzi. Ha iniziato a “fare arte non noiosa” negli anni ’70, negli Stati Uniti, più precisamente a New York City, in seguito al boom economico e in pieno periodo di proteste pacifiste contro la guerra in Vietnam, la rivoluzione sessuale e la facilissima fruizione di droghe leggere e non solo: non poteva che fare arte non noiosa. Se la sua arte non fosse stata dinamica, ironica, provocatoria, sarebbe stata anacronistica e di conseguenza non avrebbe

mai attirato l’attenzione del pubblico, non utilizzando quindi il suo stesso linguaggio, punto chiave, possiamo ormai dire, della filosofia dell’artista californiano, una non lo avrebbe guidato su alcune riflessioni, avrebbe fallito. Baldessari prosegue così per il resto della sua vita, guardandosi intorno e cercando di essere quanto più aderente ai tempi che corrono. Indimenticabile il suo ricoprire la facciata del Padiglione centrale della Biennale di Venezia con la gigantesca immagine di un paesaggio paradisiaco: l’oceano, il cielo azzurro e due palme. L’opera “Ocean and Sky (with Two Palm Trees)” funzionava come un fondale, un invito a fotografarsi davanti allo sfondo per trarre in inganno chi avrebbe visto le immagini, dando l’idea non di una visita alla Biennale di Venezia ma di un viaggio in un luogo completamente diverso. Correva l’anno 2009, e l’era di Photoshop e dei social network - astrazione dalla realtà ed ironia per eccellenza - era alle porte. È stata per noi una fortuna avere avuto - e continuare ad avere, grazie alle sue opere in un momento storico in cui non si è abituati all’approfondimento, poiché tutto è disponibile subito, all’istante, un John Baldessari che prendendoci per mano ci fa fare tremila piroette e poi ci rimette giù, regalandoci un attimo di pausa dalla quotidiana frenesia. Ancora frastornati dall’esperienza appena vissuta, ci ritroviamo a riflettere e a cercare di conoscere la realtà, attraverso l’unica cosa che l’artista afferma averlo aiutato a capire il mondo esterno e l’arte: l’arte.

di Gaia Del Bosco e Luca Giordani 67


STEREO8 Negli anni '70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta per gennaio da mettere in play anche su Spotify.

OutKast Chonkyfire Da Aquemini (1998) Frequenze:Southernhip-hop

Budd , Sick b o B t Silen iatti Caldi P no B Da Pia Street rap : e nz Freque

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Era il 1995 quando ai The Source Awards gli OutKast chiarirono a tutti che anche il Sud aveva qualcosa da dire, mettendo Atlanta sulla mappa del rap statunitense. Tre anni dopo uscì Aquemini, il loro terzo album, un viaggio psichedelico in cui André 3000 e Big Boi fondevano alla perfezione le loro identità artistiche. Chonkyfire è la sua degna chiusura, un climax epico e autocelebrativo che è talmente tante cose tutte insieme da non poter essere descritto appieno a parole. Il 2019 è stato l’anno dell’assalto della provincia al rap italiano, con l’affermazione del casertano Speranza e del varesino Massimo Pericolo. Silent Bob è un figlio artistico di quest’ultimo, un altro cantore del disagio del profondo Nord, fatto di piccoli crimini e relazioni tossiche. Piatti Caldi, opening track del suo album in collaborazione con il producer Sick Budd, è un ottimo biglietto da visita: una traccia grezza e sincera che al drop del beat diventa un banger aggressivissimo.

Soccer Mommy – Circle the drain Da Circle the drain Frequenze: Lo-fi rock

Cool di Soccer Mommy è stato uno degli album che hanno definito più a fondo il 2018 e la straordinaria fioritura dell’alternative rock femminile degli ultimi anni. L’artista di Nashville è una vera maestra nel raccontare la malinconia dei cuori spezzati e con circle the drain, un brano insolitamente solare nonostante le sue tematiche, riesce a trascinare l’ascoltatore lungo i rivoli e le correnti turbolente della sua psiche.

Scomodo

Gennaio 2020


Lucio Corsi Freccia Bianca Da Cosa faremo da grandi? Frequenze: Alternative rock

Lucio Corsi è un animale strano della musica italiana di oggi: un cantautore della campagna toscana che attinge un po’ da Paolo Conte e un po’ da Bob Dylan nelle sue ballad sulla natura e la formazione giovanile. L’ultimo singolo estratto dal suo nuovo album è una fantasticheria che esce dal tracciato abituale del cantante di Vetulonia per essere contaminato da tastiere e chitarroni di bowiana memoria.

Tame Impala Lost In Yesterday Da Lost In Yesterday Frequenze: Psychedelic rock

Nel corso della sua carriera Ghemon ha attraversato diverse fasi, passando dagli esordi hip-hop al pop sanremese di Rose Viola, forse una delle sue incarnazioni meno riuscite. Il suo nuovo singolo torna alle atmosfere R’n’B di Mezzanotte ma con una nuova consapevolezza e forza, è la dichiarazione d’intenti di un artista al top della forma, che ha “deciso di trovare solo la mia voce” anche se “il processo di ricerca non è il più veloce”.

070 Shake Guilty Coscience Da MODUS VIVENDI Frequenze: Synth pop

Scomodo

Gennaio 2020

The Slow Rush, l’imminente quarto album dei Tame Impala, sembra essere un progetto fuori dagli schemi, tanto variegato dal punto di vista sonoro quanto introspettivo e personale nei testi. In Lost In Yesterday Kevin Parker si abbandona alla nostalgia e nel farlo trasforma il brano in un viaggio interstellare con in sottofondo una colonna sonora disco anni ’80.

Ghe Qu Da Q estioni Dmon u i Freq estioni D Principi o uenz i e: Ne Principi o-so o ul

on ig Mo The B r Light You Like We Do p o tive p alking Da W nze: Alterna e Frequ

Il 2019 è stato anche l’anno che ha visto il successo commerciale del pop futuristico e sintetico di artiste come Charli XCX, Grimes e Dua Lipa. 070 Shake è l'ultima aggiunta al roster di G.O.O.D. Music – l’etichetta di Kanye West – e nella sua nuova canzone riesce a recuperare questa tendenza collaudata dandole però un’impronta meno asettica e più autoriale, perché anche gli androidi sognano (pecore elettriche).

“We were promised the world, so was everyone else” canta Juliette Jackson, la leader delle The Big Moon, con quel fatalismo disincantato che solo un’adolescente cresciuta nell’Inghilterra della Brexit può avere. Dopo questa premessa il brano però si libra per aria nelle armonie potentissime del ritornello, dove le voci del quartetto si intrecciano tra loro in un grido liberatorio e unificante.

ylist Se vuoi ascoltare questa pla tify Spo su cerca Stereo8

di Jacopo Andrea Panno 69


La Pupa e il Secchione

-------------------------------Il diritto ad essere bischeri Una delle coppie comiche più famose è Stanlio e Olio. Stan Lauren e Oliver Hardy hanno basato tutta la loro comicità, oltre che sul tipico slapstick dell’epoca, sul rapporto ironicamente conflittuale tra i due. Olio ha sempre da ridire su Stanlio, difatti quelle che ci sono rimaste più impresse sono le sue espressioni di frustrazione a favore macchina rispetto ai casini che combina il compare. Alla base di ogni racconto che funzioni c’è un conflitto. Per cui anche per innescare gli effetti comici c’è bisogno del conflitto. E il conflitto tra due personaggi di carattere diametralmente opposto (all’apparenza) è diventato un archetipo classico, ad esempio, della commedia americana. Ne abbiamo avuto un esempio con il vincitore dell’Oscar al miglior film dell’anno scorso, Green Book, che, nonostante sia un film mediocre, trova una sua forza proprio nel suo essere strutturalmente classico. Anche Todd Philipps, quando non giocava a fare l’autore, fece un film molto divertente basato su questo archetipo, Parto con il folle, con il solito Galinfianakis e un Robert Downey J.R sotto le righe, in cui le diversità tra i personaggi emergono ancora di più perché costretti ad una convivenza forzata. Uno dei maggiori successi della TV statunitense, Due uomini e mezzo, creato da Chuck Lorre, è basato sulla convivenza tra due fratelli, uno sfigato l’altro don giovanni. Verso i primi anni del duemila Lorre idea uno show di cui realizzerà un pilota nel 2006, il quale gli viene bocciato dalla produzione, che poi gli darà una seconda possibilità un anno dopo. 70

Scomodo

Gennaio 2020


Nel settembre del 2007 esce la prima puntata, e secondo pilota, di Big Bang Theory. La sitcom guadagna sempre più successo di stagione in stagione portando i tre attori protagonisti (Penny, Leonard e Sheldon), dall’ottava stagione in poi, a guadagnare un milione di dollari a puntata. Anche qui il concept si basa sul nostro caro topos, l’ingresso nella vita di tre nerd, o geek, di una attricetta non particolarmente fan del Signore degli Anelli o di Star Wars e ignorante rispetto alla Fisica teorica. Due anni prima, nel giugno del ’05, veniva lanciato un format di reality venduto poi in tutto il mondo, The beauty and the geek. Il programma propone un “esperimento sociale” basato sulla convivenza dentro una villa di due gruppi di persone, uno formato da nerd socialmente disabili, ma preparati culturalmente e l’altro da ragazze belle, ma ignoranti. Una dovrà imparare dall’altro a essere più colta e l’altro ad essere più socievole e attento al proprio aspetto. Il programma comunque ripropone un cliché, quello dell’abbinamento nerd e figa, già presente nella pornografia e che, appunto, viene affermato prepotentemente due anni dopo, in maniera sicuramente più blanda e raffinata, da Big Bang Theory. Partendo dal reality per arrivare alla sit di Lorre percepiamo quanto la figura del nerd rappresenti la maggiore subcultura del nostro tempo. Insomma, il format statunitense, come naturale che sia, supera i confini nazionali e arriva in tutto il mondo. In Italia, comprato dalla Endemol, va in onda su Italia Uno con il nome de La pupa e il secchione. Viene prodotto per due stagioni, nel 2007 e nel 2010, con la conduzione di Enrico Papi e un ottimo indice di ascolti, ma forse poco per un epoca in cui il Grande Fratello troneggia spavaldamente. Scomodo

Gennaio 2020

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Il programma sparisce lasciandoci un offuscato ricordo e Francesca Cipriani, pseudo diva dalle forme felliniane, spinte all’eccesso dalla chirurgia estetica, in dote a programmi come la Ruota della fortuna e GF Vip vari. Il reality fa il suo ritorno nel primo anno della seconda decade del ventunesimo secolo, a dieci anni di distanza dall’ultima stagione, con in conduzione Paolo Ruffini. Il carattere del programma sembra appartenere a un lontano, seppur vicino, periodo storico televisivo. Tuttavia, per avvicinarsi all’attualità del nostro tempo, gli autori aggiungono un “viceversa”. La presenza anche del pupo e della secchiona dovrebbe, in parte, ripararli da accuse di sessismo. Anche se sono le zinne e i culi, cercati vouyeristicamente dalla telecamere, più i secondi, a comandare, conferendo al programma un’aura da avanspettacolo che sa di vecchio. Da l’altra parte ci sono i secchioni, più che secchioni casi umani, poco in grado di contrastare il sottotesto erotico della trasmissione, quello maggiormente d’impatto. L’attenzione voyurestica della regia però spinge ancora di più su di un altro tasto, un altro segmento dei personaggi femminili, la loro ignoranza, che sembra essere l’elemento comico maggiore. La “noncultura”, come la definisce Ruffini, delle pupe, è quasi parodistica, grottesca. Non sanno le tabelline, scambiano Mattarella per un prete, i Nirvana per i Beatles. E noi ridendo a mezza bocca sappiamo quanto rappresenti una linea comica già vista. Giocando sull’ignoranza delle persone ci mangia già un canale Youtube di successo, il Milanese imbruttito e in passato la Gialappa’s con Mai dire GF e le famose interviste ai provini.

Di conseguenza l’opposta lacuna fisica del secchione va sicuramente in secondo piano rispetto alle carenze intellettuali delle nostre protagoniste. Comunque le rispettive mancanze delle due file di personaggi non vengono approfondite più in là della battuta. La presunta volontà di rendere il programma “esperimento antropologico” lascia il posto ad una serie di giochi, giochetti, quizzini da villaggio turistico.

A rafforzare il concetto c’è la galanteria maldestra del secchione che, più della sua intelligenza, apre una breccia nel cuore delle nostre pupe. A dirigere la baracca c’è un Ruffini brizzolato, che si fa da parte, inibendo le sue “doti” comiche, per lasciare il palco ai nostri eroi. Si ispira dichiaratamente a Corrado, a una certa placidità del conduttore d’altri tempi. Vedere il nome di Ruffini alla conduzione di un programma così trasparentemente trash fa pensare a quanto, riferendoci a Boris, possa essere definito non so se “il”, ma certamente un “Re della merda”. È sicuramente autore di uno dei più brutti film mai concepiti da un essere umano, Fuga di cervelli, ed è riuscito perfino ad inimicarsi De Sica e Boldi per aver fatto un nonfilm che è il Greatest Hits dei cinepanettoni, Supervacanze di natale, passando per il siparietto ai David di qualche anno fa in cui disse alla Loren “rimane una gran topa” con scarso apprezzamento da parte della vecchia diva. Durante la prima puntata dell’anno di Tv Talk, il programma condotto da Massimo Bernardini su Rai3, Ruffini viene messo sotto torchio, in modo molto blando, riguardo la conduzione del programma. Il livornese difende a spada tratta il piatto in cui mangia e rivendica il diritto alla “bischerata”, alla leggerezza, esternando il suo malcontento per la mancata uscita di un cinapanettone sotto le feste. Soprattutto accusa un processo di intellettualizzazione del mondo dello spettacolo che, a dir suo, appare molto più intollerante nei confronti del trash rispetto al passato. E conclude rispondendo a una domanda velatamente esistenziale “Ruffini fa il regista, l’attore, il conduttore, teatro, cinema, ma cosa fa, chi è Ruffini?”. “sono un buffone”.

“Sono un buffone. E fiero di esserlo. Volgendo uno sguardo tenero non solo alle pupe poco scolarizzate e ai secchioni disagiati, ma anche al loro capocirco, ci troviamo di fronte un mondo che pretende il suo diritto di essere leggero, forse mediocre.”

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Se da una parte al GF gli si deve dare il merito di proporre un contenuto dalle caratteristiche quasi distopiche qua ci troviamo davanti un circo di bassa lega in cui, ad esempio, il viceversa, uno dei pochi aspetti di interesse, risulta un piatto ribaltamento della situazione. Nonostante la chiara, quasi palesata, natura trash del programma, proprio grazie alle mancanze dei protagonisti ci troviamo davanti a momenti di tenerezza. Una volta fatte le coppie, alcune di esse diventano solide quasi da subito. Si crea un’alchimia tra alcuni personaggi che sotto una certa luce fa pensare a Califano quando canta “semo due soli ar monno”.

Scomodo

Gennaio 2020


E fiero di esserlo. Volgendo uno sguardo tenero non solo alle pupe poco scolarizzate e ai secchioni disagiati, ma anche al loro capocirco ci troviamo di fronte un mondo che pretende il suo diritto di essere leggero, forse mediocre. L’attrazione verso la leggerezza non è però una prerogativa dei dichiaratamente mediocri, va a toccare anche quei personaggi apparentamenti associati alla “cultura”. L’ospite della prima serata, Alessandro Cecchi Paone, accademico di medio livello, promotore di storia e scienza, finisce per navigare anche lui in questo mare di inettitudine, trovandosi a suo agio. Pensiamo poi ad un altro dotto uomo di cultura, Vittorio Sgarbi, uno dei maggiori produttori di trash televisivo in Italia. A questo appello di Ruffini alla leggerezza rispondono, idealmente, i personaggi più disparati. Anche Alessandra Mussolini, ospite della seconda serata, che è passata dal cinema, deviando per una breve carriera musicale, alla politica, rimanendo, però, a sguazzare nel nulla. Si può immaginare Ruffini che li prende per mano e li porta alla stazione, come in Amici Miei, a tirare gli schiaffi alle persone affacciate dal finestrino sul treno in partenza, facendoli sentire “bischeri” e sereni di esserlo.

di Cosimo Maj Scomodo

Gennaio 2020

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Questa non è una

la pupa e il secchione (e viceversa) ERROR 666 - 6 pupe, 6 secchioni, 6 coppie. Un esperimento socio-antropologico di Paolo Ruffini. Ardue prove per i nostri concorrenti. Per scoprire di più visualizza i videoclip e lascia un like!!!

Stella Manente

De Lauretis

Martina F.

Boni

Angelica Preziosi

Mazzoni

Martina M.

Santagati

Ritorna di moda la maglia della salute

SCOPRI DI PIÙ sul ladro di rossetti

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Marina Evangelista

Massa

Carlotta Cocina

De Bnedetti

*bacio saffico


pagina spam

ERROR-☻ ☻ ☻ M3N0MAL3 K3 5!LV!0 Ç'Ę

OSPITI SPECIALI: Cecchi Paone

ERROR A55 - Stella Manente e il suo dolcissimo sguardo. Prossima a nozze, la modella cerca dolci momenti di evasione con il secchione De Benedetti.

Giovanni Tobia De Benedetti

Mi fai ripetizioni? ;)

Ars aemula naturae...

Valeria Marini

Mazzoni CAMPIONE INDISCUSSO

ke fregno

di Maria Marzano

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Recensioni --------------------------------------------------------------------

Parasite / Quando la lotta di classe si trasforma in disinfestazione Cinema

par·a·site (păr’ə-sīt′) n. 1. Denominazione in uso nell’antica Atene per designare funzionari cultuali di alcune divinità [...] che avevano come caratteristica di partecipare alla divisione della vittima sacrificata alle divinità stesse. 2. Ogni animale o vegetale il cui metabolismo dipende, per tutto o parte del ciclo vitale, da un altro organismo vivente. A un primo colpo d’occhio, la definizione di ‘parassita’ fornita dal dizionario può destare sorpresa. Uno stupore generato non solo da quel suo modo di spartirsi fra significati alti e bassi, ora nobili ora grotteschi, ma anche e soprattutto dal fatto che si accenni all’uso più comune del termine – e che dunque ci si aspetterebbe menzionato per primo – solo in un secondo tempo. Che ciò sia dettato più dalla precedenza cronologica che dalla preminenza semantica, è indubbio. Ma resta il fatto che il termine ‘parassita’, per questa sua natura al contempo bifronte e rovesciata, può trarre in inganno. Tutti aspetti che ritornano in maniera più o meno evidente nell’ultima impresa del regista coreano Bong Joon-woo, aggiudicatasi la Palma d’Oro a Cannes e il Golden Globe al Miglior Film Straniero. Una pellicola in cui sembrano convergere le migliori istanze e tematiche cui il Cinema del Sol Levante e delle regioni circostanti ci ha abituato nell’ultimo ventennio, dal tema onnipresente di un imperante culto del rispetto e della riconoscenza, al gusto più concupiscibile per il morboso e gli exploit di gore, tipico di coetanei del regista di Taegu come Kim Ki-duk e Park Chan-wook –

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questo secondo, amico di vecchia data, è omaggiato in più di una scena con atmosfere e situazioni già viste in Oldboy (2003). Che si tratti di una scelta deliberata o si voglia dar credito al vecchio stereotipo che gli orientali si somiglino tutti per fisionomia e cognomi, non è dato sapere: ma la trama punta la lente d’ingrandimento con dovizia autoptica su due prototipi umani diametralmente opposti, rappresentati da altrettanti quartetti familiari, i Kim e i Park. I primi, ospiti del gradino più basso della catena alimentare, passano le giornate attaccati al capezzolo della società ad arrabattarsi per qualche soldo e qualche tacca di Wi-Fi in più. I secondi vivono fra ricchezze e comfort sui colli più erti della città in una proprietà che, a giudicare dall’alto muro di cinta che la circonda, sembra uscita da Ran (1985) di Akira Kurosawa. Ma quando il giovane figlio dei Kim ottiene un lavoro nell’Alto Castello, obiettivo suo e della famiglia diventerà quello di sostituirsi completamente, grazie a una catena di complotti e false raccomandazioni, alla servitù dei Park. L’impianto scenico messo su da Bong Joon-woo in questo primo tratto di film è notevole, assumendo ritmi e connotati da opera lirica e ribaltando i ruoli fra attore e spettatore, dove il secondo diventa complice del raggiro che si sta preparando ai danni del primo. Una sorta di rottura della quarta parete che però si sposta dietro il palcoscenico, mostrando alla platea un dietro le quinte negato invece ai Park – ignari spettatori della proverbiale punta dell’iceberg – e rendendola protagonista della sostituzione che si sta tramando intorno a loro.

Scomodo Ottobre 2019 Scomodo Gennaio 2020


Eppure, come recita il trailer di lancio, “quando pensi di aver capito tutto, Parasite si trasforma in qualcos’altro”. Non assumendo però le tinte orrorifiche di un Noi (2019) alla Jordan Peele, come invece ci si aspetterebbe. Le espressioni si fanno mostruose, la scala cromatica si sposta verso il verde spettrale e il rosso sanguigno, eppure l’impressione di trovarsi di fronte a una gigantesca critica alla società di classe si radicalizza. Ma lo scontro, che prima coinvolgeva ricchi e poveri, costringe i secondi a sbranarsi fra loro, lasciando momentaneamente i primi a masturbarsi indisturbati. E con lo spostamento del fuoco, anche il linguaggio subisce una manipolazione che, a ben guardare, lo rende più grottesco che propriamente horror. Se la prima ora di bobina si era concentrata sugli ectoparassiti, abitanti della superficie esterna dell’ospite, la seconda ne introduce una tipologia endoparassitaria, annidatasi per anni nelle cavità interne di Casa Park.

La conseguenza è una guerra fratricida fra poveri, una lotta contro l’annegamento resa visivamente, in una scena emblematica, con due cessi apparentemente comunicanti: se l’uno scarica, l’altro straborda. E’ proprio questa capacità immaginativa del regista di Taegu a regalare spunti a tratti anche geniali, introducendolo fra le fila di quei grandi artisti capaci di plasmare le arti comunicative a loro piacimento. Come quello scrittore che sceglie determinate sonorità linguistiche per rievocare concetti di grettezza e putredine, così Bong Joon-woo rimanda direttamente a uno specifico bestiario animalesco con la semplicità di una immagine: “sapete quando accendi la luce e gli scarafaggi si disperdono?”. Così si congedano i parassiti. Trascinandosi nel buio, non visti, giù per i rigagnoli e gli anfratti della città. Compiendo una catabasi lungo le fogne della civiltà. di Carlo Giuliano

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Bacon e Freud / Quando il male ti "esiste" dentro "Vorrei che i miei dipinti suscitassero la sensazione di essere stati attraversati da un essere umano che ha lasciato una scia della sua presenza, la traccia della memoria di eventi passati, proprio come una lumaca lascia la sua bava". Così diceva Francis Bacon a proposito della sua arte, e non potrebbe essere più suo l'immaginario viscerale di questa frase. Bacon è intrappolato dietro la maschera di William Blake in "Study for a portrait II": nel volto ceroso e repellente dello scrittore inglese si legge, anzi, si sente la sua presenza. Il nero dello sfondo e delle pareti, la ristrettezza dello spazio, le pennellate selvagge e cadenti contribuiscono perfettamente allo scopo del dipinto: lasciare chi guarda disorientato e far crescere una tensione ansiogena all’interno del dipinto senza che questa possa

essere incanalata in qualche direzione ed essere smaltita. Bacon crea un mostro alla Elephant Man, grottesco e brutto fuori, rovinato dal suo tempo, come se fosse il mistero del nostro sentimento davanti alla sua visione a nutrirlo e mantenerlo vivo. Francis Bacon dipinge modelli, amici e amanti su sfondi neri, ma anche quando li ritrae in contesti familiari e spesso casalinghi, l'atmosfera è claustrofobica e disturbante in quanto le figure vengono scollegate dal contesto. L'effetto ottenuto si ha anche grazie alla collocazione di queste figure distorte all’interno di una perfetta scatola prospettica, oltretutto enfatizzata da precise linee geometriche. Bacon tende a giocare con le forme, decide con precisione cosa mostrare e cosa nascondere attraverso i colori e le pennellate frenetiche.

Mostra

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Scomodo

Dicembre 2019

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Mostra

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La ricchezza dei contenuti delle opere del pittore lo rendono il protagonista assoluto dell'esposizione, la quale però lascia spazio a piacevoli sorprese, come nel caso di Paula Rego (tra l'altro l’unica figura femminile del gruppo e, insieme a Frank Auerbach, la sola ancora in vita), e Michael Andrews, il più schivo e nascosto degli artisti di Londra, che forse meritava più spazio, in quanto con solo due opere rivela la sua grande portata comunicativa. Il collettivo della School of London (espressione coniata dall’artista Ronald Brooks Kitaj nel libro del 1976, The Human Clay) ha come minimo comune denominatore il fatto di ritrovarsi in una città dissestata e stravolta dalla seconda guerra mondiale. In questo tragico scenario Londra si apre come porto d' asilo per chi scappa dalle persecuzioni naziste in Germania (come Frank Auerbach, Leon Kossof e Lucian Freud), per chi è in fuga da un regime totalitario (come Paula Rego, che cercava pace dal regime di Salazar in Portogallo), ma è anche un rifugio per un uomo come Francis Bacon, rifiutato e abbandonato dalla famiglia solo perché omosessuale. Londra, tuttavia, è molto lontana dall’essere un' oasi felice e rasserenante, lo capiamo bene dalle geometrie incerte e traballanti delle Christ Churches di Kossof. La città diventa, più che altro, un centro gravitazionale disperante, in cui gli artisti vivono una vita on the edge - sull' orlo del precipizio, e intraprendono un processo personale di amara digestione degli eventi storici, e conseguente presentazione dei sentimenti di angoscia e smarrimento generati. Bacon, Freud e gli altri artisti, infatti, non raccontano, non insegnano: la loro è una pittura che ha come unico scopo quello di passare direttamente dagli occhi allo stomaco, senza sostare per la mente. Vi è un grandissimo lavoro di studio proprio sul FAR SENTIRE e sulla resa estetica delle forme: in Bacon, ad esempio, si nota nell'utilizzo del viola e arancione acidi a contrasto col nero e nella creazione di un’atmosfera senza ossigeno.

Questo sforzo di aggredire i sensi non fa certo torto a Bacon e gli altri, al contrario, c'è da stender loro un tappeto rosso, giacché la loro arte è pura sensazione, e l'arte, in quanto tale, DEVE essere sentita. I soggetti di questi pittori sono materiali, carnali: c'è chi li rappresenta con crudo realismo, e chi distorce le loro forme, le sfalda, le intreccia, ma ciò che conta è che sono reali, esistono; essi sono nient'altro che un passaggio di testimone, la traccia del dolore di un essere umano. Quello di cui parlano è un dolore vivo, tangibile e palpabile dallo spettatore. C'è chi questo dolore lo manifesta apertamente attraverso la durezza accecante dei corpi nudi come Freud (naked non solo perché sono senza vestiti, ma soprattutto perchè sono letteralmente spogliati, veri), e chi come Rego e Andrews lo nasconde sotto un velo illusorio di spensieratezza. Ritornando al disegno, questo è per gli artisti di Londra un continuo esercizio, che allo spettatore può quasi sembrare finalizzato a ricordare l’esistenza dei soggetti e a preservare la loro presenza fisica dalla paura, quella degli anni ’50, di un disastro nucleare imminente. Ma siamo sicuri che quest'ansia di volersi affermare come esseri esistenti sia confinata al periodo della guerra fredda? Probabilmente la riuscita comunicativa di questi artisti va oltre il loro indiscutibile talento. La paura di una distruzione prossima, una realtà omologata e disorientata e la volontà di sgomitare pur di distinguersi dalla massa , sono le fibre che si intrecciano nel fil rouge che connette il mondo estemporaneo di Bacon e Freud al nostro. Se volete concedervi il beneficio del dubbio, andate alla mostra della Scuola di Londra..

di Riccardo Vecchione Scomodo

Gennaio 2020


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QUALCUNO PENSI AI BAMBINI / IL GRANDE TABÙ STORICO / SOGNANDO LA TRANSIZIONE Scomodo

Gennaio 2020

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QUALCUNO PENSI AI BAMBINI! LO SCANDALO CHE STA METTENDO IN GINOCCHIO I CREATORS DI YOUTUBE

Nel Settembre 2019, Youtube è stata multata dalla Federal Trade Commision con una sanzione da 170 milioni di dollari per aver infranto la COPPA (Children's Online Privacy Protection Act), la legge federale che regola la gestione della privacy online dei minori di 13 anni, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali americani (nel caso in cui il sito abbia la propria sede all’interno del territorio statunitense). Secondo la FTC, Youtube, pur avendo creato un portale apposito per i minori di 13 anni (Youtube Kids), non ha fatto nulla per impedire la proliferazione sulla propria piattaforma principale di contenuti strutturati appositamente per bambini, tramite cui il sito ha avuto modo di raccogliere i dati personali di milioni di utenti minorenni. Dinanzi alla decisione dell’FTC, Youtube ha deciso di imporre delle nuove regolamentazioni per l’upload di video sulla piattaforma, che rischiano seriamente di porre fine alla carriera di un gran quantitativo di canali attivi sul sito da anni. Proprio a il 6 Gennaio, queste nuove policies sono entrate in vigore, scatenando il panico all’interno della community della piattaforma. La questione dei contenuti per bambini sulla piattaforma in realtà si protrae oramai da anni e sono stati gli stessi creators (che ora sono accusati in toto dalla FTC di aver usufruito di questo vuoto legislativo della piattaforma) a denunciare per primi la presenza di canali che approfittavano di questa situazione. Fra le personalità di Youtube maggiormente accusate di creare contenuti per un pubblico composto per lo più da ragazzi nella fascia d’età fra gli 8 e i 13 anni, troviamo dei veri e propri giganti come Jake Paul, Lele Pons e Morgz. La principale accusa rivolta a questi creators è quella di violare volontariamente le regole della piattaforma e di varie nazioni del mondo, caricando sul proprio canale contenuti family-friendly infarciti di auto-inserzioni per promuovere il proprio merchandise o il loro ultimo singolo musicale. Nel caso specifico di Jake Paul, il quale non ha mai avuto problemi ad ammettere che i suoi video siano rivolti verso minori dagli 8 ai 15 anni, i suoi video infrangono in pieno il Children’s Television Act, legge federale statunitense che regola l’utilizzo di pubblicità negli show per bambini.

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Scomodo

Gennaio 2020


Secondo il CTA, i programmi per ragazzi non possono contenere pubblicità riguardanti prodotti direttamente legati al programma o che contengano personaggi dello stesso. Inoltre, veniva stabilito un limite massimo di 12 minuti di pubblicità (10,5 minuti nei week-ends) nel corso di 1 ora di programmazione per bambini. I video del minore dei Paul Brothers infrangono entrambe queste regole: il merchandise pubblicizzato è direttamente legato alla figura di Jake e in video della durata di 13 minuti troviamo la bellezza di ben 7 minuti di pubblicità. Paul non solo infrange le leggi del proprio paese, ma anche quelle dell’Unione Europea: nei suoi video è solito chiedere ai suoi fan di domandare ai propri genitori di acquistare i propri prodotti. In questa maniera, sfrutta il cosiddetto “Pester Power”, ossia la capacità dei bambini di influenzare le scelte d’acquisto dei propri genitori: una tecnica di mercato che l’UE ha bandito all’interno dell’ "Unfair Commercial Practices Directive” del 2005. Pur dinanzi a queste violazioni e alle miriadi di video-denuncia della situazione (come quello creato dal canale “Nerd City”, una delle migliori disamine della questione Paul mai create nel corso di questi anni), Youtube non è mai intervenuta direttamente per porre fine alla vicenda. Anzi, per un lungo periodo di tempo la piattaforma ha deciso di promuovere questi canali, rendendo questi creators i protagonisti di vari “Youtube Rewinds”, video annuali nei quali la piattaforma si presenta ai propri investitori e cerca di attrarre nuove compagnie private che partecipino al suo pacchetto azionario. La colpa della situazione odierna non può dunque essere ricercata all’interno della community del sito, visto che si è impegnata per anni a denunciare ogni sopruso nei confronti dello sfruttamento dei minori, ma nel totale immobilismo da parte della piattaforma che, piuttosto che agire contro alcuni dei canali capaci di portare i maggiori introiti all’azienda, ha deciso di soprassedere su ogni singola violazione compiuta nel corso di questi ultimi anni. La FTC ha però dimostrato di non essere di tale avviso. Nel corso di un’intervista riguardante la sanzione, uno dei commissari dell’organizzazione ha dichiarato che questa operazione sarà “come sparare a dei pesci nel barile. Il barile è Youtube, i pesci sono i Content Creators”. La FTC ha quindi deciso di scaricare la colpa unicamente sui canali della piattaforma, minacciando gli youtubers di multe fino a 42000 dollari a video nel caso in cui venga stabilito che stiano violando la COPPA. Youtube, completamente deresponsabilizzata da ogni colpa nella vicenda, ha deciso di venire in soccorso dei propri creators tramite l’introduzione di un nuovo sistema di upload dei video, che ha scatenato diverse polemiche all’interno della piattaforma: è stata inserita infatti la possibilità di segnalare, prima del caricamento del video, se esso sia diretto verso un pubblico di minori o meno. Nel caso si affermi che il video sia pensato per un audience minorenne, esso non potrà esser cercato tramite la barra di ricerca del sito, non sarà possibile postare commenti né finire nella barra dei video raccomandati, ma soprattutto i guadagni verranno tagliati per una percentuale fra il 60% e il 90%. Il problema fondamentale che presenta questo sistema è che sussistono all’interno della piattaforma una miriade di contenuti che galleggiano all’interno di un limbo nel quale non si riesce a distinguere se essi siano rivolti a dei minori o a dei maggiorenni. La categoria che soffre maggiormente questa situazione è quella del gaming, ma possono essere annoverati inoltre video di collezioni di action figures vintage, review e restyling di bambole, canali dedicati a giochi di carte collezionabili e molti altri. I creators coinvolti si trovano così dinanzi ad una scelta: o affermare che il video sia rivolto a bambini, abbandonando ogni speranza di poter avere una carriera remunerativa sulla piattaforma, o segnalare che il video sia stato creato per un pubblico adulto, con il rischio che possa venire denunciato per aver infranto la COPPA e di dover pagare una multa di decine di migliaia di dollari. Consapevole di questo rischio, Youtube ha “saggiamente” deciso di inserire la possibilità che a stabilire la natura del video sia un sistema di machine learning.

Scomodo

Gennaio 2020

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Sfortunatamente, le precedenti esperienze dei creators con questi meccanismi si sono rilevate totalmente fallimentari, soprattutto durante il periodo della prima Adpocalypse, durante il quale un quantitativo spaventoso di video sono stati demonetizzati dal sistema di machine learning della piattaforma senza alcun reale motivo. I creators non possono però esimersi da questo sistema: il rischio di violazione del COPPA è troppo grande, visto che la FTC ha promesso di dare battaglia ai canali colti in flagrante e le multe vengono applicate video per video. La situazione sulla piattaforma sta divenendo giorno per giorno sempre più complicata, soprattutto perché questo nuovo cambiamento ha completamento sconvolto la routine di lavoro che i canali avevano costruito nel corso di questi ultimi anni. In precedenza, la linea della piattaforma era stata chiara e semplice: ogni contenuto al di sopra delle righe sarà combattuto. Questa risoluzione comprendeva non solo contenuti razzisti e antisemiti, ma anche semplicemente parolacce e comportamenti eccessivi. Molti creators si erano adattati a questa direttiva, come Pewdiepie, il quale è passato da riempire il proprio video di imprecazioni a censurare ogni singola parola che possa risultare non consona per gli algoritmi della piattaforma in maniera tale da non perdere i propri guadagni per un “fuck” di troppo. Questa linea è rimasta invariata da 3 anni a questa parte, ma ora Youtube pare intenzionata a punire i canali che si siano specializzati nella creazione di contenuti troppo family-friendly. Al momento, pare che sulla piattaforma sia assolutamente impossibile postare qualcosa senza finire per perdere la possibilità di ricevere dei guadagni dalla propria attività sul sito. La situazione non farà altro che peggiorare nel corso del tempo: l’azione della FTC non è altro che il primo passo che i grandi organi di regolamentazione stanno compiendo nei confronti della piattaforma. Per un lungo periodo di tempo, Youtube è riuscita ad evitare di finire sotto la lente d’ingrandimento delle grandi commissioni americane per il proprio operato, ma dopo la sanzione per l’infrazione della COPPA, il destino della piattaforma pare effettivamente segnato. Come la televisione, ogni contenuto sul sito verrà pesantemente regolamento da organi esterni, rendendo impossibile per chiunque la possibilità di crearsi una carriera remunerativa all’interno della piattaforma. La situazione andrà sempre più peggiorando ogni qualvolta Youtube compirà un passo in più verso il proprio obiettivo finale, ossia riuscire a soppiantare la televisione come principale piattaforma di svago per l’intera popolazione mondiale. Una situazione simile era perfettamente evitabile: sarebbe bastato che la piattaforma agisse immediatamente contro quei canali che hanno costruito buona parte dei propri guadagni sfruttando la grande vulnerabilità dei minori dinanzi al potere persuasivo della pubblicità. Youtube ha deciso però di rimanere ferma, troppo preoccupata com’era a preservare i guadagni illeciti delle proprie superstar ma al tempo stesso decretando l’inizio della fase più difficile della quasi ventennale vita della piattaforma. I creators stessi hanno poco interesse ad agire per difendere la propria piattaforma di lavoro poiché si sentono traditi dal fatto che la colpa dell’intera situazione è stata riversata su di loro, per la maggior gli stessi che avevano provato ad avvertire l’azienda dei rischi che stava correndo a non intervenire. Pur avendo in parte superato il terribile periodo dell’Adpocalypse, Youtube si trova oggi ad affrontare la più grande sfida della sua vita e non è detto che l’azienda di San Mateo riesca ad uscirne indenne.

di Luca Bagnariol

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IL GRANDE TABÙ STORICO LE FOIBE, UNA FERITA ANCORA APERTA NEL DIBATTITO POLITICO ITALIANO

Stretta tra le mura Aureliane e il GRA, Roma Sud si caratterizza per l’atmosfera popolaresca e accogliente. È evidente già se si percorre una qualsiasi via a Testaccio, come quando ci si affaccia dalla basilica di San Paolo verso l’Ostiense delle università, dei ragazzi sempre per strada, dei concerti al parco Schuster, o anche fermando lo sguardo su un qualsiasi cortile silenzioso di Garbatella. Questa sensazione è ancora più palpabile procedendo verso le strade consolari Appia, Ardeatina e Laurentina, in tanti rioni esterni e sempre più nuovi del meridione romano. Tra questi, il quartiere giuliano-dalmata sorge proprio attaccato alla Laurentina, su un versante piuttosto anonimo. Di là dalla via si arriva, attraverso un viale alberato da pini, alla piazza principale del quartiere, intitolata appunto piazza dei Giuliani e dei Dalmati. Intorno alla Lupa capitolina sita nella piazza, i ragazzi quotidianamente si incontrano, studiano, riportano agli amici le avventure parascolastiche del giorno. La piazza “della lupa” è insomma luogo di raccolta e di svago, come se ne vedono tanti in un quartiere periferico, di quelli che tipicamente dimostrano poche attrattive per un estraneo. Tuttavia le vicissitudini attraversate dalla zona e dai suoi abitanti possono essere un racconto entusiasmante e drammatico, che merita di essere scoperto.

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Come detto, i frammenti di popolo su cui è impostato tutto l’aspetto urbano della capitale, porta alla costruzione dello stesso Villaggio Giuliano: nasce come agglomerato di case per operai al lavoro della quarantaduesima Esposizione Universale, poi EUR. Anni di guerra e di impoverimento dello Stato impediscono il termine dei lavori e la manifestazione stessa, mentre i manovali del cantiere vanno, fucili in pugno, al fianco dei tedeschi. Innumerevoli i crimini di guerra di cui i leader dell’esercito verranno accusati, tra cui l’italianizzazione forzata nei territori conquistati, soprattutto Balcani e nord Africa. La guerra di conquista si rivela presto un fallimento, e gli Alleati sbarcano in Sicilia. L’otto settembre 1943 il Re e l’esercito si schierano definitivamente al fianco degli americani. Sul fronte orientale, insurrezioni slave contro l’oppressione fascista degenerano caoticamente in epurazioni etniche contro gli italiani. Le esecuzioni sono stimate sull’ordine delle centinaia di persone uccise. Furono veri e propri massacri, promossi dagli organi di liberazione slavi contro leader e burocrati fascisti, ma i cui effetti si allargarono su cittadini innocenti e tesserati fascisti in genere. La Germania Nazista interviene presto in soccorso della potestà mussoliniana, e ristabilisce l’ordine pubblico. La situazione rimane però tesa, e non appena anche il Reich collassa riprendono vita gli stermini spontanei della minoranza italiana. Questa volta la pulizia etnica assume le dimensioni di guerra organizzata di liberazione. Tanto più atroci si fanno le stragi: il nemico non è più l’oppressore fascista, ma chiunque si opponga all’esercito del maresciallo Tito. E difatti l’obiettivo è triplice. Anzitutto punire i criminali di guerra, in secondo luogo annientare gli oppositori all’annessione iugoslava, tra cui anche membri di organizzazioni antifasciste tricolori, ma soprattutto (e questo porterà alla più consistente uccisione di popolazione italiana) lo scopo intimidatorio e terroristico nei confronti della parte civile, esortata sotto minaccia ad abbandonare le terre natali. La stima delle vittime ci si mostra spietatamente: una cifra che oscilla tra 5'000 e 15'000 tra scomparsi e salme riesumate, anche se di sicuro il numero preciso dei morti non potrà mai essere recuperato. Il 10 febbraio 1947 i vincitori della guerra si spartiscono l’Europa. La Cortina di Ferro dividerà Est e Ovest per altri quarant’anni; lo stato iugoslavo, in mezzo ai due, ed unico ad essersi liberato senza diretto intervento esterno, viene percepito come il leader dei cosiddetti paesi “non allineati”. La sua politica estera sarà dunque caratterizzata da continue negoziazioni con l’uno e l’altro fronte. Per quanto riguarda le conquiste, andrà a Tito tutta quella fascia costiera costituente l’Istria e la Dalmazia, su cui i soldati d’Italia avevano appena piantato il moschetto. Si tratta di territori non particolarmente ricchi che dai Balcani si affacciano sull’Adriatico, un tempo sotto il dominio di Venezia e oggi facenti parte di Croazia e Serbia. Così ha inizio l’esodo ultimo degli abitanti italiani di Istria e Dalmazia. Ora, i conferenzieri dell’Istituto Giuliano-Dalmata, nell’esporre la tematica dell’esodo, devono sempre raccontare mille e mille storie intrecciantisi alla Storia, e si ritrovano comunque con poco tempo da dedicar loro. Per questo usano mostrare un breve documentario dell’epoca riguardo all’esodo, che riassume l’abbandono in navi traghetto di Pola, ultima tra le città cedute alla Iugoslavia.

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La testimonianza del documentarista è particolarmente toccante; discorsi di chi ha visto il dramma con i propri occhi: “…Hanno sperato fino all’ultimo, hanno sperato che non fosse vero... Il Toscana procede nelle gelide acque del bacino di San Marco, e segna il tracollo delle speranze. […]. Non guardano la nave, hanno tutti lo sguardo volto alla città che non guarderanno più, a quelle strade che non percorreranno più… <<Pola; addio>>, <<Pola, addio>>…” Al largo delle uggiose acque adriatiche, il destino degli esuli rimane sospeso. Molti espatrieranno all’estero, perdendo anche l’ultimo legame con le origini. Non tocca miglior sorte a chi rimane nello stivale: in un’Italia pronta a dimenticare il dramma della guerra, chi ancora la vede nel suo quotidiano diviene il suo più spaventevole fantasma. Così gli Istriani, già persa la patria, la riperdono ogni giorno. Talvolta vengono considerati alla stregua di comunisti iugoslavi, altrimenti sono trattati come fascisti. Di certo il clima della Guerra Fredda non scioglie i pregiudizi: lo Stato Italiano, sotto l’ala degli Stati Uniti, rimane silente, per non allontanare Tito dalle posizioni sempre più filoatlantiche. Sono, in definitiva, soli. Le comunità più fortunate continueranno a vivere unite in caseggiati di fortuna: dopo essere passati dalla Risiera di San Sabba verranno dislocati in zone specifiche delle città d’Italia, soprattutto in quelle industriali del nord e nelle grandi città. Tra tutte, Roma. Prende così forma il quartiere giuliano-dalmata, abitato oggi per lo più da eredi degli esuli. Va detto che la presenza giuliana non è più assolutamente maggioritaria, ed il volto del quartiere è cambiato in favore di diverse componenti sociali, soprattutto provenienti da altre zone d’Italia. A più di settant’anni dall’esodo, solo il tempo e la progressiva pacificazione dell’Europa hanno lenito le ferite. Pace che non sarebbe stata possibile senza l’entrata in scena dell’Unione Europea, che ha assicurato la possibilità agli esuli di rintracciare le proprie radici, e agli storici di ricostruire le vicende. Al contrario, non verranno mai ripagate le perdite umane e le espropriazioni subite dagli abitanti. Sull’esodo interviene anche l’ex ministro degli interni: “I bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali. Non esistono martiri di serie A e vittime serie B”. Salvini opera un pericoloso parallelismo tra due eventi che non devono in alcun modo essere messi a confronto, come affermando “tali morti sono più gravi, o anche meno gravi o ugualmente gravi a tal altre.” Se poi si vanno ad analizzare i crimini di guerra sono tutti, sì, crimini, su questo non vi è alcun dubbio. Le modalità con cui i fascisti e quelle con cui i titini andarono a soffocare le minoranze sono sostanzialmente diverse: l’aggressività in guerra dei fascisti fu motivata dall’imperialismo, mentre la pulizia etnica realizzata dagli slavi va inquadrata in una generale risposta all’oppressione fascista. Fenomeni, ugualmente orribili e spontanei, avvennero in tutti i territori prima conquistati dai nazi-fascisti. Sfruttando poi una manifestazione dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) sulla questione foibe Salvini si spinge oltre. Lancia una minaccia contro l’organizzazione partigiana: "Anpi nega Foibe, rivedere i contributi alle associazioni”. Affermazione che ha ovviamente suscitato molto più clamore di qualsiasi altro intervento sulle foibe. Come si motiva una contrapposizione così marcata ad un’istituzione legata alla storia della Repubblica?

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Certo, l’antipatia del padano nei confronti delle parti di sinistra non è nuova, ma in questo caso la natura della dichiarazione ha radici ben più profonde: Salvini ce l’ha con un aspetto fondamentale della Prima Repubblica, ovvero con l’appiattimento della realtà storica su posizioni ideologiche e unilaterali. In particolare, tanto il negazionismo sullo sterminio degli ebrei quanto il negazionismo rosso, tentarono di dare una lettura ideologica della guerra, nascondendo gli aspetti più controversi dei rispettivi fronti. I negazionisti rossi mettono in dubbio, alcuni il numero dei morti infoibati, altri anche la stessa esistenza di un fenomeno foibe. Tuttavia questa non è la posizione ufficiale dell’Anpi, se non solo di alcuni suoi membri. Anche ammettendo che l’Anpi abbia assunto pareri discutibili, Salvini dimentica che la Prima Repubblica è terminata trent’anni fa, e la verità storica è stata ristabilita. Sappiamo con chiarezza quanto è accaduto sulle foibe come su tutte le atrocità commesse dal nazi-fascismo. Il compito della nuova generazione politica è prettamente quello di rispettare i fatti, evitando inutili paragoni, e soprattutto evitando di rigettare nel calderone ideologizzato eventi che toccano un nervo ancora scoperto della società italiana. È vero, la realtà storica è ancora ignota ai più, meno conosciuta di quanto lo siano Auschwitz, i crimini di guerra al fronte, il massacro delle Fosse Ardeatine… E questo ci testimonia ancora una volta quanto l’Italia abbia difficoltà a fare i conti col proprio passato. Troppe ambiguità sono lasciate nel ricordo dei caduti, dei martiri, dei perseguitati e dei soldati stessi. L’unica possibilità di recuperare una più giusta memoria storica risiede nell’intervento diretto dal basso. Chiunque deve agire per recuperare, diffondere i fatti ed il loro effetto sul presente.

di Lorenzo La Malfa

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SOGNANDO LA TRANSIZIONE L’ORIZZONTE DEI CREDITI

IL RUOLO DELLE BANCHE NEL CAMBIAMENTO DELLA SOCIETÀ Il credito rappresenta uno strumento essenziale per l’attività dell’impresa, sia per lo sviluppo, il finanziamento e la crescita aziendale, ma anche per il sostentamento e la copertura dei costi nei momenti di crisi. La tendenza odierna di inversione del ciclo dei profitti ha ridotto drasticamente la possibilità dello sviluppo autonomo delle società, consacrando il credito e ponendo gli enti creditori in una posizione centrale per lo sviluppo economico dei paesi. Sono molti i criteri attraverso i quali le banche scelgono quali organizzazioni economiche finanziare, tuttavia la maggior parte di queste ragiona ancora in un’ottica legata esclusivamente al profitto. Chiariamo una questione, il profitto legato ad un investimento è fondamentale: con questo articolo non si vuole assolutamente sostenere la tesi secondo la quale si dovrebbe investire solo in attività che non portano a guadagni ma che hanno esclusivamente finalità etiche, ma affermare con forza come sia necessario e inesorabile che i finanziamenti tengano conto dell’impatto socio ambientale e cerchino il profitto in nuovi settori compatibili con un'idea di sviluppo sostenibile.

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Alla comune valutazione di merito creditizio fondata su elementi economici si affianca dunque la valutazione socio ambientale fondata su elementi non economici: la responsabilità sociale d’impresa - che supera la dicotomia profit/non profit e privilegia il concetto di “beneficio sociale per la comunità locale” -, la valutazione dell’impatto sociale e culturale sul territorio, la valorizzazione di determinati settori, l’impatto ambientale delle attività finanziate. Inoltre, le banche etiche europee vantano circa il doppio dei crediti concessi rispetto alle altre, definibili come “sistemiche”. Questo dato è estremamente significativo, infatti la maggior parte degli istituti bancari preferisce ormai dedicare i propri capitali principalmente a titoli azionari, servizi finanziari e altri prodotti, tralasciando l’economia reale e quindi la sua funzione originaria e vitale. Ad alte concessioni corrispondono altrettanti alti tassi di restituzione. «Per noi sono poco meno dell'1 per cento - sottolinea in un articolo sul Corriere della Sera il Presidente di Banca Popolare Etica Ugo Biggeri riferendosi agli insolventi - mentre quelle del sistema bancario italiano sono sopra il 4 per cento. Questo dice che il nostro rischio è minore e anche che piccoli imprenditori che hanno alla base della loro attività economica una motivazione più alta hanno un tasso di insolvenza molto minore». Sono superiori anche i profitti, aumentati del 5,9% negli ultimi dieci anni, mentre per le banche sistemiche sono scesi di circa il 15%. Dunque i crediti erogati sono cresciuti e l’utile risulta costante: in lontananza si intravede una possibile inversione delle politiche bancarie. Nel decennio 2007-2017, secondo uno studio di Repubblica, le banche etiche hanno reso il triplo rispetto alle banche tradizionali, grazie ad una redditività media annua del 3,98% contro l’1,23%.

LA SCELTA SOSTENIBILE Banca Popolare Etica, istituto bancario italiano all’avanguardia, svolge una valutazione di questo tipo: l’istruttoria di valutazione Socio Ambientale verso le persone giuridiche consiste nella somministrazione ai clienti di un articolato questionario, utilizzato nella definizione dei parametri di validità creditizia non economica. I valutatori sociali, soci della banca e iscritti ad un albo interno, validano le risposte del cliente e producono un parere sulla sua finanziabilità. Questo strumento è utile ai risparmiatori ai fini della conoscenza dell’effettivo impiego del denaro depositato presso l’istituto in questione. Infatti, può capitare che qualcuno assolutamente contrario al commercio di armi depositi i suoi risparmi in una banca che comincia, proprio grazie a questi, ad operare in questo settore. Solo la trasparenza può rimediare a questa discrepanza: l’esigenza è quella di avere una sezione di misurazione dell’impatto generato dalle attività svolte dall’organizzazione nel suo complesso e specificatamente dal finanziamento erogato dalla banca. La speranza è quella di innestare un processo che possa riportare l’economia alla sua funzione originaria, rendendo la finanza uno strumento al servizio delle persone e dell’economia reale. di Lorenzo Cirino

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