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Luca Bagnariol, Alessandro Luna, Simone Martuscelli di Risiko libico

Risiko libico -------------------------------------------------------------------------------------------------------- L’avanzata dell’asse turco-russo e la sconfitta dell’Italia nello scacchiere geopolitico nordafricano

Perché ci interessa così tanto la Libia? Ci sono guerre orribili di cui nessuno parla e conflitti irrisolti che macinano migliaia di vittime ogni anno ma che non godono del privilegio di trovare i leader dei maggiori Paesi del mondo schierati con una fazione o con l’altra e che non sono il tema centrale di summit straordinari i cui resoconti riempiono le prime pagine dei maggiori quotidiani internazionali. La Libia, invece, gode di questo particolare e al contempo triste favore, tanto che i due vertici di Mosca e Berlino, in cui si è cercato di far firmare una tregua ai due rivali libici, sono stati seguiti con la massima attenzione ed hanno spesso scalzato le notizie di politica nazionale dai primi secondi dei telegiornali. Il motivo è molto semplice e, a pensarci, oggi fa sorridere il soprannome che ad inizio Novecento, in occasione della guerra italo-turca, Salvemini coniò per la Libia: “lo scatolone di sabbia”. Come ad intendere l’inutilità della zona dal punto di vista delle risorse che vi si potevano sfruttare. Poi, negli anni sessanta, si è scoperto che quella che in era fascista era stata un’inutile colonia italiana era in realtà ricca di giacimenti petroliferi su cui l’Italia, per mezzo dell’Eni, la Francia, gli Stati Uniti e la Turchia hanno prima o dopo mostrato forti interessi. Oggi, dopo la caduta del colonnello Muammar Gheddafi a metà delle rivolte della primavera araba del 2010- 2012, lo “scatolone di petrolio”

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è amministrato ufficialmente da un governo di unità nazionale guidato da Fayez Al-Sarraj ed appoggiato da Stati Uniti, Turchia, ed Italia, che ha sede nella capitale di Tripoli, assediata da mesi dall’esercito dei Miliziani del generale Khalifa Haftar, che gode invece dell’appoggio di Francia e Russia e che controlla gran parte del nord e del centro della Libia. Gli avvenimenti, giorno dopo giorno, si susseguono cambiando la situazione repentinamente. Mentre ciò che resta invariato sono gli interessi di partenza che sono all’origine di ogni mossa, offensiva e non, a cui assisteremo nei prossimi mesi intorno alla crisi libica. Abbiamo perciò voluto darne un quadro chiaro e corretto, come a voler fornire a noi e a chi legge uno strumento per poter comprendere meglio ciò che è successo e ciò che invece ci aspetterà nelle prime pagine dei prossimi mesi. Da primi della classe ad ultima ruota del carro: il caso italiano Per comprendere al meglio cosa il nostro Paese stia facendo in Libia in questo momento, non ci si può limitare ad analizzare gli ultimi avvenimenti ma bisogna concentrare l’attenzione su quanto è stato fatto in politica estera dall’Italia a partire dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011. Prima di procedere in quest’analisi storico-politica, c’è bisogno di una doverosa precisazione: l’opinione pubblica italiana ha sviluppato nel corso dell’ultimo decennio un totale disinteresse nei confronti dell’operato del nostro Paese all’estero, concentrando la propria attenzione unicamente sugli avvenimenti all’interno dei nostri confini nazionali. Questo fenomeno ha portato ad una totale svalutazione del ruolo del Ministero degli Esteri, dimostrato dal fatto che la sua guida è stata affidata a politici il cui curriculum non giustifica minimamente la posizione che occupano sulla principale scrivania della Farnesina. Il che rappresenta uno dei principali motivi della totale perdita di credibilità del nostro Paese dinanzi alla Comunità Internazionale, che nel corso del tempo è costata all’Italia la propria leadership nella gestione della crisi libica. Conclusa questa premessa, è ora di osservare come si siano evoluti i rapporti di forza all’interno della Libia e come l’Italia vi abbia perso il proprio primato diplomatico internazionale. Durante la caduta di Gheddafi nel 2011, gli stretti rapporti fra il dittatore libico e il governo italiano guidato da Silvio Berlusconi impedirono al nostro Paese di prendere parte al processo decisionale internazionale che portò alla caduta del regime, guidato principalmente da Stati Uniti e Francia (interessata a prendere il posto della penisola nella gestione delle ingenti risorse energetiche presenti nel sottosuolo del Paese nordafricano). Per un lungo periodo di tempo, è sembrato che l’Italia avesse totalmente perso il proprio peso specifico nella zona di Tripoli che aveva faticosamente costruito nel corso di un secolo, a partire dalla campagna di Libia del 1911 voluta dal Presidente Giolitti. La svolta è arrivata grazie all’operato di Paolo Gentiloni come Ministro degli Esteri del governo Renzi. Nel corso dei suoi due anni di mandato, fra 2014 e 2016, l’ex Presidente del Consiglio ha dimostrato di essere una delle poche figure politiche italiane capace di comprendere i cambiamenti geopolitici che stavano attraversando il globo, come dimostra il grande interessamento nei confronti della “Belt and Road Initiative” di Xi Jinping quando il progetto era ancora nella sua fase embrionale. Gentiloni è riuscito in poco tempo a ritagliarsi un ruolo decisivo nella gestione del caos della guerra civile libica, risultando determinante nella scelta dell’ONU di affidare il governo di unità nazionale Fayez Al-Sarraj, che avrebbe dovuto porre fine al conflitto e concedere finalmente una nuova stabilità alla regione. L’Italia, grazie all’operato della Farnesina sotto il governo Renzi, pareva aver di nuovo pieno controllo sulla zona mediterranea, ma a seguito di questo successo ed alla caduta del governo Renzi (il cui posto a Palazzo Chigi venne occupato dallo stesso Paolo Gentiloni), la linea politica italiana nei confronti della questione ha assunto una svolta veramente disastrosa. “Questa condizione di paese “vuoto” (la densità è bassissima, intorno ai 3 abitanti/km²) ma incredibilmente ricco influenzerà per molti anni a venire la posizione geopolitica della Libia.”

A partire dall’affidamento della Farnesina ad Angelino Alfano, gli sforzi del governo Gentiloni si sono concentrati principalmente sul tentativo di porre freno al grande flusso di migranti proveniente dalle coste libiche, piuttosto che impegnarsi nel mantenimento del fragile equilibrio che si era andato a creare fra il governo riconosciuto di Al-Sarraj a Tripoli e quello del Generale Haftar in Tripolitania, che già nel 2016 iniziava a mettere fortemente sotto pressione l’intera area. In Italia si era però troppo impegnati a porre in primo piano il livore della popolazione nei confronti della mancata regolamentazione dei flussi migratori provenienti dal Mediterraneo, cercando di arginarlo tramite l’istituzione della famigerata Guardia Costiera Libica piuttosto che intervenendo sulla causa ultima dell’immigrazione, ossia la forte instabilità politica della zona. Questa linea non è stata tuttavia perseguita dal governo Lega-Movimento 5 Stelle, la cui scelta di affidare la Farnesina ad Enzo Moavero Milanesi è stata dettata dalla volontà di compiere una decisa svolta alla questione libica. Milanesi ha infatti deciso di accantonare l’incondizionato appoggio ad Al-Sarraj in modo tale da presentare l’Italia come Paese mediatore fra gli interessi della Tripolitania e della Cirenaica. In quest’ottica vanno letti l’organizzazione della Conferenza per la Libia a Palermo e la decisione di allontanare l’ambasciatore Giuseppe Perrone dalla Libia, poiché figura scomoda per Haftar. Tali tentativi non hanno portato ad alcun risultato concreto, ma la linea di Milanesi è stata particolarmente apprezzata dal neoministro degli Esteri Luigi di Maio, il quale aveva annunciato il proposito di portare avanti la nuova linea “pro-concilazione” libica fin dall’inizio del suo mandato.

“La svolta è arrivata grazie all’operato di Paolo Gentiloni come Ministro degli Esteri del governo Renzi.”

Questa decisione è risultata il colpo di grazia alle aspirazioni dell’Italia del mantenimento della leadership diplomatica della zona, poiché questo titolo era stato concesso allo Stato italiano proprio per l’egregio lavoro svolto per convincere l’ONU a scegliere Al-Sarraj.

Lo stesso leader della Tripolitania ha avuto modo di esprimere pubblicamente il suo disappunto verso la nuova linea politica del governo italiano, disertando l’incontro con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte a causa della sua scelta di dare la precedenza all’incontro con il generale Haftar. Questo clamoroso “autogol diplomatico” ha fatto definitivamente sprofondare ogni possibile rivendicazione di leadership diplomatica da parte del governo italiano, portando a compimento il processo iniziato sotto la direzione di Alfano e relegando l’Italia ad un ruolo di totale marginalità nei confronti della gestione della crisi libica.

I sogni da sultano ottomano di Erdogan Era da più di un secolo che la Turchia non interveniva in maniera così diretta nelle vicende libiche: dal Trattato di Losanna del 1912, che siglò la fine della guerra italo-turca con la cessione della Libia all’Italia, quando ancora era sconosciuta la ricchezza del Paese in termini di risorse. Anni dopo, troppo tardi perché l’Italia potesse usufruirne, nel territorio libico vennero alla luce i già citati enormi giacimenti di idrocarburi. Questa condizione di paese “vuoto” (la densità è bassissima, intorno ai 3 abitanti/km²) ma incredibilmente ricco influenzerà per molti anni a venire la posizione geopolitica della Libia. La riscossa turca nel Paese ha tante motivazioni alla base, e anche di matrice molto diversa tra loro. Tra queste, sicuramente ci sono motivi ideologici:

l’aggressiva politica estera della Turchia messa in atto negli ultimi anni ha come obiettivo tre aree precise: il Medio Oriente, il Nord Africa e i Balcani. Tutte aree che furono, un tempo, dell’Impero Ottomano. Questo che è stato definito il “neo-ottomanesimo” di Erdogan si coniuga con un uso puramente politico dell’Islam, come leva per conquistare e poi mantenere una certa influenza su tutto il mondo islamico, almeno quello di parte sunnita. Agli interessi ideologici si aggiungono poi, e notevoli, quelli economici. Il 27 novembre scorso Turchia e Libia hanno firmato un memorandum fondamentale: da un lato, la Turchia ha lì gettato le basi dell’intervento militare poi confermato dalla decisione del Parlamento il 2 gennaio; ma soprattutto, i due Paesi hanno concordato insieme un allargamento della ZEE (Zona Economica Esclusiva) turca nel Mediterraneo orientale. L’accordo ha sollevato le ovvie proteste di tutti i paesi con sbocco sul mare di quella regione (Grecia, Cipro, Egitto), ma rischia di avere conseguenze ben più importanti dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico. In quell’area infatti dovrebbe sorgere EastMed, un gasdotto che collegherà le risorse energetiche di Cipro e Israele all’Europa, fornendo da solo al Vecchio Continente fino a 10 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno (circa il 10% del suo fabbisogno annuo). L’accordo bilaterale tra Turchia e Libia impedisce ad altri paesi di effettuare attività di “esplorazione e perforazione”

senza il consenso dei due contraenti, impedendo quindi in apparenza la costruzione del gasdotto che proprio il 2 gennaio ha ricevuto il via libera dai capi di Stato di Grecia, Israele e Cipro.

“Ma da oggi, per chi vuole accaparrarsi lo “scatolone”, la Turchia è di nuovo una concorrente non trascurabile.”

Sempre ad inizio gennaio, l’8, Erdogan ha inaugurato insieme a Vladimir Putin il TurkStream: un gasdotto che, attraversando il Mar Nero, fornisce alla Turchia abbondanti riserve di gas naturale russo (fino a 31 miliardi di metri cubi all’anno). L’obiettivo della Turchia, da questo punto di vista, appare chiaro: da un lato, garantirsi importanti forniture energetiche (Russia, ma anche Libia); dall’altro, diventare interlocutore necessario per l’approvvigionamento diretto all’Europa. L’intervento turco spariglia le carte anche dal punto di vista militare. Già a maggio il sostegno della Turchia al Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez Al-Sarraj era arrivato in maniera massiccia, sottoforma di rifornimento di armi. 40 veicoli corazzati, fucili, mitragliatrici, missili, aerei, droni: l’arsenale fornito da Erdogan al suo alleato libico (noncurante dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite sulla Libia) era imponente, ed è stato anche grazie a quest’intervento che le forze del generale Khalifa Haftar non sono riuscite a completare in breve tempo quella presa di Tripoli che, ad aprile, sembrava ormai imminente. Una cavalcata che sembrava già scritta si è invece trasformata in una logorante guerra di posizione, e più passano le settimane più la soluzione del conflitto sembra potersi realizzare in sede diplomatica più che sul campo di battaglia. Soluzione che, però, avrebbe due nomi e cognomi ben precisi: Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin. Sostenitore di Sarraj il primo, di Haftar il secondo, nelle ultime settimane sta prendendo sempre più piede l’idea di una spartizione per zone di influenza secondo le geografie attuali del conflitto: la Tripolitania alla Turchia, Cirenaica e Fezzan alla Russia. Si potrebbe, cioè, riproporre anche in Libia il modello che sembra essere destinato ad influenzare anche le sorti della Siria, ovvero quello di un dualismo Turchia-Russia che sta lentamente escludendo dai giochi l’Occidente filostatunitense.

La Turchia infatti riesce a giocare in maniera eccellente il ruolo di mediatore tra le due fazioni: in quanto membro NATO ed osservatore esterno dell’Unione Europea (e con un accordo sui migranti con l’UE che pesa in termini negoziali) è interlocutore necessario dei Paesi occidentali, ma dall’altro lato la svolta “imperiale” e filo-islamica messa in atto dall’AKP di Erdogan ha migliorato – e di molto – i rapporti con diversi Paesi dell’area mediorientale, Iran e Qatar su tutti. C’è, infine, un altro punto di paragone tra il conflitto libico e quello siriano, e consiste nell’accentuarsi di una tendenza che va avanti ormai da diversi decenni: la “globalizzazione” dei conflitti locali, ovvero la creazione di complessi meccanismi di alleanze che vanno ad intervenire in guerre – in apparenza – civili. La Libia si presenta oggi come un paese debolissimo dal punto di vista delle strutture istituzionali – praticamente inesistenti – e ricchissimo di risorse energetiche ed economiche: il massimo che i predoni della politica internazionale potessero sperare di trovare. Così, forse, la definizione data più di un secolo fa da Salvemini della Libia può tornare ad avere un senso. Ma da oggi, per chi vuole accaparrarsi lo “scatolone”, la Turchia è di nuovo una concorrente non trascurabile. L’imbarazzo di Putin: un’influenza sopravvalutata “E se gli spari in fronte o nel cuore, soltanto il tempo avrà per morire”. Se in Cirenaica si ascoltasse de Andrè, forse i militari libici di Al-Sarraj userebbero questa frase per spiegare perché sono convinti che le milizie russe Wagner siano impegnate ad aiutare il generale Haftar a conquistare Tripoli. A quanto pare il loro modus operandi, la loro firma è questa: un colpo alla nuca o al torace che uccide all’istante, caratterizzato da un foro d’entrata molto piccolo e dalla mancanza di quello d’uscita. I cadaveri di alcuni soldati riportano questi segni che, secondo i libici, rappresenterebbero il “marchio di fabbrica” dei cecchini russi di queste milizie che ufficialmente non dipendono direttamente dal governo russo, ma che sono vicine ad un oligarca di Mosca fedelissimo di Putin. Sono, secondo quasi tutti gli analisti geopolitici, l’arma che il Presidente russo usa quando vuole esercitare un'influenza su un conflitto senza coinvolgere direttamente l’esercito nazionale. Nascono come un’organizzazione militare privata, ufficialmente illegale secondo la legge russa, che si specializza nel combattere la pirateria in giro per il mondo e che oggi, secondo molti, è stata “assunta” dal ministero della difesa russo che la impiega in operazioni internazionali in cui non può agire in prima persona. Il nome si dovrebbe, secondo il Times, alla passione del fondatore Dimitry Utkin per il Terzo Reich. Partiti da mille unità sono arrivati a contarne cinquemila nel 2017. Tutti mercenari e quasi tutti veterani dell’esercito russo, tra i 35 e i 50 anni, attratti dalle prospettive economiche che l’affiliazione sembra garantire: secondo il Moscow Times la paga è di 1300 dollari per chi si addestra in Russia, mentre sale a 4300 dollari al mese per le operazioni estere. Il collegamento tra le milizie Wagner e il Cremlino dovrebbe essere responsabilità di Yevgeny Prigozhin, oligarca vicino sia a Utkin che a Vladimir Putin, soprannominato lo chef per via della sua compagnia di catering a cui spesso il presidente russo si rivolge per i ricevimenti ufficiali. È ormai certa la loro presenza nella guerra di Siria e ci sono forti sospetti che, anche in Venezuela, abbiano avuto un qualche ruolo pochi mesi fa. Nelle ultime settimane Vladimir Putin ha promesso che si sarebbero ritirate dalla regione ma l’interesse del Cremlino nella guerra civile che vede opposti Haftar e Al-Sarraj è evidente. “Nelle ultime settimane Putin ha promesso che si sarebbero ritirate dalla regione ma l’interesse del Cremlino nella guerra civile che vede opposti Haftar e Al-Sarraj è evidente.” “L’aggressiva politica estera della Turchia messa in atto negli ultimi anni ha come obiettivo tre aree precise: il Medio Oriente, il Nord Africa e i Balcani.”

Su qualsiasi manuale di storia contemporanea si potrà notare come fin dai tempi dell’impero zarista la Russia ha sempre cercato di estendersi nel Mediterraneo e di stabilire nei porti europei una qualche roccaforte economica, cercando sbocchi che molto raramente, e spesso per poco, è riuscita a crearsi. Ed anche oggi la situazione è pressoché la stessa. Molto sinteticamente, la Russia sta perdendo influenza nel Mediterraneo per quel che riguarda i gasdotti e sta quindi puntando al crocevia petrolifero che ha in Libia una delle sedi maggiori e strategiche. E il singolare compagno di sventura di Vladimir Putin è il Presidente turco Erdogan. Le difficoltà sono cominciate con l’inaugurazione di un gasdotto, l’EastMed, che collega Israele all’Italia, passando per la Grecia e Cipro, due storiche roccaforti mediterranee dell’influenza russa in Europa. L’EastMed mette in difficoltà anche la Turchia, che quindi si trova ad avere una improvvisa comunanza di interessi con la Russia, nonostante le sia contrapposta in territorio libico dal momento che, insieme all’Italia e all’Europa, sostiene il governo nazionale di Al-Sarraj. Mentre Putin, pur con qualche tentennamento, di cui è emblematica la scelta di non impiegare direttamente l’esercito ma le milizie “ufficialmente indipendenti” Wagner, sostiene sia diplomaticamente che economicamente Khalifa Haftar. E quasi un mese fa questi due “falsi rivali” hanno inaugurato in Turchia un oleodotto che collega Ankara a Mosca. Ma Putin sembra non voler puntare tutto sui gasdotti,

che evidentemente avverte sminuirsi come arma economica e strategica, ed ha quindi puntato gli occhi sulla città di Tobruk, sulle coste orientali della Libia, oggi in mano ad Haftar. Colonia prima greca e poi romana, Tobruk è stata durante il primo Novecento oggetto di contesa tra le forze britanniche e quelle dell’asse nazifascista, ma è diventata strategica nel Mediterraneo solo dopo che negli anni 60 sono stati scoperti degli importanti giacimenti petroliferi.

Oggi è uno dei maggiori terminali di oleodotti della costa araba. Putin punta a stabilire una base di influenza proprio in questa città ed è a questo che, principalmente, si deve la scelta di sostenere Haftar. Anche se Russia e Turchia stanno lentamente virando verso un “cessate il fuoco” che possa stabilizzare la situazione libica e garantire loro uno sviluppo più sereno dei propri piani. Durante la presentazione del gasdotto Turkstream di cui si parlava prima, Putin e Erdogan hanno entrambi chiesto congiuntamente che si arrivasse ad una tregua tra i due contendenti libici. Al-Serraj ha subito fatto sapere che sarebbe disponibile ad una tregua, mentre Haftar si è rifiutato di scendere a compromessi con il Presidente di Tripoli, probabilmente per la stessa ragione per cui il primo ha accettato: al momento le forze del generale appoggiato da Putin sembrano avere buone prospettive di far cadere la capitale e sconfiggere definitivamente Al-Sarraj. Ma alla conferenza di Mosca in cui Putin non è riuscito a convincere il generale Haftar a firmare una tregua è emerso uno scenario poco confortante per il presidente Russo. Nonostante gli ingenti prestiti che gli ha concesso, e su cui spera di far leva una volta finita la guerra per avere la base di Tobruk, sembra che l’influenza che si pensava il Cremlino esercitasse sul rivale di Al-Sarraj sia meno forte e vincolante del previsto. E Vladimir Putin, si può dire, è forse per la prima volta in seria difficoltà dal punto di vista geopolitico. Certamente il fatto che nessun paese sia ancora riuscito ad esercitare una tanto agognata influenza determinante sulla Libia è specchio della complicatezza di questa guerra civile dal punto di vista militare e diplomatico.

di Luca Bagnariol, Alessandro Luna, e Simone Martuscelli

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