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Susanna Rugghia, Leonardo João Trento, Francesco Paolo Savatteri
from N.28 GENNAIO 2020
by Scomodo
Le Indie di Modi -------------------------------------------------------------------- Come il primo ministro indiano sta mettendo in pericolo la democrazia più grande del mondo
Con 1,3 miliardi di abitanti, 900 milioni di elettori ed un’ultima tornata elettorale che ha visto i seggi rimanere aperti per 39 giorni, almeno dal punto di vista quantitativo l’India è la democrazia più grande del mondo. Ed anche sulla qualità in realtà ci sarebbe ben poco da eccepire. La Costituzione del 1950 infatti, che ha da poco compiuto 70 anni, definisce l’India come una “repubblica sovrana, laica e democratica” che garantisce ai propri cittadini giustizia, uguaglianza e libertà. Nonostante le drammatiche condizioni di povertà, analfabetismo e sottosviluppo, l’India riuscì già nel 1950 ad instaurare un regime democratico funzionante, laico e moderno, che l’ha sempre ben distinta agli occhi dei paesi occidentali nel confronto con i suoi “cattivi” vicini, essendo alla fine degli anni ’40 l’unico paese democratico dell’intera Asia continentale.
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L’11 dicembre il Parlamento ha approvato il Citizenship Amendment Bill (CAB): una modifica di una legge di 64 anni fa che impediva ad un immigrato irregolare di diventare cittadino indiano, per stabilire invece una eccezione notevole, cioè la possibilità di ottenere la cittadinanza indiana per i tutti migranti provenienti dai paesi limitrofi — Bangladesh, Afghanistan e Pakistan — ma solamente se di fede Indù, Sikh o Cristiana, escludendo dunque categoricamente i migranti di fede musulmana. In seguito all’approvazione si sono sollevate numerose proteste in tutto il Paese, con diversi tentativi da parte del governo di reprimerle attraverso un grande dispiegamento di truppe, coprifuochi e sospensioni dei servizi internet
(di cui l’India è il leader mondiale con 106 “shutdown” solo nel 2019, secondo le stime dell’Internet Shutdown Tracker). Il risultato è un bilancio di oltre 20 vittime da dicembre a oggi, la cui responsabilità è stata ripetutamente negata dai portavoce delle forze di polizia. Tuttora le proteste non si sono estinte. Molti osservatori ora si interrogano sulla condizione di salute della democrazia indiana, e su quella che appare come una possibile svolta nazionalista-identitaria, che potrebbe allontanare l’India dai suoi valori fondanti: in primis quello della laicità dello Stato. Il protagonista di tali vicende è il primo ministro indiano Narendra Modi del Bharatiya Janata Party (BJP) — ovvero il “Partito del Popolo Indiano”. Eletto per la prima volta nel 2014, è stato riconfermato per un secondo mandato vincendo con una maggioranza schiacciante nelle elezioni del maggio 2019. Il BJP che lo sostiene è un partito che storicamente rappresenta le posizioni della destra nazionalista, a difesa dell’identità induista del paese. Il presidente BJP, nonché Ministro degli Interni, Amit Shah è famoso per le sue invettive piuttosto accese nei confronti degli immigrati musulmani. Particolarmente significative le parole da lui pronunciate lo scorso aprile in piena campagna elettorale, quando durante un comizio ad un’adunata parlava degli immigrati musulmani provenienti dal vicino Bangladesh, descrivendoli come “infiltrati” e “termiti nel suolo del Bengala”, promettendo inoltre che “il governo del BJP andrà a prendere questi infiltrati uno ad uno e li getterà nel Golfo del Bengala”. C’è comunque da ricordare che questi toni e discorsi, benché poco pacifici, non hanno sempre avuto un riscontro pratico nell’azione di governo di questo partito: Il BJP infatti è già stato al potere per un intero mandato dal 1998 al 2004, senza tuttavia adottare quei controversi provvedimenti — come l’abrogazione dello status speciale alla regione del Jammu e Kashmir — che erano presenti nel loro programma. Con Narendra Modi invece questi provvedimenti sembrano aver preso una forma ben concreta, in particolare a partire dall’inizio del suo secondo mandato. Elemento fondamentale della svolta induista indiana è stato infatti il risultato delle elezioni del 2019, con cui il BJP ha guadagnato 20 seggi in più nella Lok Sabha, la camera bassa del parlamento. Una vittoria che appare ancora più strana se si considera il rallentamento economico indiano, che non solo danneggia – più o meno direttamente - le condizioni di vita degli abitanti della nazione, ma mostra anche in maniera evidente le contraddizioni della politica di Modi. Se infatti in politica interna il premier indiano ha calcato la mano con provvedimenti discriminatori ed identitari, in politica economica è ben lontano dal potersi definire isolazionista. “Narendra Modi è un nazionalista ma al tempo stesso è anche un globalista – spiega alla redazione di Scomodo Ugo Tramballi, editorialista di politica estera del Sole24Ore - non ha interrotto le riforme economiche intraprese dai governi precedenti guidati dal Congress Party”. Una politica economica in contrasto con la propria ideologia di appartenenza, e che allo stesso tempo non sta dando i risultati sperati. Il tasso di crescita del PIL indiano è infatti in costante calo da circa due anni: secondo i dati della World Bank nel 2016 la crescita era circa dell’8.1%, mentre nel 2018 la cifra si è assestata intorno al 6.8%. Ovviamente si tratta di numeri che fanno impallidire l’economia stantia dei Paesi europei, ma che non bastano per una nazione come l’India in cui sono ancora presenti grandissime disuguaglianze e un PIL pro capite molto basso. “Modi ha promesso di raddoppiare il PIL della nazione entro la fine del secondo mandato – prosegue Tramballi – ma ciò implica una crescita al 12% per i prossimi cinque anni”. E’ possibile quindi che il motivo di radicalizzazione della politica del BJP sia in parte anche frutto della necessità di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli aspetti più deboli della conduzione di governo. “Degli oltre 500 casi analizzati, quasi 9 imputati su 10 sono risultati essere musulmani. E mentre soltanto il 40% degli induisti venivano dichiarati immigrati irregolari, la percentuale saliva al 90% per gli imputati musulmani.”
Il processo di involuzione identitaria intrapreso dall’India passa da due atti fondamentali che non a caso si sono svolti nell’estate del 2019, appena dopo le elezioni generali. Autonomia revocata All’inizio di agosto il governo Modi ha revocato con un ordine presidenziale l’articolo 370 della Costituzione Indiana che prescriveva il cosiddetto statuto speciale alla regione di Jammu e Kashmir. Infatti, la spartizione del sub-continente indiano, che risale al ’47, aveva come presupposto l’adozione di un forte criterio identitario: il Pakistan a predominio musulmano, mentre l’India, sebbene più restia ad assimilare l’elemento religioso a quello nazionale, di fatto a maggioranza hindu; comportando di conseguenza una dinamica migratoria all’interno di quei territori senza precedenti, per un numero stimato di 11 milioni di persone. L’eccezione era rivestita proprio dal principato del Jammu e Kashmir, che presentava un monarca hindu e una popolazione a maggioranza musulmana. Trattandosi dell’unico Stato a maggioranza musulmana, il 60% della popolazione, il governo indiano concesse al Kashmir una larga autonomia, fino allo scorso agosto, quando il Ministro degli Interni Amit Shah l’ha abrogata. L’articolo in questione non è stato eliminato per voto ma per decreto, e non vi è dubbio che quella del governo indiano risulti una delle scelte più tranchant dei sette decenni che hanno accompagnato la «spartizione», spesso non indolore, della regione himalayana tra la maggioranza islamica pakistana e la minoranza hindu proveniente dal subcontinente. Le ricadute sul piano politico e sociale, nonché sulla sicurezza interna, sarebbero in effetti enormi. In primis il Pakistan ha da subito condannato fermamente l’abolizione dell’autonomia costituzionale della regione, oggetto di contesa tra la Repubblica islamica e lo Stato federale indiano dalla fine degli anni ’40. «Il Pakistan eserciterá tutte le opzioni possibili per contrastare questo atto illegale» ha dichiarato il Ministro degli Esteri del paese in una nota sul sito ufficiale del Ministero, mentre il Ministro per i Diritti Umani Shireen Mazari in un tweet ha definito l’azione dell’India una "annessione illegale". In secondo luogo, il sotto-articolo 35a del testo revocato, definisce i diritti di accesso alla condizione di «residenti permanenti» nella regione, sancendo il divieto per gli indiani non nati nel Kashmir di trasferirsi in quello Stato e di possedere case e terreni. Secondo quanto scrive il Washington Post in un articolo del 13 agosto, per molti esperti questo provvedimento potrebbe portare grandi cambiamenti demografici all’interno della popolazione del Kashmir, aprendo di fatto alla possibilità da parte di tutti i cittadini indiani di stabilirsi nell’area. Per questo i critici del provvedimento hanno visto questa mossa come un tentativo da parte del governo di diluire la concentrazione di musulmani nell’unico Stato a maggioranza islamica. Inoltre, le violazioni sistematiche dei diritti fondamentali dei cittadini e le azioni coercitive dei militari del governo centrale creano sempre più dissenso nella comunità internazionale: quella che l’antropologa e reporter Saïba Varma, in un lungo articolo firmato per The Nation, ha definito come una pesante cappa repressiva denunciando l’imposizione di un blocco di sicurezza e il taglio di tutte le comunicazioni nella zona del Kashmir amministrata dall'India, una volta aver dispiegato 400,000 unità tra militari, paramilitari e forze militarizzate della polizia. “Amit Shah è famoso per le sue invettive piuttosto accese nei confronti degli immigrati musulmani: "il governo del BJP andrà a prendere questi infiltrati uno ad uno e li getterà nel Golfo del Bengala".”
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La rivista indiana The Wire ha attaccato il processo di “invisibilizzazione del paese e della popolazione” che mira ad una “guerra d’usura per domare il particolarismo di un territorio considerato troppo ostile all’India e rivolto al Pakistan”. Il reportage aggiunge inoltre che negli ultimi mesi “tutti i grandi leaders politici della regione sono stati incarcerati”. Ma la notizia più eclatante arriva forse da Londra: The Indipendent in un articolo del 4 settembre dichiarava che per la prima volta le autorità indiane hanno dovuto riconoscere che l’operazione in Kashmir non stesse avvenendo in modalità del tutto pacifiche. Un primo morto è stato ufficialmente dichiarato, un ragazzo di 18 anni; ma sarebbero almeno cinque, secondo The Guardian, i civili ad essere stati uccisi dalle forze dell’ordine in occasione della partecipazione a delle manifestazioni sporadiche. Un annuncio di grande risonanza che ha provocato nuove proteste e dai cui si è scatenata una più forte azione repressiva, che, come testimonia l’emissione televisiva satellitare qatariana Al Jazeera, si accompagna anche di arresti arbitrari e di atti violenti perpetrati dalla polizia e i militari. Il 20 gennaio l’Agenzia Nova ha inoltre annunciato l’uccisione di tre militanti dell’organizzazione filo-pakistana Hizbul Mujahideen in un conflitto a fuoco con le forze di sicurezza. Il National Register of Citizens Nello stesso periodo, avveniva il secondo grande atto dell’agenda nazionalista del BJP. Il 31 agosto 2019 il governo indiano ha pubblicato la versione finale del National Register of Citizens (NRC): una sorta di censimento dei cittadini dello Stato dell’Assam, al confine col Bangladesh, a cui il governo lavorava fin dal 2015. L’obiettivo, come dichiarato dalle stesse fonti ufficiali, era quello di individuare gli immigrati clandestini provenienti dai Paesi confinanti. 33 milioni di persone hanno dovuto quindi dimostrare di aver vissuto – loro stessi o la propria famiglia – in India da prima del 24 marzo 1971. Due giorni dopo, quello stesso anno, il Bangladesh dichiarava la propria indipendenza dal Pakistan. Circa due milioni di persone di persone sono rimaste fuori dalla lista, con il pericolo di perdere la cittadinanza e di conseguenza diventare a tutti gli effetti immigrati irregolari. Secondo quanto scrive la BBC, ciò può voler dire rischiare la detenzione o la perdita dei diritti civili. Come si legge dagli articoli di diverse testate internazionali, i due milioni rimasti fuori dalla versione finale avrebbero avuto quattro mesi per appellarsi ai “Foreigners Tribunal” – definiti dal New York Times come “tribunali opachi e semi-giudiziari, con una storia di discriminazioni” – per dimostrare la propria indianità. Pur essendo in teoria scaduto il termine ultimo dei quattro mesi, non ci sono notizie su quante persone siano state infine reinserite nella lista. Sul sito ufficiale del governo dell’Assam – guidato dal BJP - i due link che dovrebbero permettere la visione della versione finale del NRC non sono funzionanti e i comunicati stampa sul tema si fermano al 31 agosto. L’intera operazione del National Register of Citizens è stata vista da molti come “un tentativo per espellere milioni di musulmani, che compongono un terzo del Paese”, scrive Al Jazeera. Secondo la BBC invece quella dell’espulsione è un’ipotesi poco plausibile, in quanto il Bangladesh (da cui proviene la maggioranza degli immigrati nell’Assam) non accetterebbe una tale richiesta da parte dell’India, mentre è più probabile che si crei una grossa componente di popolazione apolide, senza diritto di voto. “Il Ministro per i Diritti Umani pachistano Shireen Mazari in un tweet ha definito l’azione dell’India una "annessione illegale".”
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Tra i fattori che avvalorano la tesi di un odio religioso alla base del NRC c’è l’alto livello di arbitrarietà con cui il censimento è stato portato avanti. Numerosi giornali e agenzie d’informazione, tra cui Al Jazeera, il Washington Post, il Guardian, il New York Times e Amnesty International, raccontano diversi esempi di famiglie in cui un solo componente è stato considerato irregolare. Secondo l’emittente indiano News18, legato alla CNN, tra gli esclusi figuravano anche i parenti di Fakhruddin Ali Ahmed, quinto presidente dell’India dal 1974 al 1977. “Il processo di determinazione della nazionalità dei Foreigners Tribunal - ha dichiarato Aakar Patel, fino a novembre 2019 direttore esecutivo di Amnesty International India, attraverso un articolo pubblicato dalla stessa organizzazione - è separato dalla realtà dei documenti in India. Molti indiani, in particolare quelli appartenenti alle comunità più povere e marginalizzate, non hanno documenti d’identità certificati o non sono in grado di procurarseli in tempo”. Nello stesso articolo si legge di Subrata Dey, un uomo morto in un campo di detenzione nel 2018 dopo che un Foreigners Tribunal non gli aveva accordato la cittadinanza a causa (secondo le dichiarazioni dei familiari) di un errore di battitura nei documenti. Ma al di là della disorganizzazione e opacità della burocrazia indiana, un’inchiesta portata avanti dalla giornalista Rohini Mohan e pubblicata su Vice News ha evidenziato una netta maggioranza musulmana tra i soggetti dichiarati immigrati irregolari dai Foreigners Tribunal. Mohan ha richiesto i registri degli ultimi sei mesi del 2018 a tutti i cento Foreigners Tribunal dell’Assam. Nonostante questi fossero obbligati per legge a consegnarli, solo cinque hanno inviato quanto reclamato dalla giornalista. Degli oltre 500 casi analizzati, quasi 9 imputati su 10 sono risultati essere musulmani. E mentre soltanto il 40% degli induisti venivano dichiarati immigrati irregolari, la percentuale saliva al 90% per gli imputati musulmani. Nel frattempo, secondo quanto si legge in un articolo del 17 agosto del New York Times, il governo locale sta “pianificando la costruzione di dieci nuovi campi di detenzione, con la capacità di contenere migliaia di persone”. Al settimo punto del manifesto elettorale del BJP, pubblicato in occasione delle elezioni del 2019, viene espressa l’intenzione di ampliare il sistema del National Register of Citizens ad altre zone dell’India.
Conclusione Il quadro generale che emerge dopo mesi di provvedimenti di ferro appare preoccupante agli occhi di molti osservatori, che giudicano seri i pericoli che i valori fondamentali dello Stato indiano starebbero correndo. Fra questi vi è Sashi Tharoor, un ex diplomatico indiano oggi parlamentare dell’Indian National Congress, principale partito d’opposizione. Intervistato da Fareed Zakaria della CNN, Tharoor è particolarmente critico dell’ultimo provvedimento del governo, il CAB: questo sarebbe profondamente in contrasto con l’idea originaria alla base della fondazione dello Stato indiano. Come ricorda l’ex diplomatico infatti, il movimento d’indipendenza indiano, in occasione della partizione del 1947, non si divise sulla base di una frattura ideologica o geografica, bensì su un altro principio fondamentale: se la religione dovesse essere o meno il fattore determinante della nazionalità.
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Coloro i quali ritenevano fosse così nel ’47 crearono il Pakistan. Gli altri invece, guidati dal Ma- hatma Gandhi, Nehru, e anche da leader musulmani come Mau- lana Azad e Bacha Khan, erano convinti che non fosse così e che la loro battaglia per l’indipendenza dovesse essere per tutti, di qual- siasi religione, spinti dall’idea di creare un’India libera per tutti. La stessa Costituzione del 1950, continua Tharoor, riflette questi principi di eguaglianza e non-dis- criminazione, garantendo ai pro- pri cittadini sia la libertà di cul- to che di propaganda religiosa. Il premier indiano gode di un notevole sostegno nell’elettorato indù, che lo ha sostenuto anche nelle scelte degli ultimi mesi. Bi- sogna però ricordare le grandi sfide che Modi si trova davanti: dare continuità ed ulteriore forza alla crescita economica indiana e riuscire a risolvere i problemi degli indiani, in particolare la povertà. Questi elementi saran- no determinanti per la valutazi- one del suo mandato e dunque per una sua rielezione. Bisogn- erà poi vedere quanto l’ideologia suprematista indù rimarrà cen- trale nella sua azione di governo. Per il momento però, viene difficile non guardare con preoccupazione l’India, constatando che neanche la più grande democrazia del mondo è im- mune al fenomeno di aggres- sione e indebolimento delle is- tituzioni liberal-democratiche che ormai non sembra più risparmiare alcun continente.
di Susanna Rugghia, Leonardo João Trento, Francesco Paolo Savatteri