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E ora costruiamo città a portata di mano
Pandemia e Società
E ora costruiamo città a portata di mano
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Rosanna Marina RUSSO
La città come un paese. Tante volte ho pensato, passeggiando per Napoli, a come sarebbe stato magnifico poter raggiungere la biblioteca o il cinema in pochissimo tempo e senza utilizzare i mezzi di trasporto. E quando è scoppiato questo quarantotto sanitario, mentre leggevo da più parti ”Saremo migliori”, io pensavo, invece “Ora cambieremo e in meglio le nostre città. Colmeremo il gap tra periferia e centro e tutto avrà un volto diverso”. Sei mesi fa lessi una interessantissima intervista fatta ad Alfredo Brillembourg che da venti anni si occupa di rendere vivibili le ba-20
raccopoli di tutto il mondo, nella quale l’architetto venezuelano ha espresso a gran voce questa urgenza: “È ora di riorganizzare le città” . Certo Brillembourg è e- sperto nella riorganizzazione urbanistica delle situazioni sociali più estreme, come gli slum, ma alcune idee, o se vogliamo visioni, nella sostanza sono valide dappertutto e per questo possiamo ritenerle universali. Il richiamo di Brillembourg è relativo alla pandemia, chiaramente, e al possibile ritorno di questa, visto che l’intervista è di aprile, ma anche a un pensiero rinnovato rispetto alla vivibilità di tutte le città.
Anche da noi, sia chiaro, qualcuno ha detto e indicato una mèta e sperato in un cambiamento radicale, ma ciò che è stato fatto è andato verso la direzione dello sperato e del detto?
Riorganizzare, dunque. Avremmo dovuto cominciare a farlo questa estate, avremmo dovuto prepararci quando la morsa del Coronavirus si era leggermente allentata. Avremmo dovuto studiare quello che sapevamo e proiettarci oltre col pensiero. Avremmo dovuto. Ma non lo abbiamo fatto e, invece, siamo andati in vacanza, mentre il virus ci aspettava silente.
E ora bisogna correre ai ripari, rendendo funzionale quello che non funziona, modificando ciò che è possibile modificare e soprattutto rivolgendo sulle cose esistenti uno sguardo diverso. Perché se osservi il mare di notte sei pronto a giurare che sia nero. E allora costruisci lampade e ti chiudi in casa, perdendo la possibilità di navigare. Intendiamoci, non è che non sia stato fatto alcunché . Sono stati erogati dei fondi e prorogate le misure di contenimento al contagio con i vari Dpcm e sono stati compilati interi dossier come quello redatto dal Ministero della Salute per la “evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-inverno”. Anzi, si è scritto molto. Massimo Cacciari ha parlato addi-
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rittura di “delirio normativo”.
Ma una visione globale del problema e delle possibili soluzioni non c’è stata, né da parte del governo, né da parte delle regioni. E se gli esperti avvertivano sulla probabilità del contagio di ritorno (non in maniera unanime, purtroppo), probabilmente molti non ne erano convinti.
Il 30 maggio scorso il CNEL ha discusso sulla mobilità e sui tempi della citta. E in quella sede, durante i lavori della Consulta nazionale per la sicurezza stradale e la mobilità sostenibile, Gianpaolo Gualaccini, presidente della Consulta, nel suo intervento ha detto: ”Bisogna superare la fase emergenziale e strutturare i cambiamenti per arrivare preparati alla ripresa, a settembre”. Ripeto: ripresa a settembre.
E il governo, dunque, in sintonia con le deliberazioni del CNEL, ha spinto la sua azione verso la ripresa del Paese senza prepararsi alla seconda ondata della pandemia. Non ha programmato, quindi, cambiamenti strutturali dell’organizzazione sociale perché non credeva in un’ondata di ritorno o, forse e anche, per specifiche incomprensioni tra le forze politiche al suo interno. Questa decisa indeterminatezza ha regolato, per così dire, il traffico, ma non ha inciso sugli stili di vita, non ha spostato di un millimetro l’impianto dell’organizzazione sociale, non ha cambiato percorsi né modalità e, dunque, ci ha allontanati dal mantra governativo: ”dobbiamo convivere col virus”.
Invece sarebbe stato fondamentale riadattare il territorio alle attuali e future esigenze, rivoltando le zolle, per così dire, visto che questa non è una piccola contingenza, ma una giuntura critica che traccia un solco tra il prima e il dopo e che non ci permette di perdere tempo, ma che ci obbliga a studiare velocemente la rotta da prendere. Ora dobbiamo ottimizzare quello che c’è per creare al più presto un mo-
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dello cittadino che riduca la possibilità di contagio e in più ci preservi da altre possibili situazioni pandemiche.
E per ripartire molte cose le sappiamo.
Sappiamo quali sono i principali luoghi di esposizione al contagio, quali settori vanno ancora migliorati e ci è ormai chiaro ciò che ha ufficializzato il Commissario Arcuri nelle conferenza stampa del 29 ottobre: “l’80% dei contagi avviene in famiglia”. Intendendo con questo che la mobilità e i contatti sono da tenere sotto controllo.
Conosciamo le difficoltà incontrate dal nostro sistema sanitario nel periodo peggiore della pandemia e gli interventi per contenere il contagio nelle strutture ospedaliere, per tutelare medici e infermieri, per aumentare i posti Covid ordinari e di terapia intensiva.
A questo proposito va detto, però, che forse sarebbe opportuno iniziare a recuperare un rapporto equilibrato tra sanità pubblica e privata. Negli ultimi anni si è assistito a una crescente riduzione della sanità pubblica nei confronti di quella privata, con una perdita di efficienza apparsa lampante nei momenti di maggiore crisi. Sintomatico il confronto tra il caso lombardo (privato al 30%) e quello veneto (privato al 10%). Bisogna assolutamente razionalizzare il sistema ospedaliero nel segno della flessibilità e creare una rete costituita da team di operatori sanitari selezionati e formati per le diagnosi veloci a domicilio e dai medici di base per la cura dei pazienti non gravi. In questo modo la medicina territoriale riavrebbe il suo ruolo di cura, divenendo filtro tra malati e ospedali .
E, continuando nella disamina generale, abbiamo visto lo sforzo che c’è stato, sia da parte del governo, sia da parte delle Regioni (chi più chi meno, ma questa è
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un’altra storia) per la creazione di particolari modelli procedurali in ambito assistenziale nelle RSA. Ma si potevano forse già creare delle social housing dove mettere in connessione minialloggi per anziani ed alloggi per famiglie o badanti, meglio ancora se con servizi centralizzati, concedendo, ovviamente, facilitazioni e sussidi per chi fosse stato disponibile all’aiuto. Comunque è da rivedere il sistema delle RSA , garantendo maggior protezione in collegamento con le strutture sanitarie e instaurando rapporti organici e più stretti con le famiglie.
In realtà il ministro Speranza ha avviato adesso un percorso del genere, cioè la revisione del sistema dell’assistenza agli anziani, affidando a Monsignor Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, il coordinamento di una Commissione dedicata a questo tema. I componenti si sono già riuniti il 28 settembre e il 3 novembre. Nella prima relazione si legge: “C’è bisogno di farsi prossimi alle case, ai quartieri, alle città: dagli infermieri di quartiere ai medici di famiglia, dagli assistenti sociali ai fisioterapisti, dagli educatori di ogni ordine e grado sino alle farmacie e alle realtà del quartiere e agli stessi istituti”. Ricordiamo che monsignor Paglia, dopo lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio, ha invocato la chiusura delle case di riposo.
Sappiamo ancora che nella scuola è essenziale poter rimodulare, dilatare e differenziare i tempi. E che si può fare molto senza investire grosse risorse. Come istituire, per i piccoli, delle zone specifiche per salutare i genitori, sullo stile delle kiss&fly, come supplire alla carenza di personale, in fase emergenziale, chiamando ,a sostegno e senza obbligo, i ragazzi dell’ultimo anno del liceo pedagogico e gli universitari, come utilizzare i supplenti annuali a disposizione delle scuole assegnandoli non alla singola classe, con la possibilità, quindi, di spostarli dove c’è bisogno, come fruire di spazi esterni messi a disposizione dal comune con tenso-
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strutture sullo stile di quelle impiegate per i ricevimenti.
E, alla voce “lavoro”, laddove ci sia lo Smart o il coworking è imprescindibile regolarizzare tempi e modi, mentre dove è impossibile produrre se non in presenza bisogna provvedere a sostituire le mense con spazi per piccoli gruppi e a limitare incontri tra operai e impiegati costituendo dei team fissi (qualcuno l’ha fatto) .
Sappiamo, infine, che nelle grandi conurbazioni la forte affluenza di persone nella rete dei trasporti pubblici favorisce la diffusione del virus, per cui anche qui vanno previsti nuovi modelli organizzativi del trasporto pubblico e pubblico-privato già in uso in altri paesi (scaglionamento orari, car sharing, ecc...).
Ebbene, tutto ciò che ormai sappiamo può portarci verso una “visione” che tenti di considerare le diverse problematiche nel suo insieme?
Io credo di sì e mi ricollego alle parole di monsignor Paglia e al concetto di prossimità perché è un’idea che accosta il passato al futuro e che risponde all’esigenza del cittadino di avere tutti i servizi a portata di mano per utilizzare al minimo i trasporti pubblici e ci proietta in una “città dei 15 minuti”, come immaginata e in parte realizzata dalla sindaca Hidalgo che ha rivisitato radicalmente la cultura della mobilità. Parigi si sta rimodellando così che gli abitanti soddisfino tutti i loro bisogni (lavoro, shopping, cultura) entro 15 minuti dalla propria abitazione.
Perché la lezione di questo tornado pandemico è proprio questa: la pianificazione urbana deve sincronizzare spazi, tempi e movimenti. Dobbiamo ritornare a quel maggio francese a cui la Hidalgo evidentemente si ispira, a quell’idea di miglioramento del contesto di vita, a quel situazionismo che fece della psicogeografia una delle bandiere.
Ma anche non volendo emulare la Hidalgo bisogna prevedere nuove tipologie ur-
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banistiche ed edilizie al fine di rendere le nostre città inclusive e resilienti nell’affrontare future crisi, smantellando il format centro/ periferie e concentrandoci sulla multifunzionalità degli edifici.
Sempre Brillembourg è riuscito a costruire delle “palestre verticali” che in periodi tranquilli sono luoghi di culto o spazi di ricreazione o di sport; ma nei periodi di crisi il tetto si trasforma in una pista di atterraggio per elicotteri da soccorso e l'intero edificio diventa un centro di emergenza o un punto di distribuzione di viveri e medicine.
Possibile che da noi non si possano organizzare semplici strutture multifunzionali in punti strategici degli insediamenti? Possibile che non si possano rendere autosufficienti piccoli agglomerati cittadini in modo da permettere agevoli spostamenti e non faticose avventure ?
Solo in questo caso ha senso sponsorizzare l’uso dei monopattini e delle biciclette, se cioè l’uso di questi mezzi è funzionale non solo alla semplice passeggiata, ma a sbrigare le normali attività quotidiane.
Quello che ora serve non è più il presto e lontano, ma che la città diventi paese e ci appaia come Anastasia di Calvino “un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte”.
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