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Pandemia e Cultura L’arte al tempo del Covid
Pandemia e Cultura
L’arte al tempo del Covid
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Isabella RAMELLA
“Questi nostri bravi artisti che ci divertono tanto…” con questa frase il nostro Premier Giuseppe Conte, pur non volendo, e proprio perché non volendo, non sembra confinare le arti nel concetto di spettacolo e i suoi fruitori in quello di semplici spettatori di un evento? E se è lui, indiscutibilmente uomo di cultura, a pronunciarla in questo momento storico, stretti nella morsa della pandemia, ecco che forse noi tutti dovremmo interrogare più a fondo il nostro pensiero. Il DPCM del 16 ottobre giustamente lascia aperte le attività essenziali, volte a soddisfare i nostri bisogni primari, mentre tra i primi a esser chiusi sono i teatri, i cinema, i musei tanto che sembri “quasi” che l’operare artistico rientri nel novero delle atti-
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vità “inessenziali“. Di certo questi luoghi favoriscono quegli assembramenti che vanno assolutamente contenuti tuttavia, senza voler stigmatizzare la disposizione presidenziale, ci si potrebbe chiedere quanto questa scelta di chiusura drastica e rapida si fondi sulla sotterranea convinzione “dell’inessenzialità” delle arti, potendosi esse considerare mero intrattenimento. Di colpo dentro di me si è riaffacciata un’antica questione collegata al mio vissuto e mi trovo a ricordare gli sguardi di mia madre e di mio marito e i loro sorrisi indulgenti quando tiravo fuori l’attrezzatura per dipingere. Dedicarmi a quell’attività significava togliere spazio ai figli, alla famiglia e al lavoro vero, ma loro che mi amavano lo tolleravano pensando che servisse a rilassarmi. Così mi sentivo una ladra quando prendevo il cavalletto e ci sistemavo sopra la tela mettendo un po’ più in alto i colori in modo che le bambine, che mi giocavano intorno, non potessero arrivare a toccarli: mi accingevo a dedicarmi all’inutile, ad un’attività “inessenziale”. Come potevo riuscire a spiegare cosa in quei momenti mi esaltava e che pure nel profondo mi inquietava? Nessun rilassamento, quindi, e nessun divertimento, anzi, tutt’altro. Vorrei allora offrire uno spunto alla riflessione su questi temi. Negli ultimi giorni la commozione collettiva per la morte improvvisa di un grande attore comico sembra riassumere in sé tutto il dolore di questi tempi luttuosi e si piange per la morte di un artista che attraverso la sua opera ci ha fatto sorridere. Com’è possibile dunque che un’opera ritenuta un puro svago generi una mancanza tale da riunire nella commozione un popolo intero? In questa contraddizione fa capolino la dimensione “inquietante” che sempre l’arte reca in sé: essa ci scuote nel profondo assecondando il nostro bisogno di sbirciare nel fondo oscuro della nostra esistenza, dove dunque ha pari voce in capitolo di quelle attività considerate essenziali. Lo sforzo dell’artista che attraverso la sua opera dà voce alla propria anima induce chi l’osserva e resta coinvolto a intraprendere lo stesso viaggio interiore, portando alla luce le sofferenze
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nascoste di cui forse così si possono sciogliere i nodi. La comunicazione districa l’irrisolto interiore, la comunicazione è guarigione. A quanto pare, allora, ci sono saperi inutili che si rivelano di straordinaria utilità e che talvolta ci fanno intravedere l’inutilità dell’utile, come ci spiega il noto letterato Nuccio Ordine nel suo pregevole saggio. Concludo raccontando un episodio che trovo sempre di commovente bellezza e che mi sembra racchiudere in sé il messaggio che vorrei far arrivare al lettore. Anni fa il Maestro di origine israeliana Daniel Baremboim, uno dei maggiori direttori d’orchestra viventi e coraggioso fautore del dialogo con i Palestinesi, tanto da aver dato vita ad un’orchestra giovanile composta in pari numero da musicisti israeliani e palestinesi, nel corso di una trasmissione televisiva raccontò che qualche tempo prima aveva visitato un campo di profughi palestinesi dove, com’è facile immaginare, si viveva in condizioni pietose mancando innanzitutto generi di prima necessità. Il Direttore si impegnò personalmente a far giungere al più presto congrue derrate alimentari, ma alla fine del suo discorso fu sorpreso dall’intervento di un uomo che, con tono cortese e fermo, disse: “Maestro, noi le siamo sinceramente grati per la sua premurosa generosità, ma le facciamo rispettosamente notare che il cibo non si nega neppure agli animali. Se invece vuol trattarci da uomini ci porti musica.”
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