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Vaccini ‘privati’ e pubblici contagi
Pandemia e Business
Vaccini ‘privati’ e pubblici contagi
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Giovanni AIELLO
Presto arriveranno i vaccini anti-coronavirus. L’emergenza globale favorisce un business multimiliardario per le poche compagnie produttrici, mentre aumentano le incertezze per i compratori: ovvero i governi di tutto il mondo.
A tenere banco sui giornali, in queste ultime settimane, sono in prevalenza le tecniche utilizzate per realizzare i vaccini contro il Coronavirus, l’affidabilità della sperimentazione, la risposta immunitaria delle persone, il numero di dosi disponibili, i prezzi, le date di consegna e finanche i frigoriferi per conservare questi farmaci. Si tratta naturalmente di questioni tutte più che legittime, per le quali una risposta dei tecnici è quanto mai necessaria ed urgente.
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I vaccini in Italia
Quanto alle tecniche sappiamo che sono due. Una inedita, basata sul mRNA, che contraddistingue i vaccini messi a punto dalle multinazionali Pfizer/Biontech e Moderna, e l’altra, più tradizionale, che sfrutta un adenovirus, e viene usata invece dal gruppo AstraZeneca.
Nel primo caso, per mezzo del vaccino, viene trasmessa alle cellule sane una particolare sequenza di geni del coronavirus (denominata ‘spike’, ovvero chiodo, proprio perché è quella che permette al virus di accedere), che sebbene non possa procurare da sola l’infezione, è in grado comunque di sollecitare la produzione degli anticorpi, in modo che di fronte ad una reale minaccia di contagio le cellule in seguito sapranno immediatamente riconoscere l’invasore e quindi respingerlo.
Nel secondo caso invece, l’adenovirus (un virus comune che causa abitualmente il raffreddore e che il nostro organismo già conosce) viene ibridato con una parte di coronavirus, stimolando quindi una reazione del sistema immunitario nei confronti di entrambe le infezioni.
L’efficacia di quest’ultimo approccio, che si basa su un virus preformato, si preannuncia leggermente inferiore (90%, contro il 95% del metodo con mRNA), ma non presenta ad esempio quei difficili problemi legati alla cosiddetta “catena del freddo” caratteristici del vaccino Pfizer/Biontech, che infatti va conservato a -75 gradi. Da qui le discussioni sui problemi logistici cui accennavamo in apertura (una parte di questi costosi ultra-congelatori sarà prodotta anche in Campania dalla Pluris, un’azienda che fa capo ad un gruppo statunitense ma che ha sede nel comune di Nusco), visto che questo farmaco, l’unico per ora ad essere entrato nella III fase di sperimentazione, sarà il primo ad arrivare in Italia all’inizio del 2021 con circa 27
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milioni di dosi, sufficienti quindi per 14 milioni circa di cittadini (è necessaria una doppia inoculazione) appartenenti alle fasce più esposte.
I segreti delle Big Pharma
Ma al di là delle soluzioni in senso strettamente farmacologico, certamente attese, ancorché più o meno collaudate, poco si parla invece delle cosiddette Big Pharma coinvolte in questa sorta di gara scientifica per miliardi di dosi di farmaco, che mette in palio un “montepremi” con cifre da manovra finanziaria di governo, e soprattutto anni di preminenza strategica per il vincitore o i pochi vincitori che si assicureranno i brevetti e i contratti per la fornitura dei vaccini in tutto il mondo (visto che per vaccinare massivamente occorreranno almeno 12-18 mesi, e potrebbero rivelarsi necessarie più campagne vaccinali successive).
A tal proposito, risulta sufficiente in questa sede accennare ad esempio alla storia della società più grande e nota tra quelle interessate, ovvero l’americana Pfizer, per mettere già in fila quasi tutte le circostanze e le contraddizioni che sono alla base del più amaro degli interrogativi: è accettabile che per gestire un’emergenza sanitaria mondiale, che investe la politica, l’economia, le abitudini sociali e le prospettive di intere popolazioni, si debba ricorrere ad aziende che, per mestiere, vendono prodotti farmaceutici, e che applicano quindi alla salute di tutti la cinica legge della domanda e dell’offerta (o se preferiamo, il principio costi-benefici)?
Il grande gruppo fondato da Charles Pfizer a New York oltre 150 anni fa ha naturalmente tutte le carte in regola, dal punto di vista puramente operativo, per occuparsi di questa ricerca. Ma con un fatturato di oltre 50 miliardi di dollari e circa 100mila dipendenti, c’è anche il rischio che si senta un po’ troppo sicuro di sé. E non sorprenda quindi se la distribuzione del vaccino (proprio mentre vi scriviamo
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stanno decollando i primi voli della United Airlines con destinazione Bruxelles) sia iniziata addirittura senza attendere il definitivo placet della competente autority statunitense, la potentissima Food and Drug Administration.
Ed infatti, a riprova di questa politica per così dire self confident, le vicende della Pfizer, come verrebbe facile immaginare anche ai meno smaliziati, sono spesso rimbalzate dai grandissimi successi commerciali di prodotti come il Viagra o lo Xanax, fino a cause con risarcimenti miliardari a carico del gruppo, come accaduto nel 2009 per la pratica della cosiddetta vendita off-label (fuori-etichetta) di farmaci quali ad esempio il Bextra (un antinfiammatorio) e lo Zyvox (un antibiotico). Si trattava (e parliamo al passato per professare un dovuto ottimismo) di indurre i medici a prescrivere questi ed altri farmaci anche al di là del loro preciso spettro di u- tilizzo, per patologie e in dosi diverse da quelle previste dalla legge. L’obiettivo era quello di ampliarne ovviamente la diffusione, in totale spregio dei rischi e degli effetti sui pazienti.
Sarebbe davvero lunga la lista delle cause e delle accuse nei confronti della Pfizer (anche per sperimentazione illecita sull’uomo, in un processo ancora in corso). Ma non serve elencarle tutte per comprendere comunque l’esigenza di un diverso equilibrio per la salute globale, sospesa fra le urgenze, come quella anti-contagio attuale, e una visione di lungo periodo tutta da ridefinire.
E guarda caso, proprio il CEO di Pfizer, Albert Bourla (un cognome che evoca scherzi inattesi), pare si prenda gioco del buon affidamento del pubblico, quando sceglie di vendere oltre il 60% delle sue quote aziendali per un valore vicino ai sei milioni di dollari, giusto nel mentre, all’inizio di novembre, si annuncia l’efficacia altissima del suo vaccino, e contemporaneamente le azioni registrano un picco di crescita del 10,6 %. Quasi volesse egli stesso ricordarci inconsciamente la portata
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macroscopica degli interessi in ballo e delle implicazioni finanziarie, salvo poi negare pubblicamente ogni intento speculativo, sia suo che della compagnia.
E analoga sensazione di sconcerto suscitano in tal senso anche le parole del direttore medico di Moderna, Tal Zaks, il quale sul sito Axios ha affermato che “Bisogna stare attenti a non sopravvalutare i risultati. Quando inizieremo la distribuzione non avremo dati concreti sufficienti per dimostrare che questo vaccino riduce la trasmissione”. E lo ha fatto esattamente in concomitanza con l’accordo firmato dalla sua azienda con la Commissione Europea per una fornitura che potrebbe arrivare potenzialmente fino a 160 milioni di dosi.
Le scelte dei compratori: la UE e gli altri
Forse per via di questo clima di incertezza diffusa “Sono lieta che la Commissione abbia finora concluso sei accordi relativi al vaccino”, ha affermato Stella Kyriakides, Commissaria europea per la Salute e la sicurezza alimentare. “Questo traguardo - ha proseguito - è una prova tangibile di che cosa rappresenti in concreto l'Unione europea della salute”. Le intese infatti, in attesa delle autorizzazioni che arriveranno dall’Ema (l’autorità di controllo europea), oltre all’americana Moderna riguardano, come si accennava, il gruppo anglo-svedese AstraZeneca e il binomio Usa-Germania costituito da Pfizer/Biontech, ma anche la joint franco-britannica Sanofi-GSK, l’azienda belga Janssen Pharmaceutica NV e ancora la tedesca Cure- Vac. “Stiamo realizzando un portafoglio di vaccini contro la COVID-19 tra i più completi al mondo”, ha confermato in proposito anche la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, a riprova di quanto potrebbe rivelarsi importante questa diversificazione in caso di parziale efficacia di alcuni farmaci.
Una scelta questa, che in una fase così critica ed improvvisa (al netto di tutte le in-
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certezze riguardo le vere cause di questa pandemia, sulle quali è ancora in corso l’indagine dell’OMS), potrebbe probabilmente rivelarsi come una soluzione premiante. Ma non di certo una soluzione per tutte le tasche. Visto che l’approvvigionamento dei vaccini ha dei costi altissimi (dai 2,80 euro a dose di A- straZeneca, fino ai 20-30 dollari a dose per Moderna), e sono molti i governi, ad esempio dell’Africa e del Sud Est asiatico, tagliati completamente fuori dalle negoziazioni. Ecco perché la Commissione europea ha già raccolto quasi 16 miliardi di euro nell’ambito della “risposta globale al coronavirus”, e parteciperà con 400 milioni ad uno strumento dell’OMS denominato COVAX, per offrire un accesso equo ed universale ai test, alle cure e naturalmente ai vaccini, da fornire a prezzi contenuti. Ma se da un lato ciò rappresenta una garanzia ulteriore, visto che “nessuno sarà sicuro fino a quando non lo saremo tutti”, come riportato nella pagina ufficiale della Commissione, dall’altro rimarca una volta di più le distanze fra i paesi “ricchi” e il cosiddetto secondo e terzo mondo, ancora in attesa del benefattore di turno. Su questo stesso terreno si gioca anche la partita di Cina e Russia, e finanche dell’India, che potrebbero proporzionalmente rinforzare il loro potere d’influenza nelle rispettive aree di interesse strategico, assicurando scorte dei propri vaccini ai paesi più a basso reddito. Naturalmente i cinesi sono in vantaggio, attesa la loro o- ramai proverbiale capacità produttiva. Ma Pechino è in grado anche di fornire direttamente la tecnologia per la produzione del farmaco, come ha già fatto con grandi paesi quali Brasile e Messico.
Possibili prospettive
Alla luce di questo scenario, in cui l’emergenza sanitaria mondiale, piuttosto che avvicinare i governi, sembra accentuare ulteriormente le disuguaglianze, rimane dunque da capire quali sono le possibili alternative, per ambire ad una graduale
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transizione verso una politica globale della salute sempre più slegata dai mercati, più trasparente e condivisa, basata sulle indicazioni provenienti ad esempio dal cosiddetto modello “One Health” (secondo il quale la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente va trattata unitariamente), peraltro già accolto dall’Istituto superiore della sanità, dall’Unione europea e da altri organi internazionali. Importanti organizzazioni senza scopo di lucro, come la HAI (Health Action International), che si occupa da quarant’anni di accesso ai farmaci essenziali e di uso responsabile della medicina, e la CI (Consumers International), che dal 1960 rappresenta agenzie di consumatori appartenenti ad oltre 100 diversi paesi per promuovere legislazioni che rispettino i diritti dei consumatori sanciti dalle Nazioni Unite, anche nel campo del farmaco, hanno sicuramente già tracciato una strada da seguire, insieme a realtà quali Médecins Sans Frontières ed Emergency.
Ma per superare le attuali condizioni e le minacce provenienti da quello che la studiosa di psicologia sociale Shoshana Zuboff, professoressa all’università di Harvard, ha individuato come il “capitalismo della sorveglianza” (nel quale l’individuo è ridotto ad oggetto digitale di osservazione per fini commerciali da parte dei colossi del digitale, che gestiscono i big data - nel nostro caso relativi ai numeri del contagio - in una logica sempre più asimmetrica e predatoria), dobbiamo ripartire proprio dal diritto. Servono - sempre secondo la Zuboff - fondamenti costituzionali più aggiornati, che riescano a porre limiti realmente efficaci alle nuove forme di controllo e di potere economico, di cui, come abbiamo visto, anche gli attori impegnati oggi nel contrasto alla pandemia possono diventare una chiara e- spressione.
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