11 minute read

Pandemia e Storia Su alcune pandemie degli ultimi cento anni. Parte prima

Pandemia e Storia

Su alcune pandemie degli ultimicento anni. Parte prima

Advertisement

Giovan Giuseppe MENNELLA

La pandemia più famosa degli ultimi cento anni, e anche la più grave della storiadel Mondo, è stata la cosiddetta influenza “spagnola” che infuriò giusto un secolofa, dalla primavera del 1918 alla fine del 1919.

57

Finora non si sono trovate sicure evidenze scientifiche sulla sua origine e sul suo sviluppo. Ancora oggi non ci sono certezze sulla natura biologica dell’agente patogeno, probabilmente un virus. Peraltro, allora si pensò a un batterio, in quanto un secolo fa i virus si conoscevano appena e non erano stati studiati a sufficienza. Sono state affacciate varie ipotesi sul luogo e la modalità di inizio dell’infezione Lo storico statunitense Alfred W.Crosby fa risalire l’eziologia del virus a un salto di specie tra animale e uomo (il cosiddetto “spillover”) avvenuto nello Stato del Kansas, contea di Haskell, dove nel gennaio 1918 il medico locale avvertì immediatamente il servizio sanitario nazionale della presenza di una grave forma di malattia respiratoria. In quella zona erano presenti allevamenti di anatre domestiche. I simpatici animali da cortile probabilmente dovevano avere avuto contatti con anatre selvatiche che incubavano il virus aviario. Il salto di specie del virus dal mondo animale a quello umano dovette avvenire tra le anatre domestiche e qualche allevatore, magari attraverso piccole ferite presenti prodottesi dagli uomini macellando le anatre. La casualità, che ha spesso un ruolo importante nel verificarsi delle vicende storiche, ci mise lo zampino. Infatti, in quel periodo, gli Stati Uniti partecipavano alla Grande Guerra a fianco delle Potenze dell’intesa. Quindi, le autorità militari chiamavano alle armi i giovani di alcune classi di età e li raccoglievano in campi militari di addestramento. Naturalmente, la fortuna, avversa per le sorti del mondo di allora, volle che tra i reclutati ci fosse Albert Gitchell, proveniente da quella contea di Haskell nel Kansas che intanto stava incubando la zoonosi virale. Il ragazzo fu assegnato al campo militare di Fort Riley, come addetto alla distribuzione del rancio. I commilitoni gli passavano davanti e entravano in contatto con il suo respiro e anche con le goccioline emesse dalla tosse. Il 4 marzo 1918 la malattia respiratoria di Gitchell divenne

58

evidente e fu diagnosticata. Gitchell fu il primo caso e la prima vittima di quella influenza. Ben presto in quel campo di addestramento si verificarono 522 casi di influenza respiratoria, alcuni gravi e con qualche vittima. Entro l’11 marzo il virus aveva raggiunto il quartiere Queens di New York. Successivi movimenti di truppe, dettati dalle esigenze militari, trasferirono il contagio in altri campi. Se non ci fosse stata la guerra e l’intervento degli Stati Uniti, probabilmente il virus sarebbe rimasto confinato nelle praterie del Medio Ovest degli Stati Uniti. Intanto le truppe americane continuavano a essere trasferite in Europa, portando la malattia respiratoria nelle trincee del Fronte occidentale. Nell’agosto 1918 un ceppo più virulento fece la sua comparsa a Boston, a Brest, porto francese in cui sbarcavano le truppe americane e a Freetown in Sierra Leone. Era chiaro che il virus andava serpeggiando soprattutto sulle navi militari, per cui la malattia ormai stava varcando gli oceani e veniva sbarcato anche sul Vecchio Continente, ma dato che la guerra era nella fase decisiva, i movimenti militari e quelli connessi ai rifornimenti non si potevano fermare. Le condizioni estreme di disagio, sporcizia, umidità che si vivevano nelle trincee del Fronte Occidentale, tra la Francia e il Belgio, favorirono la proliferazione della malattia. Fu quella, della primavera del 1918, la prima ondata, che dalle trincee, con i soldati che tornavano a casa in licenza o negli ospedali nelle retrovie e nelle città, andò espandendosi anche nella popolazione civile. Questa ipotesi eziologica della pandemia è stata ritenuta quella più probabile anche in una recente puntata del programma televisivo Sapiens, in onda su Rai 3, a cura del geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi. In questa prima fase, primavera del 1918, i casi e la mortalità non furono elevatis-

59

simi, ma comunque le autorità militari e civili imposero ugualmente la censura sulle notizie, sia per non favorire il nemico tedesco e austriaco, presso cui la malattia si stava pure espandendo, sia per non compromettere la tenuta del morale dei civili del fronte interno. Le notizie sulla malattia furono pubblicate solo sulla stampa della Spagna, che, essendo una delle poche Potenze neutrali d’Europa, non aveva un immediato interesse a censurare le informazioni. Perciò la malattia fu definita negli organi di informazione di altri Paesi “influenza spagnola” e con questo nome passò alla Storia. Tuttavia sono state formulate anche numerose altre ipotesi sull’eziologia della pandemia. Secondo il virologo londinese John Oxford, la malattia sarebbe iniziata in un campo militare e ospedale a Etaples, nelle retrovie del Fronte francese, attraverso uccelli selvatici che avevano infettato i maiali la cui carne era utilizzata per l’alimentazione delle truppe. Secondo Claude Harroun, ricercatore dell’Istituto Pasteur, il virus sarebbe arrivato negli Stati Uniti dalla Cina e sarebbe mutato in un ceppo più pericoloso a Boston, per essere poi diffuso in Europa e nel mondo attraverso il porto francese di Brest, utilizzando come diffusori inconsapevoli i soldati e i marinai dell’Intesa. Invece, lo scienziato Andrew Price Smith studiò e pubblicò dati provenienti dagli archivi austro-ungarici e ipotizzò che l’influenza avesse esordito in Austria fin dall’inizio del 1917. Lo storico Mark Humphries dell’Università del Canada, basandosi su documenti da lui rinvenuti nel 2014, ha ipotizzato che l’origine della pandemia sia da identificare nella mobilitazione di 96.000 lavoratori cinesi, chiamati a prestare servizio dietro le linee britanniche e francesi sul Fronte Occidentale, che vi avrebbero diffuso una malattia respiratoria che aveva già colpito la Cina dal novembre 1917 e che

60

l’anno successivo sarebbe stata ritenuta simile all’influenza spagnola dai funzionari medici cinesi. Tuttavia, in un rapporto pubblicato nel 2016 sul giornale dell’Associazione medica cinese, si afferma che non sono state rinvenute prove della diffusione della malattia in Europa da parte di soldati e operai cinesi, non esistendo riscontri certi della circolazione del virus negli eserciti europei prima dello scoppio virulento della primavera del 1918. Però, considerando la poca trasparenza dimostrata dalle autorità cinesi nel fornire informazioni sull’inizio della attuale pandemia da coronavirus, è lecito non avere troppa fiducia sull’attendibilità del report cinese del 2016. Nell’estate del 1918 si verificò una diminuzione e quasi una scomparsa dei casi. Sembrò che il morbo se ne stesse andando, in punta di piedi così come era venuto. Periodo che, con il senno del poi, può essere considerato assai simile a quello che si è vissuto in relazione al nuovo coronavirus in questo sfortunato anno 2020, tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno. Una seconda ondata si verificò all’inizio dell’autunno del 1918 e fu molto più grave della prima, andando a danneggiare anche molte operazioni militari degli eserciti, proprio nel periodo decisivo della guerra, tra cui l’offensiva tedesca sul Fronte occidentale alla fine dell’estate di quell’anno. La maggiore gravità fu dovuta a una mutazione del virus, in concomitanza con la particolare situazione determinata dalla guerra. Cioè, mentre in un periodo di pace i malati più gravi sarebbero stati isolati e quelli leggeri avrebbero continuato a circolare, contribuendo a diffondere solo la variante leggera della malattia, viceversa, nel corso dell’emergenza bellica, furono i malati più lievi a rimanere lontani dalla popolazione perché trattenuti a combattere nelle trincee, mentre quelli più gravi e- rano inviati nelle retrovie, negli ospedali da campo e negli agglomerati urbani, contribuendo al proliferare presso la popolazione civile del ceppo più grave.

61

Un’altra ragione della maggiore gravità della seconda ondata dell’autunno 1918 fu determinata dalla circostanza che i malati venivano curati con più sollecitudine e attenzione, ma purtroppo con gli unici sistemi allora disponibili, che rivelarono nella migliore delle ipotesi inefficaci, ma spesso anche controproducenti. Infatti, si tentò spesso di inoculare un vaccino, di nuova scoperta, elaborato per infezioni polmonari batteriche, che non ebbe efficacia o aggravò ulteriormente le condizioni dei malati. Si ricorse a cure ritenute valide per infezioni batteriche in quanto il virus respiratorio produceva in molti casi una polmonite batterica secondaria opportunista che costituiva solo l’evoluzione finale della sindrome. Anche le cure con dosi eccessive di aspirina non fecero altro che accelerare gli esiti letali per molti malati, causando soprattutto edema polmonare. Inoltre oggi si è compreso che moltissimi casi furono aggravati da un eccesso di reazione immunitaria dell’organismo, soprattutto un soggetti giovani, che determinava un aumento di processi infiammatori, la cosiddetta “tempesta citochimica”. Nella seconda ondata si riscontrò un alto tasso di letalità anche nella fascia dei pazienti di età compresa tra i 20 e i 40 anni, forse determinata da una suscettibilità al male legata all’esposizione infantile di quelle classi a precedenti epidemie virali, quelle di un virus H3N8, che aveva circolato negli anni dal 1889 al 1900. Inoltre, nei giovani si verificava spesso la tempesta infiammatoria citochimica, di cui si è detto, fenomeno di cui si è parlato molto anche nella prima fase della attuale pandemia da nuovo coronavirus SARS Covid 19. Viceversa, potrebbe essere stato minore il tasso di letalità in alcune popolazioni e- sposte a precedenti influenze similari H1. La mortalità potrebbe essere stata erroneamente sovrastimata anche perché la mortalità per altre malattie respiratorie, quali polmoniti semplici batteriche e tubercolosi, dipendenti da fattori diversi, non era allora distinguibile da quella dipendente

62

dall’influenza spagnola. Infatti, non erano stati scoperti i farmaci antibiotici e antivirali che avrebbero consentito guarigioni da polmoniti batteriche e da tubercolosi, contribuendo a diminuire in modo importante il conteggio dei morti per Spagnola. Il problema di stabilire l’inizio, la durata e la fine della pandemia presenta aspetti tuttora abbastanza problematici. Vari studi indicano l’origine della pandemia “spagnola” in influenze virali sviluppatesi sui fronti di guerra mesi o addirittura anni prima del 1918 e probabili precursori virali nell’influenza del 1915. Le ondate furo tre, quella della primavera del 1918, quella più grave dell’autunno 1918 e quella, di nuovo meno grave, dell’inverno 1918-1919. Però in alcune zone del mondo le code della pandemia si spinsero fino all’anno 1920 e in qualche caso più sporadico anche fino al 1921. Anche allora severe ed efficaci misure di prevenzione e quarantena tennero alcune nazioni maggiormente indenni e fecero pagare loro un prezzo di perdita di vite u- mane molto meno severo. Fu il caso del Giappone, della Nuova Zelanda, della Nuova Caledonia, delle Samoa americane e di altre isole e plaghe particolarmente lontane e isolate. Sul conto totale delle vittime nel mondo, ancora non c’è accordo tra gli scienziati e gli storici, oscillando tra un massimo di 100 milioni a un minimo di 20 milioni. Probabilmente una stima precisa non sarà mai possibile e sembra saggio che venga attestata orientativamente a 50 milioni di esseri umani. La stima più probabile per l’Italia è di 600.000 vittime, pari a circa l’1,5% della popolazione. La percentuale di mortalità variò a seconda dei luoghi, dallo 0,67% al 5%, o addirittura al 10%, degli ammalati. Come nel caso dell’attuale pandemia di SARS Cov- 2, può avere influito sul maggiore o minore tasso di mortalità la presenza o meno di molti asintomatici, anche se è appena il caso di sottolineare che, mentre per l’evenienza odierna la presenza di asintomatici è accertata da studi scientifici, non

63

si può dire altrettanto, con certezza, per la pandemia di febbre “spagnola” del 1918 -1920. Di quale virus si trattò? Per moltissimo tempo su tale quesito ha regnato l’incertezza scientifica, dovuta alla quasi totale assenza di riscontri oggettivi, quali tessuti di persone ammalate, analisi biologiche approfondite, molto problematiche all’epoca. Solo da poco tempo è stato possibile rinvenire alcuni tessuti di malati e accertare con buona validità scientifica che si fosse trattato di un’influenza cosiddetta “aviaria”, una delle tante zoonosi, cioè malattie virali trasmesse dagli animali agli umani, per il tramite del materiale biologico di uccelli. In quel caso era un virus aviario A/H1N1, comportante manifestazioni patologiche aggravate dalle condizioni estreme di vita dovute alla guerra e dalla sostanziale inefficienza delle cure mediche allora disponibili, visto che lo studio della struttura biologica dei virus e l’apprestamento di rimedi farmacologici erano agli albori. Le pandemie da zoonosi si sono sviluppate per la coesistenza tra animali e uomini, soprattutto da quando, a partire dalla domesticazione, c’è stata convivenza con gli animali domestici. Un tipico caso di zoonosi è stato il vaiolo, condiviso con i bovini addomesticati. Nel mondo odierno, in cui gli esseri umani non convivono più come un tempo con gli animali domestici, le zoonosi tendono a prodursi dal contatto con animali selvaggi, o direttamente o attraverso la mediazione degli uccelli che infettano gli animali da allevamento. Perciò alcune epidemie, talvolta pandemie, sono definite “aviarie”. Anche molti personaggi famosi furono vittime della febbre “spagnola”. Il caso più noto, perché il personaggio era particolarmente importante nel periodo delle avanguardie artistiche e culturali parigine, fu quello del poeta Guillaume Apollinaire. Il poeta moriva, tra il dolore dei suoi amici Picasso, Braque, Max Jacob, proprio mentre a Parigi si festeggiava la vittoria. Ci rimisero la pelle anche Max Weber, il

64

sociologo definito il Marx della borghesia, gli artisti austriaci Gustav Klimt e Egon Schiele e l’importante dirigente bolscevico e primo legislatore della Costituzione dell’URSS Jakov Sverdlov, autore dell’ordine ai bolscevichi siberiani di fucilare lo Zar Nicola II e tutta la sua famiglia. Forse, se fosse vissuto avrebbe potuto diventare più importante degli stessi Lenin e Stalin. E’ quasi certo che anche il Presidente statunitense Woodrow Wilson sia stato colpito dall’influenza mentre partecipava ai lavori della Conferenza della pace di Parigi all’inizio del 1919. La malattia sarebbe stata la causa della sua scarsa incisività nelle trattative parigine e della successiva morte prematura poco tempo dopo. Un evento così importante per la storia del mondo è stato quasi completamente dimenticato ed è stato trattato pochissimo anche dagli storici. Probabilmente per la “sfortuna” di essere stata contemporanea a un avvenimento ancora più importante come la Grande Guerra. Inoltre, la sua maggiore virulenza coincise con la fine della guerra e con il desiderio, umanamente comprensibile, delle popolazioni europee e mondiali di lasciarsi alle spalle e dimenticare le terribili sofferenze e gli immani lutti patiti in quel terribile periodo di massacri bellici e di malattie.

65

This article is from: