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C’era una volta un filo rosso

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Politica

C’era una volta un filo rosso

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Raffaele FLAMINIO

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Comunque la si pensi la nascita del Partito Comunista Italiano ha inciso profondamente nella vita del nostro Paese, dando voce alle speranze e forse alle illusioni di chi non aveva rappresentanza e chi, invece, terrorizzato da ciò, ha combattuto strenuamente per abortire l’idea di eguaglianza e dignità di donne e uomini che affermavano la loro esistenza attraverso un’idea di collettiva rappresentanza di un interesse legittimo universale. Un pro domo di globalizzazione dei diritti dei più deboli che finalmente agisce in nome e per conto suo attraverso la rappresentanza. Come al solito la storia fa il suo corso, essa non dà giudizi, si limita a raccontare ciò che è stato partendo da una realtà oggettiva. Gli uomini, poi, per vizi o per virtù si dividono sui giudizi ma, la storia racconta e comunque, per sua natura, lascia tracce indelebili nelle menti e nei cuori di chi la grande avventura l’ha vissuta, condivisa e sentita indipendentemente da quale parte abbia deciso di stare.

Una cosa si può affermare con verità storica: la passione con cui la vicenda storica del PCI si è svolta, consumata ed estinta ci lascia in eredità un’idea che trova fondamenta ancora nel mondo attuale; capace, nonostante l’età, di contestualizzare e analizzare la realtà e l’attualità. Quante e quali metamorfosi il PCI ha compiuto nel corso della sua vita, osservando e studiando i fenomeni sociali, economici e politici che via, via, si presentavano nella realtà domestica e internazionale a partire dalla piccola fazione scissionista del 1921 al XVII congresso del Partito Socialista Italiano voluta da Amedeo Bordiga, affinata dalla lucida mente di Antonio Gramsci, al tormento di Palmiro Togliatti, alla difficile tenuta del partito con la segreteria di Luigi Longo per arrivare a Enrico Berlinguer nel 1972 che con la sua costanza e unitarietà guida il PCI nella convinta e condivisa scelta atlantista proiettata alla costruzione di un partito di governo capace di esprimere una visione e dettare i passaggi per il rinnovamento della società italiana insieme ad Aldo Moro; fino al 12

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novembre 1989, con la caduta del muro di Berlino, Achille Occhetto ultimo segretario del PCI annuncia, alla Bolognina, la volontà di cambiare nome al Partito Comunista Italiano avviando la tormentata e sofferta transizione in Partito Democratico della Sinistra (PDS) nel congresso di Rimini del 1991. Ecco: questa è la storia di una Identità.

L’identità di un’organizzazione che prima di essere politica, rivendica e identifica nelle masse sottosviluppate e sfruttate la dimensione umana miserrima degli individui, delle persone, che vivono senza rappresentanza, senza voce, senza dignità collettiva come bovini inviati al macello. Un macello che si era manifestato e perpetuato nella parte finale del diciannovesimo secolo con conflitti armati devastanti il cui apice giunge con lo scoppio del primo conflitto mondiale nel 1914 che l’Italia affronterà a mani nude a partire dall’inverno 1915. La conduzione sconsiderata della guerra che con sè porta alla decimazione sistemica di una generazione di giovani contadini e nuovi operai, tuttavia inglobava una speranza di migliorare le condizioni di vita per la maggioranza, delusa e mortificata sin dalla firma dell’armistizio con l’Austria – Ungheria. Dopo la Grande guerra i vecchi equilibri sociali erano saltati, inoltre il fascismo metteva a disposizione degli industriali e dei latifondisti la sua vera faccia. La rivoluzione bolscevica dava fiato e speranza “a tutti i proletari del mondo di unirsi per conquistare il sole dell’avvenire”. Questo certifica l’atto di nascita del Partito Comunista d’Italia avvenuto il 15 gennaio 1921 a Livorno, in occasione della celebrazione del XVII congresso del Partito Socialista Italiano, il quale gruppo dirigente aderì ma, mai convintamente al così detto biennio rosso 1919-1920. La scissione organizzata dal napoletano Amedeo Bordiga fu numericamente un fallimento dei 172.000 votanti su 213.000 iscritti solo un terzo 59.000) aderirono al nuovo partito. L’idea di Bordiga era quella di un par-

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tito settario, disciplinatissimo e militarizzato, che risultava incapace di far politica e leggere gli avvenimenti italiani, tant’è che la scissione “alla Livornese” negli ambienti dell’Internazionale era sinonimo di disastro, come anche Antonio Gramsci definì, al suo ritorno da Livorno rivolgendosi a Camilla Ravera “Livorno che disastro”. Il partito che Gramsci aveva in testa, si fondava sui consigli di fabbrica e sulla rappresentanza attiva degli operai, dove le decisioni e l’agire politico si concretizzavano nel confronto tra i lavoratori e le realtà che vivevano, i consigli di fabbrica e le commissioni interne attraverso la Confederazione Generale del Lavoro, la futura CGIL, rappresentavano la cinghia di collegamento tra il mondo del lavoro e l’attività parlamentare per dare peso alle rivendicazioni operaie. Le camere del Lavoro territoriali dovevano essere la voce dei braccianti agricoli che invocavano e pretendevano una equa e redistributiva riforma agraria. La lotta interna si protrasse fino al 1926, quando a Lione (Francia) ci fu un congresso fondativo del nuovo partito comunista che recuperava le intelligenze a la nuova visione espressa negli e- stensori del giornale l’Ordine Nuovo, fondato e diretto dallo stesso Antonio Gramsci che ora era anche designato a segretario del rifondato Partito Comunista d’Italia, al suo fianco anche Palmiro Togliatti. Nel 1926 Gramsci fu arrestato dai fascisti e il piccolo partito comunista entrò in clandestinità. La repressione fascista fece il suo corso, le libertà democratiche e parlamentari furono soppresse.

Nel 1944 con il ritorno di Togliatti in Italia, il partito di Gramsci diventa Partito Comunista Italiano. Il cambio del nome non è un dettaglio, è invece un marchio di fabbrica che sintetizza la nuova missione di un partito che cresce culturalmente e politicamente attento come sempre alle vicende interne e estere. Un partito che muove i primi passi verso l’indipendenza dall’Urss, non un partito satellite ma, un soggetto politico autonomo e radicato nella realtà italiana e Europea occidentale,

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non più votato alla dittatura del proletariato ma, convintamente democratico attento ai diritti civili e Costituzionali. La svolta di Salerno voluta da Togliatti rappresenta l’idea di un “partito nuovo” votato alla “Democrazia progressiva” che sancisce un compromesso con la colpevole monarchia Sabauda ai fini di un governo u- nitario per combattere il nazifascismo. L’adesione al Partito Comunista Italiano non sta nell’ideologia ma nella condivisione di un programma. Il PCI contribuisce alla costruzione della Costituzione democratica che contiene il principio di eguaglianza sostanziale, il primato dell’interesse pubblico sul privato, sottoponendo la proprietà privata a vincoli sociali, il diritto di voto universale. Il PCI giurerà e difenderà la Costituzione nata sulle macerie dei totalitarismi. Palmiro Togliatti non ha nessun cedimento, neanche dopo l’attentato di cui è vittima, sull’ascesa al potere per strada della Democrazia. Egli, anzi, ha la capacità, in frangenti così drammatici, di tenere unite le due anime del partito, quelle riformiste e rivoluzionarie. E’ capace di prendere le distanze dai fatti d’Ungheria, con un frasario ben comprensibile e diretto alla nomenclatura del PCUS ed intellegibile anche alle forze politiche italiane e ai partiti comunisti europei. Nelle sue memorie, stilate in occasione della conferenza di Yalta, denuncia la mancanza di democrazia che affligge il sistema sovietico. Togliatti non voleva che ciò fosse reso pubblico, la sua idea era di scaricare sulla classe dirigente del partito le tensioni che lo attraversavano senza che la base dei militanti si dividesse, una protezione che fu battezzata “centralismo democratico”. Luigi Longo, successore di Palmiro Togliatti alla segreteria del partito, deciderà di rendere pubbliche quelle memorie a beneficio di tutto il partito rafforzando la via intrapresa da Togliatti di una operazione di trasformazione sociale che non si discostava dalle socialdemocrazie europee.

Pietro Longo avrà l’immane compito di gestire la battaglia congressuale che si apre

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nel 1965 anno di celebrazione dell’XI congresso del PCI. Si contrastano fieramente le tesi di Pietro Igrao espressione della minoranza e quelle di Giorgio Amendola espressione della maggioranza e dell’ala migliorista del partito. Ingrao entrò in a- perto contrasto con la segreteria e la direzione del partito, criticando e non votando il documento preparato ed approvato nelle commissioni precongressuali, in aperto contrasto con i criteri non scritti del “centralismo democratico” un fatto nuovo e derimente per il partito. Ingrao sosteneva che la stagione dei governi di centro sinistra stava finendo e l’esigenza di un ricompattamento delle sinistre fosse necessario per intercettare le istanze che nel Paese andavano formando, il fermento degli studenti, la questione salariale e i diritti dei lavoratori andavano indirizzati e colti. Queste tesi nei mesi precedenti avevano caratterizzato il dibattito sulla rivista Rinascita ipotizzando un partito unico della sinistra. Non era ammissibile che nel PCI ci fosse un’aspirazione correntizia, fu deciso che piuttosto che discutere sulle tesi di Ingrao si trattasse invece di una grave insubordinazione alla disciplina. In effetti Giorgio Amendola sosteneva che la realtà italiana non consentiva la costituzione di un unico partito della sinistra ma che via, via ci fosse un allineamento e una condivisione degli obiettivi da raggiungere con il concorso di tutti coloro che fossero interessati, inoltre il PCI aveva assunto un tale grado di consenso e di dimensione e- lettorale che presto gli avrebbe consentito di arrivare al Governo del Paese in una coalizione di sinistre.

Insomma a posteriori possiamo affermare che quel dibattito interno ha peccato di una sincera analisi evolutiva che il capitalismo stava intraprendendo ora che la spinta della ricostruzione post bellica si spegneva.

Luigi Longo ha avuto il merito di perseguire tenacemente l’eredità Togliattiana della via democratica e italiana al socialismo, ciò costituisce una novità ecceziona-

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le per i tempi in cui la guerra fredda tra i blocchi era più tesa e incessante.

Le competenze economiche maturate dal nucleo dirigente, erano post belliche e le nuove istanze proposte dalla collettività richiedevano nuovi studi e osservazioni di più precise nell’interpretazione dei fatti contemporanei.

L’ Iri, di memoria fascista e l’art. 41 della Costituzione repubblicana, davano nuova linfa ai ragionamenti economici che il PCI si trovava ad affrontare. Il capitalismo di stato poteva e doveva essere la soluzione.

L’istanza di smantellare l’Iri ed epurarla, non passò.

L’intervento pubblico e le partecipazioni statali costituivano la soluzione bilanciata e coerente con la Costituzione ed il nuovo corso che il partito avrebbe intrapreso.

La segreteria di Enrico Berlinguer sarà improntata su queste nuove considerazioni emerse nei lunghi e travagliati dibattiti in seno alla segreteria e al comitato centrale.

Berlinguer conclude l’opera di Longo, che nel corso dell’invasione del Patto di Varsavia della Cecoslovacchia, insieme a tutto il partito, appoggia e condivide Dubcek.

Enrico sottrae il PCI all’influenza Sovietica, rifiutando l’aiuto finanziario del PCUS. In politica la forma è sostanza.

E’ meglio lottare per il socialismo in occidente piuttosto “ che come vogliono loro” confermando che “la democrazia è un valore universale” dichiarando infine “ la fine della spinta propulsiva della rivoluzione di Ottobre”.

Il PCI targato Berlinguer, pur tra tante difficoltà, non si dissolverà. Egli toglierà in Parlamento la “ l’astensione costruttiva” varata dopo l’assassinio di

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Aldo Moro suo alleato nell’idea del Compromesso Storico. L’ennesimo governo Andreotti si spingeva sempre più a destra.

Recupera il rapporto con la base del partito, degli elettori, dei lavoratori scossi dagli anni di partecipazione alla maggioranza che sosteneva il monocolore DC.

Il PCI, il suo PCI, tratta di ecologismo, sostiene le lotte del neo femminismo, irrompe nel dibattito politico italiano il pacifismo, spiega quali sono i doveri dell’Europa nei confronti del terzo mondo, individua nel progresso tecnologico la chiave del rinnovamento per la pubblica amministrazione e per l’istruzione.

La questione morale diventa il cardine per la rinascita del Paese scosso da anni di terrorismo e di corruzione dilagante.

Berlinguer vede chiaramente alla fine degli anni ‘70’ ciò che il mondo sarebbe divenuto nei giorni nostri e come il Covid ci sta svelando ancora una volta.

Un profluvio di merci in un Mondo sfinito e aggredito.

La sua solitudine nell’affrontare con tenacia la “Questione Morale” solo e, a volte, avvilito da detrattori, avversari e nemici veri, esterni e, soprattutto interni fino alla sua morte l’11 giugno 1984 a Padova mentre pronunciava l’ultimo discorso, il suo PCI alle elezione Europee dello stesso anno compie il sorpasso ai danni della DC.

Poi solo declino, scoppia Mani Pulite, Enrico Berlinguer l’aveva detto.

Estinta la razza dei comunisti italiani del dopoguerra, i nati post 68 guidati da Giorgio Napolitano dichiarano di non essere stati mai comunisti.

Le nuove tesi sfaldano la sinistra italiana e il Partito Comunista Italiano, debellano un’idea per il nulla.

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