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Dear June
Racconti
Dear June
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Lucia COLARIETI
June aprì il foglio che aveva ricevuto. Le lettere nere spiccavano ferendo lo sguardo, le riusciva difficile comprenderne il significato, si susseguivano in un ordine che poteva anche non avere un senso, invece per la maggior parte delle persone lo aveva.
Come i fatti accaduti nella sua vita, si erano susseguiti e lei li aveva vissuti senza capirli, adesso qualcuno pensava di aver dato una ragione a tutto.
Era stata una bambina irrequieta, seconda di quattro figli, cresciuta al pari di una pianta di gramigna che viene su da sola, senza troppo impegno. L’adolescenza aveva accresciuto la sua inquietudine, un’energia esplosiva le spingeva gambe e brac-58
cia, parti sconosciute del suo corpo si facevano improvvisamente grandi e ingombranti, non sapeva mai bene dove stare. Lì nel quartiere della gente di colore venivano gli assistenti sociali e le dicevano che avrebbe dovuto stare seduta in un banco di scuola, ma era tanto difficile. A casa, nelle due stanze che occupava insieme ai genitori, i due fratellini più piccoli, la nonna e la sorella grande, non c’era mai silenzio. L’unico spazio dove scaricare l’elettricità che sentiva nelle vene era il grande caseggiato popolare, con i suoi lunghi corridoi e gli atri e i cortili. Quei pavimenti lerci e umidi rappresentavano per lei la possibilità di non sentirsi costretta. Lì, tra quelle mura senza intonaco, aveva stretto la sua amicizia con Daisy, era più grande e non le chiedeva mai di stare ferma. Quando andavano a scuola la proteggeva dai commenti stupidi dei ragazzi e dagli sguardi disturbati dei bianchi del quartiere elegante. June non sapeva perché dovesse evitare di raccontare a casa degli amici che frequentavano, non sapeva perchè fosse meglio stare alla larga dalla polizia, non sapeva perché dovesse far finta di non vedere gli scambi furtivi con alcuni personaggi che di tanto i tanto si prsentavano. Non riusciva a soffermarsi troppo sulle ragioni o i motivi delle cose, le bastava stare con Daisy, sentirsi protetta e riuscire a stare allegra e libera. Era importante riuscire a zittire la voce di sua madre che l’accusava di essere inutile, scappare dalle urla del padre che diceva che non c’erano mai abbastanza soldi, dalle lagne dei fratellini che non erano mai contenti.
Con Daisy andavano in giro sempre insieme, June si divertiva a ballare e scherzare e non le importava se ogni tanto le chiedevano di stare zitta e non raccontare ciò che aveva visto. Le facevano dei bellissimi regali.
Erano diventate signorine e maggiorenni, quella sera Daisy le aveva detto: «Stasera è speciale».
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June, come sempre, non ricostruiva bene la sequenza di ciò che avevano fatto. Ricordava invece benissimo l’abito scintillante di paillettes che l’amica le aveva regalato, insieme ad un fantastico paio di scarpe dal plateau altissimo rosse luccicanti. Anche Daisy era splendida nel vestitino argentato che faceva risplendere la sua pelle scura.
Marc, il nuovo fidanzato di Daisy era bianco, un’esperienza esotica e trasgressiva per le ragazze del loro quartiere. Erano entrambe eccitate al pensiero della festa e si erano preparate con ogni cura per fare colpo. Lui le aspettava a bordo della sua auto nuova nella strada grande del quartiere, la musica che rimbombava dagli altoparlanti dello stereo. Quando le due ragazze si avvicinarono una scia di fischi di ammirazione si alzò dal gruppetto di uomini che stava accanto a lui, poi ognuno salì sulla propria auto e la flotta di bolidi neri e rombanti si avviò sulle colline. La villa si trovava lassù, nel quartiere dei bianchi.
Lasciarono l’auto nel giardino, dalle porte della casa proveniva il frastuono della festa, tantissime persone si divertivano. June si sentiva su di giri, perse di vista l’amica ma non era un problema, il vassoio pieno di bicchieri colmi le passava accanto spesso e lei prendeva ciò che capitava. La musica rimbalzava nel cervello e faceva piazza pulita dei brutti pensieri, il ritmo ossessivo catturava l’energia che era sempre costretta a controllare e la emanava nella stanza intorno fondendola con quella degli altri ragazzi che come lei oscillavano in cerca di un paradiso.
Girando lo guardo si accorse che Daisy stava cercando di attirare la sua attenzione. Lasciò il gruppo e si avvicinò, lo sguardo dell’amica era cupo, il rimmel le colava dall’occhio sinistro, la spallina del vestito era strappata.
«Cosa succede?» le chiese preoccupata, non l’aveva mai vista in quello stato.
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«Niente, stai tranquilla, dobbiamo andare via» Daisy si guardava intorno. «Guarda c’è Marc lo chiamo» disse mentre lui si avvicinava. «June, andiamo via è meglio lasciarlo perdere, lui e i suoi amici». «Ma perché? Ti ha fatto lui male?»
Le lacrime luccicavano sugli occhi dell’amica e questo lei proprio non lo poteva sopportare.
«Cosa le hai fatto» urlò in faccia al giovane che la guardava impettito e beffardo
«Levati di torno, negra cretina». La spinse e si avviò verso la scalinata che dava al piano di sopra.
June prese l’amica per un braccio, «Andiamocene Daisy, mi gira la testa, quello è uno stronzo, lasciamolo qui».
Ma l’altra era come assente, senza energia la osservava distante e si avviò anche lei lungo la scalinata. «Andiamo di sopra».
June si guardò intorno in cerca di aiuto, tutti ondeggiavano al ritmo incalzante della musica, bevevano o si strofinavano tra di loro, nessuno le stava guardando, non poteva fare altro che seguirla.
Una lunga moquette morbida color champagne copriva il corridoio, le ragazze camminavano mano nella mano affondando piano le zeppe delle loro scarpe, c’era silenzio al piano di sopra.
Il tonfo fece rimbombare la parete, la porta di una stanza si spalancò e un corpo precipitò ai loro piedi. La giacca verde di Marc era imbrattata, dal collo sgorgava un fiotto rosso scuro, gli occhi erano fissi in una espressione di terrore. Immediata-
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mente dopo un altro giovane si avventò dall’interno della stanza sul corpo steso a terra. Daisy urlò il nome del suo ragazzo, si girò giusto in tempo per vedere l’altro che con il coltello in mano la stava raggiungendo.
Davanti agli occhi di June le immagini si confusero, riusciva a distinguere solo il brillio del vestito della sua amica. Inseguendo il luccichio dell’amicizia, senza controllare i suoi gesti afferrò il coltello dalla mano dell’aggressore, l’intervento di sorpresa lo aveva destabilizzato e lei lo spinse a terra, vedeva il corpo di Daisy steso, il vestito era strappato e uno squarcio nella schiena sprofondava fino al cuore. La voltò facendola rotolare su sé stessa, mentre si chinava per guardarla da vicino si sentì sollevare, vide il suo stesso braccio affondare nel fianco del ragazzo e tutto si fece scuro davanti ai suoi occhi.
Spesso June, negli anni successivi, aveva cercato di ricostruire cosa fosse accaduto, uomini e donne in divisa le avevano ripetuto sempre le stesse domande e lei non poteva dire altro: la sua amica era in pericolo e lei l’aveva aiutata, purtroppo era stato inutile.
Perché eravate andate a quella festa? Perché aveva il coltello in mano? Perché il coltello era uguale a quelli di casa sua? Era invidiosa della sua amica? Come mai aveva urlato contro il ragazzo? Quanto aveva bevuto? Conosceva i traffici illeciti di quel giro?
Da quella sera nei suoi giorni si erano aggiunte facce di gente che la guardava sdegnata oppure pietosa, aule di tribunale, uffici legali, scartoffie da firmare o da leggere. Persone con gli striscioni che portavano il suo nome, giornalisti che la intervistavano, la giustizia, la vita dei neri, i testimoni, una girandola di immagini e di suoni e nulla che corrispondesse a ciò che lei sapeva: non avrebbe mai fatto del
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male a Daisy. Anzi non aveva fatto del male a Daisy. Ma tutto continuava a susseguirsi senza senso, una sola cosa emergeva nitida e dolorosa: la sua amica non c’era più, era morta.
Aveva provato a spiegare che per lei era un dolore senza fine, che non sapeva niente di tutta quella storia, che aveva solo cercato di proteggerla, ma i discorsi vuoti di quei signori in giacca e cravatta dall’altro lato del tavolo la costringevano a rimanere in quella cella. Non c’era più Daisy a difenderla. Qualcuno pensava che così come era venuta su, così si poteva estirparla, come una pianta di gramigna, se è erba cattiva si strappa.
June aprì il foglio bianco che aveva ricevuto. Le lettere nere spiccavano ferendo lo sguardo, le riusciva difficile comprenderne il significato, si susseguivano in un ordine che poteva anche non avere un senso, invece per la maggior parte delle persone lo aveva.
“Cara June con la presente la informiamo che è stata decisa la data per l’esecuzione della sua sentenza di morte per ordine emesso dal giudice federale in data odierna. La presente vale come notifica ai sensi del titolo 28 del Codice Federale. Il Direttore dell’ufficio Federale ha stabilito la data per l’iniezione letale il 10 ottobre 2020.
Cordialmente Signor Watson, Carcere Federale Terre Haute Indiana U.S.A.”
(Gramigna: Phytolacca Americana. La gramigna è una pianta europea, in America è diffusa la fitolacca: perun lettore italiano potrebbe non essere immediatamente comprensibile il riferimento)
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