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USA Martin Luther King, il profeta disarmato
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Martin Luther King, il profeta disarmato
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Giovan Giuseppe MENNELLA
Nell’anno appena trascorso, il 2020, è sorto un movimento di protesta per difendere i diritti della minoranza afroamericana negli USA messi in pericolo dall’ondata di revanscismo bianco susseguito all’inaspettato trionfo elettorale di Donald Trump nel 2016. Questo movimento ha assunto caratteristiche di reazione alle violenze della Polizia e degli estremisti bianchi contro gli afroamericani. Si è connotato in varie incarnazioni, nello sport, nello spettacolo, nella società civile in generale. Il movimento Black Lives Matter ha fatto notizia nelle cronache di quasi tutto il mondo per la partecipazione alle proteste di personaggi di grande notorietà, soprattutto gente dello spettacolo e atleti, della National Basketball Association, del calcio professionistico, dell’automobilismo dove si è distinto il Campione del Mondo Lewis Hamilton.
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Il Movimento per la difesa dei diritti degli afroamericani di oggi si connette idealmente al Movimento di protesta per la difesa dei diritti civili degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, che ebbe come personaggio più popolare e significativo il reverendo Martin Luther King Jr. Martin Luther King Jr era nato nel 1929 ad Atlanta, in Georgia, una città del Sud degli Stati Uniti nella quale a quell’epoca i cinema, i parchi pubblici e molti altri luoghi di interesse collettivo erano vietati agli afroamericani. Già il padre rivestiva il ruolo di pastore protestante, il reverendo della Union Baptist Church Martin Luther King Sr. Si trasferì al Nord, al Crazer Theological Seminary in Pennsylvania, dove ebbe modo di partecipare a dibattiti pubblici e si laureò nel 1951. Poi si perfezionò in Filosofia all’Università di Boston, dove nel 1955 acquisì il Dottorato e durante alcuni dibattiti e conferenze, si appassionò al pensiero non-violento del Mahatma Gandhi. Sia Gandhi che, prima, Tolstoi e poi King e Mandela si sono ispirati agli scritti di Henry David Thoreau, romanziere e filosofo statunitense della prima metà del XIX secolo, che aveva teorizzato il diritto e anzi il dovere della disubbidienza civile dei cittadini contro le norme ingiuste dello Stato. L’azione che dovevano mettere in campo King e il Movimento per i Diritti Civili non fu tanto quella della resistenza passiva, quanto quella della non violenza. La prima consiste nel restare passivi prima e anche dopo le manifestazioni, la seconda si caratterizza nel dimostrarsi fermi e determinati a sostenere i propri principi a qualunque costo, anche con azioni positive che possano comportare qualunque danno a se stessi. La strategia della non violenza doveva essere applicata nei contesti più diversi, dai discorsi, alle marce, ai sit in, alle occupazioni di locali e uffici pubblici, collocando il credo non violento nelle contraddizioni della società statunitense, divisa tra il massimo di democrazia politica e il minimo di diritti per i poveri. Alla fine del 1955 fu nominato Pastore della chiesa protestante di Montgomery, A- labama. La chiesa era una di quelle Black Churches del Sud che costituivano luoghi comunitari di eccezionale importanza per la comunità nera, che ne assicuravano la coscienza e la coesione e ne rafforzavano il peso nella società. Secondo lo studioso nero W.E.B. Du Bois “la chiesa nera è stata l’unica istituzione sociale tra i neri che era iniziata nella foresta africana ed era sopravvissuta alla schiavitù”. Proprio a Montgomery avvenne un episodio determinante nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Nel dicembre 1955 Rosa Parks, una signora di colore,
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stanca dopo una giornata di lavoro, si sedette nella zona di un bus riservata ai passeggeri bianchi e rifiutò di cedere il posto a un bianco. L’azione non fu casuale, come sembrava, ma fu lungamente preparata e meditata, con il contributo dello stesso King, soprattutto nella scelta di una irreprensibile e pacifica signora di età matura, per niente assimilabile alla tipologia di giovane arrabbiato e ribelle che avrebbe potuto alienare le simpatie dei moderati. I diritti degli afroamericani ex schiavi erano stati formalmente assicurati dal XIV Emendamento della Costituzione, votato dal Congresso nel 1865, nel quadro delle norme cosiddette della Ricostruzione del Sud dopo la fine della Guerra Civile. Tuttavia, le leggi di esecuzione dell’Emendamento erano state lasciate ai singoli Stati federali. Quelli del Sud ne avevano approfittato, dopo la fine dell’Era della Ricostruzione nel 1877, per far passare le cosiddette leggi Jim Crow, dal soprannome buffonesco con cui erano appellati gli ex schiavi neri. Queste leggi, con pretesti vari, imposero agli afroamericani la segregazione rispetto ai bianchi. La stessa Corte Suprema, con una importante sentenza del 1896, la giustificò, adottando il principio ambiguo della “uguaglianza nella separazione”. Il simbolico gesto di Rosa Parks non era stato improvvisato e la stessa protagonista era un’attivista molto ben preparata. Dopo l’arresto di Rosa Parks fu varato il boicottaggio degli autobus cittadini che durò 381 giorni e portò l’azienda vicina al fallimento. Alla fine, la Corte Suprema, con la sentenza del 6 novembre 1956, dichiarò illegale la segregazione razziale sui mezzi di trasporto. Nel 1963 King guidò sit-in, boicottaggi e proteste anche a Birminghan, sempre in Alabama, definita la Johannesburg del Sud. Nonostante l’azione non violenta, fu arrestato insieme ai compagni di lotta. Dovette intervenire il Presidente Kennedy per farlo rilasciare. Traendo linfa dalla lotta di Birmingham, il 28 agosto del 1963 fu intrapresa la marcia su Washington contro la povertà e l’emarginazione. Il raduno vide migliaia di partecipanti, tutti uniti, neri, bianchi, donne, uomini, ad ascoltare King pronunciare il discorso che doveva diventare famoso per l’incipit “I have a dream”. Tre mesi dopo fu assassinato il Presidente Kennedy che, pur tra molte esitazioni e incertezze, aveva costituito un baluardo di garanzia e di protezione per la lotta di King e del Movimento. A quel punto, tutte le conquiste ottenute sembrarono lontanissime e fragili.
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Anche se King e il Movimento per i Diritti Civili avevano ottenuto risultati significativi, molti gli rimproverarono la lentezza e l’eccessiva gradualità delle conquiste. In effetti, il Movimento non violento era solo una parte della galassia dei movimenti contro l’ingiustizia di fondo della società statunitense. Tra questi molti, come Malcom X e le Black Panthers, intrapresero forme di lotta meno pacifiche e gradualiste. Ma fu King che ebbe un maggiore seguito delle masse e fu proprio la sua popolarità a spiegare l’acerrimo accanimento del capo dell’F.B.I. Edgar J. Hoover contro di lui e contro il Movimento. Non si contarono le azioni ostili e di spietato controllo che subì. Fu spiato, minacciato, le prove delle sue relazioni extraconiugali fatte conoscere alla moglie Coretta, secondo lo stile, in voga anche oggi, della character assassination. Hoover arrivò al punto da far ascoltare in diretta alla moglie gli effetti sonori dei rapporti extraconiugali di King. All’inizio del 1964 cominciarono le mobilitazioni decisive di protesta per ottenere l’effettivo esercizio del diritto di voto degli afroamericani nel Sud In quello stesso 1964 Johnson presentò al Congresso il Civil Rights Act con lo scopo di dichiarare definitivamente illegale la segregazione razziale nel Sud, nell’ambito del suo più vasto progetto di una società più giusta, la Great Society. Gli Stati del Sud furono costretti a iniziare la registrazione dei neri nelle liste elettorali, ma il Ku Klux Klan, la Polizia degli Stati, gli Sceriffi intrapresero una campagna di violenza e di intimidazione per svuotare il progetto. Così a Selma iniziò una lotta decisiva per la registrazione dei neri nelle liste elettorali. Il 7 marzo 1964 King fu ancora in prima fila nella marcia per entrare in città, insieme ad altri esponenti della società civile, neri e bianchi, e a religiosi di tutte le confessioni, ebrei, ortodossi, musulmani, cristiani. La violenza della Polizia e degli estremisti di destra bianchi si scatenò, nel cosiddetto Bloody Sunday, contro i partecipanti. King decise di non oltrepassare il ponte Edmund Pettus. Ma il 23 marzo la marcia riprese con successo e il 6 agosto il Congresso formalizzò in legge il Civil Rights Act. Gli avvenimenti incalzarono. Il 10 dicembre 1964 fu assegnato a un King ormai conosciuto in tutto il Mondo il Nobel per la Pace. Il 21 febbraio 1965 fu assassinato Malcolm X, probabilmente dalla setta di Musulmani neri fondamentalisti da cui si voleva staccare. Iniziò così la fase in cui divamparono gli atti di lotta e contestazione violenta della parte più radicale del Movi-
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mento afroamericano. Nell’agosto del 1965 scoppiò a Los Angeles una rivolta dei ghetti neri che si protrasse per giorni. E qui si verificò la definitiva divaricazione tra i moderati, come King, che per ottenere l’uguaglianza credevano nelle istituzioni e nelle leggi, a partire dalla Costituzione, e i radicali, come le Black Panthers, che confidavano in azioni più decise. Non a caso, King era un borghese che pensò sempre che il razzismo fosse un difetto e un’eccezione che si poteva modificare, mentre Malcolm X e le Black Panthers provenivano dalle masse povere e ritenevano che il razzismo fosse del tutto connaturato e consono a una società americana profondamente ingiusta e criticarono sempre il gradualismo del Movimento non violento. Una parte non piccola del Movimento, dopo il 1965, passò alla violenza, perché, appunto, nonostante gli accordi e le leggi, il popolo di colore era ancora e sempre vessato ed emarginato. Qui si situò quel cambiamento di rotta di King nei suoi ultimi tre anni, dal 1965 alla morte nel 1968, causata sia da una autonoma presa di coscienza che il problema non era solo quello dei diritti costituzionali formali e non solo nel Sud, ma anche quello della mancanza di lavori decenti, di alloggi salubri, di vera e propria povertà, anche nei ghetti neri del Nord. Molto di questa nuova impostazione di King fu dovuta evidentemente alla spinta vigorosa verso i temi sociali delle frange più radicali, come se non intendesse farsi scavalcare a sinistra. Una virata non lontana da un programma più decisamente socialista. Così nel 1966 si spostò in alcuni grandi centri urbani del Centro-Nord, dove per le crisi economiche erano ormai immigrati dal Sud milioni e milioni di neri. In quei grandi agglomerati di popolazione King si impegnò contro la povertà e l’emarginazione dei lavoratori neri, organizzando proteste, marce, sit in per il risanamento dei quartieri poveri degradati, per ottenere condizioni di lavoro più dignitose, contro l’iniqua distribuzione della ricchezza. Ben presto, a partire dal primo risalente al 4 aprile 1967, pronunciò discorsi pubblici contro la guerra in Vietnam che aveva ormai identificato come la vera causa del protrarsi negli USA dell’ingiustizia sociale dell’ineguaglianza. La guerra sottraeva ormai enormi risorse economiche ai programmi sociali e rinfocolava le posizioni nazionaliste e razziste della destra e delle classi dominanti.
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Dal marzo del 1968 intensificò l’attività di propaganda, girando in città importanti come Detroit, Chicago, Los Angeles, finché arrivò a Menphis per appoggiare lo sciopero dei lavoratori della nettezza urbana. E qui sarà il capolinea della sua missione e della sua vita, dove sarebbe stato ucciso con un colpo di fucile il 4 aprile 1968. Gli ultimi tre anni di lotta di King, svolti più nel Nord e più per la difesa di diritti sociali ed economici, sono stati poco raccontati e studiati. Come se si sia voluto fare di King più un eroe americano del tutto positivo e vittorioso, pacificato con il suo Paese, che non un nero che si era battuto per i suoi confratelli emarginati, in contrasto e in opposizione con la corrente principale della Storia degli Stati Uniti. E così, oggi le lotte degli afroamericani e dei progressisti contro il nazionalismo razzista della destra, incoraggiato dalla dissennata Presidenza Trump, stanno trovando un ideale precedente e un’ispirazione nell’azione di impostazione più socialista di quell’ultimo periodo, così troppo poco raccontato, del profeta disarmato che è stato Martin Luther King.
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