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La Restaurazione
l’Editoriale del Direttore
La Restaurazione
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Aldo AVALLONE
Ci siamo lasciati circa un mese fa in piena crisi di governo con Giuseppe Conte assassinato dal sicario vivaista. Draghi stava lavorando alla formazione del suo governo e fu facile prevedere che tutti sarebbero saltati a bordo. La gestione dei miliardi provenienti dall’Europa è un’occasione irripetibile per soddisfare i tanti appetiti di quella parte del Paese abituata da sempre ad avere voce in capitolo nelle decisioni economiche e che non avrebbe mai permesso a un esecutivo non piegato ai suoi voleri di restare a galla e completare il proprio lavoro in autonomia.
Per comprendere come sia cambiato il vento, basta scorrere il curriculum del neopresidente del consiglio. Mario Draghi, tra i tanti incarichi ricoperti, è stato uno dei manager di Goldman e Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo con sede a New York, poi governatore della Banca d’Italia e presidente della BCE, la
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banca centrale europea. Un uomo che ha saputo da sempre rappresentare i poteri economici finanziari del mondo. La sua squadra è composta in parte da tecnici legatissimi a lui e da improbabili politici ripescati dalla naftalina, quali Brunetta, la Gelmini e la Carfagna, insieme a personaggi, ad esempio il leghista Giorgetti, da sempre portatore degli interessi di Confindustria. La scelta di Francesco Giavazzi, economista da sempre sostenitore delle teorie ultraliberiste, quale consigliere economico rappresenta un altro segnale inequivocabile dell’indirizzo che Draghi vorrà dare al suo esecutivo. La domanda legittima che ci si pone è perché LEU e il PD siano entrati in questo governo. Da un lato probabilmente è stato giusto provare a portare avanti anche con la nuova maggioranza il lavoro iniziato con il precedente governo. E l’esempio più rappresentativo è il ministro Speranza che ha certamente svolto la sua opera in un momento di tragica difficoltà con dedizione e competenza. Ma, d’altra parte, è davvero difficile digerire il sedere allo stesso tavolo con ministri berlusconiani e leghisti. Per quanto conti, la mia opinione personale è che si sarebbe dovuto far saltare il tavolo e andare a elezioni anticipate. Si sarebbe partiti in salita ma una coalizione coesa PD, LEU e M5S con il valore aggiunto di Conte, che ricordiamolo godeva di grande popolarità, se la sarebbe potuta giocare. E, se si fosse perso, almeno si sarebbe fatta chiarezza nel quadro politico per rafforzare nel tempo quell’alleanza tra forze progressiste che in futuro si sarebbe presentata con tutte le carte in regola per guidare il Paese. So bene che alcuni compagni non hanno in buona considerazione il Movimento 5Stelle e certamente si tratta di dubbi legittimi rispetto ad alcune scelte politiche compiute in passato dal Movimento. Ma oggi i 5 Stelle non sono più quelli che dissero di no a Bersani. Il percorso di parlamentarizzazione iniziato ormai tempo fa è giunto a maturazione, i destri che vi militavano hanno progressivamente lasciato il Movimento e ritengo che oggi ci si possa relazionare con loro in maniera propositiva. La scelta compiuta proprio in questi ultimi giorni di coinvolgere a pieno titolo Giuseppe Conte nella guida del Movimento va certamente in tal senso. Infine, c’è da compiere un’ultima, a mio avviso decisiva, considerazione: senza un’alleanza strategica con i 5 Stelle non si potrà mai competere con la destra in nessun confronto elettorale.
Sì, proprio quell’alleanza strategica che fa tanto paura al resto dello schieramento politico italiano e a larghissima parte della stampa che ha massacrato il governo precedente ed è totalmente silente sulle scelte di quello attuale. Si è rimproverato a
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Conte la mancata condivisione nella stesura del Recovery Plan, oggi si viene a sapere che Draghi ha affidato la riscrittura del piano alla multinazionale americana McKinsey che pare sia stata coinvolta dall’amministrazione Trump nella progettazione del muro tra Stati Uniti e Messico e in altre vicende poco chiare relative al settore farmaceutico. In una nota del MEF si specifica che il contratto di affidamento ha un valore di venticinquemila euro più IVA ed è stato assegnato, in base al codice degli appalti, senza gara perché sottosoglia. Una dimostrazione di incapacità da parte dei ministri economici. Ma Conte non era stato messo in croce perché avrebbe voluto esautorare il Parlamento affidando la stesura del Piano a sei super manager? La cifra davvero irrisoria lascia aperti molti dubbi sulla procedura. Se, come è vero, il metodo è sostanza, appare evidente che anche questa scelta sia un segnale di come il governo intende utilizzare gli oltre duecento miliardi di fondi europei. La società americana è nota a livello internazionale per essere stata decisiva in alcune scelte improntate al liberismo più sfrenato. È legittimo credere che non si discosterà dai propri principi anche nella redazione del piano italiano.
Un altro avvenimento altrettanto rilevante ha scosso il mondo della politica in questi ultimi giorni: le dimissioni di Zingaretti da segretario del Partito Democratico, giunte dopo una serie di attacchi provenienti dall’interno. L’ex segretario ha usato parole forti: “mi vergogno del PD”, dilaniato ormai da una guerra tra bande correntizie interessate solo al potere e alle poltrone. Un gesto sicuramente coraggioso che si spera possa aiutare a fare chiarezza nel Partito che, nonostante tutto, resta il fulcro di un’alleanza progressista che possa candidarsi in futuro a guidare il Paese. A questo punto mi auguro che si compia finalmente una scelta precisa del dove intende andare il Partito nei prossimi mesi. Il 14 marzo l’Assemblea nazionale ha eletto, praticamente all’unanimità, Enrico Letta come nuovo segretario. Nelle sue prime dichiarazioni ha indicato la linea su cui intende muoversi in tema di alleanze. Ha parlato di un centrosinistra largo di cui il Pd dovrà essere il perno che si confronterà in maniera aperta e costruttiva con il Movimento 5Stelle. Al di là delle dichiarazioni di facciata, occorrerà attendere qualche tempo per comprendere se il neosegretario vorrà muoversi in continuità con le scelte politiche di Zingaretti o sceglierà di tornare indietro accodandosi a posizioni centriste e liberali. Ma, al di là di quanto avverrà nel Partito Democratico, ritengo che mai come ora sia necessario un poderoso passo in avanti verso la creazione di un nuovo soggetto politico, non
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importa la forma che intenderà assumere, unitario, pluralista e laburista che possa rappresentare veramente tutte le istanze che provengono dal sociale. C’è forte domanda di sinistra nel Paese, un recente sondaggio SWG dà Articolo 1 e Sinistra italiana al 5,1 per cento, un risultato incoraggiante che deve essere ascoltato da tutte le forze che si riconoscono nei valori del socialismo democratico. La crisi economico sanitaria generata dalla pandemia ha messo in evidenza la necessità del primato di alcuni diritti irrinunciabili e non negoziabili: il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro e la grande questione dello sviluppo sostenibile non possono essere affidati alle sole logiche del mercato. Attorno a questi temi c’è lo spazio per rifondare una nuova sinistra, aperta a chiunque voglia collaborare (non bisogna demonizzare le Sardine per qualche loro ingenuità, ricordiamo il contributo importate fornito nelle elezioni regionali in Emila Romagna), che non potrà fare a meno dell’apporto del PD. Mai come ora, in tempi di restaurazione, c’è bisogno di avere coraggio. Se la sinistra ne avrà, se tutti noi ne avremo, ci sarà ancora speranza per il nostro Paese.
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