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Da Vermicino a Mottarone, un lungo fil rouge
Storia e Cronaca
Da Vermicino a Mottarone, un lungo fil rouge
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Rosanna Marina RUSSO
Lo ricordo perfettamente quel cerchio simile a un buco nero. Ricordo nei minimi dettagli tutto quello che successe tra l’11 e il 13 giugno del 1981. Forse per la drammaticità in sé dell’evento o forse per la rappresentazione che ne fu fatta. Qualche giorno fa sui social impazzavano critiche a un video trasmesso da Rai 3 che mostrava la dinamica dell’incidente avvenuto sulla Funivia del Mottarone e insieme la drammaticità dei volti delle 14 vittime.
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E questo “mostrare” il dolore, questo stendere davanti ai nostri occhi lo smarrimento e la paura mi ha riportato indietro a quei giorni. Perché tutto è cominciato lì. A Vermicino.
Era il 10 giugno 1981. Ferdinando Rampi e suo figlio Alfredino, di sei anni, stavano facendo una passeggiata nelle campagne di Vermicino. A pochi metri dalla loro abitazione il piccolo, con l’autorizzazione del padre, si avviò da solo verso casa, attraversando i prati. Ma non arrivò mai. Quasi subito cominciarono le ricerche. Qualcuno si ricordò dell’esistenza lì vicino di un pozzo artesiano, ma questo fu trovato coperto con delle assi di legno e, quindi, le ricerche continuarono in altre direzioni. Solo più tardi si rimossero quelle assi e si capì dai lamenti che Alfredo era proprio lì, incastrato a circa 30 m di profondità. Tirarlo fuori, però, non sembrò una cosa difficile.
Le televisioni private locali nel cuore della notte lanciarono un appello per trovare un mezzo meccanico adatto. Il caso volle che Pierluigi Pini, inviato del Tg2, assistesse alle trasmissioni. Incuriosito, si diresse verso Vermicino e, capita la situazione, diffuse la notizia. Il palinsesto televisivo Rai venne modificato radicalmente: all’inizio il Tg1 sforò nei tempi, poi si fece ricorso alle edizioni straordinarie, infine si mise in piedi una continua diretta televisiva che si immaginò breve. Fino a quel momento non si era mai tentata una lunga diretta fuori dagli studi televisivi e la Rai, quindi, non era tecnologicamente attrezzata a far fronte a eventi del genere.
Ad un certo punto successero due cose che cambiarono il volto dell’informazione stessa, creando una modalità assolutamente nuova e trasformando la rotondità del pozzo in un circo mediatico: venne diffusa la voce di Alfredino tramite un microfono calato con una fune e venne dato un volto umano alla vicenda, quello della madre angosciata per la sorte del figlio. Il microfono portò a tutti lo strazio di ogni
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minuto di Alfredino attraverso la sua voce lontana, affaticata, impaurita e le telecamere testimoniarono il dolore di una madre che a un certo punto, un punto cruciale, fu presa per una spalla e fatta voltare bruscamente “a favore di telecamera”. L’informazione da quel momento in poi registrerà una progressiva perdita della pudicizia di fronte a drammi personali e collettivi.
La situazione del bambino, nel frattempo divenne disperata. Era scivolato ancora più in basso, di altri 30 metri, a causa delle vibrazioni di una escavatrice e le varie soluzioni immaginate non furono più praticabili. Si calarono in quell’abisso altri soccorritori provando l’impossibile e l’ultimo, il 13 mattina, annunciò la probabile morte di Alfredo. L’impatto emotivo per i 28 milioni di italiani che avevano seguito la vicenda fu profondo, ma lo fu anche quello culturale tanto che da quel 13 giugno si ricercò la spettacolarizzazione della cronaca nera. La televisione perse l’innocenza dello sguardo modificando l’estetica della narrazione e il giornalismo perse la sua prerogativa di mediare narrando. Il confine tra il “prima” e il “dopo” fu quel microfono calato nel pozzo, fu lo sguardo di quella madre.
Piero Badaloni, il primo conduttore dell’edizione straordinaria del Tg1 voluta dall’allora direttore Emilio Fede, nel ricordo rilasciato a TvBlog, ha detto:
“Da allora, infatti, molti programmi televisivi popolari della mattina e del pomeriggio cominciarono a cercare e a raccontare storie di dolore, convinti che solo in quel modo si potesse attirare l’interesse del pubblico e aumentare l’ascolto. Nacque la cosiddetta “TV del dolore”. Un modo per stimolare solo curiosità morbosa, non certo partecipazione alle sfortune degli altri, come si voleva far credere”
Anche con la tragedia del Mottarone c’è il tentativo di mantenere alto il livello di attenzione mediatica attraverso la curiosità di conoscere dettagli che non sono così
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rilevanti. Dovrebbe essere più importante l’inchiesta, non sapere quali sono state le prime parole del bimbo, unico sopravvissuto, al suo risveglio in ospedale. C’è più che mai viva la golosità del sensazionalismo.
Quaranta anni dopo, dunque, Vermicino non ha insegnato alcunché alla TV. Anzi. Verrebbe da dire che la tv continua a non capire cosa sia successo davvero davanti a quel pozzo, o finge di non capirlo. Non parla mai, ad esempio, della pressione psicologica che quella diretta determinò nei soccorritori, più volte ricordata da chi in quel pozzo ci si è calato per salvare il bambino.
Fu per quella pressione psicologica che cominciarono i primi dissidi tra i vari soccorritori giunti sul posto?
O fu per l’impotenza a riuscire in quella impresa?
O fu per la grande folla presente attorno a quel pozzo che rendeva difficile ogni tipo di soccorso?
O fu per l’impossibilità a decidere una strategia unica? Forse fu per tutte le cose insieme.
Di certo dagli errori commessi, dalle innegabili improvvisazioni, dalle azioni inefficaci nacque l’appello di Franca Rampi perché tragedie simili non si ripetessero. Appello raccolto dal presidente Pertini che creò il Ministero della Protezione civile.
Perché è così. Nessuna persona e nessun evento è a una sola dimensione.
Perciò se da una parte Vermicino è il ciuffo biondo di quel bambino che il 13 giugno smise di parlare con la mamma, dall’altra è la Protezione Civile, nata un po’ attorno a quel pozzo, a chiudere simbolicamente un cerchio.
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