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Cristo! Ma non sei più marxista?
Racconto
Cristo! Ma non sei più marxista?
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Aldo AVALLONE
Il comitato centrale del partito comunista si svolgeva nella solita cantina di un casermone popolare della zona di San Siro. Erano anni ormai. Da quando alle ultime elezioni il movimento nazional-sovranista aveva preso il potere e quindi aveva messo fuori legge tutti i partiti di sinistra, era già trascorso molto tempo. I fasti delle Botteghe Oscure erano ormai racconti mitici che si perdevano nel ricordo di un passato che solo pochi osavano ricordare. Ora il PCI aveva qualche centinaio di i- scritti in tutta Italia e cercava disperatamente di intervenire su una realtà che non comprendeva più. Non che mancassero capacità di analisi e le persone giuste, semplicemente non se ne sapeva più niente.
La radio, la televisione e tutti i giornali erano controllati. Sui social, ormai divenuti il principale strumento di informazione per una popolazione totalmente incapace di
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distinguere una notizia vera da una falsa, il governo organizzava campagne di disattenzione di massa, utilizzando di volta in volta le categorie sociali più disparate. Nel mirino del rancore collettivo erano caduti dapprima gli immigrati e poi gli e- migrati, quindi i troppo buoni e i troppo cattivi, e ancora i radical chic e gli straccioni, o gli intellettuali e gli ignoranti. A cadenza temporale variabile nessuno sfuggiva al rigore della democratica dittatura al potere. Di conseguenza anche i rapporti umani erano alquanto mutati: nel clima di odio imperante una squallida abitudine alla delazione aveva contagiato tutti i cittadini. Ognuno era pronto a denunciare e mettere alla gogna il proprio simile alla più piccola mancanza. Su facebook un macellaio accusava il concorrente di vendere carne avariata eliminandolo dal mercato, su instagram un ammalato denunciava il medico per non essere guarito in tempo da una fastidiosa influenza rovinandogli la reputazione, su whats app una moglie gelosa metteva alla gogna l’amante del marito, scatenando la giusta ira del web. Insomma, una gigantesca rete di odio e malevolenza partiva dai social per coprire la nazione intera. Con queste premesse appariva veramente un miracolo la pur piccola organizzazione di partito che il PCI era riuscito a mantenere.
Si scendevano due rampe di scale umide e maleodoranti, quelle zone non erano molto curate dall’amministrazione locale, e dal buio quasi totale si entrava in uno stanzone violentemente illuminato dai neon. Pur essendo marzo inoltrato faceva ancora molto freddo. Un tavolo addossato a una parete, delle sedie sparse e alcune panche erano tutto l’arredamento della sala. Solo una sbrindellata bandiera rossa inchiodata a una parete e una vecchia fotografia di Berlinguer, ghignante e persuasivo, sopra un palco con la scritta inneggiante al primo governo di unità nazionale, toglievano all’ambiente l’aria di una strana aula scolastica in un turno del pomeriggio.
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Il primo a parlare fu un vecchissimo compagno dall’età ormai indefinita. I lunghi capelli bianchi e la stinta sciarpa rossa al collo lo facevano sembrare un fantasma uscito da un fotogramma di chi sa quale film neorealista; gli stretti occhi infossati erano spie di un passato che non si voleva dimenticare.
Parlò a lungo, con una voce strascicata che gli usciva dalle gengive sdentate e un unico, tedioso, cantilenante tono. Il suo fu un intervento molto confuso: la situazione economica, l’opposizione interna ed esterna, i livelli organizzativi. Tutto andava e veniva nelle parole del vecchio e nelle menti dei presenti come un sogno prepotente che fatica a raggiungere la coscienza e ne è prontamente ricacciato da altre e più potenti fantasticherie.
Lo sopportavano a stento, ma raccontava che suo nonno aveva fatto il sessantotto e che in gioventù aveva anche conosciuto Ingrao e parlato più volte con D’Alema. Concluse l’intervento affermando che si dovevano cercare fondi per l’acquisto di armi e inneggiando a una rivolta ormai vicina.
I compagni che lo seguirono non furono certo da meno nelle loro dissertazioni, ideologicamente chiare e precise ma con un unico, insormontabile difetto: mancavano assolutamente di senso pratico. Apparve perciò ancora più inaspettata e imprevedibile per le sue conseguenze la proposta del giovane segretario della sezione di Gallarate: perché non applicare all’analisi politica i mezzi tecnici che il progresso e le nuove invenzioni avevano introdotto in quella loro ben strana società? Fu la scintilla che diede il via a una lunga discussione, accesa e polemica, a volte anche violenta, non interrotta nemmeno al momento del solito rinfresco, offerto come ogni volta verso le ventidue.
Discussero fino a tarda notte.
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Il Big Ben aveva appena suonato mezzogiorno quando l’uomo dalla folta capigliatura e dal pastrano scuro imboccò il ponte sul Tamigi. Si avviava alla solita osteria per mangiare qualcosa e discutere di politica. Solo da poche settimane era a Londra e faceva ancora fatica a orientarsi, ma già incominciava ad apprezzare e amare la strana atmosfera di quella città, provinciale e cosmopolita, conservatrice e liberale, ossessiva e rivoluzionaria come nessun altro posto.
L’aria in quel mattino d’inizio primavera era tersa, solo a ovest incupita dagli scarichi delle ciminiere delle industrie tessili in continua espansione.
Aveva molto da pensare in quelle sue prime giornate londinesi: gli avvenimenti di quegli ultimi mesi, a Parigi in primo luogo, e poi in tutta Europa, non erano ancora completamente chiari nella sua mente, sarebbe occorso ancora del tempo prima di poter elaborare un’analisi soddisfacente della situazione.
Perciò non si accorse subito della insolita macchina che d’improvviso era apparsa come dal nulla e ora era ferma lì di fronte a lui. Il luogo era quasi deserto, solo rari passanti in lontananza. Ne scesero due uomini vestiti in maniera strana, molto strana, e in un tedesco non perfetto gli chiesero:
«Scusi, che anno è questo?». Sorprendente. «Ma il 1849, certo!». «E’ lei il signor…Marx Karl, di Treviri?». «Beh, sì». «Le dispiace venire con noi?»
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E senza avere il tempo di dare una risposta si ritrovò in quell’oggetto misterioso con la sensazione precisa di viaggiare in maniera incredibilmente veloce ma nello stesso tempo di non muoversi affatto.
Un lungo, rumoroso, insolito applauso accolse il signor Marx Karl di Treviri al suo ingresso nella fredda cantina di San Siro. I compagni del comitato centrale erano tutti in piedi, qualcuno, sottovoce, cantava l’Internazionale.
Una strana atmosfera fatta di un misto di fiduciosa attesa e inspiegabile paura aveva preso le menti di quegli uomini all’ingresso del Grande Maestro. L’impresa era stata ardua e irta di difficoltà, ma ora tutti i loro problemi sarebbero stati risolti.
Il Maestro si guardò intorno non molto sorpreso, quelle facce, quel motivetto canticchiato sommessamente, quella cantina, non avevano nessun aspetto di incredibile novità, al contrario si sarebbe potuto affermare che, in un certo senso, gli fossero addirittura familiari.
Nei giorni in cui era vissuto nella nuova epoca aveva raccolto il maggior numero possibile di informazioni utili per farsi un’idea abbastanza precisa della situazione e ora era pronto. Con calma si levò il pastrano scuro, si guardò le mani e finalmente parlò.
«Compagni, quella che mi è stata offerta con la mia venuta qui oggi rappresenta per me un’occasione veramente eccezionale e per questo non posso che porgervi il mio più sentito ringraziamento».
Un applauso di circa un minuto e mezzo gli diede il tempo di riordinare un’ultima volta le idee, quindi riprese.
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«L’avere la possibilità di verificare nel futuro se le proprie idee siano più o meno esatte è una facoltà che qualsiasi studioso vorrebbe poter ottenere. A me è stata concessa e devo dirvi che, malgrado una certa scarsità di informazioni sicure, dai documenti che ho avuto a disposizione, ho potuto farmi un’idea abbastanza chiara della vostra situazione e anche, sia pure con i limiti dettati da un’analisi un po’ affrettata, ho elaborato una chiara strategia da attuare». Un fremito percorse l’uditorio: come parlava bene il Maestro!
«La prima dote di un buon comunista, come certo saprete, è il sapere riconoscere i propri errori, in una parola fare autocritica: ebbene come prima cosa io vi dirò che ho fatto molte cazzate (sì, disse proprio così). Avevo creduto che lo sviluppo logico e finale della fase capitalistica sarebbe stata necessariamente la rivoluzione, che la continua accumulazione di capitale avrebbe portato alla proletarizzazione sempre maggiore delle classi medie e, infine, anche dei piccoli e medi capitalisti rovinati dai grandi monopoli. Beh, devo dirvi che tutto questo non è risultato esatto. La storia mi ha insegnato che le uniche rivoluzioni socialiste sono avvenute in paesi economicamente arretrati, inoltre ciò che è accaduto in seguito in quelle nazioni non è stato certo edificante. Mao deve essere stato un grande uomo, peccato che sia morto, mi avrebbe fatto piacere conoscerlo. Ma quello che è successo in Cina dopo la sua scomparsa è stato devastante. Lenin, poi, con la sua fissazione dell’imperialismo e ancora Stalin e quelli che son venuti dopo! Compagni, devo dirvi che ho rivisto molte delle mie posizioni. Le classi oggi non sono più così definite come ai miei tempi, i padroni non si vedono più, ci sono le multinazionali, il potere finanziario, il clan Bildemberg, non si può parlare più di lotta di classe in termini storici».
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L’assemblea era perplessa. Qualcuno cominciò a rumoreggiare. Un compagno di base disperato gridò: «Cristo! Ma non sei più marxista?». Un gelo profondo percorse la sala. Marx per fortuna non comprese e continuò imperterrito.
«E’ chiaro che le mutate condizioni storico-politiche portano a un cambiamento di strategia. Compagni, in questo particolare momento storico il nostro obiettivo deve essere…»
E parlò per oltre due ore senz’alcuna interruzione. Quindi salutò, infilò lo scuro pastrano, vecchio ormai di chi sa quanti anni e, stanco ma soddisfatto, abbandonò la sala.
L’approvazione alle proposte del Maestro fu unanime e incondizionata ma, del resto, chi sarebbe stato il folle da osare disapprovarle? Si decise di dare attuazione al piano.
A questo punto, cari lettori, l’autore vi propone due possibili finali. A voi sceglierequello che vi è più congeniale. Ma probabilmente sa già quale sarà il più gettonato.
Finale 1)
Erano arrivati alla spicciolata, tra mille difficoltà, da ogni parte del Paese. Dalle Alpi a Lampedusa, da Ventimiglia a Gorizia, mischiati ai turisti del periodo pasquale, e ora finalmente i delegati eletti dalle assemblee provinciali si affollavano nella cantina di San Siro ornata a festa per l’occasione. Sarebbe stato un giorno storico e nessuno aveva voluto mancare all’evento che avrebbe cambiato completa-
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mente il futuro del partito. Erano trascorsi due mesi dal discorso del Maestro e ora, infine, era tutto pronto per dare seguito alle sue indicazioni.
«Buongiorno a tutti e grazie di essere qui – esordì il segretario pro tempore, Ambrogio Cataldi, elegantemente fasciato dal completo grigio fumo firmato Ermenegildo Zegna – Questo è un giorno speciale e l’assemblea nazionale odierna rappresenta una pietra miliare nella nostra storia. Come certamente saprete, con uno sforzo eccezionale, qualche settimana fa siamo riusciti a condurre tra noi il Grande Maestro e grazie a lui, alla sua esperienza, alle sue analisi politiche, ai suoi consigli, siamo qui oggi per approvare il nuovo statuto del partito. Il mondo è profondamente cambiato e questa assemblea ne prenderà atto. Dobbiamo dire basta alla nostalgia, ai ricordi di un passato che ha perso completamente il proprio senso storico e non potrà mai più tornare. Difesa dei diritti dei lavoratori, eguaglianza, giustizia sociale, sono tutte parole vuote di significato. Niente più sacrifici né lotte, lo spirito della nostra epoca è quello del piacere edonistico, qui, subito, senza più indugio alcuno. Propongo, pertanto, e sottopongo la questione al vostro voto, di modificare il nome del partito da PCI a PCI».
I delegati si guardarono tra loro perplessi.
«Sì, da oggi il nostro sarà il Partito Consumista italiano! Chi è d’accordo alzi la mano».
Nella cantina di San Siro iniziò la votazione.
Intanto, seduto comodamente al tavolino del bar Motta a piazza San Babila, il signor Marx Karl di Treviri beveva un Campari soda, mangiucchiando salatini, in compagnia di Rosa Romano. La ragazza alta, bionda e con due splendidi occhi azzurri, gli sussurrò piano all’orecchio: «Karl, mi dispiace ma ora devo proprio anda-
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re, tra un’ora dovrò sfilare per Armani. Dopo ci sarà la solita festa: buffet favoloso e champagne a volontà. Che fai, mi accompagni?»
Finale 2)
Sbarcarono nella città che non avevano mai visto prima e che pure conoscevano a memoria alle prime luci dell’alba di un giorno d’estate. Il parco, si chiamava Prater, immenso e verdissimo, risuonava del canto di innumerevoli uccelli; poco lontano sonnacchioso e blu scorreva il Danubio. Da quel momento tutte le loro mosse erano state previste fin nei minimi particolari. I compagni scelti dal comitato centrale attraverso una lunga selezione avevano studiato anni per prepararsi alla missione. Avevano imparato le lingue, affinato i gesti e perfino alcuni tic, ricostruito minuziosamente gli abiti e le uniformi. La chirurgia plastica aveva dato loro l’ultimo, determinante strumento per l’azione. L’occasione migliore era certamente quella: il Congresso. Averli tutti riuniti e a portata di mano rendeva la cosa molto più semplice. Le sostituzioni avrebbero potuto richiedere anche del tempo ma l’esito finale era assolutamente sicuro.
Gabriella De Marchi, studentessa del secondo anno della facoltà di storia e filosofia all’Università statale di Milano, nella biblioteca dell’istituto si preparava all’esame di storia contemporanea. Il programma comprendeva la nascita della società socialista e la ragazza, attenta, leggeva il documento finale del Congresso di Vienna, anno 1815, all’incirca duecentocinquanta anni prima.
“Noi sovrani d’Europa, qui riuniti per dare un volto nuovo alle nostre nazioni e leggi più giuste a tutti i nostri popoli, decretiamo:
Punto primo: La proprietà privata è considerata un furto, pertanto viene abolita. Punto secondo: …
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