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La rivoluzione, qui e ora!
Politica
La rivoluzione, qui e ora!
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Rosanna Marina RUSSO
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Libertè! Egalitè! Fraternitè! Tre parole che indicarono esattamente la natura della lotta e che furono da allora il nucleo di ogni rivendicazione sociale, di ogni giusta affermazione dei propri diritti e di ogni rivoluzione, non necessariamente armata. Lo è stata, infatti, anche quella gandhiana, come lo è stata la scrittura della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo che ha scientificamente modificato il senso delle vite.
Tre parole eternamente valide con contenuti che appaiono, però, eternamente irraggiungibili. A meno che non si riesca a dare uno scossone a questo nostro mondo, a ricordargli che auspichiamo essere dentro una evoluzione morale, civile e sociale, che sentiamo l’urgenza di una concreta rinascita, che vogliamo davvero modificare le condizioni umane avvilenti di molti. E che, dunque, cerchiamo e desideriamo una nuova, profonda rivoluzione, capace di scardinare e spalancare le porte, di rappacificare il nostro villaggio globale e di sconfiggere l’indifferenza. Si legge nell’incipit della Dichiarazione:
“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della pace e della giustizia nel mondo…”
Due verità assolute che costituiscono l’approdo, la terra promessa da raggiungere e che anche la nostra Costituzione ha accolto in una tavolozza di principi fondamentali: siamo una sola famiglia umana e i membri di questa famiglia hanno tutti pari dignità e godono di diritti uguali ed inalienabili. È l’egalité che ancora è il cardine di qualsiasi richiesta di capovolgimento di una realtà sociale dolorante. Perché è inutile nasconderlo: c’è un approdo, ma c’è un reale. Quando parlo con qualcuno della nostra Costituzione mi piace sempre far notare che fu una giovane donna che veniva dalla Resistenza, Teresa Mattei, a chiedere che nell’art. 3 , comma 2, fosse-10
ro aggiunte quelle due paroline “di fatto” che hanno capovolto l’importanza della legge dinnanzi agli ostacoli : “di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”… Probabilmente perché sapeva bene tutte le speranze che erano state riposte nella nascente Repubblica. Quel “di fatto” riconosce che le disuguaglianze fra gli uomini non derivano soltanto dalle norme, ma affondano le loro radici nei rapporti sociali, nelle condizioni materiali ed economiche e indica che sono proprio le disuguaglianze a falsificare quel diritto allo sviluppo della persona, alla parità davanti alla legge, alla partecipazione democratica e ci ricorda che i diritti dell’uomo non devono solo essere proclamati, ma, appunto, essere realizzati nei fatti.
Ma se è così, ed è così, bisogna ipotizzare precise strategie economico-sociali per attivare forme di coalizione alla solidarietà.
Ci sono paesi nel mondo in cui i diritti umani quali la scolarizzazione, l’accesso all’acqua potabile, la sicurezza alimentare, sono ancora un sogno lontano. Non c’è una programmazione globale che dica come perseguire gli “Obiettivi ONU 2030”. Sappiamo di poter fare qualcosa come comuni cittadini per riequilibrare i consumi e ridurre gli sprechi, ma questo può portare a una più equa distribuzione delle risorse a livello planetario?
E ancora: in un’epoca in cui può sembrare che il denaro sia l’unico valore di riferimento, è davvero possibile combattere la povertà? Sappiamo che sono state stanziate importanti risorse economiche e sono stati creati enti come la Banca Mondiale o la FAO per favorire lo sviluppo delle aree deprivate, ma la povertà è sempre lì, anzi avanza, creando sacche profonde anche nei paesi ricchi. Probabilmente ci si scontra in alcune aree con lo sfruttamento distruttivo delle risorse naturali e la crescita demografica fuori controllo e in altre con una disoccupazione che appare irre-
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frenabile Tuttavia, vincere la povertà è una scelta rivoluzionaria e noi vogliamo una rivoluzione.
C’è chi ha provato a creare una nuova modalità di economia, come Muhammad Yunus che con la Grameen Bank o Banca dei Poveri, fondata sui piccoli prestiti, ha finanziato le piccolissime iniziative economiche necessarie alla crescita degli strati più poveri della società.
Se la si dovesse tradurre in poche parole, quest’idea potrebbe essere riassunta così: sconfiggere la povertà creando una banca che concede prestiti solo ai più poveri delle zone rurali a fronte di un progetto minimo. Prestiti che non sono assistiti da alcuna garanzia e che richiedono interessi soltanto nella misura minima necessaria perché la banca sia autosufficiente. D’altra parte, le banche del terzo mondo (e non solo) sono al servizio prima di tutto di ceti corporativi e privilegiati e raramente hanno la capacità di svolgere la funzione di sostegno alle piccole attività produttive che non hanno la possibilità di dare dei beni in garanzia e che, quindi, spesso si rivolgono al mercato nero del credito, agli strozzini. In questo modo, invece, le persone, anziché essere escluse da un’economia concepita esclusivamente in funzione degli affari e del lavoro dipendente, ne diventano protagonisti a pieno titolo, riprendendo il controllo della propria vita.
Oggi questo modello di banca è la più importante istituzione mondiale nel campo del microcredito.
È presente in 81.393 villaggi del Bangladesh con 2.568 filiali, tutte informatizzate, per servire più di 8,8 milioni di clienti: il 96,5 % di loro è costituito da donne. Un modello che ha preso slancio in aree economicamente svantaggiate, soprattutto ru-
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rali ma anche nelle periferie e nei ghetti delle grandi metropoli dei cinque continenti.
Dal giorno della fondazione sono stati erogati circa 19,9 miliardi di dollari: 18,2 sono stati restituiti. Complessivamente, il tasso medio di recupero è pari al 98,96%.
Grazie al microcredito sono state costruite più di 700.000 case e oltre 53.000 persone hanno potuto accedere a percorsi di alta formazione.
Nel 2006 Muhammad Yunus per questa intuizione ha ricevuto il premio Nobel per la pace.
Perché la povertà è una minaccia alla pace.
La distribuzione del reddito su scala globale ci racconta che il 94% del reddito globale va al 40% della popolazione, mentre l’altro 60% si deve accontentare soltanto del 6% delle risorse.
La metà della popolazione mondiale vive con due dollari al giorno e più di un miliardo di persone con meno di un dollaro al giorno.
Questa non è una ricetta per la pace che è minacciata continuamente da un ordine economico ingiusto oltre che dall’assenza della democrazia e dei diritti umani.
Ma la solidarietà va indirizzata anche verso le sacche di povertà di quei paesi dove la disoccupazione è altissima.
Ormai l’idea più accettata è quella di dare un reddito a chi non ce l’ha.
Da noi si chiama reddito di cittadinanza, indirizzato al singolo senza lavoro, in altre parti è il reddito di base che assicura un minimo per vivere.
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I sostegni servono perché sia salva la dignità della persona, ma non eliminano la disoccupazione.
Da noi in Italia il dibattito, come si sa, è molto aspro sulla utilità o sulla nocività del reddito di cittadinanza.
Probabilmente quando manca una visione generale ci si perde nel particolare.
Non ho l’ambizione di parlare da economista, ma una misura di sussistenza temporanea forse dovrebbe essere accompagnata da un salario minimo superiore alla misura e forse questo da alcuni incentivi fiscali per gli imprenditori che assumono e forse anche da contratti di solidarietà.
Forse da altro ancora.
Credo si possa essere d’accordo sull’idea che la solidarietà non deve essere elemosina, ma strategia economica che mira ad allargare le maglie del benessere e, quindi, non può che fondare su una utilità diffusa e sulla umanizzazione di tutti i rapporti.
Tutti, non solo quelli economici.
È necessario riflettere e imparare dalla crisi pandemica e mutare i nostri comportamenti per evitare o mitigare la possibile prossima crisi di sistema.
É assolutamente indispensabile ripartire da comunità urbane in armonia non solo con le altre specie viventi, ma anche al proprio interno.
Nuclei policentrici e resilienti con un più adeguato ricambio di tutte le funzioni, con una maggiore vicinanza delle persone ai luoghi della produzione e ai servizi, con quella prossimità che amplifica la vita comunitaria.
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Abbiamo bisogno di città più capaci a capire velocemente i problemi e a trovare risposte innovative, ad adattarsi ai cambiamenti, a produrre e non a divorare risorse, a coinvolgere tutti senza creare differenze tra centro e periferia.
Quest’ultima è la sfida più difficile: che le periferie tornino ad essere luoghi di vite e diventino micropresìdi per la cultura, per il lavoro e per l’intrattenimento.
Come?
Le proposte ci sono: allargare i marciapiedi e prevedere pedonalizzazioni temporanee con lo scopo di ampliare gli spazi per l’educazione, il gioco e l’attività fisica; distribuire nello spazio pubblico teatri, cinema, musei, scuole; riutilizzare edifici dismessi per accogliere funzioni condivise; costruire una fascia di prossimità che possa consentire la fruizione di attività non solo individuali ma anche collettive, entro un limite di sicurezza e autosufficienza in caso di pericolo; emulare con una sorta di rielaborazione laica l’Eruv, la recinzione rituale degli ebrei ortodossi che circonda Manhattan e che estende di fatto il domicilio privato anche agli spazi pubblici; creare un arcipelago di prossimitá con le diverse isole connesse tra loro attraverso parchi, giardini, ferrovie inutilizzate, ciclovie o strade per auto elettriche.
Sembra molto, anzi troppo.
Eppure, la pandemia ci insegna che non possiamo indugiare a fare piccoli adattamenti, che non è intelligente accontentarsi, ma che è imprescindibile cambiare radicalmente e dobbiamo farlo ora.
Egalitè! Solidaritè! Proximitè! Allons enfant, marchons!
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