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Un poeta al tempo del Papa Re
Cultura
Un poeta al tempo del Papa Re
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Giovan Giuseppe MENNELLA
Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo 10-10-1921/Conegliano Veneto 18-10.2011), il poeta italiano del ‘900, che se ne intendeva, definì i sonetti romaneschi di Giuseppe Gioacchino Belli (Roma 1791-1863) il più grande capolavoro letterario dell’800. E’ soprattutto un monumento letterario eretto al linguaggio, al modo di vivere, alle usanze, alle idiosincrasie della plebe romana della prima metà del XIX secolo.
Nel periodo storico in cui si sviluppò la maturità umana e letteraria del poeta la città di Roma e il resto dello Stato Pontificio, composto da Lazio, Umbria, Marche
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e dalle Province di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì, vivevano dal 1816 la restaurazione del dominio papale, dopo la parentesi della dominazione francese susseguente alla Rivoluzione e all’epopea napoleonica.
Dal 1816 il Cardinal Consalvi aveva assunto l’incarico di Segretario di Stato del Papa Pio VII. Consalvi era un moderato, che aveva intrapreso l’opera di riorganizzazione dello Stato pontificio dopo la parentesi napoleonica. La sua opera fece compiere allo Stato qualche progresso rispetto all’epoca prerivoluzionaria, anche se non furono confermate la maggior parte delle riforme introdotte negli anni del dominio francese.
Il regresso più grave fu rappresentato dal ripristino del governo ecclesiastico e dalla reintroduzione del monopolio dei prelati nell’amministrazione centrale e provinciale.
In tal modo tutto il potere politico era nelle mani di un ristretto ceto di prelati che consideravano lo Stato come un beneficio, un loro patrimonio da sfruttare.
Luigi Carlo Farini, il politico romagnolo che nel 1860 avrebbe gestito in nome di Vittorio Emanuele II e di Cavour il periodo di passaggio dell’Emilia Romagna allo Stato Sabaudo, osservò nel 1853 che “i governanti dello Stato della Chiesa si credono padroni e non amministratori; non sono funzionari pubblici, ma uomini partecipanti della sovranità che esercitano in nome della Chiesa: e tengono lo Stato come un grande beneficio ecclesiastico, da sfruttarsi dagli uomini di chiesa.
Anche un politico accorto e di vedute larghe come il cardinal Consalvi non fu in grado di fare molto di più per la modernizzazione dello Stato, soprattutto per l’opposizione dei prelati detti “zelanti”, cioè i rappresentanti più reazionari della Curia.
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La situazione peggiorò ulteriormente con l’elezione di Papa Leone XII, uno zelante che subito licenziò il Consalvi e ancora di più dal 1831, con l’elezione di Gregorio XVI. Il periodo di regno di Gregorio XVI, dal 1831 al 1846, coincise con il periodo più duro e oscuro del malgoverno papale e con quello più fecondo e ispirato della produzione letteraria del Belli, soprattutto dei sonetti romaneschi. In effetti, nei periodi di oscurantismo politico l’inventiva letteraria fiorisce ugualmente, anzi in modo ancora più ispirato, perché le difficoltà della repressione e della censura stimolano l’ispirazione e incentivano a cercare modi nuovi e più originali di espressione, non fosse altro che per mettere alla berlina i potenti in modo obliquo affinché loro stessi non se ne rendano conto. Emblematico è un appunto trovato nelle carte del Belli, scritto presumibilmente nel 1846, al momento della morte di Gregorio XVI, il cui contenuto recita “io a Papa Grigorio je volevo bene, perché me dava er gusto de dirne male”.
Belli esprime quindi nei sonetti l’insoddisfazione e la sofferenza della plebe romana, costretta a subire questo stato di cose, plebe che di uguaglianza e libertà ne godeva poca o niente del tutto.
Nei giorni in cui si celebra l’anniversario del primo atto della grande Rivoluzione del 1789 può essere interessante esaminare come è trattato nei sonetti belliani il rapporto tra il popolo romano e i tre grandi principi rivoluzionari francesi della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità
Quello che è trattato più frequentemente è il rapporto del popolo con l’uguaglianza. Le enormi disuguaglianze presenti in quell’epoca erano qualcosa di concreto, di materiale, visibile in ogni manifestazione della vita. Così i cibi raffinati e abbondanti che mangiavano i ricchi e quelli poverissimi e insufficienti di cui si dovevano accontentare i moltissimi diseredati, i vestiti sontuosi degli uomini
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di potere e gli stracci dei poveri, le onorificenze, le croci, le patacche appuntate sul petto di lor signori e i calci nel sedere che dovevano subire quasi quotidianamente tutti gli altri poveracci.
Nel sonetto “La porpora” del 17 gennaio 1833 la plebe appare rassegnata, destinata a subire in sempiterno le angherie dei potenti cardinali; che cosa è la porpora del manto cardinalizio, è il sangue di Cristo? No, è il sangue dei cristiani, dei romani. La veste dei cardinali è color porpora perché bagnata del sangue della plebe e il sangue le scorre ai piedi come in un fosso, quando le danno in gola con il “palosso”, con il coltello, come si fa con le pecore e con i cani.
Traspare comunque nel sottotesto un anelito al riscatto, un grido che chiede una maggiore uguaglianza sociale.
Nel sonetto “Li Papati”, datato 4 maggio 1833, è detto che tutti Papi, appena eletti, sembrano voler prendere provvedimenti in favore dei diseredati, ma poi, col tempo, appena cominciano a padroneggiare i meccanismi del potere, fanno scialare il ricco e stentare il meschino e povero chi si lamenta perché nessuno risponde a chi strilla giustizia.
Ne “Li du’ ggener’umani”, del 7 aprile 1834, si sottolinea che “solo a ssu’ Eccellenza, a ssu’ Maestà, a ssu’ Artezza, fumi, patacche, titoli e sprennori, e a noantri artiggiani e sservitori er bastone, l’imbasto e la cavezza” e si continua con “Cristo creò le case e li palazzi p’er prencipe, er marchese e ‘r cavajjere, e la terra pe nnoi facce de scemi”.
E a proposito di cavalieri, esilarante è il sonetto “Li cavajjeri” scritto il successivo 21 aprile dello stesso 1834, in cui si immagina che “Li sovrani nun zanno antro che ffà che cavajjeri. Preti, ladri, uffiziali, cammerieri tutti co le croscette a li pastrani.
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E oramai si le chiedono li cani, dico che jje le danno volentieri”. Ma poi, nel giorno del Giudizio Universale, “Ggesucristo, arzanno er braccio, dirà: Ssignori cavajjer der c….., ricacate ste crosce, e a l’infernaccio”, con evidente auspicio palingenetico che almeno nel giorno del Giudizio ci possa essere un’eguaglianza livellatrice, anzi un capovolgimento totale, con i cavalieri all’inferno e gli umili in cielo.
Non altrettanto avvertito dal popolo romano, e cantato del Belli, è il concetto di Libertà, molto più astratto di quello dell’uguaglianza. La disuguaglianza si percepisce in modo concreto. Il ricco mangia moltissimo, ha bei vestiti, uniformi scintillanti, decorazioni, grandi palazzi, mentre il povero mangia poco e male, veste con quattro stracci, vive in case modeste.
La differenza tra i due tenori di vita si coglie nel sonetto “La bbona famijja”, del 28 novembre 1831, dedicato a una famiglia umile e ne “La Viggija de Natale”, del 30 novembre 1832, sulle prelibatezze che arrivano nella casa di un Cardinale in un giorno di festa. La cena della famiglia umile consiste in “du’ fronne d’inzalata”…”quarche vvorta se famo una frittata che ssi la metti ar lume sce se specchia come fussi a ttraverzo d’un’orecchia: quattro nosce e la cena è tterminata” . Mentre al palazzo del Cardinale alla Vigilia di Natale entrano: “una cassetta de torrone, un barilozzo de caviale, er porco, er pollastro, er cappone, er fiasco de vino padronale, er gallinaccio, l’abbacchio, l’oliva dorce, er pesce de Fojjano, l’ojjo, er tonno e l’inguilla de Comacchio”. E’ vero che il Cardinale nello Stato della Chiesa riveste un ruolo anche politico, ma la disuguaglianza delle cose concrete non potrebbe essere può smaccata e concreta.
Ne “Li polli de li vitturali”, del 28 ottobre 1833, un popolano si rende conto che i carretti con gabbie di polli e cesti di uova che vengono dalle Marche non sono per i
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poveretti, per i quali non esiste “la grascia” ma solo “un tozzo de pane, quattrr’ajjetti, e ssempre fame vecchia e fame nova. Preti, frati, puttane, cardinali, monziggnori, impiegati e bbagarini: ecco la ggente che ppò ffà li ssciali. Perché ste sette sorte d’assassini, come noantri fussimo animali, nun ce fanno mai véde li quadrini”. E Belli, per bocca del popolano, qui ha detto veramente tutto.
Nei sonetti belliani il tema dell’anelito alla libertà individuale è trattato poco o nulla, perché meno concreto e meno avvertito sulla pelle della plebe di quello dell’uguaglianza sociale.
Questa problematica sembra un’anticipazione, un prodromo della divaricazione, d’attualità nel mondo contemporaneo e ancora di più nel tempo presente, tra diritti di libertà individuali e diritti sociali. E’ diventata tradizione dei populisti accusare ingiustamente la sinistra di battersi per tutelare i diritti di libertà individuale e trascurare la difesa dei diritti sociali dei meno abbienti. A parte che i diritti di libertà prima o poi riguardano tutti, anche e soprattutto i meno abbienti, va detto che la situazione politico-economica mondiale, soprattutto quella economica, rende difficile per qualunque parte politica intraprendere una svolta decisiva nella difesa dei diritti sociali, specie se si tentasse di farlo in un solo Paese e non con una lotta globalizzata che coinvolga molte altre aree geografiche.
Il concetto di fratellanza sembra che fosse poco considerato nella società romana e papalina degli anni ’30 e ’40 del XIX secolo e anche di questo c’è un’eco nei sonetti belliani.
Presso la plebe romana sembra vigere la legge del taglione, occhio per occhio e dente per dente, e anche peggio, altro che fratellanza. In uno dei primissimi sonetti, “L’aducazzione”, del 14 settembre 1830, un padre snocciola al figlio un vero e
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proprio decalogo di comportamento sociale: “si cquarchiduno te viè a ddà un cazzotto, lì callo callo tu ddajjene dua”……si ppo quarcantro porcaccio da ua te sce fascessi un po’ de predicotto, dijje: de ste raggione io me ne fotto, iggnuno penzi a li fattacci sua”…….pe cquesto hai da portà ssempre in zaccoccia er cortello arrotato e la corona”.
Nel sonetto “Vonno cojjonatte e rugà”, datato 2 ottobre 1831, un personaggio che va a comprare un giubbetto usato finisce per litigare con il commesso e alla fine accade che “Io bbuttelo pe terra…….te l’agguanto in petto. E ssai come finì? Cco la barella.”
Nel sonetto “La lingua nova”, datato 2 dicembre 1832, un popolano punisce duramente a colpi di pietra in faccia un figuro che aveva fama di uomo violento, spia del Governo, che aveva insultato un amico del protagonista.
In conclusione, nel canzoniere dei sonetti romaneschi del Belli, si trova la narrazione delle enormi disuguaglianze sociali della Roma papalina della prima metà dell’800, con il popolo che sogna invano l’uguaglianza materiale delle classi.
Non si fa alcun accenno alla libertà, perché concetto troppo astratto per essere compreso da gente semplice, dagli istinti elementari e viscerali.
Vi si rinviene quel poco di spirito di fratellanza che non può non unire il popolo dei diseredati rispetto alla classe dominante dei prelati e dei ricchi, ma anche la violenza primordiale dell’individuo contro un altro individuo.
A qualunque classe esso appartenga.
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